DI FRONTE AL DOLORE E ALLA SOFFERENZA
Le espressioni più forti della fragilità umana
di Tony Piccin
Oggi, nonostante il benessere diffuso dei nostri paesi occidentali le situazioni di
miseria non mancano. Spesso sono situazioni di immigrati in cerca di pane e di libertà,
ma non solo di loro. Ci sono, infatti, nuovi tipi di povertà come la tossicodipendenza
(da droghe o da farmaci); la mercificazione della persona (sia sulle strade ma anche sui
set), la fragilità culturale (tra lélite e la massa).
L'elenco potrebbe continuare con tante altre forme di disagio, di abbandono, di degrado,
di emarginazione umana.
La società moderna con i suoi modelli di perfezionismo tende a schiacciare la normalità.
Chi non rientra in certi standard di bellezza, di intelligenza, di ricchezza
si
sente automaticamente un escluso, una persona che non può stare al passo con gli altri.
L'emarginazione in questo contesto diviene particolarmente pesante per la fasce più
deboli, handicappati, malati, anziani
Dio non ama la sofferenza
Come cristiani cosa possiamo fare? È vero che Gesù nel vangelo ci ricorda che:
"I poveri li avete sempre con voi" (Gv 12,8). Ma questa per noi è una
constatazione inevitabile, un rimprovero, oppure una grazia?
Prima di considerare l'impegno operativo per risolvere le situazioni di sofferenza bisogna
forse operare una conversione nel nostro modo di pensare.
Troppo spesso si è affermato impietosamente, almeno in passato, che Dio quando ama una
persona la fa soffrire, che più uno soffre più Dio è vicino.
Dio non ama la sofferenza e neppure Gesù amò la sofferenza, non amò la contestazione
farisaica, né i raggiri dei sommi sacerdoti, né lo schiaffo del servo:
"
perché mi percuoti?". È un perché imperativo che sottolinea come la
sofferenza non è un bene.
Padre Turoldo, consumato dalla malattia, diceva che il dolore è una disumanità che
umanizza. "Disumanità" perché si tratta di una realtà contro la persona,
contro l'uomo.
Egli si sentiva schiacciato da una realtà che si presenta come assurdità e "non
senso". Così per Giobbe, così per Geremia che maledice il giorno in cui è nato,
così per Gesù che sulla croce recita il salmo 22: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?". Il dolore umano non è uno scherzo: va preso sul serio.
Convivere con la fragilità
Il primo atteggiamento da tenere è il riconoscimento, poi vengono il rispetto e
la venerazione. Solo così possiamo diventare "prossimi" agli altri senza
giudicare o, peggio, condannare.
Popoli alla deriva. Barconi di speranza che affondano o si schiantano sulle coste
lasciando intravedere una liberazione subito negata. Falliti di ogni genere nella vita:
uomini e donne che vivono l'irreversibilità dello scacco, della sconfitta. Impoveriti,
drogati, alcolizzati. I crocefissi della società. E i bambini, tanti bambini
una
strage per fame.
Si tratta di convivere con la fragilità. Convivere con i limiti non è un passivo
rassegnarsi, anzi è il modo per affrontarli. Uno che non sa convivere con essi sarà
rabbiosamente irritato o tenterà di sfuggire compensandosi in altri modi. La fuga e la
rabbia non sono assunzione di responsabilità.
Il senso del limite
Di fronte alla fragilità, al male, al dolore, al disagio, l'uomo deve
interrogarsi per scoprirne l'origine e le cause e per individuare il cammino di
superamento.
Il non sottrarsi alla fragilità insegna il senso del limite. Chi non ha sperimentato la
debolezza è più povero di chi è passato per quella notte.
Il teologo Metz afferma che la nostra epoca è segnata da due gravi difetti: l'incapacità
di lasciarsi consolare e l'incapacità di soffrire. Egli vede nel primo difetto l'emergere
dell'individualismo. C'è la voglia di onnipotenza, mentre il lasciarsi consolare è
l'ammettere il proprio limite e la propria finitezza. Nel secondo difetto ci sarebbe
l'arrendersi di fronte ai problemi e la rinuncia a voler soffrire.
Citando la nota parabola, nella discesa da Gerusalemme a Gerico, l'uomo pretende di
confidare sulle sue sole sicurezze e si allontana da Dio. Ma, come uomini di speranza, è
opportuno intraprendere il cammino a ritroso, da Gerico a Gerusalemme.
segninuovi@alice.it
Ottavia: la forza della fragilità
Ottavia ha 35 anni. Origini siciliane, famiglia numerosa , da sei anni vive da sola al
Nord.
Ci è stata "affidata" dall'Arciprete per accompagnarla in un cammino di tipo
catecumenale verso i Sacramenti dell'iniziazione cristiana.
Nel corso dei primi incontri affiora la sua storia, Parla di un padre che inspiegabilmente
non lha fatta battezzare.
Ottavia racconta di aver comunque creduto in Dio fino a quando morì la madre. Aveva otto
anni e non seppe trovare una risposta.
Perché proprio a lei? Cosa aveva fatto di male per essere punita così? Rielaborò il
lutto dando la colpa a Dio. Era lui il "cattivo" e decise di punirlo non
credendo più in Lui.
Ottavia, però, continua la sua ricerca per vent'anni ed infine chiede al suo parroco di
poter ricevere i Sacramenti , ma la sua fragile fede viene in contatto con la fragilità
di una comunità che non conosce la catechesi degli adulti, che le chiede di frequentare
il catechismo con i fanciulli.
E Ottavia rinuncia. Si aggrappa alla numerosa famiglia... ma l'affetto dei fratelli
diventa per lei oppressivo al punto da spingerla ad un cambiamento radicale: parte da sola
per il Nord senza una meta o un riferimento precisi.
"Sono arrivata qua per caso", ripete più volte.
Dieci mesi fa uno di quei fratelli da cui si era
liberata, muore in un incidente.
Per Ottavia ricomincia la ricerca: perché proprio mio fratello? Forse è una punizione
per me che l'ho abbandonato? Forse mi succedono queste cose perché non sono battezzata?
Torna a chiedere i Sacramenti. Ed è stata affidata a noi
A noi che di fragilità in questo momento della nostra vita ne abbiamo da
regalare!
Ma contiamo sulla solidarietà di Dio e della comunità.
Rosario e Francesca Dursi
FARE ESPERIENZA DI "AFFIDAMENTO"
Abbiamo sperimentato la nostra fragilità di creature in occasione della nascita di
Federico, il nostro primo figlio.
Eravamo giovani, sposati da poco, entusiasti e inconsapevoli; la gravidanza si era
conclusa senza problemi e noi ci apprestavamo ad iniziare la grande avventura col nostro
bimbo, quando è insorta unimprevista complicanza post partum molto seria, che ha
richiesto il ricovero immediato con prognosi riservatissima, allinizio quasi
infausta.
Così, ci siamo trovati a misurarci con una realtà assai diversa da quella che ci
aspettavamo.
Nella confusione generale a noi è venuto spontaneo rivolgere al Padre la preghiera di
Gesù nel Getsemani: "Se è possibile, allontana da noi questo calice...".
Ci siamo affidati a Lui e, proprio in quelle ore di angoscia, abbiamo vissuto la nostra
piccola "epifania" privata: ci ha avvolti la certezza dell'amore di Dio, non ci
siamo sentiti soli. Sentivamo che Lui ci accompagnava, qualunque fosse stato il nostro
destino.
Siamo stati fortunati: prima il pericolo di vita è rientrato e poi il decorso è stato
positivo.
Ma noi desideravamo altri figli e i medici ce lo sconsigliavano.
Nonostante i pareri negativi, incoraggiati dalla salute ritrovata, alcuni anni dopo ci
siamo avventurati in una nuova gravidanza, che si è risolta senza nessuna complicazione,
e questa volta abbiamo goduto della gioia di tornare a casa col piccolo Daniele senza
ulteriori passaggi ospedalieri.
Cosa ci ha lasciato, a distanza di tanti anni, questa esperienza? Certamente il sentimento
di stupore e gratitudine non ci ha più abbandonati: non c'è nulla di banale o scontato
nella vita quotidiana, ogni giorno vissuto in salute e serenità è un regalo da
apprezzare fino in fondo.
A noi è andata bene: nella nostra vita familiare c'è stato sì un passaggio doloroso e
inatteso, ma tutto è stato superato (per ultima è nata Irene, senza ulteriori guai!).
Così ci sentiamo particolarmente vicini a quelle famiglie per le quali il momento della
prova è un tempo senza fine e il lutto è una realtà viva e dolorosa.
E, infine, è rimasta impressa in noi la dolcezza di quel fiducioso abbandono alla
volontà di Dio, la certezza del sentirlo accanto a noi proprio nei momenti più
difficili.
Da quell'esperienza la nostra fede è rinata nuova e forte, proprio come la nostra
famiglia.
Elisabetta e Mauro