LA
SCUOLA COME VITA
Siamo in una scuola superiore slovena, paese europeo al terzo posto nel mondo
per numero di suicidi. Un suicidio avviene anche in questa scuola, e capita
proprio quando vi è l’inserimento di un nuovo professore di tedesco in
sostituzione dell’insegnante che entra in maternità. Egli, il prof. Zupan, è
anche coordinatore di una classe molto variegata per temperamenti e attitudini.
A lui compete di annunciare che Sabina non c’è più e di traghettare la classe
nelle fasi del lutto.
In questo sentiero assai tortuoso ci sono loro, gli studenti del 21° secolo, la
preside che ci ricorda che siamo in un tempo tutto particolare per l’educazione,
i colleghi insegnanti, la docente di ruolo in maternità, i genitori e lui, il
prof. Zupan, uomo di ghiaccio, ma non agghiacciante.
La divisione del film in tre parti ci aiuta ad evidenziare alcuni sviluppi che
rendono il contesto scolastico descritto assimilabile anche ad altri ambienti
formativi di tipo asimmetrico.
Nella prima parte viene presentato il mondo di particolarismi di cui è fatta una
classe che diventano oggi, nell’era digitale, sipari esorbitanti di profili
spettacolari. Sebbene la docente, pronta per la maternità, ricordi al professore
entrante che, in realtà, tutti i giovani alunni sono particolari e non solo
quello che ha appena perso la madre, il collega appare mosso da un desiderio di
livellamento che dia un’obbligata omogeneità. Per il prof. Zupan la giovinezza
degli alunni non è per niente un’attenuante come lo è invece per lei. Sono due
epoche scolastiche a confronto, destinate a convivere nel film come nella
realtà.
Nella seconda parte, che prende avvio con la notizia del suicidio di Sabina
entriamo nell’arena della relazione educativa del 21° secolo. Poiché oggi le
emozioni per gli adolescenti fanno parte regolarmente del programma scolastico,
ciò che succede attorno alla classe è già la classe, un collettivo in cui i
sentimenti non vengono nascosti.
La morte di Sabina per i compagni non può essere un imprevisto trascurabile.
Il professore che, invece, vuole avanzare con il programma e il dolore da lui
affrontato senza la necessaria empatia, diventano per i ragazzi le prove della
sua colpa: è lui che, con il suo atteggiamento, l’ha indotta a compiere quel
gesto.
Se per loro non c’è pietà per il compagno che vive solo per lo studio anche di
fronte a questo gesto, men che meno ne hanno per un insegnante che annuncia
semplicemente che “la vita va avanti”.
Qui inizia il duello tra lui e loro, così forti entrambi delle loro idee da non
arrivare mai ad incontrarsi davvero. Iniziano le alleanze tra gli alunni che, di
fronte ai richiami della preside, si sciolgono come neve al sole, così come
quelle tra professori: tutti destinati ad essere indistintamente vittime e
attori nell’arena del conflitto. Nemmeno la docente di ruolo richiamata per
parlare con loro riesce a riaprire un canale di dialogo.
La terza parte è il tempo del disarmo in cui tutti rimangono inermi di fronte ai
personali vuoti del cuore e del pensiero. I più giovani sono costretti a
prendere atto che il professore non era un nazista come volevano dimostrare e
che le ragioni di un suicidio sono un sottobosco di rara comprensione come aveva
cercato più volte di suggerire il prof. Zupan, supportato dalle parole di Thomas
Mann.
I professori appaiono, invece, di fronte ad un fertile fallimento, incapaci di
assumerlo su di sé fino in fondo. In mezzo, non meno disarmati, tranne rari casi
evidenti sulla rispettiva crescita anaffettiva del figlio, ci sono i genitori.
La preside è l’arbitro eccellente, per ruolo, che tutto tiene insieme, in bilico
tra l’immagine della scuola da salvaguardare e la seria preoccupazione che
alunni e professori vengano entrambi rispettati.
Ma questi ragazzi sono insofferenti allo schema in cui tutto torna e
rimproverano con forza la mancanza di empatia, di ascolto e di bontà. Sono
pienamente figli di un’epoca in cui queste dimensioni hanno particolare
importanza tanto da sentirsi in diritto di pretenderle.
Class Enemy,
con la preziosa figura del professor Zupan, tutt’altro che catalogabile soltanto
come autoritario, impone di chiedersi se è possibile continuare a fare scuola
prescindendo dai “desiderata” degli alunni, in primis la condivisone delle
emozioni, e quali conseguenze essi impongano nelle relazioni educative e nel
metodo formativo.
Arianna
Prevedello
Tratto da Settimana, n.36 2014, sintesi della redazione
Vedi anche:
http://www.mymovies.it/film/2013/classenemy/