Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF89 – marzo 2016
VIVERE CON GIOIA E NELLA GIOIA
Riscopriamo la gioia quotidiana partendo dalla Evangelii gaudium
Lettere alla rivista
1-PER UN UMANESIMO “INTEGRALE”
Per non essere marionette in balia delle passioni
Non credo alla vita eterna e quindi le chiedo: vale la
pena fare sacrifici e rinunce in questa vita se poi tutto finisce? Non è meglio
godersela?
Nicola
Risponde mons. Giancarlo Grandis, Docente di Teologia
Morale del Matrimonio
La fede nella risurrezione è una risposta ad un precisa
promessa di Gesù: “Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e
crede in me non morirà in eterno” (Gv 11,25).
È su questa parola che la Chiesa e i cristiani credono alla
vita eterna, di cui questa su questa terra è solo preparazione.
La Resurrezione di Cristo è l’evento unico ed al tempo
stesso rivoluzionario non solo della storia dell’uomo ma dell’intera creazione.
San Paolo ci ricorda che su questa fede ci giochiamo tutto
il senso della nostra vita, perché “se Cristo non è risorto, vana è la vostra
fede” (1Cor 15,17).
Se non c’è una vita dopo la morte, allora credere sarebbe
la più drammatica “bufala” con la quale – secondo l’ateismo militante – il
cristianesimo da duemila anni continua a trarre in inganno la gente e probabilmente esso stesso
rimane intrappolato.
Se le cose stessero così, allora avrebbe ragione lei. Che
senso ha fare sacrifici per una realtà che non esiste?
Se il senso della vita sta solo nella propria biologia,
conviene accontentarsi di vivere solo di bisogni biologici, perché prima che
esistessi ero nel nulla e finito il ciclo biologico ritornerò nel nulla.
Il nulla è il solo orizzonte della vita.
Ma la nostra ragione non si rassegna a questo elementare
ragionamento. Essa continua a porci la domanda sul senso della vita.
E allora? Allora – diceva Pascal – bisogna scommettere
sulla fede nella vita eterna.
E concludeva: “Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso
che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se
vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque,
senza esitare, che egli esiste” (Pensieri, 233).
Per il cristiano, però, credere è più che una scommessa; è
una certezza che ha il suo fondamento in Gesù e nel suo messaggio di vita buona.
Una vita buona non significa mortificazione, rinuncia, ma
pienezza di vita, significa essere pienamente uomini e non marionette in balia
delle passioni.
grandis.giancarlo@gmail.com
Dialogo tra famiglie
2-CHE BELLO ESSERE INNAMORATI!
Ma poi bisogna crescere, imparare a “voler
bene”
Come è bello essere innamorati! Perché dopo anni di
matrimonio questo sentimento svanisce? Non sarebbe meglio vivere da eterni
fidanzati?
Samantha
Cosa vuol dire restare innamorati? Vivere nell’alone di
entusiasmo e poesia dei primi incontri, quando si “aspettava” di incontrarsi, ci
si agghindava nel migliore dei modi per essere affascinanti, ci si impegnava a
presentare i lati migliori del proprio carattere, a rinviare dissensi, a sperare
che, poi, sarà possibile cambiare nell’altro ciò che non ci piace?
Poi si diventa adulti, si passa dall’improvvisazione e
volubilità del sentire al voler bene, all’assumersi responsabilità reciproche,
al vedersi ogni giorno così come si è, ad affrontare scontri e impegnarsi a
risolverli.
È vero: essere innamorati è bello: l’amore nasce
dall’innamoramento, lo accompagna, lo nutre e rivitalizza nella misura in cui si
è imparato ad essere leali, veri, a sognare un futuro insieme ricco di
positività, in cui ci si impegna a mettere in gioco tutti i propri talenti in
favore dell’altro, dei figli, del mondo… altrimenti muore.
Muore o perché non abbiamo saputo coltivarlo o perché è
stato un’illusione, un’infatuazione, in un certo senso un autoinganno cui si è
dato credito senza valutarne radici e significato, come fanno gli adolescenti
che prima agiscono poi pensano agli effetti dei loro gesti… Il “fanciullino” che
vive in noi anche da vecchi è capace di mantenerci freschi, perché dalla fonte
dell’Amore sgorga continuamente acqua viva: a noi saperla bere!
Anna Lazzarini
Editoriale
3-Vivere con gioia e nella gioia
La gioia del Vangelo e di una vita buona
di Franco Rosada
Conosco da tempo padre Giordano Muraro, domenicano, che è
stato per molti anni un punto di riferimento dell’associazione Punto Familia di
Torino.
Mi ricordo che, anni fa, celebrando il matrimonio di una
coppia che aveva fatto il cammino prematrimoniale al Punto Familia, si espresse
più o meno così: “A questo punto dovrei augurarvi ogni felicità, come si fa in
questa circostanza, ma non lo faccio, perché è un augurio irrealizzabile”.
Mi colpì molto questa frase e gli chiesi di spiegarmela. E
mi rispose così: “Siamo portati a pensare che il matrimonio sia un’esperienza
che rende felici, ma la felicità non è nelle possibilità dell’uomo “pellegrino
sulla terra”, mentre è nelle sue possibilità fare un cammino insieme al partner
verso la felicità. Il matrimonio non è lo stato di felicità, ma è una strada
verso la felicità”.
Ecco perché in questo numero non si parla tanto di felicità
quanto di gioia.
Partiamo dalla gioia che ci può dare la nostra fede, se
fondata e vissuta nel Vangelo, come bene ci ha ricordato papa Francesco,
nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium e che fratel Enzo Biemmi riprende
e sviluppa, in modo anche provocatorio.
Proseguiamo dando la parola a Chiara Amirante, che ci
insegna come conquistare la gioia, quali sono le condizioni per essere persone
gioiose, serene, in ogni momento della loro vita, anche quando le prove ci
mettono a dura prova, come ci ricorda, subito dopo, padre Gasparino.
Da qui a parlare di coppia e di famiglia il passo è breve.
Ci aiutano in questo passaggio i coniugi Peluso e Mariorenzi, uno sessuologo e
l’altra ginecologa, che ci propongono un cammino di felicità per la coppia,
visto soprattutto dal punto di vista psicologico.
Ma come fare per insegnare ai figli far propria la nostra
gioia, a trasmettere loro la gioia del Vangelo?
Ci proviamo facendoci aiutare da Giuseppe Savagnone che,
prendendo le mosse dal documento CEI “Educare alla vita buona del Vangelo”, ci
propone una via “antica” e oggi poco proposta: quella delle virtù.
A questo punto come non riprendere una provocazione di papa
Francesco: “Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza
Pasqua”?
Chiudiamo quindi con una riflessione di don Ferretti sulla
“Evangelii gaudium” per imparare, dalle parole del Papa, come essere Chiesa che
vive e trasmette gioia.
Le ultime pagine sono dedicate al Collegamento tra Gruppi
Famiglia. Partiamo dal recente Sinodo dei vescovi per parlare poi di scuole di
formazione, servizio presso le parrocchie e terminiamo con un primo calendario
provvisorio dei campi estivi e il resoconto del bilancio 2015 dell’associazione,
che è tornato in rosso, un rosso molto “brillate” che richiede il vostro
generoso sostegno.
Questo sostegno non ci manca da parte delle coppie che
collaborano alla rivista, le cui testimonianze sulla gioia occupano le quattro
pagine centrali di questo numero.
formazionefamiglia@libero.it
P.S. Le foto di questo numero, salvo quando non
diversamente indicato, si riferiscono alla festa per il 25° della rivista di
collegamento che si è tenuta a Treviso il 20 settembre u.s.
4-IL “BELLO” DELLA FAMIGLIA
È urgente una nuova visione, un nuovo sogno, nel quale va
coinvolta anche la famiglia.
Per questo la famiglia non deve essere per la Chiesa
anzitutto un motivo di preoccupazione oppure un problema da risolvere.
La famiglia – fidandosi della Parola di Dio – è in primo
luogo la conferma della tenuta di una benedizione di Dio che abita la carne e
l'anima della creatura “somigliante” – uomo e donna – alla quale il Creatore ha
affidato e continua ad affidare il creato e la storia.
Il fatto che la famiglia continui ad essere motivo di
allegrezza, di commozione, di gratitudine, per un grandissimo numero di uomini,
donne e bambini, deve poter contagiare tutti.
Ogni giorno, in tutti gli angoli del pianeta, la Chiesa ha
motivo di rallegrarsi con il Signore per il dono di molte famiglie che, anche
nelle prove più dure, onorano le promesse e custodiscono la fede!
mon. Vincenzo Paglia
5-LA GIOIA DEL VANGELO
Con Gesù sempre nasce e rinasce la gioia
Nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore, perché
Egli perdona settanta volte sette.
Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima
senza Pasqua.
di papa Francesco*
1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera
di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono
liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento.
Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa
Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova
tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino
della Chiesa nei prossimi anni.
Una vita senza gioia
2. Il grande rischio del mondo attuale, con la sua
molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che
scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri
superficiali, dalla coscienza isolata.
Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non
vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la
voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita
l’entusiasmo di fare il bene.
Anche i credenti corrono questo rischio, certo e
permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente,
senza vita.
Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo
non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga
dal cuore di Cristo risorto.
Ritornare al Signore
3. Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione
si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o,
almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni
giorno senza sosta.
Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo
invito non è per lui, perché “nessuno è escluso dalla gioia portata dal
Signore”.
Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa
un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a
braccia aperte.
Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: “Signore, mi
sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono
qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te.
Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia
redentrici”.
Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci siamo perduti!
Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci
stanchiamo di chiedere la sua misericordia.
Colui che ci ha invitato a perdonare “settanta volte sette”
(Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci
sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che
ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare
la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può
restituirci la gioia.
Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai
per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge
in avanti!
La gioia dell’Attesa
4. I libri dell’Antico Testamento avevano proposto la gioia
della salvezza, che sarebbe diventata sovrabbondante nei tempi messianici.
Il profeta Isaia si rivolge al Messia atteso salutandolo
con giubilo: “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia” (9,2). E
incoraggia gli abitanti di Sion ad accoglierlo con canti: “Canta ed esulta!”
(12,6). Chi già lo ha visto all’orizzonte, il profeta lo invita a farsi
messaggero per gli altri: “Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a
Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme”
(40,9).
La creazione intera partecipa di questa gioia della
salvezza: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti,
perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri”
(49,13).
[…] Ma forse l’invito più contagioso è quello del profeta
Sofonia, che ci mostra lo stesso Dio come un centro luminoso di festa e di gioia
che vuole comunicare al suo popolo questo grido salvifico. Mi riempie di vita
rileggere questo testo: “Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore
potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida
di gioia” (Sof 3,17).
È la gioia che si vive tra le piccole cose della vita
quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: “Figlio,
per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice”
(Sir 14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole!
La gioia del Compimento
5. Il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cristo,
invita con insistenza alla gioia. Bastano alcuni esempi: “Rallegrati” è il
saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28). La visita di Maria a Elisabetta fa sì che
Giovanni salti di gioia nel grembo di sua madre (cfr Lc 1,41). Nel suo canto
Maria proclama: “Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore” (Lc 1,47).
Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni esclama: “Ora
questa mia gioia è piena” (Gv 3,29). Gesù stesso “esultò di gioia nello Spirito
Santo” (Lc 10,21). Il suo messaggio è fonte di gioia: “Vi ho detto queste cose
perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). La
nostra gioia cristiana scaturisce dalla fonte del suo cuore traboccante.
[…] Egli promette ai discepoli: “Voi sarete nella
tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16,20). E insiste:
“Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la
vostra gioia” (Gv 16,22). In seguito essi, vedendolo risorto, “gioirono” (Gv
20,20).
Il libro degli Atti degli Apostoli narra che nella prima
comunità “prendevano cibo con letizia” (2,46). Dove i discepoli passavano “vi fu
grande gioia” (8,8), ed essi, in mezzo alla persecuzione, “erano pieni di gioia”
(13,52).
[…] Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia?
La gioia nella prova
6. Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di
Quaresima senza Pasqua.
Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in
tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si
trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla
certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto.
Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le
gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che
la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche
in mezzo alle peggiori angustie: “Sono rimasto lontano dalla pace, ho
dimenticato il benessere … Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo
voglio riprendere speranza. Le grazie del Signore non sono finite, non sono
esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà
… È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lam 3,17.21-23.26).
Incontrare Gesù
7. La tentazione appare frequentemente sotto forma di scuse
e recriminazioni, come se dovessero esserci innumerevoli condizioni perché sia
possibile la gioia. Questo accade perché “la società tecnologica ha potuto
moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare
la gioia”.
Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto
nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a
cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a
grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente,
generoso e semplice.
In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte
dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi
stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro
del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una
grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla
vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”.
Comunicare la gioia
8. Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con
l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra
coscienza isolata e dall’autoreferenzialità.
Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che
umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché
raggiungiamo il nostro essere più vero.
Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se
qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può
contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?
*
Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n.1-8
Brani per la Lectio
• Isaia 9,1-6 Un bambino è nato per noi
• Isaia 12,1-6 Canto di ringrazia mento e di lode
• Sofonia 3,14-17 Canto di gioia per Gerusalemme
• Luca 10,21-24 Inno di lode
• Giovanni 16,16-24 La vostra tristezza si
cambierà in gioia
• Atti 8,34-39 Filippo e l’etiope
6-IL VANGELO DELLA GIOIA
Vivere la fede in pienezza
Noi riduciamo la fede alla morale e perdiamo la memoria
della gioia che ci ha raggiunto.
Un cristiano che pensa lascia in sé lo spazio del dubbio e
fa strada con i non credenti.
Di Enzo Biemmi*
Per parlare della fede ho scelto oggi una prospettiva:
quella della gioia. In questo sono in debito con papa Francesco, che ha scritto
una bella lettera ai cristiani intitolata: “Evangelii gaudium”, la gioia del
Vangelo.
Papa Francesco ha scritto: “La gioia del Vangelo riempie il
cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù” (EG 1). Ma ha anche
aggiunto: “Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza
Pasqua” (EG 6).
Perché alcuni cristiani vivono una fede senza gioia?
Due parabole maltrattate
Questo capita perché la fede, inizialmente vissuta come una
gioia, diventa con il tempo una realtà che perde interesse, fino a diventare
fastidiosa.
Nel vangelo secondo Matteo sono riportate due piccole
parabole, molto belle, quella del tesoro nascosto e quella dalla perla preziosa
(Mt 13,44-46).
A leggerle d'un fiato, l'accento cade per entrambe
sull'ultima espressione: “Va, vende tutti i suoi averi e compra...”. La
catechesi fa leva su questa constatazione. Per il Signore bisogna lasciare
tutto, la fede cristiana esige la radicalità della risposta.
Questa interpretazione morale è legittima, ma il perno
delle parabole è la scoperta del tesoro e della perla. È questa scoperta che
porta i protagonisti ad una totale disappropriazione per una nuova
riappropriazione.
Nella realtà noi riduciamo il Vangelo a una morale, perché
con il tempo lasciamo cadere la prima parte dei due racconti e teniamo solo la
seconda. Perdiamo la memoria della gioia che ci ha raggiunto, come può capitare
che si perda lo stupore e la gioia di un amore, e allora anche la vita a due
diventa una tristezza difficile da sopportare.
È quello che capita con la fede. La "buona notizia" si
riduce all'invito a un "buon comportamento". La fede diventa allora
prevalentemente una rinuncia alla propria pienezza di vita. Noi adulti abbiamo
ricevuto questa figura di fede e l’abbiamo trasmessa ai nostri figli: il
cristianesimo è una morale, ma come si fa ad essere felici con una fede ridotta
a morale?
Sei passaggi per una fede adulta
Vorrei allora provare a delineare come si possa pensare e
vivere una fede adulta, pensata e sensata, un cristianesimo desiderabile nel
contesto culturale attuale. Lo faccio attraverso sei passaggi.
Stiamo volentieri in minoranza
Come cristiani siamo tornati ad essere una minoranza, come
eravamo all'inizio. È finito il cristianesimo sociologico, è terminata, salvo
eccezioni, la trasmissione della fede per osmosi, nella famiglia, nella scuola,
nella società.
La cultura attuale infatti non trasmette più la fede ma la
libertà religiosa, la fede non è più sentita come necessaria per vivere
umanamente bene la propria vita.
Questo quadro apre per la fede cristiana una stagione
favorevole: la possibilità di un cristianesimo della libertà e della grazia.
Dopo la monocultura da cui veniamo, abitiamo volentieri la
biodiversità culturale e religiosa che ci è dato di vivere. Vogliamo essere, in
questa biodiversità, come il sale e il lievito.
Non vogliamo assolutamente essere "una minoranza contro",
prigioniera del risentimento e impegnata a criticare. Vogliamo essere una
minoranza "a favore", uno “scarto” fecondo dentro questa cultura.
Aderiamo a una fede gratuita, non necessaria, ma
determinante
Noi professiamo che al di fuori del Signore Gesù non c'è
salvezza, che egli è il salvatore di tutte e di tutti. Riteniamo allo stesso
tempo che lo Spirito della Pentecoste venga effuso nei cuori di tutti gli uomini
e non ai soli battezzati (cfr CCC 1257).
Siamo però convinti che ciò non collochi la fede cristiana
nello spazio del superfluo, ma del "più che necessario", del “di più” gratuito,
non necessario ma determinante. E crediamo che questa figura di fede sia
udibile, credibile e desiderabile in un contesto secolarizzato.
La nostra fede non è un sistema religioso o etico, ma
una storia
Ci affidiamo a una storia e non a una ideologia.
La nostra fede è, prima di tutto, una storia. Avere una
storia significa nel linguaggio corrente avere una relazione.
La fede cristiana è la storia di una relazione e di una
relazione in corso.
Dio ci viene incontro, ci sorprende, inizia una relazione,
con tutto quello che le relazioni di amore comportano, dai momenti felici alle
crisi, ai tradimenti, al perdono e anche qualche volta all'abbandono. Tutta la
Bibbia racconta questa storia, da Abramo fino agli Atti degli Apostoli.
Dio continua con noi a scrivere la sua storia di salvezza.
Le nostre vite sono i quaderni su cui Egli scrive il suo amore.
Ecco perché quando vogliamo parlare della nostra fede,
prima che argomentare, discutere, confutare, dobbiamo raccontare. Per presentare
la nostra fede abbiamo solo due parole possibili: "Eccolo", “Eccomi". Eccolo
come mi è venuto incontro; eccomi come mi ha trasformato, come provo ad
accoglierlo, come vivo la relazione con lui.
La nostra fede non ci rende più religiosi, ma
semplicemente più umani
La prova che la nostra fede è credibile, per noi e per gli
altri, è che gli altri leggano in noi una bella umanità, non una buona
religiosità.
Se la religione tende a estrarre dalla storia e rinchiudere
nel sacro, la fede cristiana invece riconduce alla storia e al compito di
renderla sempre più umana.
Questo criterio permette di vedere dove c'è fede nel Dio di
Gesù Cristo e anche dove non ce n'è. Là dove c'è un reale impegno per l'umano si
è dalla parte di Gesù Cristo e ci si lascia guidare dal suo Spirito.
Dovunque c'è disumanità non c'è fede cristiana. Non c'è
fede cristiana quando dentro la Chiesa non c'è rispetto, quando c'è abuso del
potere, quando c'è egoismo e carrierismo, ecc. Si può avere la bocca piena di
Cristo ma egli non ci riconoscerà, come dice inequivocabilmente il Vangelo: "Non
vi conosco, non so di dove siete" (Lc 13,25).
La fede è un salto di fiducia ma non siamo né creduloni,
né esaltati
La nostra fede regge intellettualmente, è sensata.
Abbiamo detto che il miglior racconto evangelico è la
qualità della nostra umanità. Ma vanno anche trovate le parole per dire la fede
in modo sensato, pensabile, plausibile, desiderabile. Soprattutto vanno evitate
le parole che deformano il volto di Dio. Noi onoriamo l'intelligenza della fede.
Sappiamo che questa da sola non basta, che bisogna metterci
cuore.
Ma sappiamo anche che una fede solo emozionale, che non
regge all'argomentazione non è sostenibile.
Bisogna riconoscere che le nostre catechesi sovente mancano
di pensiero e anche di capacità di dubbio.
Un cristiano che pensa lascia in sé lo spazio del dubbio e
fa strada con i non credenti, considerandoli degli alleati preziosi che lo
aiutano a liberarsi non di Dio, ma delle immagini di Dio distorte che sono degli
idoli.
Essere credente non significa smettere di pensare, anche di
dubitare.
Prima di tutto delle nostre rappresentazioni di Dio, che
tendono a costringerlo nei nostri schemi, lui che è sempre altro.
E talvolta anche di dubitare di Lui.
Sembra paradossale, ma noi diamo ragione della fede che è
in noi testimoniando che siamo credenti in ricerca, aperti.
Testimoniamo il Vangelo con uno stile evangelico
Non lo facciamo né per proselitismo, né per chissà quale
altra missione. Semplicemente perché siamo contenti di farlo.
Noi non annunciamo la fede né per proselitismo né per
necessità di salvare gli altri (Dio sa trovare le sue strade misericordiose per
far raggiungere la sua salvezza a tutti e a tutte).
Noi lo annunciamo nella debolezza e semplicemente per la
nostra gioia, “perché la nostra gioia sia piena” (1Gv 1,4), e non sarà piena
fino a quando tutti non potranno godere della grazia che ci ha raggiunto.
Testimoniamo la fede per la gioia che proviamo nel viverla
e per fare un regalo a chi lo desidera.
Il rischio bello della fede
Quanto ho provato a dire sulla nostra fede ci rende, penso,
molto gioiosi di avere una fede così. E sono anche convinto che una fede così
riavvicinerebbe alla Chiesa molte persone. Pur tuttavia la fede rimane un
rischio, un bel rischio che però vale la pena correre.
Rimane un rischio, perché è dell'ordine della promessa e
non della certezza, come la maggioranza delle relazioni che viviamo tra di noi.
È la sua bellezza, cioè la sua qualità umana, a renderla vera, plausibile,
pensabile, desiderabile. Per noi e per gli altri.
La sua bellezza, intesa come dono che rende buona la vita,
è la dimostrazione ultima che ne fa una "promessa che non delude", cioè una
certezza basata su una ragionevole speranza.
La cosa più triste che mi capita di sentirmi dire da
qualche amico cristiano, è questa: “Certo che se non è vero abbiamo preso una
bella fregatura”. Questa mentalità segnala una figura di fede terribile. Sarebbe
un sacrificio da vivere su questa terra, una rinuncia alla nostra umanità,
ricompensata però dall'altra parte. Altro che vangelo, "bella notizia".
Noi crediamo semplicemente perché questo ci rende umani. Ci
rende umani nella nostra debolezza.
Queste parole sono un forte invito a rimanere in ricerca, a
non chiudere la nostra vita nella prospettiva di questo orizzonte terreno.
* Conferenza del 20 novembre 2014, Istituto Sacra Famiglia,
Torino. Sintesi della redazione.
7-E GIOIA SIA!
Il segreto per la felicità
Di Chiara Amirante*
E gioia sia! E che sia piena sempre!
Sì, perché è questa la meravigliosa notizia che il Verbo di
Dio, Colui che è Amore, è venuto a portarci: siamo chiamati alla gioia, siamo
chiamati a vivere la vita in pienezza!
C’è una frase del Vangelo che mi ha raggiunto come una
folgorazione: “Vi dico queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra
gioia sia piena” (Gv 9,11).
E mi sono chiesta: se il Signore del creato ci ha amato al
punto di versare il suo sangue divino per rivelarci quanto immensamente ci ama e
donarci il segreto della gioia, come è possibile che la maggior parte delle
persone e dei cristiani sia triste, depressa, spenta?
Uomini di poca fede…
Credo che in troppi casi ci illudiamo di essere cristiani
ma non lo siamo affatto.
Pensiamo che una rivoluzione straordinaria come il
cristianesimo possa ridursi all’andare a messa ogni tanto, continuando a pensare
ai fatti nostri, vivendo una vita basata sull’egocentrismo, sull’ambizione,
sulla ricerca spasmodica del successo, del potere, del piacere.
Non ci lasciamo mettere in crisi dal Vangelo, non prendiamo
sul serio le Sue parole. Pensiamo che sia sufficiente credere che Dio esiste
piuttosto che provare a mettere in pratica ciò che il Verbo di Dio ci ha
rivelato per vivere la vita in pienezza.
… e infelici
Se il desiderio della felicità è impresso nel cuore di ogni
uomo, perché anche tra coloro che hanno tutto – almeno secondo i parametri che
il mondo ci dà per raggiungere la felicità – è così difficile incontrare
qualcuno che sia veramente felice?
Forse perché ci nutriamo di tante menzogne che avvelenano
la nostra anima facendoci credere che sia amore ciò che di fatto è egoismo.
Forse perché la scalata verso la pienezza della felicità è
comunque faticosa, impegnativa. Troviamo mille scuse per evitare la fatica
necessaria per liberarci dalle tante abitudini non sane che avvelenano il nostro
spirito e ci impediscono di vivere ogni attimo in pienezza.
È molto più semplice prendersela con la società, con gli
altri per giustificare la mancanza di felicità nella nostra vita piuttosto che
riconoscere che l’unica persona che davvero è in grado di impedirmi di vivere
ogni attimo in pienezza sono io stesso.
Scoprirsi stupendi
“Ti rendo grazie [Signore]: hai fatto di me una meraviglia
stupenda” (Sal 139,14a).
Queste bellissime parole del salmista ci rivelano una
grande verità di cui troppo spesso non siamo consapevoli.
Anche se siamo schiacciati dalle nostre paure, errori,
fallimenti, scelte sbagliate siamo una “meraviglia stupenda”; l’importante è
iniziare a crederci!
Delle due l’una: o Dio, Bellezza che supera ogni bellezza,
era distratto quando ha creato l’uomo oppure siamo noi che, con le nostre
decisioni sbagliate, abbiamo sfigurato l’immagine e somiglianza di Dio che è
impressa in ciascuno di noi.
Se riconosciamo che è più ragionevole la seconda ipotesi
dobbiamo impegnarci a far rispendere in noi quella meraviglia che è opera di
Dio.
Accogliere le nostre fragilità
Un primo passo è riconciliarci con le nostre fragilità.
La felicità non dipende tanto dalle situazioni, talvolta
drammatiche, che ci troviamo a vivere ma dal come decidiamo di viverle.
Se abbiamo puntato più sull’apparire che sull’essere,
anziché impegnarci per migliorarci, le nostre energie sono state usate per
nascondere a noi stessi e agli altri i nostri limiti, le nostre fragilità, tutto
ciò che in noi non ci piace o che non corrisponde a ciò che gli altri si
aspettano da noi.
È difficile fare i conti con le proprie zone d’ombra,
riconoscere che gran parte del nostro star male dipende da noi e non dagli
altri. Ma più sapremo riconciliarci con i nostri limiti, più impareremo a non
dare la responsabilità di ciò che non va agli altri.
Così le nostre debolezze potranno diventare nuovi punti di
forza.
Realizzare i nostri sogni
Un secondo passo è riconoscere i nostri bisogni, le nostre
aspirazioni più profonde, i nostri sogni più veri.
Quando eravamo innamorati, vivevamo di sogni e spesso
qualcosa di magico colorava le nostre giornate. Poi, con il tempo, abbiamo visto
molti nostri sogni infrangersi contro una realtà che ci è parsa sempre più dura.
La magia di coppia che caratterizzava le nostre giornate ci
è parsa una cosa da bandire. Un sottile disincanto ha iniziato ad appesantire il
nostro cuore e le giornate hanno perso colore e sono diventate un film in bianco
e nero.
Solo se apriamo il nostro cuore indurito, disincantato, al
raggio dell’amore divino, potremo riscoprire il mistero di bellezza che è
racchiuso in noi e nell’anima di coloro che ci sono vicini.
Vivere in pienezza
Siamo chiamati a vivere ogni attimo della nostra vita in
pienezza vivendo per qualcosa di grande, capace di dare un senso profondo a
tutto ciò che facciamo.
Quello che conta è valorizzare ciò che siamo, liberandoci
da ogni tipo di maschera.
Una maschera è quella di voler apparire forti ad ogni
costo.
È un grave errore voler nascondere il nostro bisogno di
affetto, di tenerezza, amore. Tutti abbiamo bisogno di sentirci accolti, amati
per quello che siamo realmente, con tutte le nostre fragilità.
Un’altra maschera è quella del vincente.
La comunione è molto più bella e gratificante della
competizione. La condivisione è molto più arricchente della discussione. Se
vogliamo davvero vincere la grande partita della vita dobbiamo imparare a
giocare di squadra: il marito con la moglie, i genitori con i figli, i laici con
i sacerdoti, ecc.
Vivere nella verità
Per liberarci dalle maschere, dobbiamo ricordarci che non
c’è libertà senza verità.
La verità è un fuoco di rara bellezza che brucia e
purifica.
Ma, troppo spesso, la verità è scomoda, ci mette
profondamente in crisi, smaschera tutte le bugie di cui ci siamo nutriti per
giustificare la nostra pigrizia, le nostre scelte mediocri, la nostra ipocrisia.
Gesù è l’unico che ha potuto affermare “Io sono la verità”
(Gv 14,6). Cercare la verità, accettare la verità, essere in verità con le
persone che incontriamo è molto impegnativo ma ne vale la pena.
Per accogliere la verità dobbiamo convertirci e diventare
come bambini (cfr Mt 18,3).
Anche se impieghiamo molti anni per imparare a diventare
adulti, dobbiamo andare a scuola da loro per imparare a sorridere alla vita.
Mi sorprende sempre la capacità dei bambini di sapersi
immergere in ogni attimo che la vita regala loro. I bambini sanno stupirsi,
apprezzare, meravigliarsi di ogni piccola cosa.
I bambini sono sempre curiosi, non si stancano mai di fare
nuove domande. Non hanno pregiudizi, ti sorridono con grande spontaneità anche
se non ti conoscono. Amano fare amicizia, esplorare nuovi orizzonti, credere nei
sogni.
Una delle caratteristiche che dovremmo imparare dai bambini
è la bellezza della semplicità.
Più cresciamo e più diventiamo degli artisti nel
complicarci la vita.
Perdiamo la spontaneità di essere ciò che siamo, di dire
ciò che pensiamo, di esprimere le nostre emozioni.
Perché, allora, non imparare dai bambini?
* Tratto dal libro dell’autrice:
E gioia sia, Edizioni
Piemme, Milano 2014. Sintesi della redazione
8-SORRIDERE ALLA VITA
Se sorridiamo alla vita, anche la vita ci sorriderà. Più
sappiamo sorridere alla vita, più scopriamo che anche nei momenti più dolorosi
lei ha sempre in serbo qualche sorpresa per noi, se solo non ci scoraggiamo, non
ci arrendiamo.
Abbiamo bisogno di imparare a sorridere di più. La nostra
felicità non piove miracolosamente dal cielo, dipende in gran parte da quanto
impegno mettiamo noi ogni attimo per raggiungerla, per custodirla come uno dei
tesori più preziosi della nostra vita.
Certo, questo, oggi più che mai, sembra una “mission
impossible“.
Come fare?
Un primo punto è quello di pensare in modo positivo.
Si tratta di guardare, come dice un detto popolare, al
bicchiere come mezzo pieno e non mezzo vuoto.
Non credo ci voglia una grande preparazione per saper dire
ciò che non va. Ciò che invece risulta difficile è sapersi mettere in gioco in
prima persona perché le cose vadano meglio.
Se valorizzassimo il bicchiere mezzo pieno avremmo già
fatto un grande passo in avanti verso la felicità.
Un secondo punto è quello di sfruttare al meglio le
capacità della nostra mente.
Sono tanti gli scienziati che si stanno appassionando allo
studio del cervello. Quasi tutti sono concordi nell’affermare che sfruttiamo
solo una minima parte dell’immenso potenziale della nostra mente.
Di conseguenza, impariamo ogni giorno a crescere nel
controllo dei nostri pensieri, nel concentrarli su pensieri positivi,
esercitiamoci per diventare persone sempre più solari.
Un terzo punto, conseguenza dei precedenti, è coltivare
l’ottimismo.
Più guardiamo alla nostra vita e al futuro con una sana
dose di ottimismo, più poniamo le giuste premesse perché si realizzi qualcosa di
bello che porti nuovi contributi alla nostra felicità e a quella di chi ci vive
accanto. Non credo che si nasca ottimisti o pessimisti. Credo piuttosto che
siano attitudini mentali che si acquisiscono nel tempo.
Impariamo ad aspettarci cose belle dalla vita e rimarremo
stupiti dalle tante sorprese che ogni giorno porta con sé ma che il nostro
pessimismo ci rende incapaci di vedere.
Chiara Amirante
9-OLOCAUSTO DI GIOIA
Se Cristo ha scelto la sofferenza per salvare il mondo
significa che la sofferenza è un autentico valore
Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non
l’abbandona! Papa Francesco
La prima Chiesa per cui dobbiamo imparare a soffrire è la
famiglia: dobbiamo aiutare il Signore a salvarla!
di Andrea Gasparino*
Il mondo, i mass media propongono il rifiuto della
sofferenza, di ogni disagio e di ogni fatica.
La mentalità contemporanea è tutta incapsulata
nell’idolatria del massimo piacere e del minimo sforzo.
Tutto ciò che si produce sembra avere un solo punto di
arrivo: rendere più facile e piacevole la vita.
Ci propinano auto sempre più comode, case sempre più
confortevoli, cibi sempre più raffinati, viaggi sempre più piacevoli. È proibita
la fatica, risparmiata la lotta, bandito ogni malessere.
E con tutta questa filosofia del piacere non c’è mai stata
tanta infelicità sulla terra come ai nostri tempi. Tutti sanno che il mondo vive
di menzogna, ma tutti sembrano accondiscendervi.
Cosa ci insegna Gesù
Le parole di Cristo sono dure: “Se qualcuno vuole venire
dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).
Bisogna accettare che tra noi e Gesù c’è un conflitto di
mentalità. Noi rifiutiamo la croce e la sofferenza, ne abbiamo paura, le
consideriamo un male e tendiamo a fuggirle; Gesù, invece, le sceglie con
coraggio, ritenendole un valore.
Quello di Cristo ci sembra un linguaggio da santi, al di
sopra delle nostre possibilità.
In realtà non c’è differenza tra la parola “croce” e le
parole “lotta”, “difficoltà”, “prova”.
Se non riusciamo a convivere con le difficoltà e le prove
non saremo mai adulti. Gesù aggiungerebbe: “Non sarete mai cristiani”, cioè suoi
veri discepoli.
Olocausto di gioia
Per allenarci alla mentalità di Gesù bisogna partire dalla
purificazione del cuore. La tattica migliore forse è l’esercizio dell’olocausto
di gioia.
Questo consiste nel vivere bene le nostre sofferenze, le
nostre contraddizioni quotidiane, affrontandole prima di tutto senza drammi,
imparando ad offrirle a Dio con prontezza e gioia.
L’olocausto, nell’antichità, era il sacrifico con cui la
vittima veniva completamente arsa dal fuoco; anche noi siamo chiamati a non
sprecare nulla degli ostacoli e delle difficoltà di ogni giorno, facendo di esse
un dono generoso a Dio.
Per riuscirci dobbiamo allenarci ogni giorno in modo
graduale, puntando a ciò che riusciamo a fare per arrivare progressivamente a
superare i nostri limiti.
Niente vittimismi
Il primo passo consiste nel tenere sotto controllo il
nostro vittimismo, che si esprime spesso con l’abitudine a lamentarci e si sfoga
nella musoneria.
Per allenarsi contro questa debolezza serve fermarsi,
confessarsi, offrirsi.
Fermarsi vuol dire renderci conto del problema che abbiamo
davanti e reagire positivamente, per esempio sorridere anziché brontolare, senza
paura – anche se siamo soli – appena ci rabbuiamo.
Confessarsi vuol dire ammettere la nostra debolezza, per
prima cosa davanti a Dio – è una preghiera di guarigione – e poi davanti agli
altri – è un gesto di umiltà e di fiducia nell’altro.
La medicina migliore è scegliere qualche riparazione come
un atto generoso di carità, un dovere noioso compiuto con entusiasmo, un
servizio utile agli altri.
Offrirsi vuol dire accettare la prova in obbedienza a
Cristo, per amore suo e ai fratelli.
La difficoltà può diventare gioia quando riusciamo a farla
diventare gioia per Dio, quando riusciamo a trasformarla in un atto di amore a
Lui, offrendogliela come se fosse un dono, con riconoscenza.
Diventa gioia con facilità quando riusciamo a dare una
finalità precisa alla nostra offerta: dare forza a qualcuno, avere luce per un
problema, avere l’aiuto di Dio per vincere un preciso male in noi.
Utilizzare le “spine”
L’arte di utilizzare le nostre spine non è un gioco ma
esige fatica, costanza e abilità. In questo cammino ci conforta il pensiero che
il nostro Maestro non ci abbandona mai e ci dona il suo Spirito.
Quando siamo noi a dominare gli avvenimenti, senza farci
dominare da loro, ne giova tutta la nostra persona. Se invece in noi
imperversano gli istinti, gli umori, le lune, la nostra vita diventa una
desolazione.
Quando riusciamo a controllare il nostro umore,
influenziamo anche in modo evidente il nostro ambiente, favorendo la carità, la
serenità, l’armonia e la pace.
Di fronte alle difficoltà, quando sentiamo venire meno in
noi la serenità, siamo chiamati a ringraziare il Signore, non con un grazie a
fior di labbra ma motivato, offrendo a Dio la nostra prova per un’intenzione
precisa. Allora la spina non lacera più e si trasforma in fiore.
Soffrire con Cristo
L’ideale più sublime per cui offrire la nostra prova è
soffrire con Cristo. A favore di chi soffrire? Per la Chiesa!
La prima Chiesa è la famiglia: dobbiamo aiutare il Signore
a salvarla, affinché tutti si salvino!
La seconda Chiesa è la comunità parrocchiale, chiamata a
crescere nella verità del Vangelo e nella santità.
La terza è la Chiesa universale, con i suoi drammi, le sue
lacerazioni, i suoi grandi bisogni.
Bisogna, anzitutto, toglierci la paura delle sofferenze.
Ogni difficoltà ha le sue ricchezze se le sappiamo
sfruttare: le spine della salute, se sopportate con pazienza, sviluppano la
fortezza; quelle della carità, se affrontate nella mitezza, educano il cuore;
quelle del dovere, se portate avanti con generosità, formano il carattere.
È importante toglierci la paura delle spine razionalizzando
le nostre resistenze: è normale e logico, per esempio, che quando si è sbagliato
ci sia amarezza e frustrazione; non è normale, però, che uno sbaglio rovini
tutta la giornata.
La vera pace
Le gioie del mondo sono estremamente superficiali,
aleatorie, inconsistenti.
La gioia di Cristo è stabile, sicura, risponde alle
esigenze più intime del cuore, resiste a tutte le vicende umane.
Gesù ci tiene che la sua gioia sia accolta, cercata,
voluta, perché è un segno riservato ai suoi; è costruita nel sacrificio, sgorga
da determinate scelte che lui aiuta ad attuare e facilita.
Dobbiamo imparare a ringraziare delle difficoltà con grande
coraggio, per trovare la gioia ed essere felici.
* Tratto dal libro dell’autore:
Il segreto della gioia,
Paoline, Milano 2015 (5). Sintesi della redazione
10-PER VIVERE DA RISORTI NELLA GIOIA
di Andrea Gasparino
Le spine che incontriamo sul cammino della vita sono di due
tipi: quelle assegnateci da Dio e quelle create dalle nostre mani.
Siamo molto abili a crearci quest’ultimo tipo di prova:
sbruffiamo per un nonnulla, pretendiamo dagli altri quello che non sappiamo
dare, guardiamo al futuro con pessimismo.
Ecco alcuni handicap contro i quali dobbiamo sempre
lottare.
Il bisogno di avere sempre ragione
Non meravigliamoci di questa debolezza. Ringraziamo di
cuore quando ce ne accorgiamo e ancora di più quando, caduti, ci riprendiamo.
Il bisogno di essere i primi della classe
Questo è un buffo infantilismo. Consoliamoci pensando che
se è naturale essere così, non è altrettanto logico. Applichiamo nei nostri
confronti un po’ di sana auto ironia.
Il bisogno di essere sempre in forma
Tutte le macchine si inceppano, anche le più perfette. C’è
soltanto una cosa da fare: alzare il cofano, sistemare quello che non funziona e
ripartire.
Il bisogno di essere approvati da tutti e sempre
Dobbiamo accettare che non è mai possibile essere nelle
grazie di tutti, perché non siamo tutti uguali, ciascuno ha i suoi punti di
vista.
Il bisogno di cambiare la testa degli altri
Ricordiamoci che ognuno ha diritto di essere se stesso e
come tale siamo chiamati ad accettarlo. Se ci riusciamo predisponiamo gli altri
ad accettare anche noi.
Il bisogno di possedere le persone
Dobbiamo possedere solo noi stessi e lasciarci possedere da
Dio: possedere l’altro è immorale.
Il bisogno di dare la colpa agli altri
Ogni volta che sbagliamo siamo tentati di dare la colpa
all’altro, riconoscere il proprio torto è scuola di umiltà.
Il bisogno di dominare sugli altri
Se ci pensiamo bene è una pretesa ridicola: abbiamo così da
fare per dominare noi stessi, le nostre passioni, che non ci dovrebbe restare
tempo per guardare ciò che fanno o non fanno gli altri.
Ma per una buona vita di relazione, per una vita
all’insegna della gioia, dobbiamo mettere in pratica quello che ci ha insegnato
Gesù, il nostro Maestro.
Togli prima la trave dal tuo occhio
Siamo schiavi della nostra presunzione, ci illudiamo di
essere migliori degli altri e questo ci crea tante difficoltà di relazione.
A chi vuol prenderti la tunica dà anche il mantello
Il cuore generoso risolve sempre tutti i problemi. La bontà
e l’umiltà tengono sotto controllo le tensioni.
Vinci il male con il bene
Rivalsa e spirito di vendetta non risolvono i problemi,
anzi li aggravano terribilmente.
Dai senza aspettare la ricompensa
Il nostro dare è legato al contraccambio: si dà con una
mano e si aspetta con l’altra.
Perdona settanta volte sette
Dobbiamo impegnarci a vivere in un continuo stato di
perdono, verso tutti.
11-LA COPPIA E LA FELICITÀ
La vera e possibile felicità matrimoniale nasce dalla
consegna a Dio del proprio amore reciproco
Accettazione dei limiti e delle diversità, complicità,
tenerezza, amor di Dio: questi gli ingredienti per la felicità coniugale.
L’amore che perdona, dona, accoglie, condivide, sa
risolvere ogni conflitto.
di Sara Mariorenzi e di Angelo Peluso*
La felicità e la serenità coniugale non sono traguardi
preconfezionati o realizzabili seguendo le istruzioni dei talk show televisivi,
ma vanno costruiti fin dal primo giorno dell’innamoramento.
La coppia felice
La coppia felice è quella che realmente riesce ad essere
una carne sola pur nella viva diversità di due personalità, è contenta di ciò
che ha, accetta i propri limiti vicendevoli, e soprattutto è orgogliosa di
essere trascinante e propositiva per cambiare la società.
Il matrimonio deve portare alla costruzione di una identità
di coppia dove ognuno possa sentire la presenza dell’altro dentro di sé con
tutta la sua diversità, con amore e rispetto, riuscendo a rivestire il doppio
ruolo di chi parla e di chi sa anche ascoltare.
Questo aiuta anche a maturare una capacità critica senza
barriere difensive e realmente permette di camminare sulla stessa strada verso
una meta comune non rigorosamente determinata, ma modificabile sulla base delle
rispettive esperienze e conoscenze, che diventano “territorio di entrambi”, come
una sorta di “patrimonio genetico” condiviso.
Gli ingredienti che servono
Se facessimo una domanda un po’ semplicistica da giornale
divulgativo circa gli ingredienti della coppia felice, potremmo dare alcune
risposte profonde a dispetto della loro apparente banalità: disponibilità
psichica e fisica ad accogliere e a donare, saper giocare, saper scherzare,
saper apprezzare talvolta anche le sdolcinatezze, come una cena a lume di
candela, guardare sempre l’aspetto positivo delle cose come filosofia di vita,
saper scegliere il proprio profumo esclusivo, saper creare atmosfere
personalizzate per ogni ricorrenza, avere un grande amore per la vita, saper
creare curiosità, vivere il mondo con i suoi problemi e – cosa più importante –
non farsi imprigionare da liti familiari che costringono a schierarsi da una
parte o dall’altra.
L’atmosfera familiare
Come le due persone devono essere coppia? Quali funzioni,
quali spazi, quale distanza meglio rispondono sia ai bisogni di intimità, sia a
quelli di libertà personale? Occorre dire che oggi non vi è più una più rigida
divisione dei ruoli tra maschi e femmine e ciò fa sì che tutti i compiti possano
essere oggetto di continue rinegoziazioni tra i coniugi.
Due sono i punti che vorremmo sottolineare: la complicità e
la tenerezza.
La complicità
La complicità è soprattutto sentire la presenza dell’altro,
con tutta la sua diversità, dentro di noi. La complicità si manifesta nello
sguardo d’intesa, nel saper cogliere il piacere dell’altro anche in cose non
gradite particolarmente (dalla partita di calcio a fare shopping, per esempio)
favorire i suoi hobbies, le sue piccole manie.
Sentire complicità in amore è soprattutto avere sempre
l’altro accanto a sé, anche senza la sua presenza fisica. Solo la complicità può
rendere eterno il “per sempre con te” della prima promessa d’amore. La
complicità non è un sacrifico, è il non creare tensioni e in particolare
dualismi interiori (o con me o contro di me). La coppia complice non perde
occasione per festeggiare ogni possibile ricorrenza, che è sempre simbolo della
gioia di essersi incontrati.
Vivere la complicità significa abbracciare Dio e dissetarsi
alla fonte del suo Amore, rinnovando ogni giorno il sacramento del matrimonio.
La tenerezza
Non è facile parlare di tenerezza perché si corre il
rischio di essere fraintesi da coloro che confondono il sentimento con il
sentimentalismo, la tenerezza con il tenerume, e di essere quindi accusati di
fare del romanticismo a buon mercato.
La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria
interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere
amore.
Fare propria la tenerezza e viverla non è per niente
scontato ma, al contrario, richiede un lungo tirocinio e un ascesi attenta,
paziente e perseverante. “Teneri non si nasce, si diventa”, si potrebbe dire; o
meglio, la tenerezza ci è data come un'attitudine inscritta nelle profondità del
nostro essere, ma la sua attuazione visibile non è un fatto per sé automatico;
esige un itinerario di sviluppo da costruire giorno per giorno, con coraggio e
forza interiore.
La gestione dei conflitti
L’amore non è bello se non è litigarello, recitava uno
slogan qualche anno fa. In effetti il litigio può assumere connotati positivi se
diventa occasione di confronto senza mai mettere in dubbio il rispetto per
l’altro.
La tipologia del litigio varia di coppia in coppia. Vi sono
coloro che subiscono per anni o fanno di tutto per evitare conflitti, pur di
salvare l'apparente pace e il bene dei figli, salvo poi esplodere quando meno ci
si aspetterebbe, con reazioni sproporzionate, fino a somatizzare i vissuti con
forme quali il mal di testa, inappetenze, insonnie, gastriti.
Vi sono altri che, stanchi di litigare per ogni piccola
cosa, hanno gettato le armi e si sono arresi, visto che “tanto non c'è più
niente da fare con lui/lei”.
Vi sono alcuni che pensano di aver sempre ragione e non
concedono alcuno spazio a una reale comunicazione chiarificatrice; tanto meno
accettano l'aiuto di persone competenti.
Non mancano infine coloro che, ripiegati su se stessi, si
chiudono sempre più nella propria solitudine/angoscia, fino a un disprezzo
latente del coniuge.
L’amore che perdona, dona, accoglie, condivide è l’unica
medicina, l’unica vera terapia; un amore che proprio perché “perdona, dona,
accoglie, condivide”, mette avanti il “noi” coniugale rispetto al “tu” e all’
“io” e si trasforma nella chiave risolutiva di ogni conflittualità permanente.
La sessualità e i suoi significati
Un altro punto rilevante è l’espressività degli affetti e
il vissuto della sessualità.
Il desiderio nasce dall’accettazione della propria identità
e di quella dell’altro, dal condividere il piacere fisico come espressione di
una complicità ad altro livello. Il desiderio va acceso anche con la seduzione,
ma alimentato con il sentirsi parte dell’altro e farsi sentire pronti ad
accettare l’altro.
Uno dei punti base per uno sviluppo sano sia psichico che
fisico è la formazione di una precisa identità sessuale (o meglio identità di
genere maschile e femminile) e di un ruolo sessuale non rigido. L’identità è il
senso di appartenenza ad un certo sesso (come io mi vedo, mi sento) mentre il
ruolo è dettato da tutti quei comportamenti prescritti dalla società o dalla
cultura dominante.
Ciò può comportare,da una parte, la negazione della
sessualità vista come qualcosa di sporco o da nascondere, da una parte, e
l’esaltazione euforica di una sessualità mercificata dall’altra; entrambi
rappresentano due poli opposti che spingono a vivere una sessualità distorta.
Anche il termine libertà sessuale è molto ambiguo. Essere
liberi sessualmente non significa non avere freni e norme sulla sessualità, ma
significa accettare il nostro corpo, viverne con armonia l’erotismo in un
rapporto d’amore e, soprattutto, riuscire a comunicare con l’altro.
Insieme, con Dio
Vivere realmente in profondità la presenza di Dio
all’interno della coppia, è la forza viva che rende ancora più bella la gioia
unica e profonda del misterioso disegno che ha portato due persone sulla stessa
strada.
La nostra vera unica forma per vivere la felicità è proprio
la preghiera. La preghiera apre le porte chiuse del silenzio, trasforma ogni
dolore in speranza e dona serenità, oltre alla forza di saper trasmettere
coraggio e gioia di vita. La preghiera è la strada che ci porta a contatto con
Dio, che ci fa vedere Dio in ogni essere umano e che ci rende protagonisti del
suo disegno trasformandoci in annunciatori del suo messaggio.
La preghiera ci avvicina sempre più come marito e moglie e
ci dà quella gioia immensa che trasforma in una festa le cose più semplici.
* Tratto dal libro degli autori:
La coppia e la felicità, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2008. Sintesi della redazione.
12-PER UNA COPPIA DI “SUCCESSO”
Alcune ricerche scientifiche hanno identificato sei
comportamenti affettivi caratteristici del successo della relazione familiare.
• Alti livelli di amicizia, rispetto, affetto e umorismo:
un’importante collezione di attributi positivi della relazione.
• Una proporzione di cinque ad uno, o maggiore, di
interazioni positive contro quelle negative: mentre tutte le coppie hanno liti o
momenti di attrito, nelle relazioni riuscite le esperienze positive sono quelle
predominanti.
• Richieste di attenzione riuscite: quando un partner cerca
di iniziare una conversazione, incontra una reazione ricettiva.
• Partenza morbida dei disaccordi: l'opposto delle partenze
aspre; quando un partner si confronta con l'altro su un problema, inizia secondo
una modalità non colpevolizzante, non critica, non aspra.
• Il marito accetta l'influenza da parte della moglie: il
che riflette un comprensibile bisogno da parte delle donne che “l'influenza” sia
una strada a doppio senso di circolazione.
• Consapevolezza e rispetto per i bisogni, le simpatie, le
antipatie e la vita interiore dell'altro: interesse e sensibilità l'uno verso
l'altro e capacità di essere in intimità emotiva.
Mariorenzi – Peluso
13-TESTIMONIANZE SULLA GIOIA
Che cos’è la gioia?
Per me la gioia è un sentimento positivo, che trasuda
energia ed apertura verso il prossimo, che proviene da situazioni della vita in
cui si riesce a tirar fuori il bello ed il buono.
Carla
L’amore che da gioia, in fondo non è altro che vedere
l’altro felice e godere anche tu della sua felicità; questo vale per il marito,
per i figli, per i nipoti, ecc. Non sempre si riesce a coglierne la profondità
perché persino i rapporti tra noi sono legati al poco tempo disponibile. Solo
fermandosi, facendo silenzio e pregando si dà rilievo a tutto il resto, come
insegnava Madre Teresa.
Franca
La gioia per me è vivere bene con le persone che mi stanno
vicine, è fare qualcosa per chi non ha avuto niente, insegnargli quello che so,
imparare da lui quello che non so, scoprire che quello è davvero tuo fratello
anche se ha un colore diverso della pelle.
Là forse mi ritrovo nelle parole Vangelo molto più che
nelle false omelie di certi preti.
Chiara
In questa fase della mia vita, segnata da sofferenze e
difficoltà, quando mi prende lo scoraggiamento, mi rincuora l’esempio e la
testimonianza della mia amica Maria, che ci ha lasciato proprio in questi
giorni. Al mio ennesimo, pietoso “Come stai?”, lei, gravemente malata, confinata
in casa da tempo, una volta mi ha risposto più o meno così: “non ho dolore, ho
una casa accogliente, un marito che mi vuol bene, qualche amica che mi telefona
o mi manda un messaggio… cosa voglio di più dalla vita?”.
Elda
I momenti di gioia vera credo siano pochi e durino poco,
per questo penso che tante volte ci sia più gioia nell’attesa che nell’evento
atteso!
Siamo fatti così, abbiamo bisogno di preparaci per gustare
appieno le cose: aspettare il Natale, aspettare l’arrivo di un figlio, aspettare
una persona cara, preparare una cena per amici, scegliere un regalo. Poi quando
arriva il momento tanto atteso talvolta svanisce troppo in fretta o c’è il
rischio che non sia come speravi. La gioia sta nel cammino più nel traguardo.
Daniela e Pierpaolo
Il termine gioia mi porta ad un altro termine: piacere.
Distinguo: la “gioia” è legata a uno stato d’animo, il
“piacere” è legato a uno stato del corpo. Il piacere si paga, si compra; la
gioia è gratuita e non si compra, si conquista. Il piacere è momentaneo, la
gioia è duratura. Il piacere è individuale, la gioia contagia, si condivide, si
trasmette, chi la prova ne è testimone.
La gioia crea altra gioia e mi spinge a fare il bene, così
come la tristezza allontana dal bene e mi fa agire male.
Marzia
Penso che la gioia sia un atteggiamento interiore, un modo
di affrontare la vita, non con superficiale ottimismo, ma con la letizia che
scaturisce dalla Fede e dalla certezza dell’amore di Dio che mai ci abbandona.
Elisabetta
La gioia è quello stato d'animo che proviamo quando stiamo
bene; quando siamo soddisfatti e gratificati dalle persone che ci stanno
accanto; quando il nostro “affannarci” per le tante cose non rimane sterile, ma
ci riempie il cuore; quando abbiamo la percezione che tutto “gira per il verso
giusto”, come vivere un periodo di serenità nella nostra vita di coppia e di
famiglia, un percepire una sintonia nel nostro rapporto.
Ernesta e GianPrimo
Chi, cosa ci procura gioia?
Provo gioia quando la famiglia si ritrova finalmente
riunita, e questo avviene di rado, perché i figli ormai sono grandi e stanno
poco a casa. Mi dà gioia il mio lavoro a scuola, un lavoro che mi entusiasma e
non mi annoia mai. Mi danno gioia i miei animali, un cane e un gatto,
affettuosissimi e miei inseparabili compagni di divano quando guardo la
televisione. Ma soprattutto mi danno gioia la preghiera e la Fede condivisa con
i miei familiari e i miei amici.
Elisabetta
Ogni attimo della nostra vita dovrebbe essere vissuto in
pienezza e la gioia fa parte integrante di questa “pienezza”. È gioia saper
esprimere il nostro grazie attraverso tanti piccoli gesti e atteggiamenti
quotidiani; il perseguire il bello anche nelle cose che ci circondano, come
nella la cura della nostra persona e della casa; il vedere sempre “il bicchiere
mezzo pieno”; il sottolineare ciò che ci unisce, piuttosto che ciò che divide
nella vita lavorativa e familiare; o semplicemente lo svolgere serenamente i
propri compiti quotidiani.
Carla
Per me è gioia quando un figlio, che non mi parla da un bel
po’, abbozza anche solo un saluto, o si presta a girarmi la polenta, pur
restando in silenzio. La gioia può essere un attimo, ma è proprio quello che dà
sapore e senso alle giornate e alla vita.
Elda
La gioia non è qualcosa che si prepara a tavolino, ma è la
percezione di un momento o di un periodo in cui chi ci sta accanto
(marito/moglie, figli, genitori, amici) o un avvenimento che viviamo (la nascita
in un figlio, un anniversario importante, un traguardo raggiunto) ci riempie il
cuore di... gioia. La gioia è un momento che vorremmo non terminasse mai,
talmente ci piace.
Ernesta e GianPrimo
Per me prendere in braccio i miei nipotini appena nati è
gioia pura davanti al miracolo della vita. Oppure andando in montagna, arrivare
in vetta davanti a panorami mozzafiato, stringere la mano e magari dare un bacio
a mio marito che ha condiviso la fatica con me e rendermi conto di quanto
piccola sono in questa immensità della natura.
Chiara
Gioia è raccontare una fiaba a Emma e vederla incantata, a
bocca aperta, che chiede: “e poi?”.
Gioia è condividere un ricordo buffo con Mariano che ci fa
ridere fino alle lacrime.
Gioia è ricevere dei bigliettini dai figli che scrivono
pensieri e riflessioni così belle che ci commuovono.
Gioia è festeggiare 50 anni di Matrimonio circondati da
tutti coloro che ti vogliono bene e dalla tua comunità.
Ma la gioia più grande per me, dopo un attimo di incertezza
per la mia inadeguatezza, credo sia stata quando il mio Don mi ha chiamato e mi
ha chiesto di aiutarlo per dare l’Eucaristia ai fratelli. Mi ha dato Dio nelle
mani! L’emozione forte e la gioia intensa è vivissima anche ora, nella mente e
nel cuore.
Franca
Le piccole cose di sicuro! Bisogna imparare a gustarsi le
piccole gioie quotidiane: una buona torta, un sorriso, riuscire a fare bene una
cosa, l’allegria dei bambini. Spesso il pessimismo o la quotidianità ti portato
a non notare tante cose che invece potrebbero essere fonte di gioia.
Daniela e Pierpaolo
La gioia per me è un momento, come lo scoprire che mio
figlio, il cui modo di studiare mi era incomprensibile, si è laureato con 30 e
lode; uscire da una mostra, dalla proiezione di un film, con mia moglie e dire
all’unisono: era proprio bella/o; ascoltare un’omelia e sentirla riverberare nel
cuore; guardare un tramonto e meravigliarsi.
Francesco
Provo gioia quando mi sento amata, quando dono, quando
condivido, quando mi sento la pace nel cuore, quando sono consolata, quando
nutro la speranza, quando trovo la forza per andare avanti nonostante le
fatiche. Se provo gioia malgrado la sofferenza, la fatica, il pianto e mi sento
serena, beata, allora significa che ho trovato Dio e la felicità non mi è tolta.
La strada che mi porta alla vera gioia è quella che mi
porta a Gesù perché Lui per primo mi insegna che la gioia sta nel fare il bene.
Marzia
Come si conserva la gioia?
La gioia si conquista e per conservarla ci vuole
l’esercizio, l’allenamento, il darsi da fare. Ma se non voglio che un po’ alla
volta tutto ciò cada nella routine devo trovare la fonte della gioia ed
attingere ogni volta, anche se in modo diverso, a quella fonte.
Marzia
I momenti di gioia creano in me un substrato di serenità su
cui costruisco le giornate. E quindi salutare le persone che incontro, sorridere
loro (c’è una donna, ministro della comunione, che sorride a tutti quelli che si
accostano al sacramento: che grazia quel sorriso!), fare con soddisfazione le
cose di ogni giorno. Qui si cela una trappola micidiale: la routine e il peso
che questa comporta.
Francesco
Non ci sono frigoriferi in cui si possa conservare la
gioia, ma abbiamo un luogo nascosto dentro di noi in cui abitano i nostri
ricordi, i nostri sogni, le nostre speranze; mai rinunciare a realizzare, per
quanto è possibile, ciò che vorremmo poter fare.
La porta aperta alle nuove esperienze, alle nuove richieste
che la vita ci pone davanti, ci tiene attivi, fa in modo che non entri la noia,
la malinconia e la voglia di lasciarsi andare.
Franca
Non credo sia semplice, non dipende solo dagli eventi
positivi o negativi che accadono ma da come si vedono le cose attorno a noi! Ci
capita ogni tanto di vedere delle famiglie un po’ sfortunate ma sempre con il
sorriso sulle labbra: lì c’è gioia!
Daniela e Pierpaolo
Il dolore, le preoccupazioni, la malattia fanno parte della
vita ed è una sfida affrontare queste circostanze senza lasciarsi sopraffare e
conservando uno spirito lieto. Conservare la gioia significa fare costantemente
memoria delle tante grazie ricevute, arginare la percezione delle difficoltà
contrapponendo a queste le cose belle che comunque popolano le nostre vite,
trovare sempre alla sera un motivo per ringraziare il Signore e mio marito.
Elisabetta
La si conserva imparando ad apprezzare quello che si è e
quello che si ha; imparando ad accontentarsi e non volere sempre di più o
meglio; imparando anche ad accettare gli altri per quello che sono e non
desiderare sempre che siano come noi li vorremmo.
Può succedere che un periodo di gioia sia turbato da
qualche avvenimento triste (un lutto, una sofferenza), non per questo perdiamo
la gioia per sempre; la possiamo perdere per un breve periodo, ma avendo la
coscienza che, passato quel momento, se la gioia è vera si riaffaccerà nella
nostra vita.
Ernesta e GianPrimo
Su chi, che cosa si fonda la nostra gioia?
La mia gioia passa dalle persone che mi circondano (in
primis mia moglie e poi i figli e i nipotini), dalle persone che incontro
nell’attività di volontariato. Non sono tutti angeli, hanno difetti, a volte
molto evidenti, cerco comunque di cogliere l’aspetto positivo.
A tutti loro va la mia preghiera quotidiana, non dimentico
mai papa Francesco, ed è la preghiera il mio punto di contatto con Dio. Mi
capita anche di pregarlo per strada: abitiamo vicino ad un grosso
poliambulatorio, e sovente incrocio persone palesemente sofferenti e prego per
loro.
Francesco
La mia gioia si fonda su chi incontro, sul risultato della
relazione che vivo. Se in questa relazione c’è stato amore, anche se in piccole
dosi, il risultato è la gioia. La gioia è un effetto dell’amore. E chi è in
grado di donarmi amore in modo continuo e incondizionato? Dio che mi dona Gesù,
la vita, la risurrezione.
Marzia
Per me la gioia è gioire di piccole cose, come il semplice
“ascoltare” le mie gambe che riescono a portarmi dove devo andare. Questo
esercizio mi porta alla riconoscenza verso l’Autore di ogni bellezza, come ci
suggeriva qualche settimana una meditazione, nel gruppo di catechesi per adulti,
sul Salmo 44!
E da questo grazie, che mi avvicina profondamente a Dio,
nasce la Gioia!
Elda
La mia vita dovrebbe essere permeata dalla gioia, come
risposta a tutti i doni che ho ricevuto gratuitamente. Ma non è così! Infatti,
quello che sento nel profondo non è bisogno di gioia, ma di felicità, che cerco
e non riesco mai a raggiungere.
Ma sono certa che questa mia ricerca non resterà
insoddisfatta, perché Dio ce la nasconde ancora proprio per farcela cercare e
quello che stiamo davvero cercando è Lui.
Lui che ce la consegnerà quando lo incontreremo “faccia a
faccia”. Sarà allora “gioia immensa, gioia vera e durerà per tutti i secoli
senza fine!”.
Carla
Sicuramente sull’amore che Dio ha per me. Dio illumina la
mia vita, dà un senso alle mie giornate, alla mia famiglia, alla mia vita.
Elisabetta
Per un cristiano la sorgente della gioia vera è Dio, è
saldamene legata a Gesù Cristo, anche se noi uomini abbiamo sempre bisogno di
sperimentarla attraverso le relazioni con le persone che incontriamo ogni
giorno.
Se sappiamo dare un senso profondo alla gioia, se la gioia
viene dal vedere il Signore risorto, se crediamo che anche la morte, la peggior
nemica della gioia, è stata vinta, allora la nostra gioia non finirà: “Cadde la
pioggia, strariparono i venti, ma la casa non cadde” (Mt 7,24-29),
Ernesta e GianPrimo
Da quando Gesù è venuto più strettamente ad abitare nella
mia vita, molto è cambiato: la responsabilità verso i fratelli malati a cui
porto Gesù è diventata pane che lievita anche nella vita di coppia, e aiuta a
vivere ogni giorno che abbiamo con la consapevolezza che la salute ci è data per
essere al servizio.
Franca
La gioia vera dovrebbe essere radicata in Cristo: “venite a
me voi che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”. Purtroppo però
ricorriamo al Signore solo quando le altre fonti di gioia ci hanno abbandonato,
perché sappiamo che il Signore non ci abbandona mai. Di sicuro però la famiglia,
i figli, la natura, la bellezza sono fonti di gioia.
Daniela e Pierpaolo
Chi, cosa ci fa perdere la gioia?
Una situazione della vita che mi ha fatto perdere la gioia
è stato quando la mia mamma anziana ha perso la memoria per una demenza senile.
La discesa agli inferi è durata quasi tre anni, poi è
andata dal Padre, che l’avrà accolta con amore, perché è stata una magnifica
mamma, devota al Signore. Aveva dimenticato tutto tranne le preghiere che
continuava a recitare anche se non capiva più. Ora è in Paradiso che mi aspetta.
Franca
Spesso, lo scoraggiarsi di fronte alle fatiche della
quotidianità fa scendere un velo che ci rende un po’ tristi. Poi sicuramente la
sofferenza e il dolore, personali o di chi ci sta accanto. Vivere un momento di
sofferenza (fisica e non) ti svuota, ti occupa ogni pensiero e ti impedisce di
vedere la fine del tunnel… non c’è più nulla che ti doni gioia o serenità.
Daniela e Pierpaolo
La sofferenza fisica e morale delle persone che amo mi
turba profondamente. Ho un carattere deciso e mi esprimo senza giri di parole:
questa cosa sovente provoca dei conflitti in famiglia e con gli amici più cari;
ciò mi mette in crisi e faccio fatica a ricucire i rapporti. Talvolta, sentirmi
meno amata di quanto vorrei mi intristisce, magari è solo una percezione
soggettiva, ma in quei momenti soffro del complesso di Calimero, Pulcino Nero.
Elisabetta
La sofferenza sia fisica che morale per la delusione avuta
da una persona cara, da un rapporto che si incrina o si rompe, per
l'allontanamento dalla fonte della gioia, Dio.
Ernesta e GianPrimo
Quando intervengono “le fionde e le frecce della fortuna
avversa” come dice Amleto, è difficile mantenere la gioia. Essere “carne” ci
porta a subire ineluttabilmente dei colpi nella vita.
Ho sempre ammirato profondamente coloro – e fra i santi ne
abbiamo molti esempi – che nella sofferenza, nella malattia, nel dolore fisico
(che è ciò che mi spaventa di più) sono ancora in grado di esprimere gioia e
serenità, contagiando chi li circonda con testimonianze forti di fede e
speranza.
Carla
A caldo direi il dolore, la sofferenza, la malattia, il
male ricevuto. La mia serenità viene messa in crisi dalla salute (noi maschietti
non siamo molto resistenti al dolore), dall’attendere l’esito di un esame, dal
praticare cure pesanti che si ripercuotono sullo stato fisico.
A parte metto il senso di lutto che ho provato alla morte
di mia madre: una sorta di rumore di fondo che ho impiegato anni a superare.
Francesco
Quando sono nel dolore, nella sofferenza, nella fatica è
molto probabile che non provi gioia, a meno che non sia disposta a faticare per
vederla. E a questo punto mi vengono in mente le Beatitudini. Il saper stare
nella difficoltà e nella sofferenza cambiano la mia visione e il mio modo di
vedere le cose; il mio punto di vista viene capovolto, riordinato in modo
completamente diverso.
Marzia
Come si riconquista la gioia?
In seguito ad un cancro al seno, il mio corpo era
palesemente cambiato e non è stato facile ristabilire quell’equilibrio e
quell’armonia che nella nostra unione di coppia avevamo perduto.
Ma nel fare memoria delle nostre reciproche promesse e
soprattutto di quella fattaci da Dio che ci garantiva la Sua presenza nella
nostra unione sponsale, abbiamo recuperato la gioia del matrimonio cristiano.
Non c’è nulla di più bello e gioioso nella nostra vita che
il nostro amore, riflesso di quello di Dio.
Marzia
Se tu la esperimenti per davvero sai che la gioia non la
perdi mai del tutto, perché è fatta di piccole cose. Anche nella perdita delle
persone care, puoi trovare la gioia ricordando le cose belle che ti hanno
lasciato. Dopo il grande dolore per la perdita, vivono accanto a te nell’amore
che ti hanno dato, nelle cose che ti hanno insegnato e che ti aiutano a vivere.
Chiara
Spesso si gioisce quando finisce una prova o si riesce ad
evitare qualcosa di spiacevole, ma non è una gioia vera, è solo uno “scampato
pericolo”. Bisogna tornare a vedere il mondo con gli occhi dei bambini che in
questo sono maestri: passano rapidamente dal pianto alla gioia, dimenticandosi
del torto subito.
Daniela e Pierpaolo
Quando prego affido al Signore tutte le persone che amo e
tutte le situazioni che mi fanno soffrire. Mi sento abbracciata e accolta dal
Suo amore e provo sentimenti di consolazione, di speranza, di fiducia.
Elisabetta
La si riconquista ricucendo i rapporti rotti, dando un
senso profondo anche al dolore e alla sofferenza, riavvicinandosi a Dio
attraverso i Sacramenti e abbandonandosi a Lui, che desidera per noi solo la
gioia! In questo anno giubilare, potremmo dire che la gioia si riconquista se
sappiamo far esperienza della misericordia e la sappiamo a nostra volta
trasmettere.
Ernesta e GianPrimo
P. S. Potere usare le domande di queste pagine per il lavoro di gruppo.
14-EDUCARE ALLE VIRTÙ OGGI
Gesù è il Maestro che non cessa di educarci a vivere
un’umanità nuova e piena
Di Giuseppe Savagnone*
I ragazzi di oggi, per diventare adulti maturi, devono
affrontare un lungo cammino.
Alle loro spalle sta un concetto di virtù, quello basato
sul dovere e sul divieto, che ha segnato la formazione di coloro che li hanno
preceduti. Davanti a loro sta un mondo nuovo, radicalmente diverso dal passato,
in cui risultano mescolate le seduzioni di una società senza valori, dove ciò
che conta è il piacere immediato, e le proposte per una educazione rispettosa
sia delle aspirazioni della persona che delle responsabilità sociali di
ciascuno.
Dal seme alla rete
Come porci come educatori? Tradizionalmente l’educazione è
sta concepita sulla metafora del seminatore (cfr Mt 13,3-8). Ma in una società
“liquida”, più simile al mare che alla terra ferma, a questa metafora va
aggiunta quella del pescatore (crf Lc 5,4-6).
Un educatore che ragiona come il seminatore può dire: “Ho
fatto tutto il possibile ma con questo mio figlio non c’è nulla da fare”. Se
ragiona come il pescatore deve chiedersi, se non ha successo, se ha gettato le
reti nel punto giusto. Forse, suggerisce il Vangelo, bisognava spingersi più al
largo, dove il mare è più profondo. Fuor di metafora, il pescatore deve avere la
capacità di lasciarsi guidare dai pesci.
Dobbiamo immedesimarci nel punto di vista dei nostri
ragazzi. Questo serve non solo per capire loro ma anche per guardare onestamente
dentro di noi, riconoscendo che la crisi che vivono i nostri figli è anche la
nostra. Per cambiare gli altri occorre prima cambiare noi stessi!
Dai doveri ai desideri
Il film “l’attimo fuggente”, che molti avranno visto, ci
propone un’educazione che supera una concezione di vita “ingessata” e repressiva
in nome dell’autonomia di giudizio e della libertà interiore del singolo. Il
superamento di un modo di intendere la vita che tarpa le ali ai giovani va
certamente nella direzione delle virtù come via alla felicità.
Ma se è vero che così si valorizzano i desideri, le
passioni è altrettanto vero che non c’è spazio per un ordine morale più
profondo. Parole come società, giustizia, emarginazione non hanno spazio, la
sola religione sembra quella, autoreferenziale, della propria realizzazione.
Dai vizi alle virtù
Un’educazione all’etica sembra non avere più spazio, perché
quello che conta è la libertà dei giovani. Oggi la virtù per eccellenza è la
sincerità.
Questo vuol dire mostrarsi per quello che si è e la formula
magica è: “Io sono fatto così”.
Se “siamo fatti così” cosa serve provare ad essere diversi,
a migliorarsi?
Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti alimentano la persuasione che la spudoratezza sia una virtù: la virtù della sincerità. Umberto Galimberti
In passato ci si vergognava del vizio, lo si nascondeva,
mentre oggi lo si esibisce sostenendone la piena legittimità. Ma i vizi sono
cattivi non perché qualcuno li considera tali ma perché, alla lunga, rendono
infelici. Il tempo delle virtù non potrà quindi tramontare finché ci saranno in
circolazione persone assetate di felicità.
E questo è sotto i nostri occhi. Senza l’educazione alle
virtù non si riesce neanche a garantire la circolazione stradale. Meno che mai
una vita affettiva che non si riduca a un cinico sfruttamento reciproco, a una
vita familiare che non sia un arcipelago di solitudini in guerra tra loro, a una
comunità politica che punti al bene di tutti invece di essere ostaggio di
interessi di parte.
Dall’insegnamento all’educazione
Le virtù non si possono insegnare: Si può però educare ad
esse. Non è una contraddizione.
Nell’insegnamento il soggetto principale è il docente e i
risultati dipendono soprattutto dalla sua preparazione e dalla sua capacità
comunicativa.
Educare è invece la collaborazione ad un progetto il cui
soggetto principale è colui che viene educato. Questo non esclude l’insegnamento
di conoscenze e di regole, ma è fondamentale che l’educato assuma in prima
persona la responsabilità della propria crescita, faccia suo in modo creativo
l’insegnamento ricevuto.
Educare ad una vita virtuosa è possibile a patto che l’educatore sia consapevole che solo praticando una vita virtuosa può “contagiarla” ad altri. Giuseppe Savagnone
Per educare non servono tanto i discorsi quanto l’esempio, quanto l’educatore mostri, con il suo comportamento, cosa vuol dire essere virtuosi. Tutto ciò richiede pazienza, costanza, umiltà, rinuncia alla proprie gratificazioni, e molte altre cose.
Dai fiori ai frutti
Una “vita giusta” è legata all’adempimento del proprio
dovere in vista di una missione più grande. Questo è stato il pensiero della
modernità, che ha chiesto alle persone di spendere la propria vita facendola
fruttificare.
Nel pensiero post-moderno al primato dei frutti si
contrappone la “fioritura” della persona.
Così una “vita buona” è una vita pienamente realizzata, una
vita felice. Questo concetto è espresso anche nel documento dei vescovi italiani
“Educare alla vita buona del Vangelo”.
Quella dei vescovi non è però un’adesione senza riserve al
pensiero corrente, pensiero che porta con sé l’autoreferenzialità, l’avere come
unico obiettivo la propria realizzazione.
Non si può fare il medico per auto realizzarsi dimenticando
che il medico è chiamato a curare i malati. Ci si realizza solo se si va oltre
ai propri bisogni per donarsi ad un valore più grande: gli altri.
L’attenzione alla fioritura del soggetto è cosa buona ma
non bisogna dimenticar che la vita è pienamente riuscita solo quando dai fiori
maturano i frutti.
Dal “buono” al “bene”
Educare alle virtù significa accompagnare una persona a
scoprire che questo è il modo umano di vivere, che vuol dire educare, oltre alla
“libertà di”, alla libertà per”, cioè a scegliere il bene.
Ma il bene non esiste in astratto ma è legato ala nostra
personalità e alle situazioni in cui siamo chiamati a compierlo, è il “giusto
mezzo”.
Non c’è una soluzione migliore che valga per tutti e in
tutti i casi, ma la soluzione va individuata di volta in volta, con la
consapevolezza che comunque qualcosa di buono verrà sacrificato.
Ogni situazione che mi si presenta arriva un’unica volta e non tornerà mai più. Romano Guardini
Questo significa aiutare l’altro a diventare in grado di
assumersi le proprie responsabilità, accettando il rischio che ogni scelta
comporta.
Qui entra in gioco la coscienza, mediatrice indispensabile
per capire cosa sia giusto, buono, per noi fare in un determinato momento.
Educare moralmente significa aiutare l’altro a maturare le
virtù etiche e tra queste soprattutto la saggezza [la virtù della prudenza],
grazie alle quali la coscienza potrà orientarsi in tutte le situazioni, anche le
più imprevedibili.
Da “mortificazione” a “orientamento”
Nel nostro tempo la sfera emotiva delle persone è molto
sollecitata. Ma questo, anziché potenziare la vita emotiva del soggetto, ha
spesso l’effetto paradossale di anestetizzarla, perché manca un’educazione
emotiva.
Le virtù non sono soltanto modi di agire razionalmente ma anche disposizioni a sentire in modo particolare. Giuseppina D’Addelfio
Ciò è molto grave perché la ragione è intimamente legata
alle emozioni.
Si tratta, allora, di rafforzare sia la sfera emotiva che
quella razionale, attraverso una circolarità dinamica, in modo che si rafforzino
entrambe nella tensione verso il bene.
Occorre superare sia l’autoritarismo che il permissivismo,
perché l’educazione alle virtù non mortifica i desideri, ma li orienta.
Dal “corpo” al “cuore”
Oggi ci preoccupiamo molto che i nostri ragazzi crescano
sani, facciano sport, si alimentino bene, dimenticando spesso che la qualità
della vita di una persona dipende prima di tutto dal suo carattere e dal
rapporto che ha con se stesso e con gli altri.
Il documento dei vescovi sottolinea questo pericolo: “La
formazione integrale della persona è resa particolarmente difficile dalla
separazione tra razionalità e affettività, tra corporeità e spiritualità”.
Da una parte “l’educare viene ridotto al fornire solo
abilità tecniche, competenze professionali” e dall’altra “il modello della
spontaneità assolutizza emozioni e pulsioni: tutto ciò che “piace” ed è
possibile diventa automaticamente buono”. In questo modo l’educazione rinuncia
alla trasmissione di ogni forma di valori e si limita al puro insegnamento.
Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne. Ezechiele 11,19
Questo vale anche per il rapporto tra sfera spirituale e
sfera fisica. L’educazione deve coinvolgere l’essere umano in tutta la sua
interezza. Questa integrazione, in una prospettiva cristiana, deve spingersi
fino ad aprirsi alla potenza trasformatrice della grazia. Ma la grazia non può
agire se non siamo educati ad accoglierla, perché la grazia non sostituisce la
natura.
* Tratto dal libro dell’autore:
Educare oggi alle virtù,
Editrice Elledici, Leumann (TO) 2011. Sintesi della redazione
15-NOI, CHIESA, E LA GIOIA
Un commento alla Evangelii gaudium di papa Francesco
Serve una fede capace di affrontare non solo le sfide
culturali del nostro tempo ma, soprattutto, la sfida dei poveri.
Si è veri missionari solo se si sa coniugare l’impegno
sociale con una profonda spiritualità e viceversa.
di Giovanni Ferretti*
L’esortazione apostolica Evangelii gaudium è il grande
testo programmatico del pontificato di papa Francesco (n.25). Vorrei qui
sottolineare quelle che, a mio avviso, sono alcune indicazioni di fondo che
emergono dal testo.
Una Chiesa in uscita
Già il Sinodo dei vescovi del 2012, sotto Benedetto XVI,
aveva trattato il tema della nuova evangelizzazione. Da qui prende le mosse
questa esortazione, con quel di più che è proprio del nuovo Papa.
Serve una nuova evangelizzazione perché ciò che è stato
efficace in passato oggi non ha più “la stessa forza educativa”, non è più
vitale. Se non ci rinnoviamo, rischiamo solo di “appesantire la vita ai fedeli”
e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando “la misericordia di
Dio ha voluto che fosse libera” (n.43).
Questa nuova evangelizzazione deve arrivare a tutti e
quindi richiede una Chiesa “in uscita”, missionaria. Serve una pastorale capace
di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”, serve
essere “audaci e creativi” a tutti i livelli, dal singolo credente fino al Papa
e alla riforma del suo ministero (n.27-33).
Ripensare l’annuncio
Ma, in una società post-cristiana come la nostra, cosa vuol
dire essere missionari?
Il nostro annuncio missionario deve essere un messaggio di
gioia, deve trasmettere una pienezza di vita perché al suo centro ha “la
bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto”
(n.36). Questo amore ci chiede di praticare la misericordia perché è “la più
grande di tutte le virtù” (n.37).
La fede in Dio non è solo un’idea ma un incontro,
un’esperienza personale di Cristo.
Questa esperienza si concretizza nel riconoscerlo “negli
altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti” (n.39).
Parafrasando il filosofo Lévinas, possiamo dire che il Bene
è bene perché ci coinvolge nel Suo amore verso gli altri.
Cogliere i segni dei tempi
Per annunciare il Vangelo serve fare discernimento della
realtà, della società contemporanea, cogliere ciò che è frutto del Regno e ciò
che non è, ciò che umanizza e ciò che disumanizza (n.51).
Ci viene chiesto di vivere una fede non solo capace di
confrontarsi con la ragione, elemento che ha caratterizzato il magistero di
Benedetto XVI, ma anche con la realtà dei poveri perché essi “sono i destinatari
privilegiati del Vangelo” (n.48).
La realtà dei poveri ci chiede di opporsi ad alcuni
elementi strutturali che caratterizzano il nostro tempo.
Il primo di questi è l’economia dell’esclusione. Scrive il
Papa: “Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un
anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in
borsa” (n.53). E poi ci ricorda quanto sia presente la cultura dello “scarto”,
che va oltre lo sfruttamento e l’oppressione dei più deboli, perché li riduce a
rifiuti, “avanzi”.
Il secondo è l’idolatria del denaro con la divinizzazione
delle regole del “mercato” (n.56).
Dietro ciò si nasconde “il rifiuto dell’etica e il rifiuto
di Dio” (n.57). Si rifiuta l’etica perché questa condanna la manipolazione delle
persone e si rifiuta Dio perché Dio non è manipolabile (n.203).
Il terzo è l’iniquità che genera violenza. La gente reclama
sicurezza, ma per questo non serve più polizia ma l’eliminazione dell’esclusione
e dell’inequità nella società (n.59). E questo vale anche a livello mondiale.
Non servono le armi e la repressione violenta, perché queste, “invece di
apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti” (n.60). In questo ultimo
passaggio si sente l’eco di una corretta “teologia della liberazione”.
L’opzione per i poveri
Il papa qui si sofferma ampiamente “su due grandi
questioni” a suo avviso “fondamentali in questo momento della storia”:
l’inclusione sociale dei poveri, la pace e il dialogo sociale (n.185).
I cristiani sono e devono essere strumento di Dio per
liberare e promuovere i poveri (n. 187). Ai gesti quotidiani di aiuto e di
sostegno si deve affiancare l’impegno per l’eliminazione delle cause strutturali
(n.188). Per Francesco la provvidenza di Dio opera soprattutto attraverso gli
uomini di buona volontà: è questo il “miracolo” quotidiano dell’azione di Dio
nella storia.
Il papa sa che questo è un discorso “duro” e commenta:
“temo che queste parole siano solamente oggetto di qualche commento senza una
vera incidenza pratica” (n.201).
Per quanto riguarda la pace, questa “non si riduce ad
un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze” ma “si
costruisce giorno per giorno”. “Una pace che non sorga come frutto dello
sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi
conflitti e di varie forme di violenza” (n.219).
Infine Francesco tratta del dialogo sociale, che a suo
avviso si fonda su quattro principi fondamentali: il tempo è superiore allo
spazio (n.222ss); l’unità prevale sul conflitto (n.226ss); la realtà è più
importante dell’idea (n.231ss); il tutto è superiore alla parte (n.234ss).
Alcune sfide culturali
“Il processo di secolarizzazione” che contrassegna il
nostro tempo “tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo”
(n.64).
Come reazione, in molti popoli cattolici, parecchi si
lasciano sedurre da “nuovi movimenti religiosi” fondamentalisti. Questo
abbandono della Chiesa è anche conseguenza del “clima poco accogliente” presente
“in alcune delle nostre parrocchie e comunità” (n.63).
Serve pertanto uno sguardo contemplativo, cioè la capacità
di vedere Dio che “fermenta” la realtà. Così la illustra Francesco: “sentiamo la
sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci,
di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa
marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità,
in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio” (n.87). Serve quindi una
circolarità tra Vangelo e cultura: “vivere fino in fondo ciò che è umano e
introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi
cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città” (n.75).
Discepoli missionari
Tutto il popolo di Dio ha il compito di evangelizzare,
portando un annuncio esplicito. Tutti i battezzati sono soggetto attivo di
evangelizzazione, non si è prima discepoli e poi missionari, ma si è discepoli
missionari (n.119).
“La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo
protagonismo di ciascun battezzato”. Qual è la condizione necessaria e
sufficiente per essere discepoli missionari? Aver fatto reale esperienza
dell’amore di Dio che ci salva (n.120). Essere missionari vuole dire essere
mossi dal “il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni” (n.31), solo dopo
si potrà annunciare la Parola. Serve un “dinamismo evangelizzatore che agisca
per attrazione” (n.131).
Lo Spirito del Risorto
Quali sono le motivazioni spirituali per l’impegno
missionario?
Francesco ne parla ampiamente nel capitolo cinque
(n.262-283).
Il “movente interiore” di ogni attività evangelizzatrice e
missionaria, colui che infonde “fervore” (il “fuoco” dello Spirito), audacia,
gioia missionaria è lo “Spirito Santo” , lo spirito dell’amore di Dio.
Il testo sottolinea l’inscindibile nesso che c’è tra
spiritualità e impegno sociale. Non c’è autentica prassi missionaria o sociale
senza una “spiritualità che trasformi il cuore” (262); e non si supera la “falsa
spiritualità” intimistica, privatistica e individualistica, senza un “forte
impegno sociale” (n. 262).
“La prima motivazione per evangelizzare” è “l’incontro
personale (affascinante) con Gesù che salva”, è l’esperienza dell’amore di Gesù
che ci ha salvato (n. 264).
Questa è la convinzione indispensabile per poter
evangelizzare, dato che “una persona che non è convinta, entusiasta, sicura,
innamorata, non convince nessuno” (n. 266).
Allo stesso tempo, per papa Francesco, si fa esperienza di
Dio, dell’amore di Dio, soprattutto vivendolo nell’esperienza concreta
dell’amore del prossimo. “Questa apertura del cuore” verso gli altri “è fonte di
felicità” (n. 272).
Dobbiamo riconoscerci “come marcati a fuoco dalla missione
di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare” (n.273).
E per chi non è più in grado di operare “sul campo”? Resta
sempre la preghiera d’intercessione (n.281).
Infatti, “I grandi uomini e donne di Dio sono stati grandi
intercessori” (n.283).
È Maria che dobbiamo pregare perché interceda affinché
“questo invito a una nuova tappa dell’evangelizzazione venga accolta” da tutta
la Chiesa (n.287).
* professore emerito di Filosofia teoretica dell’Università
di Macerata. Conferenza del 29 gennaio 2015, Chiesa del Santo Volto,
Torino.
Sintesi della redazione.
Uomini e donne nella Bibbia
16-GIOIRE NEL SIGNORE
Gesù, nella sua vita terrena, ha fatto esperienza delle
nostre gioie
del beato Paolo VI*
Contemplando la persona di Gesù, nel corso della sua vita
terrena, vediamo che egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato
tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla
portata di tutti.
La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il
realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità.
Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Egli
richiama subito lo sguardo di Dio sulla creazione all'alba della storia. Egli
esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell'uomo che
scopre un tesoro nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della
donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la
gioia delle nozze, quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno da
una vita di prodigo e quella della donna che ha appena dato alla luce il suo
bambino.
Queste gioie umane hanno tale consistenza per Gesù da
essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli
uomini che entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre
che li accoglie.
E per parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione
e la sua tenerezza quando incontra fanciulli che desiderano avvicinarlo, un
giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, amici che gli aprono la loro
casa come Marta, Maria, Lazzaro.
La sua felicità è soprattutto di vedere la Parola accolta,
gli indemoniati liberati, una peccatrice o un pubblicano come Zaccheo
convertirsi, una vedova sottrarre alla sua povertà per donare.
Egli esulta anche quando constata che i piccoli hanno la
rivelazione del Regno, che rimane nascosto ai dotti e ai sapienti. Sì, perché il
Cristo “ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana”,
ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio. E
senza sosta egli “ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, agli afflitti la
gioia”.
Il Vangelo di san Luca offre una particolare testimonianza di questa seminagione di allegrezza. I miracoli di Gesù, le parole di perdono sono altrettanti segni della bontà divina: la folla intera esulta per tutte le meraviglie da lui compiute e rende gloria a Dio. Per il cristiano, come per Gesù, si tratta di vivere, nel rendimento di grazie al Padre, le gioie umane che il Creatore gli dona.
Ma qui è importante cogliere bene il segreto della gioia
inscrutabile che dimora in Gesù, e che gli è propria.
[…] Se Gesù irradia una tale pace, una tale sicurezza, una
tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell'amore ineffabile di cui
egli sa di essere amato dal Padre. Fin dal suo battesimo sulle rive del
Giordano, questo amore, presente fin dal primo istante della sua Incarnazione, è
manifestato: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto“.
[…] Gesù vuole che tutti coloro che credono in Lui abbiano
in se stessi la pienezza della sua gioia: “E io ho fatto conoscere loro il tuo
nome e lo farò conoscere, perché l'amore col quale mi hai amato sia in essi e io
in loro”.
Questa gioia di dimorare nell'amore di Dio incomincia fin
da quaggiù. È quella del Regno di Dio. Ma essa è accordata su di una via
scoscesa che richiede una totale fiducia nel Padre e nel Figlio, e una
preferenza data al Regno.
Il messaggio di Gesù promette innanzi tutto la gioia,
questa gioia esigente; non si apre essa attraverso le beatitudini? “Beati, voi
poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché
sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete”.
Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore
dell'uomo il peccato di presunzione e manifestare al Padre un'obbedienza integra
e filiale, accetta di morire per mano di empi, di morire su di una croce. Ma il
Padre non ha permesso che la morte lo ritenesse in suo potere.
La risurrezione di Gesù è il sigillo posto dal Padre sul
valore del sacrificio del suo Figlio; è la prova della fedeltà del Padre,
secondo il voto formulato da Gesù prima di entrare nella sua passione: “Padre,
glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te”.
D'ora innanzi, Gesù è per sempre vivente nella gloria del
Padre, ed è per questo che i discepoli furono stabiliti in una gioia
inestinguibile nel vedere il Signore, la sera di Pasqua.
* dall'esortazione apostolica:
La gioia cristiana, 9 maggio
1975
17-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Papa Francesco,
Evangelii gaudium, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2013.
Molti hanno definito questa esortazione apostolica, la
prima di Papa Francesco, il documento programmatico del suo pontificato.
Per mons. Fisichella l’esortazione definisce le “le colonne
fondanti della visione di Papa Francesco per la nuova evangelizzazione: la
riforma della Chiesa in uscita missionaria, le tentazioni degli agenti
pastorali, la Chiesa intesa come totalità del popolo di Dio che evangelizza,
l’omelia e la sua preparazione, l’inclusione sociale dei poveri, la pace e il
dialogo sociale, le motivazioni spirituali per l’impegno missionario”.
Dell’esortazione noi abbiamo ripreso solo i primi otto
numeri, dedicati al tema della gioia.
Questo tema era già stato trattato dal beato Paolo VI, che
vi aveva dedicato un’intera esortazione, la Gaudete in domino, da cui abbiamo
ripreso le riflessioni di pag. 22.
Chiara Amirante,
E gioia sia. il segreto per la felicità,
Edizioni Piemme, Milano 2014.
L’autrice è fondatrice e presidente della comunità “Nuovi
orizzonti”, una realtà che si pone l’obiettivo di intervenire in tutti gli
ambiti del disagio sociale.
È in prima istanza proprio a coloro che vivono situazioni
di disagio, di dipendenza, che si rivolge l’autrice. Ma, acquisito questo dato,
il libro si rivolge a tutti coloro che sono alla ricerca della gioia usando un
linguaggio semplice e spontaneo.
Il libro si può leggere tutto d’un fiato, ma per goderne
pienamente i frutti occorre rileggerlo con calma, riflettendo sui contenuti
proposti.
Scrive l’autrice: “se hai deciso di leggere questo libro
forse anche tu stai cercando la gioia, quella piena, quella capace di abitare le
profondità del cuore anche quando le tante tempeste che la vita ci riserva
sembrano oscurare i nostri orizzonti”.
Andrea Gasparino,
Il segreto della gioia. Come trovarla e
come viverla, Edizioni Paoline, Milano 2015(5).
L’autore, mancato nel 2010, ha diretto per cinquant’anni
una scuola di preghiera per giovani a Cuneo ed è stato fondatore del Movimento
Contemplativo Missionario Padre De Foucauld.
Il tema è lo stesso del libro della Amirante, ma il modo
con cui viene sviluppato è più riflessivo e sistematico.
Scrive l’autore: “Mi preme soprattutto dare un consiglio:
non cercate la gioia per averla, cercatela per saperla dare”.
Dal testo abbiamo tratto, sintetizzandoli, i capitoli
dedicati a come coltivare la gioia nella prova.
Su questo punto l’autore, citando un proverbio africano, si
esprime così: “Se non hai la gioia valla a comprare. Si vende alla bottega del
sacrificio. Il segreto della gioia è nelle nostre mani, dobbiamo prenderne
atto”.
Sara Mariorenzi - Angelo Peluso,
La coppia e la felicità, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2008.
Da una coppia per le coppie: questa in estrema sintesi il
contenuto di questo libro.
Si tratta di un testo agile, scorrevole, che può essere
senz’altro utile per molte coppie, a partire dal fidanzamento.
La loro esperienza professionale, medica e psicologica,
arricchisce lo scritto senza appesantirlo.
Gli autori ci ricordano che “il matrimonio non è come un
accordo tra soci in affari, che può sempre essere sciolto, ma nasce dal dono
reciproco dell’amore, nasce dal donarsi l’un l’altro senza riserve”.
E concludono: “La vera felicità nella coppia si può
raggiungere pregando insieme: la preghiera apre le porte chiuse del silenzio,
trasforma ogni dolore in speranza, porta la coppia a contatto con Dio,
rendendoli messaggeri - per se stessi e per gli altri - del Suo messaggio
d’amore”.
Giuseppe Savagnone,
Educare oggi alle virtù, Edizioni Elledici, Leumann (TO) 2011.
Due sono gli elementi di fondo di questo libro dedicato
alle virtù: la filosofia e l’educazione.
L’autore, infatti, è stato per oltre quarant’anni
insegnante di storia e filosofia nei licei statali.
Il discorso sulle virtù nasce con Aristotele e viene
ripreso nel duecento da san Tommaso d’Aquino.
Perché parlare di virtù? Perché proveniamo da un periodo
storico in cui l’unica virtù era il dovere.
Del dovere oggi nessuno vuol più sentire parlare, in
compenso è diventato molto difficile educare.
La Chiesa italiana ha dedicato questo decennio a “Educare
alla vita buona del Vangelo” e una vita buona non più essere che felice.
La lettura del testo risulta agevole perché l’autore è un
educatore e sa alleggerire il discorso con riferimenti cinematografici e
letterari che lo rendono scorrevole. La seconda parte del libro, poi, è molto
fruibile e da qui abbiamo attinto.
18-NOI E IL SINODO
La missione che il sinodo consegna a ciascuno di noi
di Nicoletta e Corrado Demarchi
A seguito della pubblicazione della relazione finale del
Sinodo dei Vescovi su “La Vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e
nel mondo contemporaneo” ed in attesa che il Santo Padre traduca in un documento
le azioni pastorali proposte dai partecipanti, possiamo fin da ora sentirci
interrogati e stimolati a comprendere sempre meglio la nostra vocazione di sposi
e di genitori.
In questi anni in cui abbiamo avuto il piacere e la gioia
di incontrare tantissime famiglie cristiane, ci siamo resi conto di quanto
spesso non vi fosse, da parte di molte di loro, la piena consapevolezza della
loro vocazione familiare.
Noi per primi non abbiamo compreso subito la pienezza del
Sacramento del nostro matrimonio e la Grazia che ne deriva e, solo attraverso la
preghiera e la condivisione nel nostro Gruppo Famiglia, abbiamo iniziato a
maturare in questo percorso e siamo ancora in cammino.
Ultimamente sono molte le esperienze e le proposte della
CEI e delle Diocesi, nonché dei movimenti e di numerose associazioni, che stanno
contribuendo, in modo fattivo, alla crescita delle famiglie in ricerca.
Ebbene, questo Sinodo interpella, in modo particolare,
tutti noi sposi, che nel corso della nostra vita abbiamo avuto la grazia di
incontrare Gesù e di comprendere quanto amore ci doni nella gioia e nella fatica
di tutti i giorni.
La Chiesa si è messa in profondo ascolto delle famiglie,
per riuscire ad accompagnarle nella loro realizzazione del piano di Dio e le ha
messe al centro della sua azione pastorale.
Così recita il documento sinodale al punto 93
“L’evangelizzazione comincia dalla famiglia, nella quale non si trasmette
soltanto la vita fisica, ma anche la vita spirituale… La famiglia si costituisce
così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del
Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i
poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la
solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più
bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune…”.
Ancora al punto 89 “Se la famiglia cristiana vuole essere
fedele alla sua missione, essa dovrà ben comprendere da dove essa scaturisce:
non può evangelizzare senza essere evangelizzata. La missione della famiglia
abbraccia l’unione feconda degli sposi, l’educazione dei figli, la testimonianza
del sacramento, la preparazione di altre coppie al matrimonio e
l’accompagnamento amichevole di quelle coppie o famiglie che incontrano
difficoltà. Da qui l’importanza di uno sforzo evangelizzatore e catechetico
indirizzato all’interno della famiglia”.
Nonché al punto 61 “La parrocchia è il luogo dove coppie
esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con
l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità.
Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza
del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità
familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale,
invitando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della
vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. L’incontro
personale con Cristo attraverso la lettura della Parola di Dio, nella comunità e
nelle case, specialmente nella forma della “lectio divina”, costituisce una
fonte di ispirazione per l’agire quotidiano”.
Quindi possiamo considerare l’esperienza che stiamo vivendo
nei nostri Gruppi Famiglia, da oltre 25 anni, come un servizio, più che mai
attuale ed urgente, che umilmente molte famiglie mettono a disposizione delle
altre, nelle realtà locali di quasi tutta l’Italia.
Le proposte formative attraverso la scuola, i campi, la
stessa rivista che state leggendo, nonché la preghiera con la Lectio Divina e la
revisione di vita, aiutano le famiglie a crescere e vivere nella fede.
Per questo motivo invitiamo tutti i gruppi, i laici ed i
religiosi, ognuno secondo il suo carisma e secondo la propria sensibilità, a
restituire tutto il bene ricevuto, affinché i propositi dei Vescovi si traducano
in azioni pastorali concrete e quanti non hanno conosciuto o smarrito la gioia
della fede, la possano trovare o riscoprire, in un cammino comune di sostegno,
incoraggiamento ed approfondimento.
19-CAMMINI DI FEDE PER ADULTI
La scuola permanente per famiglie di Vallà (TV)
Da ogni famiglia che vive l’amore può provenire una forza prodigiosa per cambiare il mondo.
di Toni Piccin
La fede è un dono. Tuttavia, come ogni regalo che
riceviamo, lo si può apprezzare, custodire ma anche trascurare. Sta a noi
l’impegno della ricerca e della proposta perché Dio opera attraverso noi.
Si tratta di selezionare e gettare il seme, se poi troverà
il buon terreno avrà la possibilità di crescere, diversamente oggi, più che mai,
sarà inaridito dal vuoto di “cose” e “dipendenze”, da messaggi tanto abbaglianti
che lo soffocheranno.
Il terreno buono
C’è chi pensa che l’habitat naturale della nascita e dello
sviluppo della fede, specie per gli adulti, deve essere l’ambiente della
comunità cristiana, in primis la parrocchia. Si parla di tre ambiti della
formazione cristiana: catechesi, liturgia, carità.
Certamente il ruolo del sacerdote e di catechisti è una
grande opportunità, tuttavia la famiglia è il luogo naturale per lo sviluppo
della fede. “È bello pensare che Dio ti sfiora non solo nelle liturgie solenni,
[…] nelle giornate mondiali e nei giorni di ritiro, ma anche, e soprattutto,
nella vita comune, nel quotidiano” (Ermes Ronchi: Le case di Maria).
L’autenticità del Vangelo non è ideologia, codice morale ma
realtà viva e vissuta, luogo di incontro tra la materialità della nostra vita e
Dio.
Arare, seminare, attendere
Oggi troppo spesso nelle persone rimane della fede una
qualche tradizionalità, vuota di significato, senza riscontro con la realtà
vissuta. Il vissuto è basato quasi totalmente sull’auto referenzialità dove
l’individuo stesso si dà le regole di vita senza riferirsi a niente altro che al
proprio buon senso. Almeno così si crede perché in realtà le scelte sono ben
condizionate da tutt’altro.
La mediazione per un vero cammino di fede con persone
adulte ha bisogno di coniugare messaggi – riflessione personale – confronto con
altri – vissuto concreto.
Questo è quanto i gruppi famiglia che si ritrovano a Vallà
(TV) si sono proposti di fare già da lungo tempo.
Per affrontare questo cammino formativo abbiamo ritenuto di
tenere presente qualche accorgimento.
- Proponiamo occasioni di seria riflessione combinata in un
primo momento di proposta di idee riuniti tutti assieme, e in un secondo momento
ogni gruppo, in qualche casa, si ritrova per dare concretezza e completezza ai
messaggi ricevuti.
- Ogni gruppo nel proprio incontro segue una metodica per
non scivolare in discorsi inutili.
- È stata creato un collegamento tra i gruppi per la
verifica del percorso.
- C’è l’apertura ad accogliere chiunque, in qualsiasi
situazione, per non ghettizzarci.
- È stata curata la programmazione puntuale anno dopo anno.
- Abbiamo sperimentato un cammino parallelo con i più
giovani perché ogni famiglia sia sintonizzata sulla stessa “rete”.
- Soprattutto abbiamo la ferma convinzione che si tratta di
un cammino permanente, con cadenza regolare, non troppo assillante ma neppure
troppo diradata. Le mutazioni complesse e veloci del nostro tempo impongono una
riflessione continua sulla vita perché essa possa essere consona con il
messaggio cristiano.
- Attendere o meglio perseverare. La perseveranza è una
virtù umile, cemento solido dei giorni, che si oppone alla tentazione di
arrendersi all’abitudine.
Come sentinelle nella notte
Se rileggiamo il salmo 130, troviamo uomini che continuano
a guardare l’orizzonte per cogliere le prime luci dell’aurora che preannuncia il
nuovo giorno.
Come ogni tempo nella storia ha avuto un nuovo giorno,
anche il nostro tempo ha bisogno di sentinelle, di profeti che sappiano scorgere
la bontà della novità che si nasconde dentro un vortice che sembra inghiottire
tutto.
Profeti non straordinari e non lontani dai semplici
parametri familiari; mamme che sanno vivere una straordinaria normalità, papà
pieni di misericordia come l’Abbà celeste nella povertà della routine, famiglie
come cellule piene di energia per ri-crearsi e ri-creare.
Nella Bibbia troviamo spesso le parole: “Dio si ricordò
della sua fedeltà”.
Egli continua a ricordarsene nonostante le mie risposte
incerte, quelle della mia famiglia, di tante altre famiglie e, nonostante la
nostra poca fede, saremo ugualmente profeti.
Da una casa dove c’è amore, da una famiglia che scommette
sulla fedeltà, da un gruppo di famiglie che si confronta e sostiene, viene la
forza miracolosa per cambiare il mondo.
20-L’ANNO DELLA MISERICORDIA
Parma - Parrocchia Santa Maria dell’Annunziata
L'anno della Misericordia si apre per il Collegamento dei
GF con una nuova occasione di condividere la sua esperienza con un gruppo di
famiglie dei “ragazzi della Cresima” appartenenti ad una parrocchia del centro
di Parma.
Complice una telefonata di Padre Valentino, operante in
quella comunità, si è iniziato un percorso che sta muovendo i primi passi
seguendo le parole che papa Francesco ha affidato alle famiglie: “Permesso,
Scusa, Grazie”, tema a cui la nostra rivista ha dedicato un recente numero.
Partendo dalla voglia di camminare insieme e provare a
“prendersi cura” della propria coppia, i genitori - in contemporanea con
l'incontro del gruppo dei figli - hanno affrontato per primo il tema SCUSA a
dicembre, a ridosso dell'apertura dell'Anno Santo.
Il brano guida è stato quello che racconta del gesto di
Gesù nei confronti della donna portatagli perché sorpresa in adulterio. Le sue
parole: “Neanch'io ti condanno, va e d'ora in poi [io sarò al tuo fianco perché
tu possa cambiare vita e] non peccare più” ci hanno aperto il cuore e la mente
alla realtà della Misericordia, caratteristica di Dio.
La semplicità, il clima accogliente e familiare della
comunità dei Frati Minori, che guida la parrocchia, hanno fatto nascere nei
partecipanti la voglia di ritrovarsi ancora.
A gennaio abbiamo affrontato un altro tema critico in
famiglia: GRAZIE, il sapersi ringraziare.
Il grazie sincero è un “dire bene” dell'altro, di mia
moglie o di mio marito e nasce solo dalla logica del dono gratuito, tale da
creare meraviglia. Un grazie che risulta tanto più grande e pieno, quanto più ci
scopre incapaci di restituire in egual misura il dono ricevuto (es. i figli, i
nipoti, gli amici, il primo incontro con il coniuge). Solo la capacità di dire
grazie fa gustare la meraviglia di due innamorati, di un neonato che apre gli
occhi al mattino, di due amici che si ritrovano…
Per dire grazie Gesù ci dona occhi diversi per vedere
oltre, capire chi sia l'autore della nostra storia che con noi la sta scrivendo:
solo così possiamo comprendere quale senso abbiano i grazie nella fatica, nella
malattia e nella morte, senza essere passivi o distaccati dalla vita stessa. È
il comandamento di Gesù: vivere la vita fino in fondo, abbracciarla tutta
intera, viverla in pienezza. Questo può essere il nostro dire grazie, nei gesti
quotidiani delle nostre famiglie, nel tempo libero e nell'ambiente di lavoro.
A piccoli passi il gruppo si è pian piano rinsaldato, ha
creato uno spazio per accudire i figli più piccoli grazie a generosi animatori,
ha allargato la sua cerchia e si è confrontato con la vocazione di padre
Valentino; è diventato così segno nella comunità, della comunità. E annuncia a
ciascuno che un cammino per le famiglie è possibile, che ritagliarsi del tempo
per sé è un regalo. Perché è il sabato fatto per l'uomo, Dio non ci ruba niente,
anzi centuplica tutto, anche la gioia di stare insieme.
Le prossime occasioni hanno già un punto d'arrivo, la
partecipazione ad una settimana estiva, con i GF.
Magari vicino ad Assisi… in agosto.
Antonella e Renato Durante
Abbiamo in Cielo un altro amico che ci attende
Pier Carlo Barbaglia, a soli 52 anni, ci ha lasciato dopo
aver combattuto per due anni contro un male incurabile.
Lo ricordiamo qui perché fu grazie a Lui e a don Dino
Bottino, responsabile dell’Ufficio famiglia di Novara, che il Collegamento tra
Gruppi Famiglia riuscì ad organizzare nel 2002 a Galliate (NO) il convegno
nazionale: “La famiglia, risorsa per progettare la pastorale in parrocchia”.
Pier Carlo e la moglie Maria Ida ci avevano conosciuti
grazie ad una delle tante scuole allora attivate da Guido Lazzarini, e avevano
costituito un gruppo famiglia parrocchiale, collaborando, in seguito, con la
nostra rivista. Pier Carlo si era formato nell’Azione Cattolica, ed era attivo
nella pastorale familiare parrocchiale e diocesana.
A Maria Ida, ai suoi tre figli e al fratello don Silvio, va
il nostro pensiero e le nostre condoglianze.
La redazione
21-CAMPI ESTIVI 2016
Calendario provvisorio
24-31 luglio San Giacomo di Entraque (CN)
Tema da definire.
Relatore: Angelo Fracchia, biblista.
Org.: Diocesi di Cuneo.
È possibile partecipare anche al solo week-end finale.
Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786,
tommy.angela@libero.it
7-14 agosto Appennino ligure (CN)
Tema e relatori da definire.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Daniela e Massimiliano Rora, 328 7654618,
daniemassi2001@libero.it,
14-21 agosto Voltago Agordino (BL)
Tema da definire.
Relatore: Fabiola Dall'Agnol.
Sacerdote: don Sandro Dussin.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718,
antoniobottero@alice.it
14-21 agosto Bessen Haut (TO)
Tema e relatori da definire.
Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).
Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431, curra@email.it
14-21 agosto Nocera Umbra (PG)
Tema da definire.
Relatori locali.
Sacerdote: padre Valentino Menegatti.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Antonella e Renato Durante, 348 5558619,
ren-anto@libero.it
21-28 agosto Voltago Agordino (BL)
Tema da definire.
Relatore: Gabriella Del Signore.
Sacerdote: don Daniele Vettor.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595, segninuovi@alice.it
Il calendario, aggiornato in tempo reale, è consultabile sul sito: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le notizie in evidenza.
22-BILANCIO 2015 F&F
Di nuovo in rosso, e che rosso!
Carissimi,
Come potete leggere nella tabella sottostante, il bilancio
2015 dell’associazione Formazione e Famiglia, editrice della rivista, è
ritornato quest’anno in passivo.
Quello che era stato tempo addietro il sussidio annuale,
che costituiva un numero aggiuntivo inviato a coloro che ci sostengono, ha
sostituito il numero di settembre della rivista ma neanche questo è bastato per
evitare il passivo.
Ad avere il bilancio in rosso ci siamo abituati perché
comunque, alla fine, i conti tornato grazie alla Provvidenza.
Ma, cari amici, la provvidenza siete soprattutto voi, con
il vostro sostegno, anche economico.
Ci contiamo!
il Presidente Noris Bottin
Per prendere visione del bilancio
clicca qui!
23-SORRIDI ALLA VITA E LA VITA TI SORRIDERA'!
Credo che i detti popolari racchiudano
sempre qualche perla di saggezza.
Ho sperimentato tante volte
nella mia vita la forza del sorriso.
Quando tutto ti sembra nero, ti senti scoraggiato,
deluso, imprigionato in un tunnel che sembra non
avere nessuna via di uscita, prova a sorridere!
Sorridi al Signore che in ogni situazione dolorosa
viene a farti visita e desidera sostenerti, rendere
leggero e dolce ogni tuo peso.
Sorridi al fratello che in quel momento ti passa
accanto e forse ha più bisogno di te di un sorriso che
riaccenda un raggio di speranza nel suo cuore.
Sorridi all'attimo che in quel momento ti è donato
di vivere: è unico, non tornerà più e sta a te non
permettere che sia passato invano,
renderlo bello e pieno di significato.
Sì, sorridi alla vita e la vita ti sorriderà!
Chiara Amirante