Chi siamo? Dove siamo andando? Forse non ci facciamo spesso queste domande ma esse sono
alla base del concetto di identità.
Noi ci possiamo definire individui, persone umane, soggetti, attori sociali; chi pensiamo
di essere?
Maritain al riguardo sosteneva che il concetto di individuo non è sufficiente per
spiegare la natura delle persone, perché è legato ad un dato soprattutto biologico, e
affermava che ciascuno di noi è anche una persona umana, sociale.
Ciascuno di noi è quindi un individuo che ha un qualcosa di profondo in sé e che
Maritain identificava con l'amore.
La persona umana sociale è un individuo che, in forza di questo amore che ha nel profondo
del suo essere, intende dare ed intende ricevere.
Maritain diceva che l'amore non è legato solo alle caratteristiche fisiche dell'essere
amato, ma soprattutto alla sua realtà più profonda, ad un certo modo di porre il suo
pensiero, ad un certo modo di essere della sua sensibilità.
Quindi l'amore non è dato all'individuo ma alla persona umana e ogni persona si realizza
se riesce ad essere persona diversa da ogni altra persona: non ci realizziamo diventando
la copia di un altro!
Questo discorso dell'identità è fondamentale perché ci fa capire come l'uomo e la
donna, esseri umani, persone umane profondamente diverse, riescano ad incontrarsi, a
rapportarsi, a realizzare quindi questa unità di coppia che è alla base di una vita di
famiglia.
Di conseguenza, l'identità non è solo della persona che entra in rapporto con un'altra
persona, ma l'incontro crea un'identità di coppia dalla quale nasce una famiglia.
Oggi purtroppo ci troviamo spesso di fronte a famiglie costruite senza un riconoscimento
ed un apprezzamento sull'identità del partner: senza identità il rapporto di coppia è
destinato a crollare.
E passiamo ai figli che nascono in una famiglia: anch'essi devono acquisire una loro
identità e noi possiamo aiutarli attraverso il dialogo.
Il dialogo deve iniziare ancor prima della nascita e non quando il figlio ha 18 anni
perché o si riesce a dialogare sempre o è difficile dialogare dopo.
Tutto quanto detto finora è vero, ma noi siamo qui perché vogliamo rifondare questo
discorso su una realtà spirituale ben precisa.
Prima del Concilio si pensava che solo i preti fossero dei sacerdoti, dopo abbiamo
imparato che anche i laici sono chiamati al "sacerdozio".
Ci sono tre tipi di sacerdozio ai quali noi laici siamo chiamati. Il primo è il
sacerdozio comune; noi nelle nostre famiglie siamo chiamati al sacerdozio perché siamo
impegnati a far capire il senso del sacro: in noi, nella nostra famiglia, nei nostri
figli, nella realtà sociale che ci circonda. Il secondo è il sacerdozio profetico,
parlare cioè di Dio, annunciare e proporre il regno di Dio. Il terzo è il sacerdozio
regale, ciò vuoi dire che noi come chiesa, in quanto laici, siamo chiamati a realizzare
l'annuncio del Vangelo. I nostri sacerdoti hanno il dovere di aiutarci a capire la Bibbia
ma siamo noi laici a dover realizzare il collegamento tra sacro e realtà terrena.
Quindi l'annuncio del vangelo, cui tutti siamo chiamati, si concretizza con la
testimonianza che diamo come persone sociali, con una propria identità, con una propria
capacità critica nel guardare, nel vedere, nell'approfondire la realtà sociale in cui
viviamo e nel realizzare una realtà terrena che sia il più vicino possibile alle
prospettive sacre.
La famiglia serve soprattutto per il processo di socializzazione: ciò vuol dire che i
bambini crescono meglio, si inseriscono meglio nel contesto sociale, quando ci sono un
padre e una madre alle loro spalle.
Allora, che cosa facciamo noi, titolari del sacerdozio regale, profetico e comune,
nell'ambito delle nostre famiglie per preparare i figli ad esercitare a loro volta questo
tipo di sacerdozio nelle loro famiglie?
Occorre entrare in una prospettiva di partecipazione: basta con le deleghe, sì
all'impegno personale, sì alla compartecipazione della gestione delle cose che sono di
tutti ma con idee e con orientamenti coerenti col discorso di fede; è un discorso
difficile ma credo non vi siano altre alternative.
Giuliano Giorio, sociologo dell'Università di Gorizia