ASSOCIAZIONE FORMAZIONE E FAMIGLIA
GENITORI COMUNQUE...
ADOZIONE E AFFIDO
PICCOLA GUIDA PER FAMIGLIE E GRUPPI
A cura di Noris e Franco Rosada
Hanno collaborato:
Sergio Bertoldo (aiBi)
Giuseppina Ganio Mego (arcidiocesi di Torino)
Maria Teresa Giacomelli (AiBi)
Maria Grazia Mussi (Fraternità della Luce)
I volontari dell’associazione Formazione e Famiglia
Con i contributi di:
Anna e Marco Bianchi
Chiara e Davide Bucchioni
Laura e Alberto Canale
Laura e Romeo Consonni
Marina De Benedetti
Antonella e Eugenio Maffione
Loretta Mariani
Chiara e Andrea Marino
Claudia e Massimo Pasqualini
Silvia e Walter Porporato
Maria Rossi
Foto di copertina:
S. Cantarutti e S. Vacchieri
Elaborazione grafica:
Foto Reclame, Torino
La riproduzione di questo sussidio deve essere autorizzata da:
Associazione Formazione e Famiglia Onlus
www.gruppifamiglia.it
e-mail: formazionefamiglia@libero.it
LETTERA DEL PRESIDENTE DEL CENTRO SERVIZI V.S.S.P.
Un tuffo nella carità, nell’accoglienza, nel dono di sé da cui si riemerge cambiati: questa l’esperienza che regala l’opuscolo che avete tra le mani che affronta il tema dell’adozione e dell’affido, coniugando magistralmente le testimonianze delle famiglie con le informazioni giuridiche e tecniche.
Uno strumento formativo, un grande sostegno nell’iter burocratico dell’adozione, ma anche e soprattutto il racconto di tante storie che, a partire dal desiderio di genitorialità, approdano al grande orizzonte della disponibilità ad aprire la porta della propria casa e alla scoperta della gioia dell’accoglienza.
Sono pagine cariche di amore e di realismo che tengono conto delle esigenze, delle aspettative e dei bisogni di genitori e bambini, utili sia per chi vive in prima persona l’adozione e l’affido, sia per chi ha dei figli naturali.
Il Centro Servizi V.S.S.P. non può che essere orgoglioso di aver contribuito alla realizzazione di questa guida, segno concreto di come il Volontariato sia presente lì dove emergono i bisogni per diffondere speranza, coraggio e amicizia.
Torino, maggio 2014
Marco Giorgio
Presidente del Centro Servizi V.S.S.P.
L’ASSOCIAZIONE FORMAZIONE E FAMIGLIA
L’associazione di volontariato "Formazione e Famiglia" è stata fondata nel 1996 per formalizzare a livello pubblico una realtà di volontariato sorta a Torino nel 1989 con la denominazione di "Collegamento Gruppi Famiglia".
Gli obiettivi che l’associazione si propone sono tre:
• Il valore della famiglia in sé;
• Il valore della famiglia come servizio;
• Il valore della famiglia come comunità.
Per raggiungere questi obiettivi l’associazione e i suoi volontari si impegnano nella promozione di Gruppi Famiglia, tipicamente a carattere ecclesiale e parrocchiale, il cui scopo è di coprire un vuoto formativo - che nel corso del tempo è diventato sempre più evidente - che lascia le coppie, dopo il matrimonio, in balia di se stesse e delle difficoltà della vita.
Il gruppo ha lo scopo di sostenere le coppie nel loro cammino sponsale, aiutandole attraverso la condivisione delle gioie e delle fatiche e la proposta di valori forti.
Per far ciò in modo efficace, le famiglie e i gruppi si riconoscono in un metodo e in uno stile comune e credono nello scambio di esperienze e nel sostegno reciproco.
L’associazione è in contatto con l’Ufficio CEI per la pastorale familiare e fa parte del Forum delle Associazioni Familiari del Piemonte.
PRESENTAZIONE
In un’epoca, come quella attuale, in cui sembrano esserci solo più diritti e nessun dovere (quelli li lasciamo agli altri) parlare di adozione e, soprattutto, di affidamento è andare decisamente contro corrente.
Infatti, anche i figli sono considerati come un “diritto”.
Le coppie “in carriera” fino ai 35-40 anni hanno altro da fare, di figli non se ne parla. Ma quando poi si decidono, sovente l'ora biologica sta per finire e il figlio non viene.
Anche senza essere “in carriera” capita sempre più frequentemente che, quando nella coppia nasce il desiderio di genitorialità, questa si scopra non fertile (si parla del 19% delle coppie giovani).
E allora, sovente, si ricorre alla scienza con le sue alchimie, dolorose e costose, per ottenere per vie traverse - vedi fecondazione assistita - quello che per via normale non “arriva”.
Se la scienza fallisce c'è ancora una via: adottare un figlio, ma questo figlio deve essere piccolo - sotto i tre anni - bianco o quasi bianco, che non abbia subito violenze, un "figlio" con tanto di “certificato di garanzia”.
Le cose non sono così semplici, occorre cambiare mentalità, uscire dalla logica del diritto per entrare nell’ottica del dono, passare dal mio diritto ad avere un figlio a quello di un bambino ad avere una famiglia, passare dal mio bisogno di adulto a quello del minore.
Senza questa “conversione” sarà ben difficile accogliere un figlio non nostro e ottenere l’idoneità da parte del Tribunale dei Minori.
Questo sussidio
Il libretto che avete in mano è frutto di un cammino che, come associazione, abbiamo fatto nel corso di quest’ultimo anno. Prima abbiamo, come volontari, seguito il cammino formativo che, nei rispettivi ambiti, l’Aibi – associazione Amici dei Bambini – e il gruppo Giuseppe di Nazareth – dell’arcidiocesi di Torino – ci hanno proposto.
Siamo poi passati a parlare di questi temi con i gruppi di mutuo aiuto familiare che si sono mostrati disponibili ad approfondire queste tematiche.
Il sussidio raccoglie, nella sua prima parte, una serie di spunti di riflessione sui temi dell’affidamento e dell’adozione, con una particolare attenzione allo spirito che deve animare le coppie che intraprendono questo percorso e all’aiuto che i gruppi di mutuo aiuto possono dare, soprattutto nel “dopo”.
La seconda parte raccoglie una serie di testimonianze di famiglie adottive e affidatarie che, attraverso il racconto delle proprie esperienze, illustrano molto meglio di tante spiegazioni teoriche il cammino fatto, le difficoltà incontrate, le gioie nascoste.
La terza parte è una riflessione che prende le mosse da un’icona della Santa Famiglia, splendido esempio evangelico di accoglienza dell’Altro.
Non pensiamo di essere stati affatto esaustivi, il tema è troppo ampio, le sfaccettature troppo complesse per essere affrontate in 48 pagine: per questo proponiamo di seguito una bibliografia minima che speriamo possa essere d’aiuto per chi vuole approfondire queste tematiche.
Ringraziamenti
Questo progetto si è potuto realizzare grazie alla disponibilità della signora Giuseppina Ganio Mego – assistente sociale, pubblicista, consigliere onorario di Corte d’Appello della sezione minorenni di Torino, collaboratrice dell’Ufficio per la pastorale della famiglia di Torino – dei coniugi Sergio Bertoldo – consigliere nazionale dell’associazione Amici dei Bambini – e Maria Teresa Giacomelli – responsabile regionale per il Piemonte della stessa associazione.
Ringraziamo anche il Centro Servizi V.S.S.P. che attraverso lo strumento dei Bandi di Progettazione Sociale, ci ha permesso di realizzare questo sussidio.
Ma il grazie più grande va alle coppie che hanno partecipato a questo progetto e a quelle che, leggendo questo sussidio, apriranno il loro cuore e loro case ai bambini senza famiglia o con famiglie in difficoltà.
Torino, 31 maggio 2014
Noris Bottin
presidente dell’associazione
Formazione e Famiglia Onlus
Bibliografia minima
Valter Danna, Giuseppina Ganio Mego (a cura di), La famiglia solidale, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2002.
Susanna Fontani, Il mio bambino africano, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2009.
http://www.comune.torino.it/casaffido/aff_tipologie.htm
AiBi (a cura di), L’adozione internazionale, 161 domande, 160 risposte, AiBi e Àncora Editrice, Milano 2006.
AiBi (a cura di), Figli in attesa, Guida alle adozioni di bambini con bisogni speciali, Aibi e Àncora Editrice, Milano 2010.
PRIMA PARTE: AFFIDAMENTO E ADOZIONE
Sapersi aprire al dono di un figlio, anche se solo di passaggio
LA PORTA APERTA
Riflessioni sull’adozione e l’affidamento familiare.
La famiglia cristiana deve sempre tenere la porta aperta quale segno di accoglienza fraterna. Due forme concrete per testimoniare quest’apertura, in collaborazione con le istituzioni pubbliche, sono l’affidamento e l’adozione.
L’affidamento
L’affidamento familiare è una modalità con la quale si accoglie un bambino di una famiglia in difficoltà, in stretto rapporto con i servizi pubblici, all’interno dei loro interventi di aiuto alle famiglie.
L’accoglienza del bambino deve però sempre comprendere l’accoglienza della sua famiglia, accoglienza completa e incondizionata dell’immagine e del desiderio che il bambino reca con sé della sua famiglia naturale, sia quando vi sono rapporti diretti ma anche in assenza di questi (quando ciò è decretato dall’istituzione pubblica che ha avviato l’affidamento familiare).
L’affidamento familiare è quindi la disponibilità di una famiglia a mettersi a fianco di un’altra per un certo periodo, sino a che l’equilibrio si è ripristinato e il bambino può tornare nella propria casa con i propri familiari.
Questa disponibilità trova le sue radici nell’invito rivolto da Gesù: “E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,5).
Le famiglie cristiane, guidate dalla Parola di Dio, possono portare nella società la testimonianza dell’amore, del dono gratuito che nasce dalla fede, la gioia, la speranza e la serenità che da essa scaturiscono.
Farsi prossimo
Con questo modo di essere e di vivere, i genitori cristiani si fanno prossimo dei genitori in difficoltà.
Tutto ciò che condividono in famiglia si espande all’esterno: se rimanesse chiuso tra le mura di casa morirebbe di asfissia.
In questo modo i figli crescono respirando questo stile di comunione e di condivisione, imparano a condividere i loro affetti, l’amore di mamma e papà, i giocattoli, le loro cose. Saranno domani adulti capaci di trasmettere a loro volta la gioia dell’amore come dono, della condivisione, della capacità di trasformare anche la fatica in dono.
Le famiglie comprendono così la loro missione e diventano anche capaci di donare la loro collaborazione ai servizi sociali pubblici, proponendosi come affidatarie e dialogando con essi per migliorare ed attualizzare le prestazioni e gli interventi.
Fanno in questo modo un notevole salto di qualità: da famiglie “volontarie” che “eseguono” unicamente le prescrizioni dei servizi sociali, a famiglie testimoni dell’amore e del dono gratuito come comanda Gesù (cfr. Gv 4,20-21). Difatti, esse, attraverso il dialogo costruttivo con le istituzioni, possono proporre e sperimentare nuove modalità di approccio ed aiuto alle famiglie in difficoltà; le loro riflessioni aiuteranno i servizi a centrare l’attenzione e la cura verso l’intero nucleo familiare e a comprendere che senza un concreto accompagnamento pedagogico dei genitori in difficoltà non può esservi il loro recupero e, quando il figlio è in affidamento familiare, il rientro nella famiglia d’origine dello stesso.
Questo dialogo costruttivo necessita, però, di essere pensato e veicolato dal gruppo di famiglie affidatarie. La famiglia singola difficilmente riesce ad essere incisiva.
Il gruppo conferisce “l’autorevolezza” necessaria per essere interlocutori dei servizi pubblici.
Il ruolo della comunità
A questo proposito, diventa prioritario un richiamo nei confronti delle comunità ecclesiali, delle scuole, dei servizi socio-assistenziali-sanitari e giudiziari. Occorre tenere sempre occhi, orecchie e cuore aperti e attenti particolarmente alle prime avvisaglie di difficoltà familiari, al fine di avviare al più presto un pronto e immediato accompagnamento della famiglia. Si può svolgere così un’azione di prevenzione secondaria, ed evitare che le difficoltà familiari s’ingigantiscano a danno dell’intera famiglia e ovviamente dei bambini/ragazzi.
La modalità di lavorare sul singolo individuo, anche se sovente nelle intenzioni l’intervento è sulla famiglia, ha portato spesso ad intendere l’affidamento familiare come allontanamento del bambino dalla sua famiglia in quanto inadeguata.
Il bambino, per essere veramente tutelato e protetto, deve vedere la società e la sua comunità impegnate nell’aiuto concreto alla sua famiglia, per conservargliela e renderla la più adeguata possibile. È quindi necessario prendere in considerazione l’opportunità di aiutare la famiglia dal “di dentro”, conservando l’unione di tutti i suoi membri.
Occorre formare una cultura dell’accompagnamento solidale, della formazione all’aiuto pedagogico dei genitori affinché essi possano prendere coscienza ed assolvere al proprio ruolo educativo e relazionale in rapporto ai figli, tra i genitori, con la famiglia allargata e col contesto sociale di riferimento.
Le comunità ecclesiali, nel sostenere la famiglia nel suo complesso, devono sentire anche il dovere di essere a fianco della famiglia affidataria nella maturazione della sua motivazione, supportarla nel costituire o aderire a gruppi e/o associazioni affinché il rapporto con le istituzioni esprima vera ed efficace cittadinanza attiva. L’esercizio di una vera cittadinanza attiva rende capaci di riflettere sul proprio operato, di guardarlo con lucidità, di individuare modalità più rispondenti alla finalità di mantenere l’integrità della famiglia e di accompagnare i genitori verso l’autonomia, la capacità e la responsabilità educativa, relazionale e gestionale dell’intera famiglia.
L’adozione
I genitori sono per i figli e non già i figli per i genitori. Ciò è molto importante: inquadra il discorso nella stessa identica prospettiva che vale per ogni famiglia, di qual-siasi tipo essa sia. I figli sono anche un naturale (e perciò giusto) appagamento per i genitori, ma sono prima - sempre e comunque - persone per le quali deve essere speso l’amore che la coppia esprime.
Attorno a questo comune denominatore, evidentemente, le espressioni sono molto diverse. Non possono esservi famiglie esattamente identiche tra di loro; ci sono, sicuramente, delle somiglianze, magari anche evidenti e concomitanti, ma il disegno completo mostrerà comunque delle differenze che, per piccole che siano, sono sempre importanti.
Se si prendono in esame i bambini che vanno in adozione, occorre considerare che in Piemonte e Valle d’Aosta i neonati abbandonati alla nascita sono pochissimi (circa quaranta l’anno).
Vi è invece un buon numero di bambini di età diverse (da
Al fine di evitare che rimangano in istituto nel periodo necessario alla definitiva dichiarazione di adottabilità, il Tribunale per i minorenni può affidarli ad una famiglia dichiarata idonea all’adozione.
Si ha così un periodo di “affidamento a rischio giuridico”: cioè il bambino può rientrare in seno alla sua famiglia se qualche parente vince i ricorsi nelle diverse fasi processuali.
Occorre quindi una grande generosità, dedizione e amore nel senso vero per accogliere questi bambini, offrire loro affetto, sapendo che potrebbe non essere per sempre.
Vi sono poi diversi bambini dichiarati adottabili ospitati in istituti o comunità-alloggio e destinati a rimanervi a vita, perché sono malati, handicappati, grandi.
Anch’essi hanno bisogno di amore familiare.
L’adozione internazionale
Anche per l’adozione internazionale vale quanto detto prima. In forza degli accordi tra stati, nella maggioranza dei Paesi vengono dati in adozione a genitori stranieri i bambini che non sono stati adottati nel loro Paese d’origine. Di conseguenza, molti bambini sono grandicelli, e molti sono anche quelli malati e handicappati.
La strada dell’adozione internazionale, che negli anni passati veniva considerata una scorciatoia per avere in adozione un bambino piccolo, è oggi diventata più stretta. Forse, stanno maturando i tempi per comprendere l’opportunità di sostenere le famiglie dei Paesi poveri, affinché possano crescere i loro figli, e dare in adozione solo gli orfani privi della famiglia allargata.
Fecondità come dono
Per assolvere a questo compito e accogliere i bambini - ragazzi di ogni età e condizione sanitaria, in affidamento o in adozione, le famiglie hanno bisogno di sentire che la comunità è loro vicina.
Le istituzioni devono garantire tutti gli aiuti materiali, ma la comunità parrocchiale deve dare tutto il sostegno necessario, sia formativo sia di aggregazione. In più, la comunità parrocchiale può, con le famiglie, dialogare con le istituzioni affinché diano credito alla sensibilità delle famiglie e alle loro riflessioni, che possono suggerire servizi nuovi o modalità diverse e innovative di aiuto alle famiglie in difficoltà, quale ad esempio l’esperienza dell’affidamento diurno a domicilio che ha permesso l’affiancamento dei genitori e il recupero delle loro potenzialità.
L’adozione e l’affidamento così intesi sia dalle famiglie sia dalla comunità parrocchiale entrano a pieno titolo nell’ampio campo della fecondità del cuore e dell’anima.
Contribuiscono a comprendere come la fecondità non sia solo “generare”, ma sia accogliere, educare e soprattutto donare amore: si vede così materializzata una delle possibilità per l’uomo di vivere l’amore come il Padre lo riversa su ciascuno di noi, suoi “figli adottivi” (cfr. Rm 8,15).
Giuseppina Ganio Mego
AFFIDAMENTO E ADOZIONE: UN PO' DI CHIAREZZA
Un bambino da amare: è questo il desiderio di tante coppie senza figli. Ma le difficoltà non mancano. Il coraggio di scegliere l'affidamento.
Intervista a Piercarlo Pazè, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Torino e direttore della rivista “Minori e giustizia”.
C’è molta confusione su affidamento ed adozione; può aiutarci a fare chiarezza?
Sotto il profilo teorico la distinzione è chiara. Adozione è accogliere un bambino come proprio figlio. Affidamento è invece accogliere un bambino per aiutarlo a superare un periodo temporaneo di difficoltà della sua famiglia. In concreto però vi sono affidi lunghi nel tempo per cui diventano adozioni di fatto in quanto il bambino riconosce proprio negli affidatari le sue figure stabili di riferimento.
Con l’affidamento occorre farsi carico anche della famiglia d’origine del bambino?
L’affidamento è sicuramente una forma di aiuto alle famiglie in difficoltà. Non significa però prendersi in carico la famiglia d’origine del bambino in affidamento. Sono difatti i servizi che la devono aiutare. Tuttavia è opportuno che s’instaurino modalità collaborative tra le due famiglie perché, quando il bambino torna a casa, possa avere ancora relazioni con la famiglia affidataria che l’aveva accolto e lo aveva amato.
Le coppie che fanno domanda di adozione vivono un lungo periodo di ansia. È sovente lungo il tempo di attesa dalla presentazione della domanda alla risposta e, questa, non sempre arriva.
La nuova legge ha voluto ridurre i tempi di attesa dell’adozione internazionale e paradossalmente ha allungato l’incertezza nell’adozione nazionale prevedendo che la domanda decada dopo tre anni. Poiché l’adozione rappresenta un grande investimento di energie psichiche, sentimenti, emozioni verso il figlio desiderato, c’è il rischio che il prolungamento eccessivo dell’attesa finisca per logorare la stessa coppia adottante. Sicuramente le selezioni per le adozioni dovrebbero essere fatte prima, però quasi mai è possibile accorciare i tempi, sia perché i bambini italiani da adottare sono pochi e le domande molte, sia perché nelle adozioni internazionali vi è una seconda selezione a cura degli enti autorizzati.
Perché l’adozione nazionale è quasi impossibile?
L’adozione serve molto per i bambini senza famiglia. Però, oggi riguarda non tanto i bambini abbandonati, ma figli di genitori che con i loro comportamenti si sono rivelati inadeguati o trascuranti. Inoltre, ci sono alcune decine di ragazzi con gravi problemi di handicap fisico o mentale, oppure ragazzi grandicelli per i quali è molto difficile trovare le famiglie disposte ad accoglierli come figli.
Perché l’adozione internazionale è diventata difficile? È possibile che qualcuno trovi ancora scorciatoie?
La strada delle scorciatoie è rara, per fortuna. L’adozione internazionale è comunque rimasta una scelta difficile sia per i costi, sia perché non sempre i percorsi adottivi negli altri Stati sono agevoli. Inoltre, tutti gli Stati privilegiano le loro coppie e destinano all’adozione internazionale i ragazzi più grandicelli o con handicap. Per questo, l’adozione internazionale esige oggi una maggior capacità dei genitori adottivi, rispetto al passato. È giusto che queste capacità siano preparate dai servizi e accertate con valutazioni approfondite.
L’allungamento dell’età per adottare ci pare risponda allo stile di vita attuale del “tutto e subito”. Cosa ne pensa?
L’aumento della differenza di età tra l’adottato e
l’adottante da
Vi è un’idea che circola nella pubblica opinione: l’adozione si presta allo sfruttamento e alla predazione dei bambini delle famiglie povere.
L’adozione è stata spesso accusata di togliere i figli ai poveri per darli ai ricchi. Quest’accusa però ha una base di realtà anche nell’adozione internazionale che invece aiuta i bambini di paesi poverissimi. Si tratta di bambini effettivamente abbandonati e già senza famiglia, che altrimenti crescerebbero negli istituti o peggio per strada. L’adozione internazionale rimane dunque una risorsa sociale che deve accompagnarsi con altre forme di aiuto all’infanzia dei paesi più poveri.
Piercarlo Pazè
Testo raccolto da Giuseppina Ganio Mego
LE DIVERSE MODALITÀ DI AFFIDAMENTO
Quando si è una famiglia aperta le opportunità non mancano
L'affidamento comporta l'incontro tra famiglie, coppie, singoli con diverse storie, potenzialità, risorse e bambini - famiglie che presentano condizioni, problemi, bisogni differenti. Per questo l'affidamento si configura come un'accoglienza articolata in una pluralità di forme.
L’affidamento residenziale a terzi
È un intervento temporaneo di aiuto e di sostegno ad un minore da parte di una famiglia, coppia o single senza alcun rapporto di parentela con il minore la cui famiglia si trova in difficoltà. Il bambino viene accolto presso la propria casa, con l'impegno di assicurargli un'adeguata risposta ai bisogni di cui necessita.
Ogni affidatario può avere in affido non più di due minori, salvo eccezioni particolari di fratelli quando è opportuno che rimangano insieme.
L’affidamento familiare di bimbi piccoli (0-24 mesi)
Prevede affidamenti familiari di breve periodo, per neonati o bimbi piccoli, quale alternativa all'inserimento in comunità. Ha quindi l'obiettivo sia di fornire al bimbo cura e affetto in un normale contesto familiare da parte di famiglie particolarmente “competenti”.
Le famiglie affidatarie, infatti, devono saper affrontare una situazione coinvolgente e delicata che comporta il saper gestire adeguatamente le emotività pur mettendo in gioco tutte le proprie risorse affettive. Tale situazione è nel contempo però transitoria, per sua stessa definizione, e quindi comporta la capacità di accompagnare il bambino al distacco. Nell'ambito di questo intervento non è possibile accogliere più di un neonato alla volta.
L’affidamento a rischio giuridico
Si tratta di un affidamento predisposto dal Tribunale per i Minorenni a favore di minori, nei cui confronti è stata aperta una procedura di adottabilità che non risulta ancora definitiva; gli affidatari vengono individuati dal Tribunale per i Minorenni fra le coppie che hanno presentato offerta di disponibilità all'adozione nazionale e che sono stati successivamente valutati positivamente.
Il Tribunale abbina, attraverso un esame comparativo, la coppia più adatta al bambino in attesa di una famiglia.
Questo tipo di affidamento apre la strada all’adozione che resta però subordinata all’esito degli eventuali ricorsi (fino alla Cassazione) da parte dei genitori del minore o da parenti che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore.
La complessità delle procedure e i tempi della giustizia fanno sì che la definizione dello stato di adottabilità possa durare molto tempo, alcune volte persino anni.
Affidamento a famiglie comunità
È una forma di affidamento "estesa" per l'accoglienza di minori in gravi difficoltà. Si tratta di "famiglie allargate" caratterizzate dalla presenza stabile di una coppia affidataria che ospita fino a quattro bambini oltre ai propri eventuali figli.
Affidamento familiare di madri con bambini
Questa tipologia di affidamento prevede l'accoglienza di madre/bambino da parte di famiglie affidatarie che li possono sostenere e aiutare attraverso relazioni affettive significative e positivi modelli familiari.
Affidamento diurno
Questo tipo di affido non prevede la permanenza continuativa del minore con l'affidatario. L'affidamento diurno si articola in:
1. Affidamento Diurno Familiare
Una famiglia accogliente, possibilmente del territorio del minore, lo accoglie durante il giorno e propone, con il proprio stile di vita, modelli di comportamento da cui il bambino può attingere attraverso il canale della relazione.
2. Affidamento Diurno Educativo
In questo caso non è il minore che viene accolto ma è chi si prende cura di lui che lo frequenta e lo accompagna, aiutandolo nello studio o nella socializzazione.
Questo approccio rende meno problematica l’accettazione dell’aiuto da parte della famiglia d'origine, che teme che il minore le venga sottratto.
3. Affidamento Diurno di Famiglia a Famiglia
3. Affidamento Diurno di Famiglia a Famiglia
Nel caso che il soggetto privilegiato dall'intervento sia la famiglia in difficoltà questa può essere aiutata da una o più famiglie, che si rendono “solidali” (vedi le due pagine seguenti).
DARE UNA FAMIGLIA AD UN’ALTRA FAMIGLIA
Come una famiglia “normale” può diventare “solidale”
Oggi la famiglia sta attraversando molte difficoltà sia economiche sia relazionali ed affettive. È in situazione di vulnerabilità.
La proposta, che ha come esempio concreto un progetto del Comune di Torino (delibera 200308933/019 esecutiva dal 23/11/03), cerca di offrire accompagnamento, prossimità, vicinanza alle famiglie in situazioni di difficoltà educative, prima che le difficoltà stesse si trasformino in disagio conclamato.
L’affido è realizzato da una famiglia solidale, a volte supportata da un’altra famiglia. Entrambe si rendono disponibili ad accompagnare, affiancare e sostenere un’altra famiglia nella sua interezza.
Lo scopo è di tenere la famiglia unita, di crearle attorno legami significativi e di sostenerla nell’assunzione delle proprie responsabilità educative e familiari.
I genitori per lo più soli, con gruppi parentali sovente distruttivi, attraverso la vicinanza della famiglia solidale disponibile ad aiutare senza giudicare, sono incoraggiati verso l’autonomia, la tranquillità, la fiducia, l’assolvimento adeguato delle proprie responsabilità educative e familiari e capaci di una propria progettualità familiare.
Inoltre, i genitori che possono tenere i loro figli in casa, sono maggiormente disponibili ad accettare gli aiuti proposti e a mettersi in discussione. Mentre, l’allontanamento dei figli, anche solo con l’affido diurno tradizionale, pone i genitori sulla difensiva e poco disponibili ad ascoltare ed accogliere le proposte di aiuto che i servizi possono loro offrire.
I figli “respirano” attenzione, solidarietà, affetto nella famiglia che affianca la loro e vedono i loro genitori sostenuti ed apprezzati.
L’obiettivo di prevenire l’aggravamento e la cronicizzazione del disagio familiare e giovanile si può raggiungere solo se vi è la possibilità e la capacità di “vedere” con precocità le situazioni di difficoltà.
È questo uno strumento nuovo maggiormente rispondente ai bisogni emergenti nell’attuale società in continuo cambiamento.
Il coinvolgimento della società civile, sia nell’osservazione della vulnerabilità familiare sia nell’agire in modo solidale, rende attiva la comunità territoriale; aspetto sempre più necessario. Nella realizzazione del progetto, lo scambio di riflessioni e il confronto hanno portato a modalità di applicazione della delibera meno rigide, senza mettere in discussione le sue linee guida.
CHIESA, VOLONTARIATO E ISTITUZIONI
Come realtà diverse possono agire in sinergia a sostegno delle famiglie
L’Ufficio Famiglia della Diocesi di Torino aveva, nel corso degli anni novanta, avviato un gruppo di riflessione sull’affidamento e sull’adozione da cui emerse l’importanza di accompagnare e sostenere le famiglie in difficoltà senza allontanare, dove possibile, i figli.
Alcune famiglie riportavano esperienze di solidarietà con famiglie di bambini che frequentavano con i loro figli la scuola o il catechismo: vedere i loro bisogni, proporre aiuti quali fare i compiti con i loro figli, invitarli ad una gita, accompagnarli o prenderli dalla scuola, ecc. potevano generare un miglioramento della situazione familiare.
In base a queste idee l’Ufficio Famiglia Diocesano organizzò una serie di convegni cui erano invitati, come parte attiva, funzionari e/o assessore ai Servizi Sociali ed Educativi allo scopo di coinvolgerli nella riflessione e portarli ad una decisione.
Decisione che è avvenuta con la delibera del 4/11/2003 con la quale veniva approvato il progetto sperimentale “Dare una famiglia ad un’altra famiglia” nel quale veniva espressamente indicata, tra le associazioni ed organizzazioni coinvolte, la Curia Metropolitana (Caritas Diocesana ed Ufficio Pastorale della Famiglia).
La collaborazione tra gli Uffici Diocesani, il Comune di Torino, il coordinamento dei servizi sociali situati nel territorio della Provincia di Torino, continua ancora oggi poiché il progetto è ancora in corso.
Una difficoltà incontrata, e che si continua ad incontrare, è legata ad una mentalità diffusa all’interno dei servizi socio-sanitari: i problemi si affrontano solo quando esplodono perché non ci sono sufficienti risorse per la prevenzione.
Anche le famiglie che si candidano per l’affidamento familiare, vanno formate a questo tipo di solidarietà, stimolate verso questa nuova formula di affidamento familiare.
Un incaricato a rappresentare la Diocesi di Torino e i suoi due Uffici è presente ed attivo ai “tavoli di lavoro sull’affidamento familiare” sia al Comune di Torino, alla Provincia di Torino e alla Regione Piemonte.
Questa è una presenza forte per proseguire nella sperimentazione e avviarla nell’Unione dei Servizi ancora dubbiose.
DALLA STERILITÀ BIOLOGICA
ALLA STERILITÀ FECONDA:
Imparare a pensarsi genitori adottivi
Essere mamma e papa è la cosa più bella del mondo: diventare genitori di un figlio proprio, che ha il nostro stesso DNA è una sensazione esaltante.
Diventare genitori di un figlio non nato da me è la percezione meravigliosa di un miracolo che si realizza giorno dopo giorno.
La genitorialità biologica non è uguale alla genitorialità adottiva, il figlio adottato non è uguale ad un figlio generato. Di questo dobbiamo essere consapevoli.
L'inizio della genitorialità adottiva non è uguale a quella biologica: dal punto di vista fisico non lo è. Per questo occorre prima sentirsi genitore. Io, mamma, devo essere così in sintonia con mio figlio da non sapere più distinguere, col passare del tempo, che quel bambino non l'ho generato io.
Così, se dentro di me non sento di essere papà a tutti gli effetti, all'incontro con quel bambino che sarà nostro figlio, non riuscirò mai ad esserlo.
La genitorialità adottiva è qualcosa che si costruisce poco a poco, prima ancora d'incontrare il proprio figlio; è sentirsi innamorati di quel bambino prima ancora di vederlo e di conoscerlo.
Quando un figlio non arriva
Quando un uomo e una donna che si amano decidono di stare insieme per tutta la vita, a coronamento del loro matrimonio desiderano avere dei figli, dare vita ad un figlio che possa somigliare a loro. Si sogna, ci si vede diventare famiglia.
Tutti i sogni ad un certo punto s'interrompono: i figli non arrivano.
A quel punto si passa alla fase degli esami. È difficile che una coppia, nell'impossibilità di avere figli, non decida di percorrere la strada della ricerca delle cause. È una fase lunga e delicata. Prima lei, poi lui.
Con ansia si attendono i risultati: da questo verdetto dipende il futuro della coppia.
Il rapporto di coppia, messo sotto pressione, in questa fase di attesa solitamente si solidifica. Ci si sente «insieme», uno si appoggia all'altro. Sono forse le prime difficoltà che si affrontano in coppia.
È duro accettare il verdetto di sterilità. Quando ci si sposa, ci si sente disponibili ad accogliere dei figli: scoprire di non poterlo fare porta a una delusione profonda perché non coinvolge solo la coppia, ma anche coloro che sono loro vicino: gli amici, i genitori, i parenti.
Sapersi sterili altera la vita di coppia e diventa motivo di sofferenza, sia nella donna sia nell'uomo, poiché è una condizione che si inserisce nei meccanismi profondi di identificazione. Nella donna, durante la gravidanza, la sua identità si esprime in uno speciale ed unico senso di completezza che la fa sentire «piena».
Nell'uomo fare un figlio realizza la continuità della propria identità nel tempo, segno del permanere della famiglia nelle generazioni.
La coppia sterile può vivere una caduta psicologica e sociale: dalla sfera sessuale l'insuccesso investe altri ambiti, dal piano dei rapporti interni alla coppia a quello dei rapporti con la famiglia, con il gruppo degli amici, con la società. La coppia sterile si scopre incapace di qualsiasi progetto.
L’elaborazione del lutto
L'elaborazione del lutto della sterilità avviene quando si è in grado di interiorizzare la perdita della propria potenza generatrice e la reale mancanza del figlio desiderato.
Nella sterilità convivono queste due esperienze, ma c'è anche una terza componente: il bambino immaginario, in quanto i primi desideri di maternità e di paternità nel corso degli anni si sono arricchiti di fantasie, aspirazioni, proiezioni. Ricorrere all'adozione - alternativa che in questa fase comincia a presentarsi alla coppia - non risulta sempre facile, perché moglie e marito devono ammettere di essere incapaci di procreare.
Capita talvolta che ci si metta rapidamente alla ricerca di un bambino da adottare, comportamento che rivela la negazione dei propri problemi.
Può tuttavia sorgere un equivoco quando le coppie ricercano un figlio a tutti i costi: da un lato, infatti, esiste il figlio del bisogno, dall'altro il figlio del desiderio.
Il figlio del bisogno è considerato il tentativo di riequilibrare l'immagine di sé, una sorta di difesa personale contro la sterilità; il figlio del desiderio è, invece, l'idea matura e consapevole del figlio nato altro da sé e dalla coppia, concetto che subentra nel momento in cui paradossalmente non si ha più bisogno di un figlio, ma lo si desidera.
Ecco dunque che la coppia giunge all'adozione dopo attente riflessioni. In questo caso la donna sarà riuscita a far proprio un diverso modo di vivere la maternità, che non sia come unica conseguenza ad una gravidanza.
L'uomo, dal canto suo, è disposto ad accettare una paternità fondata su un profondo legame d'amore.
La fecondazione assistita
La fecondazione assistita è il mezzo più utilizzato per tentare di avere un bambino.
Sono ormai numerose le coppie che provano, e molte coronano il loro sogno. Ci proviamo anche noi: se non sarà sufficiente una volta, proveremo ancora, due, tre, quattro... fino a quando?
Altri esami, altre analisi, altre prove. Ancora sofferenza, non solo fisica, ma anche psicologica e poi delusione e amarezza. Ogni tentativo fallito provoca nuove lacerazioni dentro. Ma per un figlio si fanno sacrifici, e dunque si continua.
Si rischia tuttavia l'accanimento terapeutico: un figlio ad ogni costo. Il bisogno fisico di avere un bambino fa affrontare situazioni inimmaginabili, sofferenze infinite. I dubbi nella coppia aumentano: si provano altri metodi, si pensa all'opportunità di andare all'estero.
Per chi si sta facendo tutto questo? Per mia moglie, per mio marito! Ci si domanda se vale la pena vivere questa sofferenza. I risultati non si vedono; ogni volta è peggio. Forse c'è ancora una possibilità, l'ultima, di diventare madre e padre.
Non resta che l'adozione
Si potrebbe adottare un bambino. La coppia ricorre alla fine a questa soluzione, mai pensata prima perché troppo concentrata nei tentativi di avere un figlio «nostro».
Ma cosa significa «adozione»? La coppia si sente quasi costretta a percorrere questa strada perché le altre non hanno avuto alcun esito positivo. È davvero l'ultima spiaggia? Eppure, nell'ottica di accogliere un bambino, se il cuore fosse veramente aperto, non sarebbe difficile porsi nell'atteggiamento di amare un figlio anche se non creato dalla coppia.
L'adozione internazionale non deve essere considerata «l'ultima spiaggia», perché non è difficile amare un bambino e considerarlo a tutti gli effetti un figlio, a condizione di preparare il nostro cuore all'accoglienza di un bambino, chiunque esso sia.
Dal «figlio nato da sé» a un «figlio nato da altri» spesso il passaggio non è semplice. E prima di tutto occorre mettersi nella condizione di aver rielaborato il senso del «bisogno» di un figlio per arrivare ad avere il «desiderio» di un figlio.
Desiderare di diventare madre e padre significa porsi in un atteggiamento di accoglienza che ci fa superare la necessità di essere madre e padre fisiologicamente.
Riuscirò ad amare un figlio adottato?
Un figlio non nato da noi non potrà mai essere come noi, non avrà i nostri connotati, non potremo ritrovare nei suoi lineamenti alcuna somiglianza fisica.
Se poi sarà di colore sarà ancora più evidente la sua «diversità».
Come potremo volergli bene? Sarà come un «estraneo» che entrerà nella nostra famiglia, nella nostra casa.
Eppure, innamorarsi di un bambino non è difficile: bisogna preparare il cuore per accoglierlo, prima ancora di vederlo. Occorre innamorarsi di lui subito, prima ancora di sapere della sua esistenza.
Se dentro di noi abbiamo creato lo spazio, allora non sarà difficile riempirlo: basta volerlo. Di un bambino ci si innamora subito perché lui sarà nostro figlio.
Eppure accade che gran parte di coloro che non possono avere figli decidono comunque di vivere la propria vita a due. Qual è dunque la scintilla che scocca - in lui, in lei o in entrambi – che porta ad ipotizzare un modo diverso di diventare madre e padre?
Forse bisogna vivere la propria sterilità in modo diverso; bisogna pensare che divenire genitori è una via che può essere percorsa anche da chi è sterile. Ci piace parlare di sterilità feconda.
La scoperta della propria sterilità non deve essere vissuta come una frustrazione o un impedimento per divenire genitori. Tale difficoltà, se così si può chiamare, può porci in una prospettiva diversa, ma altrettanto appagante e splendida. L'invito alle coppie sterili è di porsi in un atteggiamento di accoglienza, invito che può essere esteso a tutte le famiglie.
Maria Teresa Giacomelli
ADOZIONE NAZIONALE O INTERNAZIONALE?
Prima di tutto serve il certificato di idoneità all’adozione
L'adozione nazionale è l'adozione di un bambino non necessariamente italiano, ma presente sul territorio italiano: questo significa che negli istituti e nei centri di accoglienza per minori sono ospitati anche bambini stranieri abbandonati.
L'adozione nazionale è quella considerata più difficile in quanto sono pochi i bambini “adottabili” (uno ogni 15/20 famiglie disponibili all'adozione): gran parte di loro non sono orfani, bensì allontanali dalla famiglia di origine con decreto del Tribunale per i minorenni.
Se si è davvero aperti all’accoglienza si può ricorrere all’affidamento “a rischio giuridico”, che è previsto proprio per questi casi. Si tratta di accogliere come un figlio un bambino che ci potrebbe essere tolto quando il Tribunale e i Servizi Sociali ritenessero superate le cause che ne hanno provocato l’allontanamento dalla sua famiglia.
Quando una coppia è orientata all'adozione internazionale, deve pensare che si tratta di un iter che può essere lungo: dopo l'ottenimento del decreto di idoneità, per avere l'abbinamento e definire quindi l'adozione, il periodo di attesa varia secondo il Paese, ma occorre mettere in conto almeno uno o due anni.
L'iter di adozione nazionale e di adozione internazionale possono proseguire contemporaneamente, ma fino a un certo punto.
L'adozione internazionale, come quella nazionale, deve essere una vera e propria scelta di vita, non certo di ripiego, dettata soltanto dal fatto che la fecondazione artificiale non abbia avuto esito positivo. Linee guida emesse dalla Commissione per le adozioni internazionali, riprese anche dalle metodologie di lavoro di alcuni enti autorizzati, sostengono che le coppie debbano rinunciare all'adozione nazionale nel momento in cui il Paese straniero abbia accettato la loro disponibilità ad accogliere un bambino.
Il certificato di idoneità
In entrambi i casi serve ottenere prima il certificato di idoneità all’adozione.
Questo comporta una lunga trafila, prima burocratica, per ottenere tutti i documenti richiesti e poi di idoneità vera e propria, con visite a casa dei servizi sociali, colloqui con assistenti sociali e psicologi, e infine con il giudice del Tribunale dei minori. Non sempre questi colloqui sono gradevoli poiché si viene sottoposti ad una serie di domande a volte imbarazzanti e comunque impegnative, una sorta di vero e proprio “pelo e contropelo”.
L’atteggiamento migliore da tenere è quello di essere sereni. Non occorre, ne è il caso, prepararsi «risposte preconfezionate», pensando così di soddisfare il nostro interlocutore. Occorre invece andare all'appuntamento con un atteggiamento disponibile e rispondere nel modo più sincero e aperto possibile, ponendosi sempre dal punto di vista di un bambino abbandonato che attende una famiglia.
Lo stesso vale per i colloqui con il giudice del Tribunale dei minorenni.
L'atteggiamento aperto e disponibile all'accoglienza è quello più adatto anche per questo tipo di incontri. I futuri genitori adottivi non sono messi sotto giudizio: occorre infatti ricordare che il giudice del Tribunale per i minorenni è un giudice onorario, non togato, in altre parole è un laureato in una materia umanistica - pedagogia, psicologia, lettere e filosofia - che accoglie la coppia e affronta gli eventuali problemi che possono sorgere.
Si viene certamente valutati - al fine di ottenere il decreto di idoneità all'adozione - ma nell'interesse del bambino abbandonato.
Per questo è necessario che la famiglia che lo accoglierà rappresenti per lui la soluzione migliore, che sia in grado di restituirgli la fiducia che ha perso nella vita e negli adulti.
L’atteggiamento di “giudizio” che si può provare in tutti questi colloqui è legato ad un fatto importantissimo per il minore: non essere rifiutato nel corso degli anni anche dalla famiglia che lo adotta. Sono casi rari ma non impossibili: anche se non vi sono statistiche ufficiali si parla di circa un 1-2% di “restituzioni”.
COSTI E CONTRIBUTI
Adottare “costa”, non solo come impegno personale e di coppia,
ma anche come impegno economico.
I costi
Per l’adozione nazionale i costi possono essere limitati alle sole pratiche burocratiche. La domanda può essere presentata anche a più Tribunali dei Minori, e allora vi sono spese di viaggio da sostenere per sostenere colloqui e altro. In caso di avvenuto abbinamento è possibile che i Servizi Sociali richiedano un periodo di affiatamento con il minore (p.e. due settimane) nella località in cui questo si trova ospitato.
Diverso il discorso per l'adozione internazionale.
In questo caso i costi sono decisamente elevati. Da quando esiste la Commissione per le adozioni internazionali (Cai), sono stati stabiliti dei minimi e dei massimi per tutte le spese sia in Italia sia all’estero. Le spese all'estero sono quelle più soggette a variazioni. Sul sito Internet della Cai - www.commissioneadozioni.it - si trovano le tabelle dei costi dettagliati per singolo ente autorizzato.
I costi per il completo espletamento di un’adozione internazionale risultano elevati in quanto da parte dell'ente autorizzato sono necessari numerosi interventi, sia in Italia che nel Paese straniero. In Italia la coppia viene accompagnata nella formazione e nell'espletamento delle pratiche richieste dalle Autorità competenti; all'estero il personale locale dell'ente ha il compito di accogliere e seguire la coppia durante tutta la sua permanenza e di accompagnarla presso le istituzioni preposte all'adozione. Inoltre devono essere contemplati la traduzione dei documenti e i costi relativi al viaggio e alla permanenza nel Paese straniero.
Per l’affidamento vale quanto detto per l’adozione nazionale. In questo caso, avendo il minore una famiglia, l’accoglienza può essere fatta solo nel luogo di residenza poiché devono essere garantiti i contatti, seppure in luogo neutro, tra il bambino e i genitori naturali.
I contributi
Non sono previsti contributi per le adozioni nazionali. Il minore risulta a carico dei genitori adottivi che quindi hanno diritto a tutte le detrazioni e agevolazioni previste per i figli naturali.
Per le adozioni internazionali è possibile detrarre parte delle spese sostenute nella dichiarazione dei redditi ed è previsto un contributo una tantum , che è variabile da regione a regione e legato al redito (ISEE). Per il resto vale quanto detto per le adozioni nazionali.
Per l’affidamento, al contrario, sono previsti contributi mensili che variano in funzione del tipo di affidamento (residenziale, diurno, di neonati, da famiglia a famiglia, ecc.) e del Comune. Questi contributi non sono legati al reddito.
La diversità di trattamento rispetto all’adozione è dovuta ad un semplice motivo: alla coppia affidataria, attraverso questo sostegno economico, viene ricordato ogni mese che il figlio non è suo e che sta svolgendo un servizio per conto della comunità.
ADOTTARE UN BAMBINO “SPECIALE”
Un bambino con bisogni ed esigenze particolari che richiede qualcosa di più
Abbiamo visto come il cammino per l’adozione sia lungo e impegnativo.
Una tentazione che può nascere nelle coppie per superare in parte le difficoltà burocratiche è quella di mostrare un’ampia disponibilità all’adozione, compresa quella di accettare anche un bambino con esigenze o problemi particolari.
Un altro vantaggio è costituito, una volta raggiunta l’idoneità, dai tempi necessari per l’abbinamento che, normalmente, sono la metà rispetto a quelli necessari per un bambino senza “problemi”.
Non è questo l’approccio corretto: un bambino “speciale” ha bisogni ed esigenze particolari che bisogna mettere in conto e valutare con molta attenzione.
Ma procediamo con ordine.
Che cosa significa bambino “speciale”
In base alla Convenzione dell’Aja del 1993 i bambini con bisogni speciali sono quelli che rientrano nelle seguenti categorie:
• gruppi di fratelli,
• bambini con un'età superiore ai 7 anni,
• bambini con bisogni sanitari (difetti o patologie mentali o fisiche),
• bambini con problemi comportamentali successivi a traumi subiti.
I bambini con bisogni speciali non sono disabili in quanto la disabilità riguarda patologie fisiche e/o mentali invalidanti e irreversibili.
Mentre per i primi due casi le problematiche sono evidenti, nei secondi due le cose sono più complesse e dipendono molto dal paese di origine del bambino.
Per esempio, nel caso di paesi dell’Est Europa i dati forniti sui bambini - e su cui la coppia si orienta per l’abbinamento - sono molto dettagliati dal punto di vista sanitario, ma molto sintetici dal punto di vista psicologico. Al contrario, i paesi del Sud America forniscono un quadro accurato del bambino dal punto di vista dei suoi trascorsi, ma sono carenti sotto il profilo sanitario.
Maturare questa forma d’adozione
In questi casi la coppia deve disporre di un “di più” rispetto a quanto richiesto per un’adozione “normale”.
Serve prendersi del tempo per parlarne tra coniugi e capire, anche sul piano individuale, cosa significhi affrontare l'adozione di un bambino con bisogni speciali.
Fondamentale è che ciascun membro della coppia possa analizzare in modo libero e autonomo i propri sentimenti, le ansie, gli eventuali timori, anche legittimi, evocati dalla prospettiva di adottare bambini “speciali”.
Insieme, la coppia dovrà poi fare un bilancio delle proprie risorse e dei propri limiti per giungere in modo concorde e univoco alla scelta finale.
Un aspetto da non trascurare, e che viene invece sottovalutato dalla coppia, è l’atteggiamento che può avere a riguardo la cerchia parentale più stretta (genitori e fratelli).
È molto importante che sia disponibile una rete di sostegno nella famiglia perché la coppia, anche se si ritiene tale, non è sufficiente a se stessa.
Proprio pensando al benessere del figlio, tanto più la famiglia allargata è pronta e aperta all'accoglienza, tanto più sarà presente un giusto supporto emotivo.
I professionisti consigliano inoltre una lettura analitica del «sistema familiare»: spesso si scopre che, nella vita della famiglia, si sono verificati problemi o vicende che potrebbero influenzare la capacità attuale di accogliere un bambino con bisogni speciali.
IL RACCONTO DELLE ORIGINI:
UN DISCORSO LUNGO TUTTA LA VITA
Dov’ero, con chi ero, come vivevo prima di diventare vostro figlio?
Narrare le radici
Ogni figlio che nasce porta con sé una storia, che è quella che lui stesso vive giorno per giorno, fatta di ricordi ma, soprattutto nei primi anni, dei racconti dei genitori, delle foto scattate, dei filmini girati, dei giocattoli usati.
Come genitori, siamo però tenuti a narrare ai nostri figli anche un’altra storia, che è quella delle loro radici, la nostra storia. Anche noi siamo stati bambini, siamo cresciuti in due famiglie diverse, forse in città o luoghi diversi, abbiamo fatto esperienza diverse, e poi ci siamo conosciuti, frequentati ed amati.
Questo è tanto più vero per i bambini adottati o in affidamento, anche se il tipo di storia da narrare ha diversi elementi in più.
Le radici del bambino adottato
Il desiderio di sapere, di conoscere quali siano le proprie radici ed il proprio passato è un’esigenza che caratterizza pressoché tutti i figli adottivi.
È naturale chiedersi (e chiedere) il motivo per cui si e stati dichiarati adottabili, interrogarsi su cosa ci sia stato «prima» dell'amore della propria famiglia. I genitori devono essere capaci di lasciarsi interrogare, senza che ciò diventi per loro motivo di tensione o di ansia.
Se l'adozione è stata vissuta e gestita dai genitori con serenità e consapevolezza, è probabile che il bambino abbia percepito questa tranquillità e interiorizzato la propria realtà di figlio, amato e desiderato.
Lo sguardo al passato sarà allora motivato principalmente da una curiosità, o da un interesse verso il luogo dove è nato e le sue caratteristiche.
È quindi indispensabile che il passato non costituisca una sorta di tabù da negare, ma debba essere «rispettato» in base all'età, alle risorse e alle capacità che il bambino ha per comprendere le informazioni che gli vengono date.
Sarebbe quindi inopportuno, ad esempio, dirgli «tutto e una volta per tutte»; così come i silenzi, le domande lasciate inevase, le risposte affrettate non servono a placare la sete di sapere del bambino che a questo punto cercherà di darsi delle risposte da sé, attingendo dalla frammentarietà dei propri ricordi e dalla sensazione di disagio e di «non dicibile» che raccoglie quando pone ai genitori delle domande.
Le fiabe, i giochi, la costruzione di un album di famiglia possono essere modi per raccontare ed elaborare insieme il mosaico della storia del bambino.
La storia può essere narrata in momenti diversi, secondo l’età e, soprattutto, le esigenze del bambino.
Ascoltare il racconto della propria storia è come ripercorrere un sentiero o rileggere un libro: accade che si colgano ogni volta particolari che in precedenza non si erano notati e ciò consente di allargare il campo di conoscenza, perché la mente in quel preciso momento (e non prima) è pronta per accogliere ed integrare nella propria esperienza nuovi elementi.
Se il bambino troverà dei genitori disponibili, che parleranno con lui di «tutto ciò che era prima», la storia dell'adozione sarà un argomento ripetutamente oggetto di domande e... magari anche di «verifiche incrociate», confrontando se le risposte di mamma coincidono con quelle di papa e se stanno proprio dicendo la verità.
Questo racconto potrà anche essere come una sorta di fiaba, per raccontargli la sua storia e parlare del suo passato attraverso un linguaggio a misura di bambino ed immagini che suscitino in lui emozioni e ricordi adeguati.
Costruire la storia della famiglia adottiva attraverso il linguaggio della fantasia è sicuramente un valido aiuto per il bambino: il «c'era una volta...» consente al bambino di dare un nome al passato e, al contempo, di distaccarsene proprio perché è ormai trascorso.
Non solo: il bambino tende ad immedesimarsi con l'eroe della fiaba e a prevedere un esito positivo di tutte le avventure e difficoltà che deve affrontare; l'eroe incontrerà la sua famiglia dopo essere stato tanto desiderato e tutti vivranno felici e contenti.
Le radici del bambino in affido
La coppia che accetta l’esperienza dell’affidamento sa che la famiglia di origine del bambino esiste e ha diritto ad occupare un ruolo nella sua storia, anche se gl’incontri avvengono in ambiente “neutro” e protetto. Ci sono quindi più storie da raccontare: quella del bambino, quella della sua famiglia naturale, quella della famiglia affidataria.
Può essere una storia complicata, perché potrebbe essere segnata da più affidi intervallati da periodi di permanenza in famiglia: quello che il bambino deve cogliere è che tutti gli adulti che incontra, crescendo, gli vogliono bene, anche se ciascuno a suo modo, e questi modi possono anche essere segnati dalla marginalità, dal disagio fisico e sociale, dalla devianza.
L’ADOLESCENZA: UN PASSAGGIO CRITICO
Tra l’appartenenza alla nuova famiglia e le fantasie sul passato
Ogni famiglia che ha un figlio adolescente sa come sia critico questo passaggio della vita. Se il bambino tende ad essere come il genitore, l’adolescente tende ad essere il più possibile diverso dal genitore.
Il figlio adottivo sa che la sua storia non è iniziata con questi genitori, che porta in sé le tracce di altre identità e che ha vissuto un’esperienza di abbandono. Questo, in adolescenza, può creare una maggiore insicurezza, accentuando il contrasto tra il desiderio di autonomia e il bisogno di conservare i propri legami, fra l’appartenenza alla nuova famiglia e le fantasie sul passato.
La paura dell’abbandono
Il cammino adolescenziale non è quasi mai lineare. Il ragazzo oscilla tra desiderio di autonomia e bisogno di conferme. Per un figlio adottivo questo aspetto può essere vissuto con particolare sofferenza.
Deve essere assicurato che l’abbandono che ha subito in passato non è certo dipeso da lui, che i contrasti e gli scontri con i genitori - inevitabili - non ne provocheranno un altro.
Una caratteristica dell’adolescente è la manipolazione del proprio corpo, il bisogno di essere riconosciuto, anche esteriormente, come “unico”.
Il figlio adottivo può “non piacersi” a causa di differenze somatiche che lo fanno sentire troppo “diverso” dagli altri. In questo caso il gruppo dei pari, le frequentazioni amicali possono influire molto, sia positivamente che negativamente. Anche in questo caso tutto si ricollega al timore del rifiuto e dell’abbandono.
Il ritorno alle “origini”
Le domande sulla propria origine da parte dell’adolescente non nascono tanto dalla necessità di conoscere la propria storia, quanto di avere elementi su cui costruire la propria identità.
Queste richieste nascono più dalla fatica di collocarsi in una storia che sembra di colpo diventata tutta nuova (rapporti, richieste sociali, aspetto fisico, emozioni mai vissuti prima), che da un fondato desiderio di ritorno alle origini.
Talvolta il «voglio tornare da dove sono venuto» è l'espressione di un malessere che induce a pensare che la soluzione sia proprio andarsene.
In altri casi, invece, sentire i genitori troppo disponibili verso «un viaggio di ritorno» può essere interpretato come una minaccia, un pericolo di abbandono. Per tutti questi motivi, se viene espresso il desiderio di riprendere contatto con il passato - persone, luoghi, rapporti con i fratelli - occorre capire bene che cosa c'è dietro, prima di soddisfarlo.
Questo non significa che una volta certi della convinzione del ragazzo non si possa accontentarlo e accompagnarlo in questo viaggio nel tempo e nello spazio, senza drammatizzarlo, ma con il dovuto tatto e attenzione per le emozioni che può suscitare in tutti, genitori e figlio.
La “gestione” dell’adolescenza
Abbiamo sintetizzato due aspetti che, in adolescenza, possono caratterizzare in particolare i comportamenti di un figlio adottivo. Ma, alla fine, l’adolescenza è una “malattia” che colpisce tutti i ragazzi e permette loro di diventare adulti. Per questo vi rimandiamo al nostro sito: www.gruppifamiglia.it/GF83_2014.htm dove troverete un’ampia serie di articoli su questo argomento.
COSA PUO' FARE UN GRUPPO FAMIGLIA
Chiamati a praticare l’accoglienza, l’ascolto, la condivisione
I gruppi famiglia sono gli strumenti ideali affinché le famiglie possano maturare ed approfondire la loro missione, la loro chiamata ad essere testimoni dell'amore di Dio per ogni uomo.
Nei gruppi famiglia, le famiglie attraverso l'approfondimento della Parola di Dio, traggono le indicazioni per la quotidianità della vita e per rispondere all'imperativo di Gesù: «Vai e comportati di conseguenza» (Cfr. Lc 10,37).
Con la partecipazione ai gruppi, le famiglie cristiane trovano così la forza e la motivazione per riconoscersi «esperte di esperienza», valorizzare la loro sensibilità, la conoscenza ch'esse hanno della vita di famiglia e delle relazioni tra tutti i suoi componenti.
Difatti, nessun operatore, anche il migliore, il più attento, può comprendere a fondo ciò che vive la famiglia. Di qui il dovere delle famiglie di portare il loro contributo al miglioramento dei servizi pubblici e privati: anche quest'azione è solidarietà cristiana.
Di conseguenza, le famiglie cristiane non cessano mai di domandarsi se il loro comportamento, il loro agire è coerente con il comandamento di amare il fratello, se stanno testimoniando la comunione tra di loro e la condivisione dei loro beni con i fratelli bisognosi.
Beni che non sono solo quelli materiali, ma soprattutto quelli dell'accoglienza, dell'ascolto, dell'attenzione, della condivisione delle responsabilità genitoriali, dell'impegno sociale-politico, per dare voce a chi non può esprimersi e nel collaborare a migliorare le politiche e il sistema dei servizi sociali rivolti alle famiglie ed in specifico a quelle più deboli e povere.
Occorre, perciò, una nuova fantasia della carità, come ha detto papa Giovanni Paolo II (1). Carità come impegno, carità che indica le vie da seguire. Vie che vanno costantemente adattate al modificarsi della società, affinché possano con maggior facilità condurre all'incontro col Padre.
Gruppo Giuseppe di Nazareth, Torino
(1) Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 50.
SECONDA PARTE: TESTIMONIANZE
Case famiglia, affidamenti, adozioni nazionali e internazionali
CONDIVIDERE LA PROPRIA VITA CON GLI ULTIMI
Un aspetto poco noto della dimensione sponsale
Sposandoci, certo non sapevamo che il Signore ci avrebbe chiamato a condividere la vita con gli ultimi sotto lo stesso tetto!
Un esempio è Marta, arrivata da noi l'estate scorsa, dopo 12 anni vissuti in un nucleo familiare distrutto dalla violenza tra i coniugi e verso di lei. Marta oggi soffre di gravi disturbi comportamentali. Nei mesi di convivenza con noi, ci ha trasmesso tutta la sua richiesta di affetto e sicurezze come un fiume in piena, travolgendoci tutti. È stata un’occasione di straordinaria crescita anche per il nostro primogenito Matteo, di 6 anni. Lo abbiamo aiutato a interpretare gli “strani” comportamenti di Marta che ogni giorno si manifestavano, e che ci pro-vocavano in mille maniere, in tutti i nostri punti deboli.
Un altro esempio è Pat, 27 anni, da quattro con noi e come tante altre arrivata dalla Nigeria in Italia con il racket della prostituzione. Pat però resiste solo un paio di mesi e poi un giorno si butta nelle braccia di una delle ronde notturne “di strada” della nostra associazione di famiglie. Viene subito caricata in macchina e portata da noi: la schiavitù per lei era finita.
Pat, analfabeta, nigeriana e con grosse difficoltà di apprendimento della lingua italiana, ora ha un lavoro dignitoso, i documenti, affetti, e proprio in questi giorni ha preso la patente di guida B. La famiglia è diventata “multietnica”, ed è stata grande la festa in parrocchia quando Pat ha ricevuto i Sacramenti del Battesimo e della S. Cresima!
Noi due sposi ci sentiamo spesso incapaci a sopportare il peso di certe sofferenze, ma chiediamo aiuto e questo arriva sempre. Il Signore ci ha donato una bella casa grande con il giardino, tre bimbi, altri figli accolti e rigenerati nel Suo Amore, aiuti di sostentamento e altre famiglie che condividono, per non sentirci mai soli.
Quale sarà il prossimo “piccolo” in cui Gesù verrà a trovarci?
Chiara e Andrea
UNA FAMIGLIA APERTA… ALL'ACCOGLIENZA
Nel nostro rapporto di coppia abbiamo messo al primo posto le persone
Siamo una normale famiglia, composta da papà, mamma e… tanti bei ragazzini! Per noi essere famiglia non è un solo legame di sangue ma anche un intreccio di relazioni, e per questo abbiamo aperto la nostra casa, il nostro cuore, il nostro sguardo a chi di una casa, di affetto e di uno sguardo aveva bisogno per crescere ed abbiamo scelto di essere “famiglia aperta” perché alla base del nostro rapporto di coppia abbiamo messo le persone anziché le cose.
Abbiamo così cercato di mettere al centro dei nostri impegni una scelta educativa cristiana non rivolta solamente ai nostri figli biologici ma a tutti quei bambini bisognosi che Dio ha voluto mettere e metterà sulla nostra strada.
Nel luglio del 1991, dopo due anni di preparazione, noi e le nostre tre figlie, all’epoca bambine, abbiamo accolto il primo “cuoricino da consolare”, rimasto con noi alcuni anni.
Da allora diversi piccoli e preadolescenti hanno intrecciato le loro vite con le nostre. Abbiamo accolto per più di un anno un neonato in affidamento residenziale, fino a quando è andato a vivere con la sua mamma, con la quale è nato un legame affettivo che ci ha permesso in questi anni di aiutarla in vari modi nel difficile compito di conciliare l’educazione di un figlio e l’esperienza quotidiana di essere ragazza - madre.
Successivamente, per alcuni mesi, abbiamo “dato una mano” alla mamma di un bimbo di 10 mesi, con un progetto di affidamento diurno, ossia accogliendo il “piccolino” con noi di giorno e riportandolo a dormire tutte le notti con la sua famiglia.
Poi ha camminato con noi una ragazza tredicenne, che da alcuni anni non aveva più un amore materno che la sostenesse.
Per due anni ha condiviso l’affetto della nostra famiglia una bellissima zingarella, che ci ha permesso di conoscere ed amare un mondo così diverso dal nostro; contemporaneamente abbiamo voluto bene ed accompagnato verso la licenza media una ragazza quattordicenne, piena di vitalità, che aveva bisogno di un riferimento adulto con cui confrontarsi per poter crescere.
Infine, da due anni hanno “fatto irruzione” nella nostra famiglia due gemellini un po’ sfortunati, perché con vari problemi di salute, ma molto simpatici ed allegri.
È bello per noi rivedere i “nostri ragazzini” nelle loro famiglie naturali e seguirli nel loro cammino di crescita, condividendo le gioie, i momenti importanti e di difficoltà che incontrano ed incontreranno!
Anna e Marco
L’AFFIDAMENTO:
UN’OCCASIONE DI ACCOMPAGNAMENTO
"Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo" (Eb 13,2).
Il desiderio che la nostra casa avesse la porta sempre aperta per accogliere chiunque è sempre stato vivo in noi... una casa con tanti volti, tanti amici, tanta vita! Così ci è sembrato naturale renderci disponibili all'affido. Affido inteso come capacità "naturale" che ogni famiglia ha in sé di prendersi cura oltre che dei propri figli anche, momentaneamente, dei figli di altre coppie che in quel momento hanno bisogno di una mano.
Così, è da circa dieci anni che viviamo questa esperienza: oltre ai nostri quattro figli naturali sono entrati nei nostri cuori altri volti di bambini.
La bellezza dell'affido è proprio questa: che sono loro che cambiano la tua vita e il tuo cuore, a te è semplicemente chiesto di accoglierli e di volergli bene e soprattutto di voler bene alla loro storia, alla loro famiglia naturale.
Questo non è sempre facile! Noi siamo una famiglia normalissima, con tanti limiti, e possiamo offrire semplicemente quello che siamo senza la pretesa di "salvare" nessuno e ogni tanto siamo scoraggiati per la fatica e la difficoltà che comporta accogliere un bambino che porta con sé un vissuto difficile!
A volte le ferite sono così profonde che non si possono sanare. Accogliere un estraneo in famiglia comporta il coinvolgimento totale di tutti: crediamo che anche ai nostri figli possa servire, per la vita, l’esperienza di far entrare nella propria camera altre persone che non siano i fratelli naturali e di accorgersi che non tutti hanno avuto ciò che hanno ricevuto loro.
Il rapporto con la famiglia d'origine, in alcuni casi, è forse il problema più grosso e anche con i servizi sociali non è sempre facile collaborare.
Ci possono essere affidi lunghi un mese, un anno, due... l'importante è offrire loro quello che si è senza aver paura di soffrire e di mostrare le proprie incapacità.
L'affido è anche saper lasciare andare i bambini quando è ora, ma questo ci è chiesto anche per i nostri figli naturali: neanche loro sono nostri!
Insomma quando la sera io e mio marito ci mettiamo a letto pensiamo con gratitudine a questa esperienza che, nonostante i momenti difficili (e ce ne sono stati!), ha trasformato la nostra casa. E un grazie va anche a tutti gli amici che ci accompagnano e condividono con noi questa avventura!
Silvia e Walter
METTERSI AL FIANCO
Farsi carico, tra più famiglie, di un'altra famiglia
La nostra famiglia ha contribuito a dare vita in parrocchia al Gruppo Affidamento, nato in modo spontaneo nel 1989, e che ha instaurato un buon contatto con i servizi sociali della Circoscrizione. Un'assistente sociale, un giorno, ci ha sottoposto il caso di una ragazzina del primo anno di un istituto professionale: il padre morto, la madre all'ospedale e lei che doveva badare ai tre fratellini più piccoli.
Da un colloquio dell'assistente sociale con la ragazza emerge ben altra realtà: il padre è vivo, fa il muratore ma sovente torna a casa ubriaco e per lei è "come morto"; la madre è in ospedale psichiatrico dopo il quinto tentativo di suicidio; lei si trova a vivere il ruolo di vicemadre perché è femmina ed è la più grande; infine ha paura perché tra una settimana sua madre tornerà a casa e andrà "guardata a vista". Non sono poveri, abitano in un appartamento di proprietà ma il mutuo è diventato un’ossessione.
Perché l'assistente sociale ha coinvolto proprio noi? Il caso è molto complesso; vanno coinvolti diversi operatori e tutti devono collaborare verso lo stesso obiettivo: recuperare il padre e la madre al loro ruolo di genitori. Per i bambini potrebbe essere utile l'affidamento familiare: occorre trovare la famiglia "giusta".
L'idea che nasce all'interno del gruppo è di un affidamento a domicilio: anziché allontanare i figli affiancare alla famiglia una o più persone esterne. Si tratta di un affidamento diurno di quattro minori e dell'accompagnamento della madre a riprendere il proprio ruolo.
L'affidataria sarò io, casalinga e con una figlia maggiorenne, e potrò contare sul sostegno di tutto il gruppo. Ma sarò un'affidataria molto particolare: il mio compito sarà di sostenere la mamma nell'accudimento e educazione dei figli e nelle faccende domestiche.
Condividere il tempo, i lavori e l'accudimento dei figli con qualcuno ha permesso alla mamma di raccontarmi le sue angosce: il mutuo, i quattro figli, il marito fuori casa fino la sera tardi, i problemi legati all'adolescenza dei primi due figli.
Io ho sempre ascoltato, le facevo sentire che la capivo, che condividevo il peso dei suoi problemi; cercavo di infonderle fiducia e le garantivo il mio sostegno.
Dopo sei mesi ho iniziato a ridurre la mia presenza, dopo due anni la famiglia era risuscita a ritornare autonoma.
Il rapporto attuale è di fiducia e di riconoscenza da entrambe le parti, non assolutamente di dipendenza; sia io sia il mio gruppo riconosciamo di avere imparato molto. Anche la mia famiglia mi ha molto sostenuta, mi ha incoraggiata e accolta nei momenti di delusione.
Quella mamma ora non prende più psicofarmaci e gode di buona salute.
La cura è stata la solidarietà e la creatività di un'assistente sociale in collaborazione con un gruppo di famiglie affidatarie: insieme abbiamo realizzato un modo nuovo di fare affidamento.
Chiara e Davide
DARE UNA FAMIGLIA AD UN’ALTRA FAMIGLIA
Un tipo di affidamento un po’ speciale
Portavo il mio ultimo nato al nido e sovente incontravo una signora nigeriana che vi portava la figlia di 18 mesi.
Questa mamma era praticamente sola, lavorava per vivere in una Cooperativa ma non aveva un orario regolare. Due o tre giorni la settimana usciva dal lavoro alle 19.30, ma il nido chiudeva alle 17,30.
Ero stata una mamma affidataria e allora mi offrii di tenerle la bimba nei giorni in cui usciva dopo.
Di fronte a questa disponibilità, l’educatrice del nido ci mise entrambe in contatto con l’assistente sociale che a suo tempo aveva fatto la segnalazione al nido.
Venne così avviato nei nostri confronti il progetto “Dare una famiglia ad un’altra famiglia”, progetto estremamente utile in quanto la donna era in gravi difficoltà relazionali col padre della figlia.
La mamma nigeriana ora è serena. Sa che può contare, oltre che sui Servizi, anche sulla nostra famiglia: le teniamo la bimba quando esce più tardi, l’aiutiamo nelle sue difficoltà, ascoltiamo le sue preoccupazioni... Si sente meno sola e questo nostro paese ora le sembra un po’ meno straniero.
Maria
OLTRE IL PESO DELLA BUROCRAZIA
Vivere il dolore, la rabbia e il bisogno di essere amati
dei bambini che vivono in comunità
L’aspetto che ha segnato di più la nostra esperienza di adozione internazionale è stato l’aspetto burocratico, inteso in modo esteso.
Si tratta di quella trafila che porta ad ottenere l’idoneità all’adozione: assistenti sociali, psicologi, medico legale, visite a casa, e poi carte, documenti, ecc.
Alla fine di tutto questo niente idoneità: per loro eravamo una coppia troppo unita e il bambino avrebbe scombussolato i nostri equilibri.
Inoltre avendo entrambi avuto problemi di salute durante l’infanzia, se ci fosse capitato un bambino malato saremmo potuti ripiombare nelle nostre remote problematiche, secondo loro non ancora psicologicamente risolte, e questo avrebbe compromesso la nostra capacità di prendercene cura.
Ci siamo sentiti non capiti, fraintesi e siamo rimasti molto abbattuti. Ma il nostro desiderio di genitorialità non poteva spegnersi così, solo perché altre persone lo avevano deciso.
Abbiamo presentato ricorso tramite un avvocato alla Corte d’Appello e, dopo diversi colloqui con il giudice e un’altra indagine psicologica da parte di una professionista incaricata direttamente dal tribunale, l’idoneità è arrivata.
Utilissima per la nostra crescita si è rivelata l’attività di volontariato, suggeritaci dal giudice, svolta presso una comunità che accoglie minori allontanati per vari motivi dalle famiglie. Questa esperienza ci ha permesso di vivere il dolore e il bisogno di essere amati di questi bambini.
Allora è iniziato un secondo cammino per accedere all’adozione internazionale e, quando ci hanno proposto l’abbinamento con il bambino, è cominciata un’altra corsa contro il tempo, tutta una serie di documenti, un’infinità di visite mediche, il tutto da tradurre e far autenticare, e poi due viaggi in Russia, ecc.
È stata per noi una gestazione che è durata anni e che, a differenza di quella biologica, viene vissuta nello stesso modo da entrambi i futuri genitori.
Sicuramente, al contrario di quanto sentenziato all’inizio, il fatto di essere una coppia unita ci ha permesso di sostenerci a vicenda nei tanti momenti di sconforto e i nostri passati problemi di salute ci hanno permesso di comprendere meglio lo stato d’animo di un bambino che avesse bisogno di cure mediche.
Questo ha fatto sì che noi da subito abbiamo sentito come nostro figlio quel bambino che ci è stato proposto, seppure con un handicap fisico.
Personalmente ho colto un certo arbitrio da parte di che è chiamato ad interpretare la legge. Venendo a contatto, tramite l’ente che curava l’adozione internazionale, con altre coppie (noi siamo di Torino e molte erano di Milano) ci è sembrato che in Lombardia, ad esempio, le cose fossero “più facili”, vi fossero meno pregiudiziali verso le coppie che aspiravano all’adozione.
Laura e Alberto
UNA SORELLINA PER GIACOMO
Anche se, come genitori adottivi, ci sentiamo sempre sotto esame
Quattro anni fa abbiamo adottato tramite l’adozione internazionale, Giacomo, un bambino polacco che ora ha 7 anni. Durante la fase di ottenimento del decreto di idoneità avevamo dichiarato che eravamo disponibili ad adottare un bimbo con “rischio sanitario lieve”, ossia un bambino con problemi di salute fisica.
Abbiamo ricevuto la proposta di abbinamento con Giacomo che ha un'emiparesi sinistra, una patologia neurologica importante. Avremmo potuto non accettare l'abbinamento, ma lo abbiamo scelto perché abbiamo capito dalle relazioni che lo descrivevano, che Giacomo era un bambino speciale: intelligente, sensibile, volitivo e con una gran voglia di vivere ed amare.
Quando siamo andati a prenderlo in orfanotrofio, dove era stato accolto a partire dal quarto giorno di vita, muoveva poco la mano sinistra e non era capace di sollevare la gamba sinistra, per cui camminava trascinando il piede.
Rientrati in Italia abbiamo potuto curarlo, stimolarlo e farlo seguire in maniera adeguata e così, grazie alla sua straordinaria voglia di riuscire, ha fatto progressi incredibili ed insperati a detta degli stessi medici.
Diventare genitori di Giacomo è stato per noi la cosa più bella che abbiamo fatto nella nostra vita. Non possiamo negare però che il traguardo per arrivare a lui è stato raggiunto attraverso un percorso molto duro, lungo e faticoso. L’iter adottivo è stato molto gravoso.
Il Tribunale dei Minori di Torino è particolarmente severo nella valutazione delle coppie: circa la metà delle coppie richiedenti non ottiene il decreto di idoneità e la fatica del percorso o, ancora peggio, l'insuccesso arriva talvolta a segnare o separare le coppie.
Questo può accadere quando l'inidoneità all'adozione viene imputata, dai servizi sociali o dal Tribunale, ad uno solo dei due partner. Se la coppia non è più che solida, questo fatto può mettere in profonda crisi la relazione.
Altro elemento critico dell'adozione è il fatto che la genitorialità adottiva venga considerata sempre soggetta a controllo.
I genitori adottivi, anche se legalmente tali per il proprio figlio, restano sempre sotto esame; ogni comportamento o richiesta difforme da quanto deciso dai servizi sociali li rimette in discussione nelle proprie competenze genitoriali.
Nonostante tutte le difficoltà abbiamo iniziato nel 2012 un secondo percorso adottivo, altrettanto duro. Abbiamo ottenuto il secondo decreto di idoneità ed aspettiamo l'abbinamento con una bimba che arriverà dall'Etiopia. Ora siamo pronti a dare una sorellina a Giacomo.
Marina
UN’ADOZIONE IMPEGNATIVA
Quando non si è un bambino desiderabile
Abbiamo adottato Alberto a 7 anni, ora ne ha 20. Era un bambino italiano adottabile a “rischio giuridico” poiché aveva comunque dei parenti da cui era stato tolto. Dei suoi 7 anni 4 li aveva passati in comunità. Non era un bambino desiderabile, soffriva di una grave forma di sordità ma non solo (anche se gli altri handicap sono emersi solo col tempo).
Trascuratezza, abbandoni, sordità hanno profondamente segnato la sua vita creando a lui e a noi grosse difficoltà, che si sono accentuate con l’arrivo dell’adolescenza. Anche se frequenta la scuola, con qualche fatica, e l’oratorio Alberto è un po’ tagliato fuori; è sempre lì che spera nella chiamata di un amico per uscire con lui. La sua enorme sete di relazione lo porta a chiedere a chiunque di essere suo amico. Quasi sempre incontra una chiusura, a volte qualcuno se ne approfitta, rare volte viene accettato.
Non siamo mai tranquilli quando è fuori casa da solo, sappiamo che da un momento all’altro può arrivare una telefonata e dobbiamo intervenire subito, abbandonando il lavoro e ogni altra occupazione.
Il fatto è che gli vogliamo un “bene dell’anima”.
Il nostro grosso problema è ora il suo futuro, è probabile che avrà sempre bisogno di qualcuno e noi invecchiamo.
Alberto chiede di aggiungere una cosa: "non avete detto che sono un tipo in gamba e che ce la sto mettendo tutta". È vero: noi qualche volta ce lo dimentichiamo!
Laura e Romeo
ESSERE FAMIGLIA SENZA CONFINI
Il Paese da cui arrivano i nostri figli fa parte della famiglia
Accogliere un bambino nato da "altri" è un’avventura strabiliante, un’esperienza ricca di continue emozioni e di sentimenti intensi che cambiano per sempre la vita di una coppia. Del resto accogliere un figlio è sempre così: i figli, di pancia o di cuore che siano, cambiano le priorità e le dinamiche. Ancora di più se sono figli di cuore, nati in Paesi lontani, che portano con sé una parte del loro Paese di origine insieme alla loro storia, fatta spesso di sofferenze e privazioni.
Quando una coppia comincia a percorrere la strada dell'adozione internazionale è piena di aspettative, ma anche di preoccupazioni e di interrogativi.
Il tempo dell’attesa è lungo e durante questo periodo, fatto anche di lungaggini burocratiche, di esami medici e psicologici, il cuore di mamma e papà "cresce" per accogliere il loro piccolo. Cresce proprio come il cuore di una mamma di pancia che aspetta di abbracciare il suo piccolo per la prima volta.
Le mamme di pancia attendono più o meno nove mesi, le mamme di cuore generalmente aspettano alcuni anni.
Anni in cui si incontrano altre famiglie che hanno vissuto la stessa esperienza e ora che ce l'hanno fatta, sono lì sorridenti, magari un po' stremate ma insieme al loro figlio, con gli occhi a mandorla, la pelle più scura, ma che comunque si somigliano.
Anni in cui si fa spazio nel proprio cuore anche al Paese del mondo dove si andrà ad accogliere questo bambino. Un Paese che anch'esso verrà a far parte della famiglia, che si imparerà a conoscere attraverso il cibo, i colori, i sapori, gli odori, i suoni... perché diventino di casa!
Sono cose grandi che paiono umanamente impossibili se non fosse per un "DD", un Disegno Divino di cui scopriamo solo un pezzettino alla volta, che spesso non si capisce, che tante volte vorremmo che fosse diverso, ma che intravediamo essere parte di un Progetto in cui siamo chiamati.
Finalmente, dopo gli intoppi e i falsi allarmi, ma anche dopo tanti incontri belli e luminosi, le letture per approfondire, le notti insonni passate a parlare e a sognare ad occhi aperti ad immaginarsi il futuro insieme, un giorno arriva la telefonata: "c'è un bambino che ha bisogno di voi, si chiama ..." Da qui cominciano le sfide: dai preparativi per l'incontro, per il viaggio e poi finalmente l'incontro, il sospirato incontro; sarà un abbraccio, un incontro di sguardi, un sorriso all'in giù, un terrore allo stato puro... Qualunque cosa sarà, da adesso niente potrà mai separarci e ogni cosa si affronterà insieme un passettino alla volta e... caro mio, da ora mamma e papà si impegneranno ogni giorno a farti diventare grande!
Il tempo continua a trascorrere, dopo l'adattamento e l'attaccamento inizia l'inserimento nella famiglia allargata, e poi fuori casa, nella scuola, tra i pari.
Il racconto della storia della nascita della propria famiglia "multicolored" suscita sempre tante reazioni nelle persone e ci si deve confrontare con una realtà che non sempre è così preparata ad accettare le diversità.
La diversità come valore positivo, la multiculturalità come ricchezza, accogliere l'altro per quello che è, sono valori ancora poco diffusi nella nostra città. Così ecco profilarsi altre sfide imponenti, come conquistare l'amicizia vera di un compagno, farsi accettare per quello che si è provando a sfatare luoghi comuni vecchi come il mondo, ma che fanno male se non addirittura paura.
Per nostro figlio saranno esperienze belle e meno belle, tutte da affrontare con la temperanza e con il coraggio che vengono dall'amore di mamma e papà, ma soprattutto con la consapevolezza che il Signore lo ha benedetto conducendolo, piccolo e indifeso, attraverso "boschi bui", fino a noi per essere famiglia insieme.
Antonella e Eugenio
FAMIGLIA, TRA DESIDERIO E REALTÀ
E noi che sognavamo di fare una bella squadetta di calcio!
Siamo in quattro in famiglia, ora, e nessuno ha somiglianze fisiche con l'altro, il legame non è quello di sangue ma siamo saldati da un legame speciale e, per noi, meraviglioso: quello adottivo!
Se ora questa è la nostra realtà, la nostra storia - come tutte le storie che si rispettino -inizia con dei sogni in comune, precisi e belli! Siamo una coppia di "ex fidanzati sposati 18 anni fa", che avevano come sogno quello di formare una famiglia numerosa, ricca di bimbi… una bella squadra di calcetto!
Il Sogno era comune, preciso e molto bello, ma poiché "non tutte le ciambelle riescono col buco" pure la nostra coppia ha incontrato, tra le varie difficoltà, proprio quella di non riuscire a concepire biologicamente la vita. Difficoltà che ci ha messo a dura prova, perché mai avremmo immaginato sarebbe capitato proprio a noi.
Perché stava succedendo proprio a noi? Noi che avevamo promesso fedeltà e collaborazione nella trasmissione della vita proprio a quel Dio che ci aveva pensati assieme?
Col senno di poi, se Lui non avesse creduto nelle nostre possibilità, non ci avesse fatto incontrare le persone giuste al momento giusto e non ci avesse dato la mente aperta per ascoltarle, probabilmente ci saremmo impauriti e non avremmo fatto il "salto" nell'Oceano dell'adozione!
Ci saremmo fermati al destino che voleva così. Ma Dio che è attento ai suoi figli grandi e piccini, ci ha dato di poter essere suo (misero) strumento per accogliere i suoi figli più piccoli bisognosi di una mamma e di un papà.
Certo, per capire questo ci é voluto un anno, e... tante lacrime, tante speranze, tanto dialogo, tanti silenzi, tante solitudini, tante domande delle persone intorno, ma quando abbiamo capito che donare la vita significa essere fecondi non solo biologicamente, ma anche spiritualmente ci siamo incamminati in percorsi belli e generosi versi gli altri, che hanno a loro volta riempito la vita a noi.
Così lanciati abbiamo fatto il percorso adottivo nazionale e dopo 3 anni ed 8 mesi é arrivato Simone! Quando lui aveva un anno abbiamo inoltrato la seconda domanda di adozione nazionale e, fatto l'iter burocratico necessario, dopo 5 anni é arrivata Isabella. Sono due Tesori, che il Signore ci ha voluto affidare.
Se inizialmente pensavamo "Saremmo riusciti ad amare veramente dei figli non concepiti da noi?" ora che i bimbi sono con noi ci poniamo l'altra domanda "Ma saremmo stati capaci di amare i figli concepiti da noi, tanto quanto amiamo questi due bambini avuti in dono?".
TERZA PARTE: PREGARE CON LA SANTA FAMIGLIA
Ogni famiglia è chiamata ad essere immagine della famiglia di Nazareth
L’ICONA DELLA SANTA FAMIGLIA
Dio si fa carne e prende dimora nelle nostre famiglie
Alla luce della fede
Non è necessario essere credenti per essere famiglia affidataria.
Anche noi all’inizio della nostra esperienza di famiglia affidataria non abbiamo scelto di “accogliere” perché il Vangelo ci rendeva sensibili ai bisogni del prossimo ma semplicemente perché un ragazzo aveva bisogno di noi, e noi come adulti pensavamo di doverci occupare di ogni minore che privo dei genitori avesse bisogno di qualcuno che in amore e autorevolezza li potesse sostituire, per poco o tanto tempo.
Col passare degli anni però ci siamo accorti che avere una fede, leggere le nostre scelte alla luce della Parola, all’interno di una comunità che cerca di seguire il Signore, ci regalava una pienezza di vita che altrimenti non avremmo conosciuto.
Per questo motivo vi voglio proporre la lettura dell’Icona della Santa Famiglia contemplata alla luce della Parola e della ricchezza donata dall’esperienza dell’accoglienza.
L’icona della Santa Famiglia
Contemplando l’icona mi metto alla presenza del Maestro e mi lascio ammaestrare da lui, ascolto cosa mi suggerisce, la Parola che mi dice.
Ho nel cuore un profondo desiderio: avere negli occhi lo stesso sguardo che Gesù ha quando guarda i miei ragazzi, sono preziosi ai suoi occhi, per questo li ama, sono il suo tesoro.
Al centro dell’icona c’è Gesù.
È l’invito a mettere al centro l’altro, ad entrare in relazione, come Gesù con i discepoli di Emmaus.
Ti guardo, figlio, con sguardo buono e ti ascolto come se in questo momento fossi la mia unica occupazione. Ogni mio gesto educativo ti mette al centro perché sei persona. Ti voglio bene, voglio il tuo bene, non solo te lo dimostro ma so che tu hai anche bisogno che te lo dica.
Circondare d’amore
Gesù circondato dalle figure di Giuseppe e di Maria, quasi avvolto dalle loro persone ci invita ad avvolgere dello stesso calore, a circondare d'amore ciascuno dei "nostri" figli perché sentano e facciano esperienza di come sia dolce e potente l'essere amato, di come sia fonte di pace e di gioia, di quanta Grazia c'è in ogni parola e gesto d'amore, così da essere capaci di amare come Lui ci ha amato.
Quando ti esprimo il mio affetto è come se accendessi il motorino di avviamento del tuo cuore. Allora la tua volontà funziona meglio.
Ti rendi conto che la realtà attorno a te non è fatta solo di “è giusto, devo, è faticoso o doloroso” ma… “è bello, è attraente, è bene!”.
La Santa Famiglia mi suggerisce che comunicare nell’amore è vera libertà.
Tutte le volte che ti sussurro all’orecchio una parolina di incoraggiamento o ti dico “Sei bravo” so che ti fa bene, che aumenti la fiducia in te stesso. La consapevolezza di essere “cosa molto buona” ti fa essere ragazzo libero che risponde alla chiamata della vita.
La consapevolezza di essere prezioso agli occhi di Dio e dell’altro ti permette di sopportare i nostri e i tuoi difetti fino a vederli con occhi buoni, accettarne i limiti e gustarne le ricchezze.
Tu, figlio, hai bisogno di me ed io di te, in un gioco empatico comunichiamo.
Circondarti d’amore prende forza dalla capacità di empatia, di sentire in me il tuo dolore e lasciarmi toccare dalla tua sofferenza, da quello che tu senti, senza giudizio ma nel rispetto della tua persona.
Mi metto nei tuoi panni, in sintonia con te desidero starti accanto e con te affrontare le esperienze di lutto, di separazione, tristezza e distacco.
Mani che indicano e offrono
Maria porta sul braccio destro il bambino, che a sua volta posa teneramente le mani nella mano di sua madre. Giuseppe ha una mano appoggiata sulla spalla di Maria e con la mano destra indica Gesù.
Le mani di Maria e Giuseppe indicano Gesù: "È Lui la Via, la Verità e la Vita". Volete essere beati? Ascoltatelo. "Fate quello che Lui vi dirà".
Ma nello stesso tempo le mani di Maria e Giuseppe offrono Gesù al Padre, fin dal giorno della presentazione al tempio, davanti al vecchio Simeone. È un invito rivolto a noi genitori ad offrire continuamente i "nostri" figli al Signore, nella preghiera, nella fatica, nella gioia tendendo sempre ad aiutarli per essere le persone che Dio ha in mente dall'eternità, secondo il progetto che ha su ciascuno di loro.
L’atteggiamento delle mani che indicano e offrono mi fa riflettere sui valori che ti comunichiamo attraverso la vita. Chi ti indichiamo? Come ti sosteniamo?
So che ciò che rende la mia vita armonica e felice è vivere ciò che penso e dico.
È un invito a stare attenta per prendere il tuo cuore e aiutarti davvero.
I valori più che essere proclamati vanno creduti e vissuti. I ragazzi per crederli devono vederli proclamati da persone credibili.
Allora penso che solo vivendo fino in fondo la relazione con chi è intorno a te, potrai scoprire valori che ti possono attrarre in funzione della tua vita. Non basta una mamma, serve anche un papà.
Io e papà vorremmo che tu possa dire nel profondo del tuo cuore: “Voglio essere come…, che bello, mi attrae!”
Le mani che offrono mi parlano di preghiera, di tutte le volte in cui presentiamo o presento al Padre la nostra storia, la mia e la tua vita, in cui chiedo perdono per le mancanze d’amore, lodo per i momenti intensi che viviamo e i doni che ci arricchiscono, chiedo aiuto per le grosse difficoltà.
È stare col Signore, seduta ai suoi piedi mentre faccio la sua volontà, cercando di essere sincera nella storia di tutti i giorni.
E quando non ti posso apertamente parlare di Lui, parlo a Lui di te.
Il colore giallo
Nell’iconografia il giallo, in genere, è il colore che si dà agli evangelisti o a chi annuncia la buona novella. È il colore del manto di Giuseppe, che mi parla di evangelizzazione, mi sollecita a continuare a credere che, nel nostro essere genitori, c’è anche questo ministero.
La prima evangelizzazione, la prima formazione umana avviene in famiglia.
Il primo intervento educativo è crescere nella capacità d’amare.
Noi evangelizziamo se nella quotidianità camminiamo insieme nell’autenticità della nostra storia, amando.
Aureole
Le aureole poste sul capo dei tre personaggi mi parlano della chiamata alla santità, siamo un popolo di santi, già beati perché in comunione.
Mi parlano di un amore che richiede un cammino di impegno e sacrifici, che mi chiama ad essere serio con me stesso per continuare a crescere con te.
È il richiamo ad essere un buon marito ed una buona moglie, ad amarci con entusiasmo senza fermarci, a ridirci il nostro sì ogni giorno, nella buona e nella cattiva sorte finché finalmente sarà amore totale, festa senza fine alla presenza della Trinità.
Far comunione tra noi è essere in Dio.
Una buona relazione non elimina gli aspetti caotici più faticosi ma dà senso all’esistenza.
Acquistiamo un po’ alla volta la nostra identità di persona e diventiamo capaci almeno un po’ di cogliere l’identità degli altri. Anche tu, sai, sei creato ad immagine di Dio ed essere santo è camminare giorno per giorno tenendo davanti la persona del Cristo, la sua Parola, per diventare somigliantissimo a Lui.
Angeli
Ai lati in alto sono raffigurati due angeli, Michele e Gabriele; gli angeli sono stati sempre presenti nella vita della santa famiglia. In particolare contemplandoli in me riecheggia la parola di Dio, dalla lettera agli Ebrei (13,2): “Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”.
Accogliendo l’altro accolgo un dono di Dio, ogni persona che accolgo è Lui stesso che mi visita con i suoi doni, mi regala la vita nuova, una vita animata dallo Spirito.
Tu, l’altro, siete angeli mi portate la buona novella, indispensabile per la mia conversione.
Solo entrando in relazione con te io cresco, accogliendoti cresco nella comunione.
Quando penso e credo di darti qualcosa sei tu invece che vieni a salvare la mia umanità.
Qui sta la vocazione di ogni famiglia, generare e umanizzare la società.
Siamo una parte di storia e questa ci chiama a dare il nostro contributo.
La nostra famiglia è storia di salvezza… e in questa storia anche tu sei parte attiva, indispensabile.
Dio benedice
Al centro, in alto, vediamo la sfera celeste, contiene lo Spirito Santo sotto forma di colomba, da cui partono tre raggi che indicano la presenza della Trinità che dice bene della Santa Famiglia, delle nostre famiglie.
Contemplando Dio Padre che dall’alto ci benedice mi commuovo, c’è sempre un Padre buono che mi scrive sul palmo della sua mano, per lui sono l’unica preoccupazione, sono il suo tesoro.
Anche se mia madre mi dimenticasse…
Questi raggi mi invitano a benedirti sempre, a non etichettarti, rinchiudendoti in schemi rigidi, tu puoi cambiare, stai già cambiando.
Voglio mettermi nei tuoi panni per aiutarti a dare alle “cose” che vivi il loro nome e leggere insieme dal di dentro i tuoi bisogni. Desidero avere l’elasticità sufficiente per incontrare la tua realtà e dire bene di te già nel mio cuore.
Maria Grazia Mussi
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