A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al
processo stesso. In Giovanni 18,34s è detto chiaramente che presso Pilato, in base
alle informazioni in suo possesso, non cera nulla contro Gesù. Allautorità
romana non era giunta alcuna notizia su qualcosa che in qualche modo avrebbe potuto
minacciare la pace legale. Laccusa proveniva dagli stessi connazionali di Gesù,
dallautorità del tempio. Doveva stupire Pilato che i connazionali di Gesù si
presentassero davanti a lui come difensori di Roma, dal momento che le sue personali
conoscenze non gli avevano dato limpressione che un intervento fosse necessario.
Ma nellinterrogatorio, ecco allimprovviso un momento che suscita eccitazione:
la dichiarazione di Gesù. Alla domanda di Pilato: "Dunque tu sei re?", Egli
risponde: "Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto
nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia
voce" (Gv 18,37). Già prima Gesù aveva detto: "La mia regalità [il mio
regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori
avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di
quaggiù" (18,36).
Questa "confessione" di Gesù mette Pilato davanti ad una strana situazione:
laccusato rivendica regalità e regno (basileía). Ma sottolinea la totale
diversità di questa regalità, e ciò con lannotazione concreta che per il giudice
romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e
precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno - niente di
ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti
romani. Questo regno è non violento. Non dispone di alcuna legione.
Con queste parole, Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno
mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso. Che
cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di
regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare?
O forse in qualche modo ci riguarda?
Accanto alla chiara delimitazione del concetto di regno (nessuno combatte, impotenza
terrena), Gesù ha introdotto un concetto positivo, per rendere accessibile lessenza
e il carattere particolare del potere di questa regalità: la verità. Pilato,
nellulteriore sviluppo dellinterrogatorio, ha messo in gioco un altro termine
che proviene dal suo mondo e viene normalmente collegato con il termine "regno":
il potere - lautorità (exousía). Il dominio richiede un potere, addirittura
lo definisce. Gesù invece qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza
alla verità. La verità è forse una categoria politica? Oppure il "regno" di
Gesù non ha niente a che fare con la politica? A quale ordine allora esso appartiene? Se
Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria
fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: "Che cosè
la verità?" (18,38).
È la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la
verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione
inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la
giustizia con gli strumenti disponibili nellambito del potere? Vista
limpossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si
rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di
conservazione del potere?
Ma, dallaltra parte - che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale
giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano
veramente la giustizia per tutti - criteri sottratti allarbitrarietà delle opinioni
mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono
vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la
liberazione?
Che cosè la verità? La domanda del pragmatico, posta superficialmente con un certo
scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino
dellumanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa
entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia del singolo che in
quella della comunità?
La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica qualifica la verità come
"adaequatio intellectus et rei - corrispondenza tra intelletto e realtà"
(Tommaso dAquino, S. theol. I q 21 a 2 c). Se la ragione di una persona
rispecchia una cosa così come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la
verità. Ma solo un piccolo settore di ciò che esiste realmente - non la verità nella
sua grandezza ed interezza.
Con unaltra affermazione di san Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni
di Gesù: "La verità è nellintelletto di Dio in senso vero e proprio e in
primo luogo (proprie et primo); nellintelletto umano, invece, essa è in
senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)" (De verit.
q 1 a 4 c). E così sarriva infine alla formula lapidaria: Dio è "ipsa
summa et prima veritas - la stessa somma e prima verità" (S. theol. I q
16 a 5 c).
Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità,
per dare testimonianza alla quale è venuto nel mondo. Verità ed opinione errata, verità
e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La
verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è "vero" nella
misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è
scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. Luomo diventa
vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera
natura. Dio è la realtà che dona lessere e il senso.
"Dare testimonianza alla verità" significa mettere in risalto Dio e la sua
volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura
dellessere. In questo senso, la verità è il vero "re" che a tutte le
cose dà la loro luce e la loro grandezza. Possiamo anche dire che dare testimonianza alla
verità significa: partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere la creazione
decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura
e il criterio orientativo nel mondo delluomo - che ai grandi e ai potenti si faccia
incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità.
Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità
della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce
inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei
forti diventi il dio di questo mondo.
A questo punto, come uomini moderni, si è tentati di dire: "Grazie alla scienza, per
noi la creazione è diventata decifrabile". Di fatto, dice ad esempio Francis S.
Collins, che ha diretto lo Human Genome Project, con lieto stupore: "Il
linguaggio di Dio era stato decifrato" (The Language of God, p. 99). Sì
davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che oggi possiamo leggere nel codice
genetico delluomo, percepiamo il linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio
intero. La verità funzionale sulluomo è diventata visibile. Ma la verità su lui
stesso - su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il
male - quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza
della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per
"la verità" stessa - per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e
ciò che è il nostro vero scopo.
Che cosè la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come
irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica
come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per
essa. Ma senza la verità luomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin
dei conti, il campo ai più forti. "Redenzione" nel senso pieno della parola
può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa
riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo.
In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in
mezzo alla storia. La verità esternamente è impotente nel mondo; come Cristo, secondo i
criteri del mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene crocifisso. Ma
proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, e solo così la verità
diviene sempre nuovamente una potenza.
Nel colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi della
regalità, del "regno" di Dio. Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato si
rende evidente che non esiste alcuna rottura tra lannuncio di Gesù in Galilea - il
regno di Dio - e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla croce -
fino alliscrizione sulla croce - è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù
rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù
nelle parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno è, appunto,
la regalità della verità. Lerezione di questa regalità quale vera liberazione
delluomo è ciò che interessa.
Al contempo, diventa evidente che tra la focalizzazione pre-pasquale sul regno di Dio e
quella post-pasquale sulla fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio non cè alcuna
contraddizione. In Cristo, Dio è entrato nel mondo, la verità. La cristologia è
lannuncio diventato concreto del regno di Dio.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana