Il cristianesimo semplice del pakistano
Bhatti (di Enzo Bianchi)
Di fronte a eventi tragicamente ordinari - come un omicidio
politico in un Paese ad alta tensione terroristica - le reazioni possono essere
fondamentalmente di due tipi: o si lascia che l'emozione di un momento scivoli via in
un'amara assuefazione oppure si accetta che la vicenda scombini tanti luoghi comuni del
nostro pensare e interpretare le situazioni attorno a noi e nel mondo più vasto.
Un elemento che molti considerano assodato per un Paese di antica cristianità come il
nostro è, per esempio, il fatto che il cristianesimo, nella sua declinazione cattolica,
abbia una dimensione "popolare", sia in un certo senso quasi connaturale
all'Italia. Una compenetrazione che un tempo si misurava sul numero dei
"praticanti" e la percentuale di battesimi e di matrimoni in chiesa e che ora
trova parametri più aggiornati nel numero degli "avvalentisi" dell'insegnamento
della religione cattolica, dei firmatari dell'otto per mille a favore della chiesa
cattolica oppure nella disponibilità a seguire gli insegnamenti del magistero sulle
tematiche eticamente più sensibili.
Questo, ci viene detto, è il cristianesimo reale, concreto, quotidiano, così armonico
rispetto al comune sentire, così poco differente rispetto all'opinione della maggioranza,
così tranquillo nell'assumere comportamenti e tradizioni divenuti scontati per i più.
Chi non si ritrova in questa accezione della popolarità del cristianesimo e magari
constata il venir meno di una "differenza cristiana", la perdita di sapore del
"sale della terra", la confusione tra il radicare il proprio comportamento nel
vangelo e l'appellarsi a radici di alberi che hanno smesso di dare frutti corrispondenti,
viene facilmente tacciato di elitarismo, additato come sostenitore di una mitica cerchia
di "puri e duri", come sognatore di un'utopica realtà fatta di persone
coerenti: reazione sintomatica di un'implicita tendenza di comodo a contrapporre rarissime
"virtù eroiche" a diffusissime abitudini dalla matrice cristiana un po'
sbiadita.
Ma a volte gli eventi ci portano a conoscere da vicino la vicenda straordinaria di
qualcuno che ha preso sul serio la propria fede cristiana e di scoprire che questa figura
"eroica" è in realtà un uomo, una donna normalissima, simile a tanti suoi
contemporanei, una persona del popolo, uno di quei "piccoli" a cui Gesù dice
che sono state rivelate le cose nascoste ai sapienti e agli intellettuali.
Lo abbiamo visto nella vicenda umanissima dei monaci di Tibhirine in Algeria: uomini
semplici, in buona parte di umile estrazione, legati nel quotidiano a un popolo
altrettanto semplice; lo ritroviamo nelle lettere e negli scritti dal carcere di Franz
Jägerstätter, un contadino austriaco che accetta la condanna capitale per non servire
nellesercito di Hitler e resta fermo nel suo spontaneo, naturale rifiuto nonostante
molti, anche tra i pastori della sua chiesa, cerchino di dissuaderlo da un gesto tanto
audace; lo scopriamo nelle parole pacate di Shahbaz Bhatti, ministro cristiano nel
Pakistan musulmano, brutalmente assassinato - come del resto un suo collega musulmano di
orientamento "laico" - per non aver desistito dal difendere gli indifesi, cioè
dal fare il suo dovere di ministro (che significa "servitore") delle minoranze
religiose. Costoro non sono eccezioni, sono piuttosto l'emergere alla visibilità di una
moltitudine di oscuri testimoni della speranza di cui nessuno si ricorda, costituiscono la
realtà portante dell'autentico "popolo di Dio" cui il Vaticano II ha ridato
consapevolezza e responsabilità, rimettendogli fra le mani quella parola di Dio che, come
la pioggia, non scende dal cielo senza irrigare, fecondare e far germogliare la terra.
"Voglio servire Gesù da uomo comune": così inizia una testimonianza di Bhatti
risalente ad alcuni anni fa e che andrebbe riletta per intero per cogliere in essa tutta
la straordinaria quotidianità di un cristiano semplice e proprio per questo così
eccezionale per il nostro mondo. Un mondo, una società e a volte persino una chiesa che
faticano sempre più a coniugare vita cristiana e profezia, a cogliere quello che il
teologo von Balthasar chiamava "il caso serio": la capacità di rendere
testimonianza a Cristo nel quotidiano di un'esistenza, anche a costo di perdere la vita.
"Non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù... Quando
vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi
incontro". Il fatto che espressioni simili suonino insolite ai nostri orecchi, quasi
fossero visioni di un mistico fuori dal mondo - mentre invece provengono da un cristiano
nato in una famiglia semplice, in una paese dove i cristiani non sono nemmeno l'uno per
cento degli abitanti, un uomo divenuto ministro proprio per quel suo desiderio di
difendere "i bisognosi, gli affamati, gli assetati" - la dice lunga sull'idea
dominate che abbiamo, qui e ora, dei cristiani nella storia.
Se potessimo chiedere a persone come Bhatti dove hanno trovato la forza e il coraggio per
andare avanti in mezzo a tanti rischi e ostilità, chi gliel'ha fatto fare di esporsi a
tal punto, come hanno potuto sfidare anche la morte per amore della vita e del prossimo,
forse li vedremmo restare un attimo silenziosi, stupiti di fronte alla nostra domanda, per
poi risponderci con disarmante semplicità: "Perché, tu cosa avresti fatto?".
Già, cosa faremmo se davvero fossimo convinti della nostra fede? Forse balbetteremmo
parole come quelle di Bhatti che invece ci sembrano stonate nel nostro mondo pur così
permeato di riferimenti cristiani: "Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie
azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo". Sì, seguire Gesù
Cristo con la propria vita: in fondo, la semplice popolarità del cristianesimo, la fede
dei piccoli è tutta qui.
Tratto da: La Stampa, 6 marzo 2011, p.1