L'uomo: spirito incarnato
L'ETICA E L'UOMO
Da una visione dualistica ad una visione sintetica

Di Paolo Mirabella*
Ci sono tanti modi di intendere l'uomo. Ciascuno di questi modi è in fondo una risposta alle domande di senso che l'uomo da sempre si pone: "chi sono? Da dove vengo? Qual è il mio destino?". A queste domande le diverse scuole filosofiche e le religioni hanno provato a dare una risposta. Vogliamo qui approfondire come l'ebraismo prima, e il cristianesimo poi, hanno inteso l'uomo proprio perché da qui prende avvio ogni riflessione sul valore della vita e sul destino dell'uomo.

L'ANTROPOLOGIA BIBLICA
Studiando i vari libri dell'Antico Testamento possiamo ricostruire la concezione che Israele aveva sull'uomo, in altre parole l'antropologia biblica.
Per l'antico Israele l'uomo è formato dall'Io vivente (nefesh) che trova la sua visibilità attraverso la carne (basar).
Il nefesh indica la persona nella sua interezza, con la sua capacità di sentire e di decidere, ed è profondamente unita con il basar, la sua manifestazione corporea. Il corpo (basar) rende manifesto il sentire dell'uomo.
Per Israele non è possibile fare distinzioni fra nefesh e basar. Come conseguenza, con la morte tutto finisce, la persona non c'è più.
Noi oggi parliamo di resurrezione della carne ma questa è una credenza entrata tardivamente nel pensiero di Israele, durante l'epoca maccabaica (dopo il 200 a.c.).
L'uomo biblico, al contrario del pensiero greco, non è la somma di corpo e di spirito, ma è una carne vivente.
Vi è un'ultima parola usata dall'antropologia biblica: ruà. Ha un significato simile al nefesh, ma rispetto a questo evidenzia la dipendenza dell'uomo dal Creatore, il soffio vitale che Dio immette in ogni uomo. Solo dopo la morte e resurrezione di Gesù i primi cristiani inizieranno ad intendere ruà come Spirito Santo.
Uno dei problemi che dovettero affrontare i seguaci di Gesù per diffondere del cristianesimo tra i pagani fu la traduzione di questi concetti in greco. I Vangeli sono, infatti, scritti in greco, la lingua franca di quel tempo, come oggi lo è l'inglese. Ma ogni traduzione porta con sé il rischio di tradire, sfalsare il concetto originario.
Ecco come i vocaboli ebraici sono stati tradotti in greco:

  1. nefesh  >>  psiche
  2. ruà       >>   pneuma
  3. basar   >>   sarx, oppure soma

Con la parola psiche oggi possiamo intendere, in senso classico, anima oppure, in chiave psicologica, intelletto. Ma entrambe queste interpretazioni tradiscono il termine ebraico. Per Israele non esiste psiche senza il corpo, cosa invece possibile per la cultura greca che parla di immortalità dell'anima.
Le cose sono ancora più complesse per basar, e per comprendere la differenza tra le due parole greche sarx (carne) e soma (corpo) dobbiamo entrare nel pensiero teologico di Paolo.
Soma esprime la dimensione corporea dell'uomo e non ha un'accezione morale. Ma c'è in Paolo una tensione tra soma e pneuma (1 Cor 15,44) raffigurabile su un asse verticale, è la tensione tra il presente e il futuro escatologico, tra l'attuale corpo materiale e il futuro corpo spirituale.
Sarx viene usato da Paolo per esprimere i desideri disordinati (Rm 8,7-8) e, anche qui, c'è una tensione tra sarx e pneuma, raffigurabile su un asse orizzontale, tra i desideri disordinati e i desideri secondo lo Spirito.
Ma ci sono anche bisogni e desideri del corpo che possono essere orientati secondo lo Spirito, altrimenti lo Spirito annullerebbe il corpo! Tocca al discernimento distinguere tra i due tipi di desideri.
Prendiamo, per esempio, il desiderio del cibo.
Il cibo, in positivo, è un bisogno fondamentale dell'uomo; con l'evolversi della cultura al cibo si unisce il desiderio di convivialità, il valore di spezzare il pane insieme che sfocia, con il cristianesimo, nella simbologia eucaristica.
Il cibo, in negativo, diventa oralità disordinata che può portare o all'anoressia o alla bulimia.
Provando a riassumere, possiamo affermare che soma sottolinea la nostra dipendenza da Dio, la nostra limitatezza di creature, mentre sarx sottolinea una qualifica morale negativa.
Il rischio che si corre, e si è corso, è quello di confondere soma con sarx, rendendo il corpo una realtà negativa e questa confusione può generare un accanimento contro il corpo stesso, inteso erroneamente come una minaccia per tutto ciò che è spirituale.
Sant'Agostino sarà uno dei più autorevoli promotori di questa confusione. Approdato al cristianesimo in età adulta, dopo una giovinezza dissoluta di cui è profondamente disgustato, e imbevuto di idee neoplatoniche, introduce nel pensiero cristiano una visione dualista dell'uomo (la contrapposizione anima - corpo) e conclude che il corpo è "male". Con questa affermazione Agostino si dimentica che il cristianesimo è, prima di tutto, il mistero del Dio incarnato.
Le sue idee comunque faranno scuola e se il dualismo ha permesso di oggettivare il corpo, rendendo p.e. possibile l'anatomia, ha anche provocato tutta una serie di eccessi che, in qualche modo, ci condizionano ancora oggi.

L'UOMO, SPIRITO INCARNATO
La teologia del novecento ha compiuto una profonda rivisitazione del pensiero cristiano, anche per quanto riguarda la sua concezione dell'uomo. Si è tornati alle fonti e ad una riscoperta dell'antropologia biblica.
Oggi, come cristiani, possiamo definire sinteticamente l'uomo come "spirito incarnato".
Il corpo è la manifestazione visibile della persona, poiché è solo nella corporeità che abbiamo la possibilità di comunicare con gli altri. Ma il corpo dell'uomo è anche mezzo di comunicazione tra la materia e lo spirito, in esso si possono incontrare l'elemento terreno e quello celeste.
Noi siamo gli unici esseri viventi creati liberi, liberi di unire spirito e corpo, e allora il corpo diventa tempio dello Spirito, oppure di respingere lo spirito, rinchiudendoci in un corpo puramente carnale.
Ci sono due tipi di "spirito": quello della Creazione e quello della Redenzione. Grazie allo Spirito Santo l'uomo passa da immagine di Dio (creazione) a somigliante a Lui in Cristo (redenzione).

Il corpo come epifania del mistero di una persona
Il corpo contemporaneamente ci svela e ci nasconde perché noi siamo qualcosa di più di quello che appariamo.
La bellezza non è solo armonia delle linee, non è pura estetica, ma un concetto integrale: quale bellezza possiamo cogliere nel crocifisso? Eppure è lì che Cristo manifesta la sua gloria (Cfr. Gv 21,31). Quale bellezza cogliamo nell'handicappato grave? Eppure in lui c'è qualcosa che riverbera la bellezza del divino.
E' una bellezza nascosta, che richiede occhi che sappiano andare al di là delle apparenze; è un mistero di bellezza simile al roveto ardente, cui ci si accosta togliendosi i sandali.
La corporeità dell'uomo è un miracolo, comunque si presenti In ogni uomo c'è sempre un cuore che batte con le sue gioie, dolori… Ognuno di noi è un tabernacolo vivente!
Abbiamo, anche a causa della cultura imperante, difficoltà ad accettare la vecchiaia, la malattia, l'accentuarsi dei limiti del corpo, ma anche l'adolescente ha difficoltà ad accettare il suo corpo.
Sentiamo su di noi lo scorrere inesorabile del tempo, lo sentiamo attraversare la nostra corporeità, segnarla, piegarla; ma il tempo si può non solo subire, si può anche plasmare e farlo diventare strumento della nostra realizzazione. E' nel tempo che nasce e cresce l'amore, le relazioni; è nel tempo che la nostra mente si arricchisce, attraverso lo studio e il lavoro.

Il corpo come luogo della fragilità
Noi non siamo degli assoluti, anche se vi sono fasi della nostra vita in cui non ci pare di cogliere i bisogni del nostro corpo. Eppure il corpo ha esigenze fisiologiche che vanno accettate e che sono segno del nostro limite.
C'è una tensione finissima tra il valore che cogliamo nel corpo e la consapevolezza che non è un valore ultimo, altrimenti non sarebbe mortale. Questa tensione spiega la capacità di donare la propria vita per un altro.
Questo corpo, infatti, con la morte verrà trasfigurato, per essere esaltato nelle sue dimensioni più elevate, come è avvenuto per il corpo di Cristo.

* sacerdote, docente di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale, sez. di Torino
(testo non rivisto dall'autore).

L’ECLISSI DELLA COSCIENZA

Di Mario Costantino*
In questo nostro mondo occidentale gli individui si comportano spesso come se non fossero mai nati e come se non dovessero mai morire. La vita è uno spazio di tempo indefinito (che i pubblicitari raffigurano di perenne giovinezza), essenzialmente finalizzato all’acquisizione di nuovi oggetti destinati in larga misura a restare inutilizzati.
In questa continua sagra del voluttuario si sono però perse di vista le due più elementari realtà oggettive: la nascita e la morte. Entrambe sono state marginalizzate e ridotte al rango di fattori di stress. L’uomo - come lucidamente rilevava Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae - "di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di lasciarsi interrogare".
Troppo impegnata a disquisire sulle suonerie di un cellulare, tanta gente non riesce proprio più a cogliere il mistero che è in sé e attorno a sé.
E’ l’eclissi della coscienza.
Sui furori ideologici dei filosofi ottocenteschi che proclamarono "la morte di Dio" e teorizzarono l’ateismo come culmine del progresso scientifico è scesa la nebbia dell’indifferenza, dove la superstizione prende il posto della ricerca religiosa. "L’uomo non riesce più a percepirsi come misteriosamente altro rispetto alle diverse creature terrene - sono sempre parole dell’Evangelium Vitae - (….) Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a una cosa e non coglie più il carattere trascendente del suo esistere".
L’Occidente sembra così avere smarrito le proprie radici. Sarà il martello dell’Islam a risvegliare le nostre coscienze?
mariocostantino@katamail.com
* direttore responsabile, avvocato

AMARSI CON GLI OCCHI

Il Venerdì Santo del 1998, al termine della liturgia dell'adorazione della croce, mia moglie Orsolina è caduta a terra sul sacrato della chiesa. E' stato l'inizio della nostra Via Crucis.
Dopo mesi di visite ed esami specialistici abbiamo avuto la diagnosi: sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una malattia rara (vi sono circa 6000 malati in Italia) per la quale non vi sono cure, che conduce in modo progressivo prima alla paralisi e poi alla morte (entro 1-5 anni dalla diagnosi).
A inizio 2001 Orsolina ha perso l'uso degli arti inferiori, l'anno successivo di quelli superiori. Nel marzo dell'anno scorso ha avuto una gravissima crisi respiratoria a cui è sopravvissuta solo grazie all'intubazione permanente e al respiratore automatico, mentre per il cibo ora provvede una flebo (PEG) inserita direttamente nello stomaco.
Mia moglie ha scelto lei questa drammatica soluzione per poter vivere ancora un poco con me e con i nostri due figli, per fortuna già grandi. Per poterla accudire giorno e notte, com'è indispensabile, ho scelto di andare in mobilità, in attesa della pensione.
Lei è perfettamente lucida ma non può parlare e le restano solo gli occhi per comunicare con gli altri. Ma quante cose mi dicono quegli occhi! Mi parlano del nostro amore, delle sue gioie, del suo coraggio ma anche della sua fatica a vivere la malattia, della sua fede in Dio, in cui profondamente crediamo, della sua speranza, contro ogni umana speranza.
E' in qualche modo la speranza in un miracolo, anche se mi rendo conto, voltandomi indietro e guardando ai sei anni appena trascorsi, che il vero miracolo è stato, per lei, per me, per i nostri figli, trovare, giorno dopo giorno, la forza di andare avanti, di non perdere la speranza, di restare uniti, di continuare ad essere famiglia, anche se un po' speciale, di continuare a credere in un Dio buono che, se ha permesso che questo male ci toccasse, ci dà anche la forza per affrontarlo e superarlo.
Giuseppe Pacca

INVECCHIARE INSIEME

Gli occhi del cuore, anche se vedono i segni del passare degli anni, rinnovano ogni giorno nel partner la bellezza dei vent'anni. Cerchiamo in lui il sorriso, gli occhi che splendono, un'espressione birichina, un movimento, che ci riportano alla freschezza di allora; ma anche l'oggi, con le rughe o la pancetta, viene come reso bello dall'amore profondo tranquillo che si è come consolidato, cresciuto negli anni passati accanto.
Non cessa la ricerca, la scoperta, l'attenzione, il dare spazio all'altro, ma è come costruire su solide fondamenta, in sicurezza.
Con gli anni prevale la tenerezza, che è fatta di sguardi, sorrisi, carezze, ma cerca ancora l'intimità, di cui si continua ad avere bisogno. Il rapporto intimo resta come la conferma di un amore profondo totale, che dà pace e serenità.
La nostra generazione in fondo è fortunata; ci è stato dato di essere ancora validi e attivi in un'età in cui qualche generazione fa si arrivava frusti di lavoro e preoccupazioni. Oggi anzi siamo più naturali, liberi di seguire i nostri ritmi personali, con meno preoccupazioni concrete o morali, ormai superate dalla realtà fisica.
Forse è più facile, passata la giovinezza, vivere la corporeità anche intima come vero mezzo di comunicazione ed espressione del donarsi con amore, vivere un affetto completo fatto ancora di delicatezza, dolcezza reciproca.
Paolo