Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF90 – GIUGNO 2016
L'ANNO SANTO DELLA MISERICORDIA
Ho avuto fame... sete... ero nudo...
Lettere alla rivista
1-LE OPERE DI MISERICORDIA
La misericordia è l’architrave dei rapporti tra Dio e l’uomo.
Con il Giubileo hanno fatto la loro ricomparsa nel
discorso ecclesiale le opere di misericordia. Tra un giubileo e l'altro perché
non se ne parla o se ne parla poco?
Luciano
Risponde mons. Giancarlo Grandis, Docente di Teologia Morale del Matrimonio
Dio si è rivelato all’uomo come Padre di misericordia. E
Gesù, che ci ha svelato il significato profondo della sua paternità, soprattutto
attraverso la stupenda parabola del Figliol prodigo, ci invita ad essere
misericordiosi come il Padre. Ce lo ricorda particolarmente l’evangelista Luca:
“Siate dunque misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36).
Le opere di misericordia sono un modo per imitare nella nostra vita di credenti
le stesse opere che Dio ha operato in tutto l’arco della Storia della Salvezza,
e continua ad operare attraverso la missione della Chiesa che, come Maria, è
chiamata ad essere madre di Misericordia.
Papa Francesco, nell’indire il giubileo della misericordia, ci ha ricordato che
la misericordia è l’architrave dei rapporti tra Dio e l’uomo.
Con l’incarnazione del Figlio di Dio, la misericordia ha assunto un volto, il
volto di Gesù. “Gesù Cristo – ci dice sempre papa Francesco nella bolla di
indizione – è il volto della misericordia del Padre”. Egli “con i suoi gesti e
con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio”. La misericordia è
“l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro”.
Soprattutto in questo momento della sua vita, la Chiesa si sente chiamata a
diventare segno efficace della misericordia di Dio e sollecita tutti noi
credenti ad esercitare le opere di misericordia, sia corporali che spirituali,
come variazioni e articolazioni concrete del comandamento nuovo dell’amore, che
Gesù ci ha lasciato come testamento, imitando il suo amore.
Per questo papa Francesco ha voluto indire questo giubileo straordinario, per
invitare tutta la Chiesa a distribuire la medicina della misericordia.
Egli ha coniato l’ardita immagine di Chiesa come “ospedale
da campo”, alludendo certamente alla parabola del Buon Samaritano, che esprime
l’essenza della sua missione al mondo.
Lei si domanda perché in questi anni se n’è parlato poco? Forse si potrebbe dire
sulla misericordia ciò che disse un vescovo martire dei primi secoli della
Chiesa: “È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo”.
Più che dette, le opere di misericordia vanno praticate.
grandis.giancarlo@gmail.com
Dialogo tra famiglie
2-AMMONIRE I PECCATORI
Educare a cosa significa il peccato
Non ho mai capito come "ammonire i peccatori" possa
essere un'opera di misericordia. Non mi sembra che i preti che una volta
tuonavano dai pulpiti fossero particolarmente misericordiosi.
Giovanna
Credo sia necessaria una premessa linguistica: ”Ammonire”
non significa sgridare, ma “mettere in guardia con autorevolezza; ammaestrare;
correggere” (cfr. vocabolario), e occorre anche tener conto del fatto che molte
formulazioni ancora in uso nel linguaggio catechistico sono in un italiano ormai
desueto. Da questo equivoco e da una certa presunzione di essere la “verità
parlante” credo nascesse il tuonare dal pulpito, quasi certi della propria
santità e della condizione di peccatori dei fedeli: anche questo errore fa parte
del debito di catechesi e pastorale che abbiamo verso tanti fratelli che
chiamiamo lontani! Il Dio Amore non esisteva proprio!
L’opera di misericordia invita ad educare a cosa significhi il peccato: come fai
capire a un figlio cosa è bene e cosa è male, così dobbiamo fare in pubblico, di
fronte ad una società in cui è bene tutto quello che piace! Il peccato fa male a
chi lo commette, è tradire la propria umanità e il senso della vita: siamo fatti
per amare ed essere felici, il peccato ci fa ripiegare su noi stessi e ci
uccide. Allora ammonire è presentare un Dio che non ti ruba niente, anzi ti
offre la pienezza di vita, non ti manda all’inferno (come dicevano i
predicatori), ti ci lascia andare se tu lo vuoi: rispetta la tua libertà fino in
fondo, guardandoti con estremo dolore andare verso l’infelicità, tu che sei Suo
figlio amato, prediletto!
Anna Lazzarini
Editoriale
3-LA MISERICORDIA DI DIO
Per vivere nei nostri gruppi il Giubileo
di Franco Rosada
Il tema della misericordia è molto caro a papa Francesco.
Nel primo Angelus da lui presieduto, citò un libro del cardinale Kasper sulla
misericordia affermando che gli aveva fatto tanto bene.
Sei mesi dopo, sempre all’Angelus “lanciò” la Misericordina, che come sapete non
è un medicinale ma la preghiera del Rosario, in una confezione realizzata dalla
diocesi di Cracovia. Infine, a inizio 2015, ha annunciato un giubileo
straordinario, per ricordare i cinquant’anni dalla fine del Concilio vaticano II,
dedicato alla misericordia, evento che stiamo attualmente vivendo.
Anch’io sono stato “travolto” dall’attenzione che circonda l’operato di papa
Francesco e ho deciso di dedicare questo numero, dopo i due precedenti dedicati
alla “Laudato sii” e alla “Evangelii gaudium”, proprio al tema del Giubileo.
Qualche lettore più attento si potrà lamentare perché, nell’ultimo numero del
2015, avevo annunciato un altro argomento.
Ma sappiamo bene che ci sono temi più “notiziabili” di altri e questo è appunto
il caso del Giubileo.
Per affrontare questo tema sono partito dal libro di papa Francesco uscito
proprio in coincidenza con l’inizio del Giubileo, e che spero abbiate letto in
molti: “Il nome di Dio è misericordia”.
Ho poi provato ad inquadrare il tema del Giubileo dal punto di vista storico,
poiché si tratta di un evento molto controverso e dibattuto, di cui non vi è
traccia nella Chiesa fino al 1300.
Sono poi passato ad approfondire il tema della misericordia, misericordia di Dio
innanzi tutto, quella di cui Gesù ci ha rivelato il volto ma che era già
presente nell’Antico Testamento, e di cui abbiamo molto bisogno oggi, anche a
livello di coppia e di famiglia.
Gran parte del numero è stato infine dedicato ad approfondire le sette opere di
misericordia corporale e le sette opere di misericordia spirituale, dedicando a
ciascuna di esse una pagina.
Spero di avere proposto del materiale, per ogni opera, sufficiente per la
riflessione personale, di coppia e di gruppo.
Troverete infine il calendario definitivo dei campi estivi e l’invito a
destinare il 5x1000 alla nostra associazione di volontariato.
Concludo segnalandovi un piccolo cambiamento nell’impostazione delle pagine:
troverete più spazi bianchi e, di conseguenza, testi più brevi.
Spero che ciò, da una parte, renda più facile la lettura e, dall’altra, invogli
a leggere tutto il testo.
formazionefamiglia@libero.it
4-MISERICORDIA E TENEREZZA
di Ferruccio de Bortoli
La misericordia è rimasta a lungo nel ripostiglio polveroso della dottrina
cattolica. Eppure, come scrive nel suo bel libro Misericordia il cardinale
Walter Kasper, è un concetto fondamentale del Vangelo. Perché questa parola
chiave dell'insegnamento e della pratica pastorale è stata sottovalutata o
dimenticata?
Una spiegazione ce la fornisce lo stesso Kasper quando
s'interroga sui complessi contemporanei della Chiesa, sempre in bilico tra
aperture moderniste e rigidità dottrinali.
La misericordia è stata a lungo scambiata per debolezza teologica, quasi
rappresentasse una visione dolciastra o melodrammatica della fede, “una
morbidezza esangue ed estenuata”.
Ciò ha comportato una definizione algida e metafisica del divino. Distante,
freddo. Non in grado di soffrire con noi, di partecipare alle nostre miserie, di
condividere le nostre povertà.
Un Dio così descritto può incutere timore, rispetto, ma difficilmente può
apparire simpatico, nota Kasper. La misericordia è stata poi confusa con la
giustizia divina, che è un'altra cosa.
I peccati vengono puniti anche se Gesù accoglie il pubblicano e lo perdona. Ma
lo perdona perché si è umiliato e si è pentito.
[...] Anche nel nostro lessico familiare la misericordia era scomparsa, Un
termine desueto, ingiallito, come una cartolina d'altri tempi. Un'espressione
arcaica. “Non ha avuto misericordia”. Un modo di dire. Ma non più in uso.
[...] Il pontificato di Francesco ha eletto la misericordia a tema guida della
propria predicazione quotidiana. Accompagnata da un'altra parola chiave:
tenerezza. Il giubileo straordinario corona questa intuizione del Papa gesuita
che si dichiara peccatore e dice: “Chi sono io per poter giudicare?”. E si batte
per una Chiesa povera e con cuore, cioè misericordiosa. Partecipe dei destini di
ognuno di noi.
Testo tratto dalla prefazione al libro di Giovanni Santambrogio, Volti della
misericordia nell'arte (I), Àncora Editrice, Milano 2016.
5-IL NOME DI DIO È MISERICORDIA
Il Signore non si stanca mai di perdonare
Il messaggio più forte che ci ha lasciato il Signore
Gesù è la misericordia
Per essere perdonati è sufficiente muovere solo un piccolo passo verso Dio o
almeno avere il desiderio di muoverlo.
di Papa Francesco e Andrea Tornielli*
L’idea di un giubileo del perdono è nata durante una tavola rotonda tra teologi
a Buenos Aires. Ne sono stato colpito e, divenuto Papa, attraverso la preghiera,
l’ho realizzata.
La mia idea di Chiesa, infatti, è quella di un ospedale da campo, dove hanno la
precedenza le ferite più gravi, dove le persone possono trovare vicinanza e
prossimità.
Tempo di misericordia
Il nostro tempo, la nostra umanità ha bisogno di misericordia perché ha
ferite profonde e non sa come curarle o crede che non si possano curare.
Infatti, la fragilità dell’oggi è quella di credere che non vi sia possibilità
di riscatto, che non ci sia nulla che possa rimetterti in carreggiata.
Così oggi, in tanti ricorrono a maghi e chiromanti perché, come scriveva
Chesterton: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede più niente, perché
comincia a credere a tutto”.
Riconoscersi peccatori
Questa è una grazia da chiedere. Senza questo dono si può arrivare a
riconoscere i propri limiti, i propri sbagli ma non il proprio peccato.
Sentirsi peccatori è mettersi davanti a Dio, che è il nostro tutto,
presentandogli noi stessi, cioè il nostro niente.
Il Signore non vuole che nessuno si perda e fa di tutto per far breccia nel
nostro cuore.
La sua misericordia è infinitamente più grande del nostro peccato e il luogo in
cui avviene l’incontro con Lui è proprio il mio peccato.
Per una buona confessione
Siamo peccatori perché c’è il peccato originale e di questo facciamo tutti
esperienza. Sappiamo riconoscere il bene e il male, cerchiamo di seguire la via
del bene ma spesso cadiamo e scegliamo il male.
Per una buona confessione serve guardare con sincerità in noi stessi e
riconoscere il nostro peccato. Non possiamo essere superbi: se non riconosciamo
la nostra miseria, non possiamo ricevere il dono della Sua infinita
misericordia.
Abbondare in misericordia
Non credo che nella Chiesa vi sia troppa misericordia perché chi lo afferma
confonde il peccato con il peccatore.
La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo comportamento,
quest’azione è peccato. Ma, nello stesso tempo, abbraccia il peccatore che si
riconosce tale.
E se si ricade nel peccato non si è abbandonati perché la Chiesa è chiamata a
perdonare “settanta volte sette” (Mt 18,22).
La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con
quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio.
Dottrina e misericordia
La misericordia è il primo attributo di Dio. Poi si possono fare riflessioni
teologiche su dottrina e misericordia, ma senza dimenticare che la misericordia
è dottrina.
Scriveva infatti sant’Ambrogio: “Dove si tratta di elargire la grazia, là Cristo
è presente; quando si deve esercitare il rigore, sono presenti solo i ministri
ma Cristo è assente”.
Gesù non esita a guarire i lebbrosi, anche se avvicinarsi ad essi violava la
Legge. A Lui importava raggiungere i lontani e salvarli.
Ancora aggi questa logica può scandalizzare, può irritare chi è abituato a far
rientrare tutto nei propri schemi mentali e normativi, e non si lascia
sorprendere da un amore più grande.
In queste persone è venuto meno lo stupore per la salvezza che è stata loro
donata. E così nasce la tentazione di impossessarsi di facoltà che non sono sue,
ma del Signore.
A chi è troppo rigido potrebbe far bene uno scivolone perché così,
riconoscendosi peccatore, incontrerebbe Gesù.
Peccato e corruzione
Nel giudicare gli altri la giustizia da sola non basta. Perché vi sia
fratellanza tra gli uomini serve anche la misericordia. Con la misericordia e il
perdono Dio va oltre la giustizia, la supera per arrivare all’amore, che è a
fondamento di una vera giustizia.
Ma bisogna distinguere tra peccato e corruzione. Il peccato e la corruzione sono
due cose distinte, seppure legate tra loro.
Il peccato, soprattutto se ricorsivo, può portare alla corruzione, non tanto dal
punto di vista della quantità - tanti peccati fanno un corrotto - quanto dal
punto di vista della qualità.
Si corre il rischio di acquisire abitudini che limitano la capacità di amare e
portano all’autosufficienza.
Il corrotto finisce per credere di non dover più chiedere perdono.
Uno può essere un grande peccatore ma non per questo è automaticamente un
corrotto.
Il peccatore, riconoscendosi tale, ammette che ciò a cui ha aderito è falso,
sbagliato. Il corrotto no.
Il corrotto è quello che si indigna quando gli rubano il portafoglio, ma poi non
paga i contributi a chi lavora per lui.
Misericordia e compassione
La misericordia ha più a che fare con il giudizio sul nostro peccato, la
compassione ha un volto più umano. È non rimanere indifferenti di fronte alla
sofferenza dell’altro. È quello che Gesù sentiva quando vedeva le folle che lo
seguivano.
Il verbo greco che indica questa compassione rimanda alle viscere o all’utero
materno, richiama un amore viscerale. Dio ci ama in questo modo, con compassione
e misericordia.
Di questa compassione oggi c’è bisogno per vincere la globalizzazione
dell’indifferenza.
* liberamente tratto dal libro degli autori: Il nome di Dio è misericordia,
Edizioni Piemme, Milano 2016.
6-IL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA
L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia.
Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto
dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della
sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia.
La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso
e compassionevole.
La Chiesa “vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia”.
Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della
misericordia.
La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto
dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la
Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più
significativa.
Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella
nostra cultura si faccia sempre più diradata. Perfino la parola stessa in alcuni
momenti sembra svanire.
Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e
sterile, come se si vivesse in un deserto desolato.
È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso
del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle
debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli.
Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per
guardare al futuro con speranza.
papa Francesco, Misericordiae vultus, 11 aprile 2015, n.10
6-IL GIUBILEO IERI E OGGI
Da una Chiesa “dogmatica” a una Chiesa “pastorale”
Il Giubileo diventi momento propizio per riscoprire il
senso del peccato e per convertirci a Dio.
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo [...] mi ha mandato [...] a
proclamare l'anno di grazia del Signore. Lc 4,18-19
a cura della Redazione
“Il giubileo indetto dalla Chiesa di Roma non gode di buona stampa. Parente
lontanissimo del giubileo biblico, è apparso sulla scena storica alla fine del
XII secolo come strumento economico e politico di prima grandezza per
l’affermazione della monarchia papale.
Fu favorito dall’ “invenzione”, nel secolo precedente, del Purgatorio,
dall’introduzione della confessione annuale nel 1215, e dal tramonto di
Gerusalemme nell’orizzonte latino con la fine disastrosa dell’ultima crociata
nel 1270.
Il giubileo è stato da sempre pesantemente criticato, quasi sempre a ragione,
per il giro di affari ad esso legato, dovuto soprattutto alla pratica
dell’indulgenza.
Durante il giubileo, infatti, nei tempi e nei luoghi designati dal Papa è
possibile “lucrare” l’indulgenza, che libera dalla pena assegnata come penitenza
e non ancora scontata tanto dai vivi quanto dai morti”.
Abbiamo ripreso, sintetizzandolo, l’inizio del libro di Alberto Melloni: Il
giubileo. Una storia (Editori Laterza, Roma-Bari 2015) perché ci sembra evidenzi
con chiarezza alcuni punti critici della tradizione cristiana sul giubileo.
Seguiremo, in quest’articolo alcune riflessioni proposte dallo stesso Melloni,
integrandole con altre informazioni.
La colpa e la pena
Il catechismo (n.1459) ci insegna che, con la confessione, viene cancellata
al penitente la colpa legata al peccato ma non la pena, che oggi consiste nella
penitenza che il prete assegna al penitente.
Nei primi secoli della Chiesa non era così: il peccato grave comportava una
penitenza pubblica molto gravosa.
Con san Colombano (VIII secolo) l’iter penitenziale divenne privato e si
introdusse il concetto di “penitenza tariffata”: con il peccato il fedele
contraeva un debito verso Dio che andava pagato secondo un “prezzo” o “tariffa”
penitenziale.
Il Purgatorio
Pur attenuato rispetto ai primi secoli, il cammino penitenziale rimaneva
comunque gravoso e non era per nulla scontato che si riuscisse a terminare prima
della morte.
Prese corpo quindi l’idea di uno stato intermedio tra Inferno e Paradiso,
denominato fuoco “purgatorio”, e poi Purgatorio, inteso come periodo di tempo
per scontare la pena residua e per purificare l’anima in vista della beatitudine
eterna.
Ma quanto può durare questo cammino di purificazione? In un’ottica intramondana
si parla si millenni, secoli, anni e, da parte dei vivi, si sente la necessità
di abbreviare questo “tempo” per i loro defunti con l'esecuzione in loro nome di
opere meritorie, completando la penitenza che loro non possono più fare.
L’indulgenza
Chi era economicamente agiato, poteva riscattare la penitenza con il
pagamento di una somma in denaro, che veniva versata a chi, povero o presbitero,
espiava per procura al posto dell’interessato. Ciò avveniva attraverso la
preghiera, il digiuno, la celebrazione della S. Messa.
Ciò però creò molti abusi e fece sì, che per contenerli, si diffondesse una
nuova pratica: l’indulgenza.
In realtà l’indulgenza era una possibilità presente fin quasi dall’inizio della
storia della Chiesa, ma sino all'VIII secolo, era sempre riferita al singolo
penitente.
Poteva essere concessa dal confessore o dal vescovo come atto di clemenza.
Da allora in poi, progressivamente, l’indulgenza perse il carattere personale e
da parte dei papi e dei vescovi fu concessa a tutti coloro che compivano una
determinata opera meritoria, come il pellegrinaggio a Roma o la partecipazione
alle crociate per liberare Gerusalemme.
Nell’anno 1300, trent’anni dopo il fallimento dell’ultima crociata, papa
Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo. L'indulgenza veniva offerta a tutti i
pellegrini che si fossero recati a Roma e avessero visitato per quindici volte
le basiliche papali.
L’anno santo
Nasce così l’Anno Santo, che fa riferimento ad un’antica tradizione ebraica
ma che per 1300 anni non aveva avuto riscontro nel cristianesimo.
Nella Bibbia si parla del giubileo nel libro del Levitico
(cap. 25) come di un anno, a cadenza cinquantennale, in cui va attuata la
remissione dei debiti, la fine della condizione servile, la restituzione della
terra. Il nome giubileo deriva dall'ebraico Jobel (caprone), in riferimento al
corno di montone utilizzato nelle cerimonie religiose.
Nella storia di Israele non vi è traccia della pratica giubilare perché
sostituta da un altro precetto: l’anno di remissione, che cade ogni sette anni e
ha praticamente le stesse caratteristiche dell’anno giubilare (cfr Dt 15).
La cadenza del giubileo doveva essere di cento anni, ma già nel 1350 fu portata
a 50 e poi, a partire dal 1475, a 25. A partire dallo scorso secolo i papi
iniziarono ad indire anni santi straordinari, come quello che stiamo vivendo,
indetto per i cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II.
Il “mercato” delle indulgenze
Negli anni giubilari le indulgenze sono sempre state gratuite a condizione
di soddisfare le norme che le hanno regolate. Quelle attuali prevedono: il
pellegrinaggio, la confessione sacramentale, la comunione eucaristica e la
preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice.
Nei secoli dal XIV al XVI l'uso delle indulgenze si diffuse moltissimo anche al
di fuori degli anni santi e si introdusse la possibilità di ottenerle con
un'offerta in denaro per supportare opere che stessero a cuore della Chiesa
stessa.
Si diffuse, inoltre, il fenomeno della questua, cioè la richiesta di denaro per
ottenere un'indulgenza, denaro che veniva raccolto dai quaestores mandati da
vescovi, conventi, chiese e organismi vari.
Ne nacque un vero e proprio mercato e tra il popolo maturò l’idea che con i
soldi si potesse “comprare” il Paradiso. Si diffuse l’idea che l’indulgenza
cancellava non solo la pena ma anche la colpa, cioè il peccato e la confessione,
il pentimento non servissero più.
Fu solo con il Concilio di Trento, cinquant’anni dopo Lutero, che la chiesa
cattolica pose un argine severo a questi abusi, togliendo ogni riferimento
monetario dalla pratica.
Il giubileo della misericordia
Gli anni santi che si sono succeduti da allora ad oggi, scrive Melloni, sono
stati ciascuno caratterizzati da uno “stile” che è quello del papa che lo ha
indetto.
Qual è lo stile di questo giubileo? La misericordia! In realtà tutti i giubilei
hanno sempre avuto per sfondo la misericordia, ma un conto è che questa venga
benignamente accordata dalla Chiesa e un altro che questa diventi lo statuto
della Chiesa, una Chiesa pensata come un “ospedale da campo”.
Dalla Restaurazione in poi, la Chiesa - è sempre a Melloni che faccio
riferimento - ha sempre espresso condanna nei confronti della modernità, pur
mutando obiettivi e strumenti.
È con papa Roncalli che questo meccanismo si inceppa. Pensa ad un Concilio per
restituire alla Chiesa e al suo magistero una diversa autorevolezza, che si
riassume in una parola: “pastorale”.
Nel discorso di apertura del Concilio dichiarerà: “la Sposa di Cristo preferisce
usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità” (n.2).
Papa Bergoglio cita poco il Concilio, ma quando lo fa
richiama principi di sinodalità effettiva, di povertà, di pace, di unità, di
riforma della Chiesa e del papato.
Nella bolla di indizione del giubileo Francesco parla dell’indulgenza non come
condono della pena dovuta al peccato ma come espressione del sentimento materno
di Dio, “fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono” (n.6).
E precisa: “nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati [...]
eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri
comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più
forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che [...] raggiunge il
peccatore perdonato e lo libera da ogni residuo della conseguenza del peccato,
abilitandolo ad agire con carità, a crescere nell’amore piuttosto che ricadere
nel peccato” (n.22).
formazionefamiglia@libero.it
7-L’AMORE VISCERALE DI DIO
Si dimentica forse una donna del suo bambino?
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito perché chi crede in Lui abbia la vita eterna. Gv 3,16
Il provare “viscere” di misericordia deve essere alla base delle nostre opere di
carità.
di Raniero Cantalamessa*
La parola misericordia è presente sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento con
due significati diversi, anche se interdipendenti. In un caso indica il
sentimento di Dio verso le sue creature, nell’altro il sentimento che le
creature devono nutrire le une verso le altre.
All’inizio fu l’amore
Il Dio trinitario è innanzitutto Padre. Il Padre è la fonte dell’amore. Il
Figlio è tale perché amato dal Padre e l’amore infinito che li unisce è lo
Spirito Santo.
Il Padre ama il Figlio ed è riamato non per grazia ma per necessità, perché è
essenziale alla sua natura.
Quando Dio crea il mondo e le creature a sua immagine e somiglianza il suo amore
diventa dono.
L’amore di Dio effuso nella creazione è grazia, non più natura, perché è
gratuito, potrebbe anche non esserci.
Questo amore è dunque frutto di dono, di misericordia. Una misericordia che
precede il peccato dell’uomo.
Il dono si fa perdono
Con la caduta dei progenitori dalla misericordia di Dio come dono si passa
alla misericordia come perdono.
Si passa dall’amore di donazione all’amore di sofferenza.
Il peccato e la ribellione dell’uomo producono in Dio una ferita che sarà sanata
dalla passione del Figlio incarnato: Gesù Cristo.
Ma le immani tragedie del Novecento hanno posto una domanda inquietante: Dio
dov’era in quelle circostanze? E la risposta di alcuni teologi è stata che Dio
era presente in quelle tragedie soffrendo a fianco degli uomini.
Dio può soffrire? Origene, teologo in lingua greca del III secolo, scriveva: “Il
Padre, Dio dell’universo, non soffre forse, in qualche modo? Quando si occupa
delle cose umane egli soffre una passione umana, soffre una passione d’amore”.
Questa intuizione è stata ripresa nel 1982 dalla Commissione Teologica
Internazionale e, con le dovute precisazioni e cautele, da Giovanni Paolo II
nell’enciclica Dominum et vivificantem.
Dio soffre perché ama
Per capire qualcosa della sofferenza di Dio si deve tener conto della
distinzione tra natura e persona nella Trinità.
Come natura, Dio è onnipotente, assolutamente perfetto, in Lui non vi può essere
dolore perché è il Vivente.
Il Padre, nei suoi rapporti interpersonali con il Figlio e lo Spirito, vive
un’unità perfetta di amore che esclude ogni forma di dolore.
Ma il Padre è anche il creatore dell’Universo che ha affidato all’uomo. Questo
rapporto con il creato lo coinvolge fin nell’intimo e, in questo contesto, si
inserisce il dolore.
Il Suo dolore nasce dal rifiuto dell’uomo a lasciarsi coinvolgere dal Suo amore.
Ciò che prova Dio è paragonabile a ciò che prova una donna che ha un intenso
desiderio di maternità ma che, per impedimenti fisici, non può diventare madre.
Quest’immagine di maternità mancata ci aiuta a capire alcuni dei testi più belli
e intensi dell’Antico Testamento.
Scrive Geremia: “ Non è un figlio carissimo per me Èfraim, il mio bambino
prediletto? [...] Per questo il mio cuore si commuove per lui e provo per lui
grande compassione” (31,20).
Il termine che traduciamo con la parola compassione in ebraico indica il grembo
della madre.
Di fronte all’uomo Dio si trova sprovvisto di ogni capacità non solo costrittiva
ma anche difensiva.
Di fronte al peccato dell’uomo Dio non può costringere l’uomo perché lo ha
creato libero né può distruggerlo perché Egli è fedele alle sue promesse (2Tm
2,13).
L’unica risposta di Dio sarà quella di amare, ancora e sempre, eternamene.
La misericordia si è fatta carne
La novità dell’incarnazione rispetto a ciò che Dio aveva già rivelato
nell’AT è che ora Dio non ci parla più per interposta persona ma “di persona”
perché il Figlio “è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”
(Eb 1,3). Il Figlio non solo “ci parla” della misericordia di Dio, ma è la
misericordia fatta carne.
La misericordia di Gesù si manifesta attraverso i suoi gesti, il suo
insegnamento, la sua passione e resurrezione.
Nell’incontro con i poveri, i peccatori, gli esclusi dalla società e dalla
religione il Signore mostra la compassione del Padre verso tutti gli uomini, in
particolare verso coloro che sono emarginati dai benpensanti.
Nel suo insegnamento, p.e. con le parabole della misericordia (Lc 15), Gesù si
serve di situazioni concrete per illustrare il modo di agire di Dio nei
confronti degli uomini, mostrandoci il “punto debole” del cuore del Padre.
Nella passione di Gesù la sofferenza di Dio fa un salto di qualità, diventa
qualcosa che conosciamo bene come uomini. Dio, in Cristo, ha manifestato la sua
misericordia non limitandosi a perdonare i peccati dell’uomo, ma prendendoli su
di sé, addossandoseli.
All’uccisione di Gesù, Dio risponde al più grande peccato del mondo con il suo
più grande atto di misericordia, rescuscitandolo “per la nostra salvezza”.
La resurrezione è scuola di misericordia perché invita alla riconciliazione e al
perdono dei nemici.
Beati i misericordiosi
Il Cristianesimo, non incomincia dicendo all’uomo che cosa deve fare per
salvarsi, ma dicendo cosa Dio ha fatto per salvarlo.
Noi amiamo perché Lui ci ha amato per primo. Questo vale anche per le opere di
misericordia. Dobbiamo essere misericordiosi perché abbiamo ricevuto
misericordia.
Gesù ci dice “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uno gli altri” (Gv
13,34). Non ci dice “così voi amate me”. Dio qui sembra quasi più preoccupato
del nostro amore per il prossimo che del nostro amore per Lui.
Perché questa affermazione? Perché noi viviamo ancora nella carne e anche
l’amore deve essere incarnato.
Viscere di misericordia
Conosciamo le opere di misericordia che la Chiesa ci propone.
Delle sette opere di misericordia corporale sei sono menzionate da Gesù nel
giudizio finale (Mt 25,31-46) e la settima, seppellire i morti, è ispirata dal
libro di Tobia (Tob 2,1-5).
Le sette opere di misericordia spirituale derivano dalla tradizione della
Chiesa.
Sono liste indicative che andrebbero continuamente esser aggiornate ai tempi.
Alle opere di misericordia corporale, per esempio, oggi si potrebbe aggiungere:
“non lasciare soli gli anziani”, a quelle spirituali “educare i propri figli”.
Vorrei qui riflettere non tanto sulla misericordia delle mani, ma su quella del
cuore: il fare il bene deve provenire dal nostro voler bene, perché la
benevolenza viene prima della beneficenza.
È chiaro che la misericordia interiore non può essere un alibi per non praticare
fattivamente la misericordia, ma il provare “viscere” di misericordia deve
essere alla base delle nostre opere di carità.
Giudizi e sguardi misericordiosi
Un ambito nel quale è importante praticare la misericordia dal cuore è
quello dei giudizi. Se siamo consapevoli che non si può vivere senza emettere
dei giudizi quello che va evitato è il veleno che tendiamo a mettere nei nostri
giudizi. Questi ultimi sono quelli che, con il peccato, condannano anche il
peccatore.
Un altro ambito riguarda lo sguardo. L’occhio è lo specchio dell’anima e il
nostro sguardo verso l’altro può uccidere o far vivere, spargere veleno o donare
conforto al fratello.
La misericordia dello sguardo la possono esercitare tutti, anche coloro che non
hanno nulla da dare.
La misericordia salva la famiglia
Una delle realtà più preziose e fragili di oggi è il matrimonio, la
famiglia.
Come nei rapporti tra Dio e l’umanità, anche nel matrimonio all’inizio di tutto
c’è l’amore, non la misericordia.
Senza l’amore, anche travolgente, non ci si sposa. Ma dopo anni, o mesi, di vita
insieme emergono i limiti reciprochi, i problemi, di salute, di finanze,
interviene la routine.
Quello che può salvare il matrimonio non è solo il perdono delle offese ma anche
la compassione e la tenerezza.
Per difendere la famiglia dalla mentalità corrente dell’ “usa e getta” occorre
riscoprire un’arte che praticavano le nostre nonne: il rammendo.
Tutti capiamo bene che cosa significa rammendare gli strappi nella vita di
coppia. Ma chi vuole indossare più un abito rammendato?
Il matrimonio però non appartiene all’ambito delle cose, ma a quello della vita.
L’organismo umano è sottoposto a continue perdite che sa riparare, ad attacchi
di agenti e virus di ogni tipo che sa sconfiggere attraverso gli anticorpi.
Questo vale anche per il matrimonio. Attraverso un processo
di strappi e ricuciture, di crisi e di superamenti, il matrimonio non si sciupa,
ma cresce, si affina, migliora. Proprio come la vita.
Credo che Gesù, sia pronto anche oggi, come lo fu a Cana di Galilea, se lo si
invita alle proprie nozze, a far sì che il vino ultimo - l’amore e l’unità degli
anni della maturità e della vecchiaia - sia migliore di quello della prima ora.
* liberamente tratto dal libro dell’autore: Il volto della misericordia,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015.
Brani per la Lectio
• Giovanni 4,5-42 Gesù e la samaritana
• Luca 7,36-50 Gesù e la peccatrice
• Luca cap. 15 Le parabole della misericordia
• Luca 10,25-37 Il buon samaritano
8-DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI
Dobbiamo considerare l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni. Benedetto XVI
La preghiera che Gesù ci ha insegnato contiene la richiesta
del pane rivolta al Padre: “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).
Al pane che Dio ci dona corrisponde quello che noi, a nostra volta, doniamo:
“voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37).
Il prendere cibo rimanda al lavoro (il cibo va preparato), alla socialità
(raccoglierlo e consumarlo), alla convivialità. A tavola si condivide non solo
il cibo ma si scambiano parole e discorsi nutrendo così anche le relazioni.
Se tra gli uomini esiste un amore incondizionato, questo è quello della madre
nei confronti del proprio figlio; la madre non solo dà il cibo ma, almeno fino
allo svezzamento, è cibo per il figlio.
Ma oggi, nel mondo occidentale, viviamo una scissione tra cibo e relazione: si
mangia in fretta, da soli, in modo disordinato e crescono i disturbi alimentari.
Nei paesi poveri il problema è invece avere qualcosa da mangiare.
Questo non è una questione irrisolvibile perché sappiamo che le cause sono
politiche ed economiche, come l’ineguale distribuzione delle ricchezze.
Garantire la sicurezza alimentare per tutti è essenziale per la sicurezza e la
pace del mondo intero.
Luciano Manicardi
LA GIOIA DEL CUCINARE
Il cibo è nutrimento, è festa, è incontro, è una realtà che unisce ingredienti
diversi per farli diventare una cosa sola, speciale e unica. È l'incontro di
natura e cultura, di tradizioni e novità.
L'esperienza di cucinare ai campi famiglia è tutto questo.
Ho messo a disposizione le mie capacità di cuoca, imparate da mia mamma e
allenate cucinando per tre figli che hanno sempre mangiato con grande appetito.
Ai campi si deve riuscire ad accontentare persone provenienti da altre regioni e
quindi con tradizioni alimentari diverse da quelle a me più familiari, quelle
piemontesi, ma ho imparato (anche grazie agli anni in cui sono stata scout) che
la semplicità e sempre la soluzione migliore in grado di soddisfare i diversi
palati, più o meno raffinati.
Per me poi il condimento che non deve assolutamente mancare quando si cucina è
l'amore, l'amore per gli ingredienti che la natura ci dona, l'amore per le
persone a cui è destinato il cibo che stiamo preparando, l'amore nel cuocere e
lavorare gli ingredienti dei piatti in programma, l'amore per l'ambiente che ci
accoglie.
Poi importante è il non sprecare, anche per rispetto verso chi purtroppo non ha
forse altro da mangiare che una ciotola di riso e a questo proposito mi sono
sempre divertita tantissimo l'ultima sera dei campi quando preparavo “La cena
degli avanzi”: frittata di pasta, crocchette di riso, verdura mista in padella,
macedonia di frutta utilizzando tutto quello che era rimasto in dispensa.
Ricordo che all'ultimo campo di Spello, non ho potuto farla, perché eravamo
stati così bravi negli acquisti che non abbiamo avanzato nulla.
Pensando allo spunto che mi è stato dato “Dar da mangiare agli affamati” dopo le
precedenti riflessioni di cuoca ai campi, mi viene in mente che nella nostra
società manca un cibo particolare: l'attenzione all'altro.
Quante volte le nostre tavole sono piene di cibi e di bevande, ma vuote di
affetto, di ascolto, di disponibilità, di sorrisi sinceri e di risate spontanee?
I nostri affamati oggi sono affamati di noi, del nostro tempo per loro, delle
nostre attenzioni disinteressate, dei nostri occhi e delle nostre mani tese.
Antonella
Per il lavoro di gruppo
Evitiamo di comperare cibi raffinati e costosi, cuciniamo solo ciò che
consumiamo.
9-DAR DA BERE AGLI ASSETATI
Andate incontro agli assetati, portate acqua. Is 21,14
Ogni 20 secondi un bambino muore a causa delle malattie associate alla mancanza
di acqua potabile. Ban Ki-moon
Nella zona del Vicino Oriente, in cui si sviluppa la storia
del popolo di Israele, l’acqua è una risorsa particolarmente preziosa a causa
del terreno e del clima.
Di conseguenza, molte pagine bibliche parlano del terrore
per la siccità e le sue conseguenze.
La cultura biblica è quindi anche cultura di pozzi e
cisterne per custodire e distribuire un bene così prezioso come l’acqua.
I pozzi, per la loro importanza per i pascoli, erano spesso
origine di dispute tra pastori (cfr Gen 21,25) ma anche luoghi d’incontro e di
conversazione amichevole, in cui le barrire tra uomo e donna conoscevano un
allentamento.
Gesù stesso, stanco e assetato, siede presso un pozzo e
chiede da bere ad una donna che viene ad attingere acqua (cfr Gv 4,1-41).
Venendo all’oggi, l’acqua, fondamentale per la vita, è una
risorsa rinnovabile ma limitata e la crisi idrica mondiale che investe molti
paesi poveri, non lascia indenni neanche paesi ricchi.
Questo può diventare anche un problema bellico: è stato
affermato che “se le guerre del ventesimo secolo sono state combattute per il
petrolio, quelle del ventunesimo avranno come oggetto del contendere l’acqua”.
È necessario quindi riconoscere che l’acqua è un diritto e
non una merce e che la disponibilità di acqua, e di acqua potabile, è un diritto
essenziale dell’uomo.
O viene riconosciuta come un diritto o diventerà sempre più
un privilegio.
Luciano Manicardi
IL POZZO DI SANT’ANNA
Questa è la scritta che compare in italiano e in francese
su un pozzo nella diocesi di Natitingou nel nord-ovest del Benin, presso
“Ntansi” (che in dialetto locale significa “Casa delle belve”), villaggio
immerso nella savana, neanche segnato sulle carte geografiche, nella regione di
Pam Pam.
È il progetto nato dal legame di amicizia che unisce la
parrocchia Sant’Anna di Torino a don Servais Sanni Yantoukoua N’Tia, sacerdote
formatosi presso il Seminario Maggiore di Torino, che ha prestato servizio come
seminarista per oltre tre anni presso la parrocchia torinese.
La parrocchia è rimasta in contatto con don Servais e si
sono avviati diversi progetti fra cui quello della costruzione del pozzo.
“In alcune zone della mia diocesi – racconta don Servais –
sorgono villaggi dove abitano popolazioni che vivono ancora allo stato brado,
facendo ricorso a tecniche primitive e rudimentali. Quando mi recai per la prima
volta nel villaggio di Ntansi per una visita – prosegue – mi offrirono, come è
usanza, l’acqua in segno di accoglienza (l’acqua è il bene più prezioso in
Africa); pensavo, però, fosse birra in quanto era rossa. Era invece proprio
acqua che prendevano per tutto il villaggio da un torrente in secca, si trattava
di acqua stagnante mescolata a fango che bevevano animali e uomini insieme”.
L’opera è stata conclusa ed inaugurata a Natale 2014, da
allora porta vita e speranza non solo al villaggio di Ntansi ma a tutta la zona
di Pam Pam.
Quando recentemente una delegazione di torinesi, tra cui
chi scrive, in rappresentanza della parrocchia Sant’Anna ci siamo recati a
trovare don Servais, siamo stati ricevuti in festa da tutto il villaggio,
letteralmente sperduto nella savana. Ci hanno spiegato come il pozzo, e l’acqua,
abbiano cambiato la loro vita.
“La costruzione del pozzo è un punto di partenza, un
piccolo seme – commenta don Servais - segno della provvidenza e dell’amore di
Dio. In questi primi anni da sacerdote – prosegue – ho sperimentato che anche
nelle situazioni più disperate in cui sembra possa prevalere solo la morte, Dio
c’è, si manifesta nella sua misericordia e porta la croce insieme alle
popolazioni in difficoltà”.
Stefano Di Lullo
Per il lavoro di gruppo
Accontentiamoci di bere acqua, cercando di risparmiare
sulle bibite e sul vino.
10-VESTIRE GLI IGNUDI
Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Gb
1,21
Solleverò le tue vesti fino al volto, così si vedrà la tua
vergogna, i tuoi adultèri e i tuoi ammiccamenti! Ger 13,26-27
La vita umana si svolge tra due nudità: quella dell’inizio
e quella della fine della vita.
E la nudità del neonato e quella del cadavere è sempre
rivestita da altri.
Il vestirsi è un’arte che il bambino impara grazie alla
madre che lo veste; anche l’anziano spesso deve farsi aiutare a vestirsi e
svestirsi.
Durante l’esistenza sono le situazioni di povertà e miseria
che possono ridurre alla nudità, non tanto fisica, quanto intesa come
umiliazione e indegnità.
Il vestito, poi, traduce quel senso di pudore che forse è
il più antico gesto che distingue gli uomini dagli animali e che non si limita
all’ambito sessuale, ma ha a che fare con la totalità dell’essere umano, come il
suo senso di identità.
L’uomo ha coscienza che in lui c’è uno spazio intimo, una
zona privata che sfugge allo sguardo e al dominio dell’altro.
L’atto umano di vestire chi è nudo si fonda, per la Bibbia,
sul gesto originario di Dio stesso che ricoprì la nudità umana preparando gli
abiti e poi vestendo Adamo ed Eva dopo la loro trasgressione (cfr Gen 3,21).
Dio veste chi è nudo, cioè egli ama e protegge la creatura
umana accogliendola con tutti i suoi limiti e fragilità.
Condividere gli abiti con il povero deve essere allora un
gesto di intimità che richiede delicatezza, discrezione e tenerezza.
Luciano Manicardi
LE NOSTRE NUDITÀ
La prima cosa che viene in mente quando si parla di vestire
gli ignudi, sono i bimbi e gli adulti migranti che arrivano con un vestito
addosso e nulla più. Ma non è solo questo.
Ogni volta che assisto ad un parto e nasce questo bel
frugoletto nudo e piangente, che viene avvolto in un telo e dato in braccio alla
sua mamma, si realizza il passo del Vangelo: “Lo avvolse in fasce e lo depose
nella mangiatoia”. Davvero ogni figlio che nasce è figlio di Dio.
Ma non è ancora tutto.
Riflettendo su questa opera di misericordia mi sono resa
conto di come non può stare da sola, ma comprende molte altre opere sia
corporali che spirituali.
Quando un paziente (sono un medico) o un amico ci si
presenta nella sua nudità interiore, allora per rivestire e dare un senso e una
pienezza, capisci che in quel momento stai dando da mangiare agli affamati,
consigliando i dubbiosi, consolando gli afflitti e anche pregando Dio per i
vivi.
Quindi pensare che vestire gli ignudi vuol dire regalare
vestiti è davvero molto riduttivo e non rispondente alla realtà.
Infine penso che vestire gli ignudi possa essere rivolto
anche a se stessi: quando si prova tanta gioia e commozione nel condividere con
gli altri e ci si sente “pieni”, allora abbiamo rivestito anche noi stessi.
Forse è il momento di pensare che vestire gli ignudi non
può limitarsi al corpo, ma vestire le nudità che derivano dalle fragilità umane
dei nostri giorni.
Nella nostra famiglia cerchiamo di declinare quest’opera di
misericordia così: abbiamo in affido una bambina che, oltre agli abiti
materiali, necessita degli “abiti” necessari alla crescita, che noi gli
forniamo: amore, relazioni, affetti, regole...
Loretta
Per il lavoro di gruppo
Evitiamo di spendere in abbigliamento solo per rincorrere
le mode.
11-ALLOGGIARE I PELLEGRINI
Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. Ebr 13,2
L’espressione “alloggiare i pellegrini” in senso evangelico
significa accogliere il forestiero, praticare l’ospitalità.
Di fronte ai massicci fenomeni migratori a cui assistiamo,
vi è particolare bisogno di questa opera di misericordia.
In un’epoca in cui l’insicurezza globale si traduce in una
ricerca ossessiva di sicurezza personale, l’ospitalità diventa una vera e
propria sfida.
Eppure l’ospitalità è stata ed è tuttora sentita in molte
culture come un dovere sacro, a cui è impensabile sottrarsi.
Questo perché dare ospitalità è rispondere alla propria
vocazione umana, è realizzare la propria umanità accogliendo l’umanità
dell’altro.
Accogliere l’altro significa creare uno spazio per lui, non
solo fisico ma anche interiore, significa fare di noi stessi la dimora in cui
l’altro viene accolto. Accogliere è dare tempo e ascolto all’altro, e ascoltando
scaviamo in noi uno spazio interiore per lui (cfr Lc 10,39).
L’ascolto implica la sospensione del giudizio, rinunciando
al pregiudizio, e l’accettazione che sia l’altro a farsi conoscere.
Vanno evitati due rischi contrapposti: appropriarsi
dell’altro mancandogli di rispetto o disappropriarsi di sé e della propria
cultura per mitizzare l’altro.
Le modalità con cui Gesù, nella sua vita, ha incontrato gli
altri sono magistero autorevole per noi cristiani.
Luciano Manicardi
UNA CASA FAMIGLIA
Da più di quindici anni siamo responsabili di una Casa
Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, realtà fondata da don Oreste Benzi,
che abbiamo avuto la fortuna di incontrare più volte prima della sua nascita al
cielo a fine 2005.
Per casa famiglia si intende una comunità educativa
residenziale che richiama in tutto e per tutto una famiglia naturale.
La casa famiglia si fonda sulle due figure genitoriali di
riferimento, paterna e materna, che scelgono di condividere la propria vita in
modo stabile, continuativo, definitivo, oblativo con le persone provenienti da
situazioni di disagio.
In questo modo si vuole rispondere alla necessità
essenziale e profonda di chi viene accolto: il bisogno di sentirsi amati e di
essere utili ed importanti per qualcuno.
Le persone o i ragazzi accolti non si sentono più assistiti
ma scelti e stimati dalle figure genitoriali.
Ci sono fratelli e sorelle, zii e nonni, piccoli e grandi,
normodotati e diversamente abili, persone con problematiche e vissuti
psicologici diversi; la casa famiglia accoglie tutti senza distinzione di età o
situazione di provenienza.
La relazione significativa e individualizzata con la figura
paterna e materna e le relazioni che nascono fra le persone accolte creano
l'ambiente terapeutico che lenisce e cura le ferite, rigenera nell'amore e
riaccende la speranza nella vita.
Ora vi raccontiamo un po' di noi. Ci siamo sposati nel 1996
e da subito avremmo voluto una famiglia un po' “speciale”, che sapesse aprirsi
agli altri, ma non sapevamo come...
Finalmente dopo Nomadelfia, Villapizzone... abbiamo trovato
la Comunità Papa Giovanni XXIII e ci siamo “innamorati” di questa proposta
controcorrente: non siamo noi che salviamo le persone che Dio ci manda ma ci si
salva assieme!
Con i nostri figli Matteo, Michele, Emma sono “passate”
nelle nostre vite tante persone con diverse sofferenze alle spalle che ci
aiutano a rendere grazie al Signore per tutto quello che ci dona, per primo una
famiglia in cui vivere, che in questi ultimi anni non è più così scontato
avere...
Chiara e Andrea
12-VISITARE GLI INFERMI
Chi viene a visitarmi dice il falso, il suo cuore cova
cattiveria e, uscito fuori, sparla.
“Lo ha colpito un male incurabile; dal letto dove è steso
non potrà più rialzarsi”. Sal 41, 7.9
La suocera di Simone era a letto con la febbre. Egli,
accostatosi, la sollevò prendendola per mano. Mc 1,30-31
Nell’AT l’atto di visitare i malati è raro. Ma, ancora più
significativo, è il fatto che queste visite provocano fastidio al malato (cfr Gb
16,2).
Non bastano le buone intenzioni per visitare adeguatamente
un malato, anzi, queste intenzioni possono risultare pericolose per la loro
ottusità. Il rischio è quello di gratificarsi dal gesto buon oche si sta
compiendo senza essere di conforto al malato.
Visitare un malato significa mettersi al suo ascolto, non
fare nulla di più di quello che egli acconsente.
Il malato è il maestro e chi lo visita è chiamato a
mettersi alla sua scuola.
Nella situazione di solitudine ed impotenza in cui spesso
si trova, il malato chiede, a chi gli si fa vicino, di essere ascoltato,
accettato nella sua situazione.
Con il NT abbiamo una sorta di capovolgimento: Gesù si
identifica con il malato (cfr Mt 25,36), il malato diventa così “sacramento di
Cristo”.
Questo significa che il malato chiede al visitatore di
entrare in una dimensione di impotenza e povertà, l’unica in cui può avvenire
l‘incontro e in cui sarà il malato stesso a condurre il visitatore alla
somiglianza con Gesù che “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9).
Luciano Manicardi
IL MEDICO CONDOTTO
Come medico, con 35 anni di professione alle spalle,
l'invito di visitare gli infermi fa parte integrante della mia professione.
Io, come tanti altri colleghi medici di famiglia - ma anche
di frontiera -, ci dobbiamo districare tra le esigenze dei pazienti e l’attuale
politica sanitaria per le quale ogni decisione medica deve essere giustificata,
e poi controllata e infine, se non gradita, sanzionata.
Quindi molto della spontanea dedizione medica viene
intercettata da linee guida che ci indirizzano non solo alla diagnosi, ma che
rivelano una cultura utilitaristica che estranea sempre più la pratica medica
dalla persona sofferente.
Nei colleghi con una forte motivazione vocazionale
sopravvive la voglia di continuare a visitare le persone, di starle a sentire,
di andare fisicamente nelle loro case o negli ospedali quando sono ricoverate.
A prescindere da ciò che portano come richiesta. Tante
volte il paziente si rivolge a noi chiedendo una visita perché non respira bene,
ma in realtà ci vuole vedere a quattr'occhi per paura di qualcosa di indefinito,
o perché sa benissimo dov'è il suo dolore e non sapendo con chi confrontarsi ci
chiama per un bisogno di relazione vera, non mediata dal pietismo a buon
mercato, né falsata da interessi personali.
Esiste ormai una solitudine effettiva che circonda il
malato, soprattutto per i casi più gravi, come la solitudine che segue una
vedovanza, o una diagnosi infausta. Già, perché non sempre una malattia seria
determina una coesione dei familiari, alcune volte si assiste al fuggi fuggi
generale dei vari parenti che non gradendo più la vista del fratello malato di
Altzheimer o della madre affetta da tumore, vanno in depressione al solo
sentirli nominare e si defilano bellamente.
Allora subentra la carità che sottende la nostra vocazione
di medici, ci rechiamo dai malati sapendo benissimo che non è la pillola che
possiamo prescrivere che li farà stare meglio ma è farsi carico dei loro dolori
che li potrà aiutare a sopportarli.
Maria Rosa
Per il lavoro di gruppo
Aiutiamo le famiglie dove ci sono ammalati o anziani.
13-VISITARE I CARCERATI
Il grado di civiltà di un Paese si misura dalla qualità degli ospedali, delle scuole, ma anche delle carceri. Luigi Ciotti
Se il malato, l’affamato, l’assetato possono essere visti
come vittime, segnate dalla disgrazia, il carcerato porta su di sé il marchio di
un delitto che ha commesso. Ma Gesù, che si è fatto compagno di peccatori e di
persone disoneste annunciando a tutti la possibilità di conversione, non esita
ad identificarsi con chi è privato della libertà in prigione (cfr Mt 25,36).
Dall’antichità fino ai giorni nostri le carceri sono quel
luogo infernale che a volte è divenuto luogo di manifestazione della grazia e
della misericordia di Dio in modo sorprendente.
Visitare i carcerati ha ancora oggi un primo ed elementare
significato: farsi presente a chi vive in prigione.
La popolazione carceraria è formata in gran parte da
poveri, emarginati, stranieri, immigrati, tossicodipendenti: diversi di questi
non hanno nessuno che li vada a visitare e quindi nessuno con cui parlare e da
cui farsi ascoltare, ai cui occhi sapere di contare qualcosa.
Chi visita periodicamente un carcerato o ha con lui una
relazione epistolare costante, si trova a doversi confrontare con una persona in
grave crisi “spirituale”, in riferimento al senso dell’esistenza. Il dialogo
sarà dunque un cammino comune verso l’individuazione di un senso possibile.
Aiutarlo a guardare in faccia il male commesso può far sì
che il periodo di detenzione diventi un tempo di liberazione interiore e di
riconciliazione con se stesso. Ovviamente una pastorale che presti attenzione ai
carcerati dovrà volgersi anche ai familiari del carcerato, fornendo loro aiuto e
sostegno.
Luciano Manicardi
LA PRIGIONE
Le nostre “visite” sono iniziate quando dei nostri vicini
di casa si sono “trasferiti” in carcere. Crediamo che non ci sia nulla di
straordinario in quello che facciamo, ma sia conseguenza delle relazioni che
abbiamo costruito in precedenza.
Ci ha colpito la povertà degli ambienti del carcere, a
volte anche lo squallore che sembra travolgere le persone che ci vivono e
lavorano. Invece ci ha sorpreso l'umanità che il personale spesso dimostra con
chi sconta le pene.
Non c'è nulla da guadagnarci ad essere solidali con loro,
se non amici, perché non è cosa ben vista dalla gente ed è fonte di enormi
pregiudizi e paure.
A noi è capitato di percorrere insieme con queste persone
dei tratti di strada e di riconoscere in loro quel briciolo di umanità che pur
sempre esiste e mai vien meno, che fa nascere un rapporto di lealtà e
solidarietà nonostante tutto.
Mai è in discussione l'errore o gli sbagli commessi e la
misura la pena (percorso duro e difficile), ma se ci chiniamo e guardiamo in
faccia chi incontriamo, come nella parabola del buon samaritano, riconosciamo
delle persone, come noi.
Perché non credere che in fondo a ciascuno possa esserci la
voglia di essere persone belle e felici? Perché non essere noi a riaccendere,
con il nostro comportamento, quella consapevolezza che qualcosa di apprezzabile
e buono c'è in ognuno?
Quante volte ci siamo sorpresi per la tenerezza dei gesti
di queste persone, per la gratitudine e semplicità delle loro parole. Ci si
ritrova nel lembo di terra che è rappresentato dall'umanità che ci rende
fratelli, anche se in momenti di difficoltà.
Non esiste alcun motivo per quanto grave, che possa
privarci di questa dignità, l'unico valore a cui in fondo tutti noi teniamo.
La pena è sempre dura da scontare, il reinserimento di più;
ma quanta voglia di ricominciare c'è, se si è disposti a sopportare tutto questo
pur di rinascere. E ricominciare.
Renato
Per il lavoro di gruppo
Non fomentiamo atteggiamenti di disprezzo e rifiuto verso
chi ha sbagliato.
14-SEPPELLIRE I MORTI
Figlio, versa lacrime sul morto, e come uno che soffre profondamente inizia il lamento; poi seppelliscine il corpo secondo le sue volontà e non trascurare la sua tomba. Sir 38,16
La sepoltura dei morti non è compresa tra le pratiche di
carità elencate nei Vangeli (cfr Mt 25,31-46) ma è una pratica di carità ben
presente nel giudaismo.
La sepoltura è sempre stata accompagnata dalle cure da
accordare al cadavere (pensiamo alla sepoltura di Gesù).
Al contrario l’assenza di sepoltura era considerata una
maledizione ed era la sorte riservata agli empi.
Certamente l’etnologia ci rivela che, a seconda delle
culture, gli uomini hanno riservato trattamenti diversi ai cadaveri, anche se le
pratiche più largamente diffuse prevedono la sepoltura.
D’altronde, l’uomo è il solo animale che ha coscienza della
morte e ha sviluppato pratiche funebri.
Tutti noi proviamo sconcerto di fronte a immagini di
oltraggi contro i corpi dei nemici morti, perché percepiamo una sacralità
violata e cogliamo che, se non c’è rispetto per i morti, non ci può essere
rispetto e cura per i viventi, per gli uomini.
Luciano Manicardi
ACCOMPAGNARE AL CIMITERO
È sempre una grande sofferenza quando muore una persona che
ti è cara. Ma non è sempre la stessa cosa.
Mia madre è morta a novant’anni, rispettabilissima età, ma
per un male che, se preso in tempo, poteva essere curato.
Diversamente, poteva essere, prima o poi, colpita da un
ictus e ritrovarsi su una sedia a rotelle.
Non so se sarebbe stato meglio, forse avrebbe sofferto
ancora di più, ma così se ne andata ben consapevole del male che la stava
uccidendo, e accompagnarla in questo cammino è stato molto faticoso.
Al funerale le sue conoscenti mi chiedevano: “Ma quanto ha
sofferto?”. “Quaranta giorni” rispondevo io. “Ha ancora fatto in fretta” era il
commento.
È stato molto diverso quando, alcuni anni dopo, è mancato
mio padre.
Aveva novantanove anni e si è spento lentamente, come una
candela, ed è morto senza soffrire.
Non dico sia stata una festa accompagnarlo al cimitero, ma
la sofferenza provata per mia madre non si è ripetuta.
Se ne andava una persona che aveva avuto una lunga vita che
ho potuto cogliere con pienezza proprio in tutte quelle circostanze che
accompagnano un funerale.
Nei suoi ultimi anni di vita mio padre aveva
progressivamente perso i suoi interessi, sapeva fare molte cose ma, se
interpellato, non se ne ricordava più o lo faceva con fatica.
Incontrando suo fratello minore ho scoperto il rapporto che
li legava, il ruolo protettivo che mio padre aveva avuto nei suoi confronti
(c’era tra loro una differenza di otre dieci anni) sia in famiglia che nella
vita quotidiana.
Incontrando le persone che lo conoscevano - e tutte più
giovani di lui poiché i suoi coetanei se ne erano andati da tempo - ho toccato
con mano la sua disponibilità nei confronti di tanti, sia nel dare che nel
ricevere consigli e altro.
Io stesso, preso di sorpresa da una richiesta del prete -
un caro amico - che celebrava le esequie, mi sono trovato ad improvvisare una
breve orazione funebre in cui ho ricordato quanto mio padre aveva fatto per me.
Sono sempre stato molto legato a mia madre, forse troppo, è
solo con il matrimonio che questo legame si è allentato.
Eppure, nei passaggi più significativi della mia vita, mio
padre è stato presente, guidandomi verso scelte che a mia madre pesavano ma che
sono state fondamentali per il mio divenire adulto.
Grazie, papà!
Francesco
Per il lavoro di gruppo
Visitiamo periodicamente i cimiteri per fare visita ai
nostri cari.
15-CONSIGLIARE I DUBBIOSI
È nelle certezze dottrinali, dogmatiche e intolleranti che si annidano le peggiori illusioni. Edgar Morin
Per cogliere il senso di questa opera di misericordia
occorre prendere coscienza del carattere ambivalente sia dell’atto di
consigliare sia dell’atto di dubitare.
Non ci si può far consigliare da chiunque né chiunque può
consigliare su qualsiasi argomento. Il chiedere consiglio non esime dalla
responsabilità delle proprie decisioni.
Ma anche chi consiglia deve evitare di forzare la volontà
dell’altro. Consigliare non può esser quindi né adulare né sedurre.
Anche l’atto di dubitare è ambivalente.
Vi possono essere dei dubbi paralizzanti che fanno cadere
nell’indifferenza e nello scetticismo, ma vi sono anche dubbi vitali, quelli che
stanno all’origine della conoscenza, che producono ricerca e creatività.
Questa ambivalenza del dubbio vale anche nell’ambito della
fede. La fede non è esente dal dubbio perché il cristianesimo non si impone [o
almeno non si dovrebbe imporre] come certezza assoluta, che sarebbe una violenza
alla libertà umana.
Questo non perché la fede non conosca la dimensione della
certezza, ma questa è di un ordine diverso rispetto alla certezza razionale.
C’è comunque una qualità sapienziale che è necessaria tanto
a chi dà consigli quanto a colui che li cerca: l’umiltà.
L’arte di consigliare è legata alla capacità di comprendere
la situazione dell’altro e richiede contemporaneamente immaginazione e adesione
alla realtà.
Il consiglio trova la sua sensatezza all’interno di una
relazione di fiducia tra due persone, come può esser quella legata alla
paternità spirituale.
Luciano Manicardi
ACCOMPAGNARE
Viviamo in un contesto sociale, e spesso anche familiare,
in cui tutti i valori vengono considerati equivalenti, tutte le opinioni hanno
lo stesso peso e l'auto realizzazione è il principale scopo della vita. Tutto
sembra possibile, ma spesso la delusione blocca il percorso intrapreso e allora
si procede per tentativi nelle scelte affettive, professionali, educative, ecc.
È difficile chiedere consiglio perché sembra di sminuire la
propria personalità (ma tanti cercano consigli da chiromanti e maghi vari!), ma
è difficile anche darne perché si vive un po' tutti in situazioni di incertezza.
Penso che la strada percorribile, oggi, sia il non avere la
pretesa di consigliare, ma neppure l'essere indifferenti a chi ci vive attorno o
dichiararsi incapaci di aiutare chi ci mostra un dubbio.
Occorre entrare in empatia con la persona ed aiutarla,
ponendo domande, a decodificare la propria situazione affinché possa comprendere
a fondo ciò che crea sofferenza o incertezza e chiarire ciò che per davvero
desidera e sogna.
Consigliare non è dare suggerimenti o ricordare norme,
valori, istanze anche religiose, ma è accompagnare con discrezione e
autorevolezza, convinti delle proprie scelte, quindi testimoniando di possedere
certezze vitali.
Procedendo così, con interrogativi che scendono
all'essenziale, aiutare a scoprire in sé il "volto di Dio".
I nostri anziani avevano molto presente, in modo esplicito,
la presenza di Dio nella loro vita (anche se, purtroppo, come giudice severo e
non come padre misericordioso): la cultura dominante ha come offuscato questa
consapevolezza per cui si fa urgente, come credenti, aiutare ed aiutarci a
credere che la Trinità è in ciascuno e riconoscere ed accogliere la Sua presenza
che dà senso ad ogni vita, perché ogni vita è l'inizio dell'eternità.
Anna
Per il lavoro di gruppo
Non lasciamoci guidare dalla competizione e dalla
esasperata competitività nel lavoro.
16-INSEGNARE AGLI IGNORANTI
Filippo, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. At 8,30-31
Tutta la vita di fede necessita di un insegnamento, di una
trasmissione in cui il più esperto guida e istruisce il meno esperto.
Il primo ambito di educazione ed istruzione è la famiglia:
è compito del capofamiglia istruire i figli come nel caso di Tobi nei confronti
di Tobia (Tb 4,1-21).
Due secoli prima di Cristo si sviluppa in Israele un nuovo
ambito educativo: la scuola. In questo modo i sapienti diventano anche
insegnanti.
Il N.T. ci mostra Gesù come maestro (rabbi) anche se il suo
insegnamento, che è rivolto sia a dotti sia ad ignoranti, è fondato sulla
testimonianza.
Gesù insegna con le parole, con i gesti, con il suo modo di
vivere, con la sua persona. Dopo Gesù, l’istruzione nella fede diventa compito
apostolico.
Oggigiorno, questa attività di insegnamento è più che mai
necessaria a causa della diffusa ignoranza circa le cose della fede da parte
degli stessi credenti praticanti.
Se la fede non viene continuamente approfondita si
isterilisce, e il credente rischia di cadere nella superstizione e nell’errore.
In questo uno spazio importante è legato alla conoscenza delle Scritture, la cui
ignoranza è ignoranza di Cristo.
Ma l’istruzione ha anche una grossa valenza politica e
sociale: l’alfabetizzazione è un elemento fondamentale per l’emancipazione dei
popoli, per il loro riscatto sociale.
Luciano Manicardi
IL MESTIERE D’INSEGNANTE
Insegnare è il mio lavoro, sono pagata per farlo. Penso
però che l’insegnamento faccia parte della mia vocazione, perché fin da piccola
amavo giocare alla scuola con pupazzi e bambole, con la pretesa che imparassero
tutti quanti a leggere e scrivere.
Sono considerata una prof di lettere severa ed esigente
perché per me la cultura, o meglio, l’approccio serio e approfondito con gli
autori e i testi è un’esperienza unica, che arricchisce per sempre la persona,
sviluppa la capacità di ascolto, l’empatia.
Mi affascina e mi appassiona liberare almeno un po’ questi
ragazzi dalla superficialità e dall’ignoranza così diffuse nella nostra società;
mi commuovo, insieme ai colleghi, quando qualche alunno coglie con orrore misto
ad ironia gli strafalcioni di qualche politico o personaggio televisivo…
Non dimentichiamo poi che una buona preparazione scolastica
rappresenta un’opportunità imperdibile per quegli studenti stranieri che vedono
nello studio la possibilità di un riscatto per se stessi e per i genitori.
Per chi parte socialmente svantaggiato è importantissimo
avere strumenti adeguati per competere ad armi pari con chi proviene da ambienti
privilegiati dal punto di vista economico e culturale.
Più in generale, credo che la scuola sia veramente una
palestra di vita, in cui è possibile sperimentare situazioni ed emozioni prima
ignote ed ignorate.
Un’ultima cosa: alla fine di ogni anno scolastico, tutti ci
accorgiamo di avere imparato qualcosa e di essere un po’ meno ignoranti. Gli
studenti stimolano i loro prof ad aggiornarsi, a cambiare punto di vista, a
misurarsi col mondo attuale. Anche i ragazzi, magari inconsapevolmente, hanno
qualcosa da insegnare, perché stare insieme in classe significa sempre
incontrarsi e regalarsi reciprocamente del tempo, tanto tempo per crescere.
Elisabetta
Per il lavoro di gruppo
Istruiamoci nella nostra Fede frequentando la catechesi e
gli incontri.
17-AMMONIRE I PECCATORI
Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. Lc 22,61
La correzione fraterna è il modo più idoneo per “ammonire i
peccatori”.
Gesù è il maestro che, con la sua vita, ci insegna questa
difficile pratica.
La sua correzione, fondata sull’amore per gli uomini e
capace di trasmettere l’amore del Padre, è tesa alla vita del peccatore. Gesù
salva rimproverando e rimprovera salvando (cfr Mt 14,31).
Solo l’amore autenticamente spirituale è capace di
correggere e ammonire l’amato. Il rischio, altrimenti, è quello di tacere il
male per amore del peccatore, divenendone così complici.
La correzione è anche necessaria per non covare rancore nel
proprio cuore: se non si corregge il fratello peccatore si arriverà ad odiarlo.
La correzione, quindi, non è solo per il bene del fratello
che riceve la correzione, ma anche per il bene di colui che la esercita.
La correzione fraterna richiede equilibrio umano e molta
fede, libertà e coraggio, con grande senso del vangelo.
Purtroppo, per quanto essenziale per la vita spirituale ed
ecclesiale, la correzione fraterna è poco e male praticata.
Solo chi ha imparato a discernere il male che ha in sé può
farsi carico del male del fratello e curarlo come medico esperto.
Se è difficile fare la correzione non è nemmeno facile
riceverla: ci si rifiuta di ammettere lo sbaglio, si teme l’umiliazione, ci si
illude di farcela da soli.
Solo quando si entra in empatia con il fratello e si
comprende che il peccato non è né “mio” né “suo”, ma un venir meno alla propria
umanità, si può entrare nel coraggio e nella libertà di chi osa fare o ricevere
la correzione.
Luciano Manicardi
LA MISERICORDIA PREVENTIVA
La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci
insegnano che i peccatori vanno ammoniti. Forse questa è una delle opere di
misericordia più difficili.
Come posso ammonire un altro quando sono io stesso
peccatore?
Innanzitutto per poter dire una parola buona a chi si trova
nel peccato devo essere cosciente di essere anch’io peccatore. Se, come ci
ripete Papa Francesco, ognuno di noi riconosce di essere peccatore e sente la
misericordia di Dio su di sé, è in grado, con bontà, di aiutare chi è
nell’errore.
A volte penso: “ma io certi peccati non li faccio”. E
ragionando così mi dimentico della “misericordia preventiva”, come la chiama
Papa Francesco.
Se fossi nato in un quartiere degradato di una grande
città, e fossi stato educato a compiere azioni ingiuste, illegali, come il
commercio di droga e quanto ne consegue, certi peccati li avrei quasi
sicuramente commessi.
Invece Dio mi ha tenuto la mano sulla testa e ho evitato di
cadere in gravi peccati. Ma ciò non è merito mio, è merito di chi mi educato.
La grazia, proprio perché tale, è gratis data, la si riceve
non per merito ma per bontà di Dio.
Anche ragazzi sbandati, se presi con bontà e sincerità
d’animo, possono vivere una normale vita da cittadini e cristiani.
San Giovanni, nella sua prima lettera, (1Gv 3,20), ci dice
che “Dio è più grande del nostro cuore”.
Per me questa espressione è il metro di tutto, non è la mia
meschinità che giudica con misure troppo umane, ma è il Dio Amore che mi aiuta a
giudicare secondo il Suo metro.
Vincenzo Salemi, IMC
Per il lavoro di gruppo
Impariamo a spiegare la bontà e bellezza delle nostre
scelte di fede.
18-CONSOLARE GLI AFFLITTI
I fatti concreti consolano di più di tante parole.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo
braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore
madri. Is 40,11
Scrive Paolo De Benedetti: “La civiltà contemporanea teme
gli afflitti e li sfugge, perché teme il contagio dell’afflizione e non sa
portare il contagio della consolazione”.
La consolazione è una pratica di umanità che l’uomo in
quanto tale conosce, auspica, chiede, mette in atto di fronte alle persone nel
lutto, nella sofferenza, nella vecchiaia, nell’isolamento, nell’abbandono.
L’antichità aveva sviluppato una vera e propria arte della
consolazione che si diversificava di fronte alle diverse situazioni di
afflizione.
Consolazione è farsi presenza a chi è nella desolazione e
nella solitudine, una presenza capace di ascolto.
Si tratta di una presenza che non svilisce la disgrazia
dell’afflitto con parole banali o falsamente rassicuranti o illusoriamente
spirituali.
Occorre spogliarsi dall’illusione di possedere “tecniche”
di consolazione.
Consolare è un lavoro, una fatica che esige prima di tutto
lavoro su se stessi.
Solo così si possono esprimere parole e gesti ”adeguati”
che restano scolpiti nella memoria di chi li ha ricevuti come gemme preziose e
rare.
Sovente, purtroppo, l’afflitto non trova chi lo consoli
oppure non vuole essere consolato.
Nella Bibbia l’immagine più commovente di consolazione è
quella di Dio che, in una prospettiva escatologica, asciuga le lacrime dagli
occhi delle creature sofferenti e afflitte (Ap 7,17).
Certo, la consolazione definitiva è opera di Dio
Luciano Manicardi
UN SILENZIO EMPATICO
Bisogna trovarsi nel buio più totale per sapere cosa
significa non vedere.
Quando il dolore avvolge l’altro in tutta la sua violenza
forse l'atteggiamento più umile e giusto che possiamo avere è il silenzio, non
quello menefreghista ma quello empatico, quello che ti fa abbracciare i figli di
una mamma appena spirata e dirgli “vi sento nel mio cuore”, “prego per voi”,
”venite quando volete, vi ascolterò sempre e, se possibile, farò di tutto per
aiutarvi nelle piccole e grandi cose”.
In fondo il comandamento nuovo che Gesù ci ha lasciato è
proprio questo: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati.
Ricordiamoci che Lui ha dato la sua vita per ciascuno di
noi!
Posso consolare chi è nella prova solo se sono disposto a
giocarmi la vita per loro, non si tratta di fanatismo né di eroismo gratuito
perché, se così fosse, si fuggirebbe molto prima di una qualsiasi richiesta
d'aiuto.
Si tratta solo di fare dei piccoli gesti di solidarietà,
portando una tazza di brodo caldo a chi non ha la forza nemmeno di cucinare o
mangiare un uovo, o di aiutare a rifare un letto stropicciato perché in ospedale
il personale non può essere sempre presente, o andando a prendere una
bottiglietta d'acqua a chi non ce l'ha più sul comodino.
Sono i piccoli gesti che potrebbe fare anche un bimbo di
sei anni che fanno capire a chi è nel bisogno che noi siamo disposti ad amare
sul serio senza tante parole ma coi fatti concreti, il che spesso consola molto
più che un lungo sproloquio.
Maria Rosa
Per il lavoro di gruppo
Doniamo un po’ del nostro tempo e a chi sta vivendo un
brutto momento della sua vita.
19-PERDONARE LE OFFESE
Perdona l'offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Sir 28,2
Perdonare significa donare attraverso le sofferenze,
significa fare anche del male ricevuto l’occasione di un dono.
Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di
chi ha commesso il male: il perdono perdona proprio ciò che non è scusabile.
Il perdono non toglie irreversibilità del male subito ma lo
assume come passato e pone le premesse di un rinnovamento della relazione tra
l’offensore e l’offeso.
Come cristiani, essere perdonati significa scoprirsi amati
nel proprio odio.
Il figlio prodigo darà il nome di perdono all’amore fedele
del Padre che lo ha sempre atteso.
Questo significa che il perdono di Dio precede e fonda il
pentimento, che potrà nascere solo da una presa di coscienza dell’amore
unilaterale di Dio, che precede ogni nostro merito.
Il cammino del perdono, sul piano umano, è comunque lungo e
faticoso.
Il primo passo è riconoscere che il male subito ha
realmente segnato una parte di noi, ci ha resi più vulnerabili.
È essenziale, quindi, poter condividere con qualcuno la
propria sofferenza.
Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male
subito: solo così si può fare il lutto ed elaborare la perdita.
È anche importante non aver timore di dare sfogo alla
propria collera perché perdonare non è naturale, a noi è molto più facile la
vendetta.
Un’altra tappa è quella di perdonare a se stessi.
Spesso il male subito, soprattutto da parte di persone
amate, produce in noi dei sensi di colpa che rischiano di paralizzarci; p.e. non
ci si perdona di aver iniziato una relazione che si è rivelata un inferno.
Se non ci riconcilia con se stessi come si può farlo con
l’altro?
Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la
relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che
avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato.
Il perdono quindi è onnipotente nel senso che tutto può
essere perdonato (“può”, non “deve” la grandezza del perdono consiste nella
libertà con cui è accordato) ma al tempo stesso è infinitamente debole, in
quanto nulla assicura che l’offensore cesserà di fare il male.
In questo senso il perdono cristiano può essere compreso
solo alla luce del paradosso della croce, dove la potenza di Dio si manifesta
nella debolezza del Figlio.
Luciano Manicardi
UNA COMUNITÀ CAPACE DI PERDONO
Gesù, nella sua predicazione, si rivolge a tutti quando
dice: “Se voi non perdonate, il Padre vostro che è nei cieli non vi perdonerà”
(Mc 11,26).
Quest’appello drastico non viene rivolto solamente ai
singoli credenti, come tali, ma, secondo gli insegnamenti degli Apostoli, il
comando è dato alla Chiesa tutta e alle singole comunità.
Le parrocchie, le diocesi e ogni altra comunità radunata
nel nome del Signore, devono apparire ed essere la “Casa del Padre”, e quindi la
casa della misericordia, del perdono, la casa dove si insegna e si compie la
riconciliazione con Dio e tra i fratelli.
Perdonare di cuore non vuol dire perdere la memoria di ciò
che abbiamo subito. Le ferite rimangono. Il credente che perdona mette tutto
nell’infinita misericordia di Dio.
Ogni comunità sia impegnata a dare la sua bella
testimonianza d’unità, di stima reciproca, di concordia, di benevolenza. Ogni
membro deve favorire l’incontro leale e sincero dei vari gruppi fra di loro e
con la comunità entro la quale si trovano.
Lo Spirito soffia dove vuole e come vuole, ma non crea mai
divisioni.
Perdoniamoci dunque, amiamoci e accogliamoci, come Dio
perdona, ama e accoglie tutti noi.
Timoteo Munari SDB
Tratto da:
www.donbosco-torino.it
Per il lavoro di gruppo
Evitiamo di continuare a ricordare e a rimuginare i torti
che abbiamo subito.
20-SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE MOLESTE
Sopportatevi a vicenda e perdonatevi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Col 3,13
Quando una persona è sentita come molesta? Quando, e
perché, ci disturba? Pensiamo per esempio al sentimento che molti provano nei
confronti degli immigrati che giungono nel nostro paese.
La virtù che quest’opera di misericordia richiama è la
pazienza. Una virtù che è Dio stesso che esercita per primo nei nostri
confronti. La sua è una passione d’amore che accetta di soffrire per attendere i
tempi dell’uomo, la sua conversione.
Per il cristiano la pazienza è frutto della Spirito (cfr
Gal 5,22) e si declina come perseveranza nelle prove, come capacità di
sopportazione e di tolleranza nei confronti di chi procura fastidi e suscita
opposizioni, come sguardo longanime nei confronti delle inadeguatezze altrui.
La sopportazione paziente dell’altro va di pari passo con
la pazienza verso se stessi e le proprie incongruità.
Oggi però la pazienza ha perso molto fascino: i tempi
frettolosi spingono all’impazienza, a “tutto e subito”, al possesso che non
lascia spazio all’attesa.
Al tempo stesso occorre riconoscere che la pazienza non
sempre è una virtù.
Una pazienza che blocca la capacità di opporsi al
perpetuarsi di un abuso, di una violenza è una perversione che diviene complice
dell’ingiustizia.
Luciano Manicardi
PORTARE PAZIENZA
Al giorno d’oggi ci si è messa anche la rete a complicare i
nostri già difficili tentativi di sopportazione.
Pure in Internet bisogna sopportare presenze inopportune,
fastidiose, addirittura insopportabili. Non bastavano i parenti, i vicini di
casa, i colleghi di lavoro…
Ho un po’ di pensieri su quest’argomento che mi frullano in
testa.
Il primo è un dubbio: può succedere che non sia l’altro ad
essere un molesto, ma che piuttosto siano gli ospiti inquieti dentro di me a
farmelo sentire tale?
Il secondo è un’intuizione: ho la netta sensazione che la
pazienza sia molto svalutata perché frequentemente scambiata per rassegnazione o
per adattamento al dolore.
Mi piace molto l’idea che la pazienza sia una virtù attiva
che ci rende, non tanto capaci di sopportare, quanto di attendere. Paziente è
colui che non si lascia vincere dal fastidio o dall’irritazione, ma sceglie come
reagire.
Ma c’è un terzo ed ultimo pensiero con cui voglio finire.
Un’intuizione che è difficile da accettare: non è possibile che le “persone
moleste” possano essere anche un regalo della vita?
Non è possibile che siano proprio le “persone o le
situazioni moleste” a concimare meglio il nostro albero della pazienza?
Maria Cristina Corvo
Tratto da:
www.intemirifugio.it
21-PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI
Una comunità cristiana o vive nell’intercessione reciproca
dei suoi membri o perisce.
Dietrich Bonhoeffer
L’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi Ap 7,17
Come l’amore, anche la preghiera è un’opera, ed è tra le
più faticose.
Qui si intende la preghiera come opera di intercessione,
per gli altri.
Intercedere significa “interporsi”, collocarsi tra due
parti per cercare di costruire una comunicazione tra di loro.
L’intercessore è l’uomo del confine, che sta tra due
fuochi, assumendosi la responsabilità del popolo peccatore e portandola davanti
a Dio, santo e misericordioso.
È la posizione di Gesù sulla croce. La sua preghiera al
momento della morte riassume l’intera vita spesa davanti a Dio per gli altri,
diventando così intercessore. Infatti, nell’alto dei cieli, continua a
intercedere per noi.
L’intercessione è una preghiera di domanda, una supplica,
in cui facciamo memoria davanti a Dio di altri uomini.
Nell’intercessione non chiediamo a Dio di ricordarsi di
qualcuno ma “davanti a Lui” ci ricordiamo noi stessi di altre persone per vedere
illuminata dalla parola del Signore, la nostra relazione con loro. Mentre
invochiamo da Dio aiuto per chi è nel bisogno, ci impegnano concretamente a fare
tutto ciò che è in nostro potere per lui.
La Scrittura ci attesta che vi è anche una preghiera dei
vivi per i morti e viceversa.
La preghiera per i defunti è resa possibile dalla fede
nella resurrezione.
La comunione vissuta in vita non è spezzata dalla morte
perché il credente ha la sua vita “in Cristo”. Tra coloro che sono morti in
Cristo e coloro che vivono la loro vita in Lui si stabilisce una misteriosa
comunione che rende possibile anche una comunicazione.
La Chiesa mentre prega per i morti, prega con loro. Unica
è, infatti, la liturgia celeste e terrestre. Pregando per i morti la Chiesa
confessa il perdono dei peccati su tutti: i vivi e i morti.
Luciano Manicardi
LE MIE DEBOLI PREGHIERE
Non posso certo dire di saper pregare, le mie preghiere
sono un po’ come recitare poesie: le ripeto a memoria al mattino e alla sera,
come ho imparato da bambino.
Sì, col tempo ho aggiunto qualcosa, attingendo dal salterio
e aggiungendo alcune preghiere tratte dalle Lodi e da Compieta, ma nulla di più.
La preghiera però che mi “viene meglio” è quella legata a
quest’opera di misericordia.
Sento il legame con chi ho conosciuto e che ora non c’è
più, almeno tangibilmente. Ricordando queste persone, e i miei ricordi partono
da lontano, mi sembra di averle vicine, di fare qualcosa per loro e, nello
stesso tempo, confidando che loro possano ricambiare.
Sento il legame con chi conosco e mi è vicino,
materialmente o anche solo per valori ed ideali. Pensando a queste persone
chiedo al Signore di proteggerle, custodirle, accompagnarle.
E poi ogni giorno qualcuno attraversa la mia vita, sia
perché le incontro, sia perché i media me li fanno incontrare, e anche a loro va
la mia preghiera d’intercessione.
Francesco
Per il lavoro di gruppo
Non trascuriamo la S. Messa domenicale: è la maggior forma
di preghiera.
Uomini e donne nella Bibbia
22-LA PECCATRICE PERDONATA
Quando Dio perdona, dimentica. È grande il perdono di Dio! papa Francesco
di papa Francesco*
Questo brano del Vangelo di Luca (7,36-50) ci apre un
cammino di speranza e di conforto. È bene sentire su di noi lo stesso sguardo
compassionevole di Gesù, così come lo ha percepito la donna peccatrice nella
casa del fariseo. In questo brano ritornano con insistenza due parole: amore e
giudizio.
C’è l’amore della donna peccatrice che si umilia davanti al Signore; ma prima ancora c’è l’amore misericordioso di Gesù per lei, che la spinge ad avvicinarsi. Il suo pianto di pentimento e di gioia lava i piedi del Maestro, e i suoi capelli li asciugano con gratitudine; i baci sono espressione del suo affetto puro; e l’unguento profumato versato in abbondanza attesta quanto Egli sia prezioso ai suoi occhi. Ogni gesto di questa donna parla di amore ed esprime il suo desiderio di avere una certezza incrollabile nella sua vita: quella di essere stata perdonata. E questa certezza è bellissima! E Gesù le dà questa certezza: accogliendola le dimostra l’amore di Dio per lei, proprio per lei, una peccatrice pubblica! L’amore e il perdono sono simultanei: Dio le perdona molto, le perdona tutto, perché «ha molto amato» (Lc 7,47); e lei adora Gesù perché sente che in Lui c’è misericordia e non condanna. Sente che Gesù la capisce con amore, lei, che è una peccatrice. Grazie a Gesù, i suoi molti peccati Dio se li butta alle spalle, non li ricorda più (cfr Is 43,25). Perché anche questo è vero: quando Dio perdona, dimentica. È grande il perdono di Dio! Per lei ora inizia una nuova stagione; è rinata nell’amore a una vita nuova.
Questa donna ha veramente incontrato il Signore. Nel silenzio, gli ha aperto il suo cuore; nel dolore, gli ha mostrato il pentimento per i suoi peccati; con il suo pianto, ha fatto appello alla bontà divina per ricevere il perdono. Per lei non ci sarà nessun giudizio se non quello che viene da Dio, e questo è il giudizio della misericordia. Il protagonista di questo incontro è certamente l’amore, la misericordia che va oltre la giustizia.
Simone, il padrone di casa, il fariseo, al contrario, non riesce a trovare la strada dell’amore. Tutto è calcolato, tutto pensato… Egli rimane fermo alla soglia della formalità. È una cosa brutta, l’amore formale, non si capisce. Non è capace di compiere il passo successivo per andare incontro a Gesù che gli porta la salvezza. Simone si è limitato ad invitare Gesù a pranzo, ma non lo ha veramente accolto. Nei suoi pensieri invoca solo la giustizia e facendo così sbaglia. Il suo giudizio sulla donna lo allontana dalla verità e non gli permette neppure di comprendere chi è il suo ospite. Si è fermato alla superficie – alla formalità – non è stato capace di guardare al cuore. Dinanzi alla parabola di Gesù e alla domanda su quale servo abbia amato di più, il fariseo risponde correttamente: «Colui al quale ha condonato di più». E Gesù non manca di farlo osservare: «Hai giudicato bene» (Lc 7,43). Solo quando il giudizio di Simone è rivolto all’amore, allora egli è nel giusto.
Il richiamo di Gesù spinge ognuno di noi a non fermarsi mai
alla superficie delle cose, soprattutto quando siamo dinanzi a una persona.
Siamo chiamati a guardare oltre, a puntare sul cuore per vedere di quanta
generosità ognuno è capace. Nessuno può essere escluso dalla misericordia di
Dio. Tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti
accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti
sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande
il peccato e maggiore dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che
si convertono. Con quanto amore ci guarda Gesù! Con quanto amore guarisce il
nostro cuore peccatore! Mai si spaventa dei nostri peccati.
* Dall’omelia del 13 marzo 2015, in cui ha indetto il
giubileo straordinario della misericordia
23-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Papa Francesco,
Misericordiae vultus, Edizioni San Paolo,
Cinisello balsamo (MI) 2015.
Annunciato il 13 marzo 2105, il Giubileo straordinario
della misericordia continuerà a contrassegnare la nostra esperienza di Chiesa
per tutto l’anno in corso.
Per vivere appieno quest’anno di grazia quale lettura
migliore della bolla di indizione?
Infatti, scrive il papa, la misericordia “è la via che
unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per
sempre nonostante il limite del nostro peccato”. All’immagine di un Dio giudice
Francesco preferisce quella di un Dio misericordioso perché “specialmente in
questo si manifesta la sua onnipotenza”. Lo possiamo constatare nelle parabole
della misericordia dove “Gesù rivela la natura di Dio come quella di un Padre
che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il
rifiuto, con la compassione e la misericordia”.
Papa Francesco,
Il nome di Dio è misericordia, Edizioni
Piemme, Milano 2016.
Questo è senz’altro un libro di successo. Uscito
contemporaneamente in 84 paesi e in 16 diverse lingue, è stato per diverse
settimane in cima alle classifiche dei libri più venduti.
“Nel momento in cui papa Bergoglio, nel marzo 2015,
annunciava il Giubileo straordinario della misericordia” scrive Tornielli,
coautore del libro “ho pensato che sarebbe stato bello proporgli un po’ di
domande su questo tema. La proposta non è dispiaciuta a papa Francesco, anche se
la decisione finale sarebbe stata presa una volta valutato il testo”.
Il libro-intervista si legge con facilità e ci rivela, se
ancora ce ne fosse bisogno, l’immediatezza con cui papa Francesco esprime il suo
pensiero.
“Nel libro” scrive ancora Tornielli “c’è tutto il cuore del
pastore che cerca di uniformarsi al cuore misericordioso di Dio”.
Alberto Melloni,
Il giubileo. Una storia, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2015.
Alberto Melloni è uno storico italiano, di storia del
cristianesimo e in particolare del Concilio Vaticano II. L’autore non è molto
tenero con le modalità con cui la Chiesa, nel corso dei secoli, ha molte volte
contraddetto il messaggio del Vangelo, come nel caso dell’istituto del giubileo.
Questo libro non ha quindi carattere apologetico e riflette
il pensiero dell’autore, che considera il Vaticano II, come pure il magistero di
papa Francesco, in discontinuità con la Tradizione della Chiesa post-tridentina.
“Ogniqualvolta si è addentrato sul terreno del Concilio”
scrive Melloni “ papa Francesco ha rimesso in circolazione principi di
sinodalità effettiva, di povertà, di riforma della Chiesa”.
Perché leggere questo libro? Perché a volte è utile
conoscere opinioni non “canoniche” ma comunque autorevoli.
Raniero Cantalamessa,
Il volto della misericordia, Edizioni
San Paolo, Cinisello balsamo (MI) 2015.
Il nome e il volto di padre Cantalamessa sono noti a coloro
che seguono la trasmissione televisiva del sabato pomeriggio “A sua immagine: le
ragioni della speranza” di cui è stato, fino al 2009, il conduttore. Attualmente
è predicatore della Casa Pontificia.
La riflessione sulla misericordia che ci propone in questo
libro è densa e articolata.
La sua è una meditazione che parte dalla misericordia di
Dio, le sue manifestazioni nella storia della salvezza e, in particolare, nella
persona di Gesù Cristo. Continua riflettendo sui mezzi grazie ai quali essa ci
raggiunge nei sacramenti della Chiesa. Termina approfondendo il dovere di essere
misericordiosi e sulle "opere" della misericordia, in particolare sul dovere dei
cristiani e dei loro ministri di essere misericordiosi con i peccatori, come lo
era Gesù.
Luciano Manicardi,
La fatica della carità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2010.
Luciano Manicardi è da tempo la “spalla” di Enzo Bianchi
all’interno della comunità di Bose (BI).
In questo libro, dopo aver riflettuto sulla carità della
ragione e sulle ragioni della carità, l’autore affronta in modo articolato le
sette opere di misericordia corporale e le sette opere di misericordia
spirituale. Ogni singola opera è trattata dal punto di vista biblico, con ampi
rimandi alla Scrittura, alla tradizione della Chiesa, ai pensatori cattolici,
senza ignorare le ricadute che queste opere hanno anche a livello laico.
Si tratta di un testo molto utile per tutti quei gruppi che
volessero approfondire questo tema nei loro incontri, sia con il metodo della
Revisione di Vita sia con il metodo della Lectio Divina.
Scrive infatti l’autore: “È nell’oggi della storia che
possiamo manifestare la differenza cristiana con la pratica dell’urgente
carità”.
24-L’ESPERIENZA DEI CAMPI ESTIVI
Imparare ad essere un gruppo di famiglie
L’ultimo campo estivo a cui abbiamo partecipato è stato
quello di Arcinazzo 2006: ben dieci anni fa! Apparentemente, quindi, non siamo i
più indicati a scrivere sui campi estivi per invitarvi a partecipare.
Eppure questa rivista non ci sarebbe senza questa
esperienza, perché il collegamento tra Gruppi Famiglia è nato proprio da un
campo estivo, ormai trent’anni fa.
Ma ciò non è qualcosa che riguarda solo il passato: senza i
campi le foto che arrichiscono quasi tutti i numeri di questa rivista non ci
sarebbero, come non ci sarebbero le famiglie che, in tutta Italia, la sostengono
e collaborano ad essa.
I campi rappresentano, quindi, un punto fondamentale del
Collegamento.
Periodicamente, grazie al sito ww.gruppifamiglia.it,
riceviamo richieste di suggerimenti, sussidi, per avviare nuovi gruppi. Ma la
strada maestra rimane quella dei campi.
In quella breve settimana si imparano, come coppia e come
famiglia, molte più cose di quelle che si possono apprendere in un anno di
incontri.
Secondo noi c’è una circolarità che unisce rivista, campi e
famiglie.
Dalla rivista si possono prendere molti spunti per
gl’incontri dei gruppi famiglia, dai campi si impara il metodo di lavoro ma,
soprattutto, lo stile dello stare insieme, tutto questo a servizio delle
famiglie.
Tutti possono partecipare ai campi: dalle coppie appena
sposate ai nonni, anche se il cuore del campo è fatto dalle famiglie con i loro
figli.
E quando diciamo tutti intendiamo proprio tutti, compresi
coloro che hanno scelto la vita consacrata: la compresenza dei due carismi fa
del bene a tutti!
Noris e Franco Rosada
25-ABBIAMO IN CIELO ALTRI DUE AMICI
Don Natale Colafati, guida per tanti anni della parrocchia
del Rosario Di Lamezia ci ha lasciati il 21 aprile scorso. Sacerdote da più di
50 anni, uomo di Cristo profondamente innamorato dell'umanità, tra le sue
numerose attività e incarichi ha sempre seguito le famiglie e il gruppo famiglia
della sua parrocchia.
Chi l'ha conosciuto e incontrato ha potuto sperimentare la sua vicinanza nella
discrezione sempre: anche nella sua malattia, un punto di riferimento, un
fratello per tanti e tante famiglie.
Di quanto lui ha dato alla sua comunità e ai Gruppi Famiglia ringraziamo il
Signore. “Dio non ci chiede tutto; ci chiede il possibile, ma il possibile ce lo
chiede tutto”, era la frase che soleva dire e alla quale teneva molto.
Troverete un omaggio a don Natale realizzato da Peppino Ascolese a questo link:
https://www.youtube.com/watch?v=DZZtDUCMTOg
A gennaio Maria Tonellotto, “di Gianni”, ci ha lasciato
dopo tanti momenti di gioia e servizio per tanti, compresi i Gruppi Famiglia.
Ringraziamo il Signore, ora che è tra le sue braccia premurose, per la sua viva
testimonianza.
Ci piace riportare quanto lei stessa ha scritto per il suo “arrivederci”:
Grazie a tutti quelli che mi hanno amato.
Grazie a tutti quelli che hanno compreso il mio camminare e quelli che non si
sono stancati di ascoltarmi.
Grazie a tutti quelli che hanno stretto con amore le mie mani.
Grazie a tutti quelli che mi hanno regalato del loro tempo e quelli che mi sono
stati vicini nella sofferenza...
Grazie, Signore, per tutti quelli che hanno sorriso incontrandomi.
Grazie per la vita che mi hai dato sia nella gioia sia nel dolore.
Vi ricordo tutti ora che sono nel Padre.
26-CAMPI ESTIVI 2016
Calendario quasi definitivo
15-21 agosto Voltago Agordino (BL)
Tema: L’eucarestia in
famiglia
Relatore: Don Daniele Vettor
Sacerdote: don Daniele Vettor.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595,
segninuovi@alice.it
14-21 agosto
Bessen Haut (TO)
Tema: La
misericordia in famiglia
rel. Gabriella e Paolo Spiller
Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).
Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431,
curra@email.it
14-21 agosto Nocera Umbra (PG)
Tema: I vangeli della famiglia
Relatori di alcune comunità umbre.
Sacerdote: padre Valentino Menegatti.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Antonella e Renato Durante, 348 5558619,
ren-anto@libero.it
21-28 agosto Voltago Agordino (BL)
Tema: Da Mosè a Gesù
Relatore: Gabriella del Signore.
Sacerdote: don Sandro Dussin.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718,
antoniobottero@alice.it
27-DIAMOCI IL CINQUE!
Una firma per il 5x1000 alla nostra associazione
Carissimi,
Anche quest'anno la legge finanziaria consente di destinare
la quota del 5x1000 della vostra imposta sul reddito delle persone fisiche
relativa all'anno 2015 (CUD, modello 730 o Unico), ad una serie di realtà fra
cui le ONLUS (associazioni non lucrative di utilità sociale).
L'attività del Collegamento tra Gruppi Famiglia - e quindi
dell’associazione Formazione e Famiglia che ne è l’espressione legale - rientra
fra queste e con la vostra firma potrete sostenere la pubblicazione del Foglio
di Collegamento, promuovere le settimane estive per famiglie e le altre
iniziative formative (convegni, incontri e attività).
In questi anni, come potete vedere dalla tabella qui sotto,
le vostre firme sono progressivamente aumentate, e di questo vi ringraziamo
molto.
Confidiamo, dal prossimo anno, di potervi chiede anche una
firma per il 2x1000 destinato alle associazioni culturali.
Contiamo su di voi!
il Tesoriere, Franco Rosada
28-MISERERE
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te
solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi
occhi, io l'ho fatto.
Crea in me, o Dio,
un cuore puro,
rinnova in me
uno spirito saldo.
Non scacciarmi
dalla tua presenza
e non privarmi
del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia
della tua salvezza,
sostienimi con uno
spirito generoso.
dal Salmo 51 (50)