Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF94 giugno 2017
GLI IDOLI DI QUESTO MONDO
Il diavolo lo condusse a Gerusalemme e lo pose sul punto più alto del tempio…
(Lc 4, 9a)
Lettere alla rivista
1-LE NOSTRE FRAGILITÀ
L’importante è riconoscerle e confessarle
Quando mi confesso, riconosco sempre lo stesso peccato, da cui non riesco a guarire. Mi chiedo e le chiedo: sono una persona viziosa?
Renzo
Risponde mons. Giancarlo Grandis, Docente di Teologia Morale del Matrimonio
La vita cristiana è un processo dinamico che ha il suo inizio nell’incontro con Cristo (cfr Deus caritas est, 1). L’esperienza di questo incontro viene sancito dal sacramento del battesimo che ci incorpora a Lui come il tralcio alla vite (cfr Gv, 15,5), ci mette in comunione con la Chiesa, corpo di Cristo e popolo in cammino verso il Regno di Dio; la quale è, in Lui, “come un sacramento ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1). Il battesimo ci rimuove dalla nostra originaria condizione di peccato e ci dona la forza della grazia per dare alla nostra vita un nuovo orientamento e per conformare la nostra esistenza quotidiana al Vangelo e alla ricerca della volontà di Dio.
L’Eucaristia, con cui si conclude il cammino dell’iniziazione cristiana, e la Riconciliazione sono poi i due sacramenti che costituiscono come i due polmoni della vita in Cristo. Il primo la nutre con il pane di vita, mentre il secondo la guarisce dalle fragilità e dalle deviazioni che sono sempre possibili anche dopo il battesimo.
Il cammino della vita cristiana è aperto da Gesù con il famoso discorso della montagna, che costituisce il vero e proprio manifesto del discepolo. Esso si conclude con un invito: “Voi, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). È un invito che non è alla portata delle nostre possibilità umane, se non ci affidiamo a Dio a cui niente è impossibile.
‘Perfetto’, secondo anche il contenuto della parola greca originaria che contiene l’idea di muoversi verso una meta, è colui che si orienta al Padre e giorno per giorno compie quei piccoli passi possibili che lo avvicinano a Lui. La persona è sollecitata alla perfezione non perché è impeccabile, ma perché crede alle parole di Gesù sulla possibilità di rialzarci sempre e continuare il cammino verso una comunione sempre più profonda con il Signore, in cui consiste il nostro bene (cfr Sal 72).
Non importa se quando andiamo a confessarci dobbiamo riconoscere materialmente che i peccati sono sempre quelli, perché quelle sono le nostre fragilità. L’importante è riconoscerli (confessarli), chiedere il sostegno della grazia sacramentale che viene elargita dalla Confessione e riprendere il nostro impegno a seguire Gesù. Per il cristiano la vera tristezza della vita è rimanere nel peccato. Aprirsi al dono della grazia è invece la vera felicità, anche se essa sarà raggiunta nella sua pienezza non in questa vita, ma nel Regno di Dio.
Dialogo tra famiglie
2-LA TENTAZIONE DEL GRATTA-E-VINCI
Le abitudini cattive vanno estirpate appena spuntano
Ho un debole per i gratta-e-vinci. Vado al supermercato: ne compero uno, vado dal giornalaio: ne compero un altro. Come faccio a liberarmi da questo vizio?
Rita
Cara Rita,
Prova a chiederti cosa cerchi nei tuoi acquisti. Occorre chiedersi perché si fanno le cose: alcune si fanno per dovere, altre per ‘dono’, altre per abitudine, altre per cercare una soddisfazione quando si sente un vuoto esistenziale o si è annoiati dal tran tran quotidiano, anche nella speranza di avere dei soldi in più…
Credo sia importante fare discernimento serio e leale sulle motivazioni che ci fanno agire sapendo bene che, finché siamo vigili custodi della nostra libertà, non cadiamo in trappole da cui è difficile uscire.
Chiamerei quanto dichiari una ‘cattiva abitudine’ piuttosto pericolosa.
Sai bene come sia grave, in Italia, la dipendenza dal gioco d’azzardo (i gratta-e-vinci lo sono); è un po’ come il fumo: so che fa male ma fumo ugualmente, pensando che il tumore ai polmoni capiti solo agli altri!
La strategia, in questi casi, credo sia quella dei contadini: strappano le erbe infestanti appena spuntano, non quando sono diventate rigogliose.
Ti suggerirei un’altra riflessione: i tuoi acquisti sono segreti o ne parli a tuo marito? Se non ne parli ti senti rispettosa della vostra comunione di vita?
In questo caso al vizio si aggiungerebbe il peccato contro il Sacramento del Matrimonio!
Anna Lazzarini
3-EDITORIALE
Come adorare gli idoli: I VIZI CAPITALI
di Franco Rosada
Gli idoli di questo mondo sono facilmente elencabili: sesso, denaro, potere. Negli ultimi anni, a causa del ruolo sempre più invadente dei media, se ne può aggiungere un altro: l’apparire. Non illudiamoci di esserne esenti: anche noi credenti qualche volta siamo portati ad adorarli, forse senza rendercene conto.
Adoratori di idoli
Partiamo dall’ultimo: non credo che coltiviamo l’ambizione di apparire in TV, ma forse ci teniamo a contare i like che riceviamo, gli “amici” che abbiamo sui social. Il potere: non nutriamo certo ambizioni di governo, ma chi comanda a casa nostra? A quale ruolo ambiamo sul lavoro?
C’è poi il denaro. Il denaro non è tutto, ma… Come fa il mio vicino a cambiare ogni due anni l’auto? Perché quell’amico/a abita in una villetta mentre noi siamo costretti in un appartamento? Perché chi convive paga meno tasse di chi è sposato?
Infine c’è il sesso: sappiamo resistere alla tentazione di dare qualche sbirciatina ai siti porno? Di leggere certi libri per signore che mischiano amore e pratiche erotiche?
Dagli idoli ai vizi
I tre idoli di questo mondo - sesso, denaro, potere - sono le tre pulsioni fondamentali che agiscono sulle sfere umane dell’amare, dell’avere e del volere. Ci sono indispensabili per vivere e per sopravvivere.
Come coppie e come famiglie conosciamo bene il valore fondamentale dell’amore, tanto più vero quanto più riesce ad essere gratuito.
Sappiamo bene quanto ‘costa’ anche economicamente ‘tenere famiglia’ ma sappiamo anche il valore della condivisione e della comunione dei beni.
Siamo consapevoli quanto conti, per l’armonia familiare, imparare ad essere ‘al servizio’ gli uni degli altri.
Allo stesso modo facciamo ogni giorno esperienza di quanto sia difficile essere fedeli a queste scelte di vita e quanto sia facile essere tentati di ‘usare’ gli altri a livello sessuale, oppure sfruttandone la fatica, o ancora prevaricandoli.
Quando cediamo alla tentazione cadiamo nel peccato.
I vizi capitali
È per questa ragione che in questo numero tratteremo dei vizi capitali che proprio dalle tre pulsioni fondamentali prendono le mosse.
Intendiamoci: il peccato non è da confondere con il vizio, ma sappiamo bene che cos’è un vizio e forse lo pratichiamo anche: fumare, bere, giocare con i gratta-e-vinci, imbottirci di medicine e, per i giovani, lo sballo del sabato sera, tutte cose che sappiamo farci male ma a cui non sappiamo rinunciare.
La scelta di trattare i vizi capitali è legata anche alla tradizione della Chiesa che, fino dai primi secoli, ha provato a definirli e classificarli.
Il primo che definisce i peccati capitali è Evagrio Pontico (345-399 d.C.), monaco orientale, che ne individua otto: golosità, fornicazione, avarizia, tristezza, collera, accidia, vanagloria, orgoglio.
“In Occidente” scrive Scquizzato, “la lista entra grazie a Cassiano e in seguito a San Gregorio Magno, che isolò la superbia come sorgente di tutti i mali, unificò tristezza e accidia, introdusse l'invidia e ne cambiò anche l'ordine, ispirandosi al testo del Siracide ‘principio della superbia infatti è il peccato’ (10,15)”.
“Più tardi” continua Scquizzato, “vanagloria e orgoglio verranno fusi e si costituirà così la classificazione definitiva dei sette peccati capitali che, a partire dal XIII secolo, si è imposta in Occidente: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia detta anche accidia. In questo ordine vengono raccolti i sette peccati capitali nel Catechismo della Chiesa Cattolica”.
2x1000 alla Cultura
Smentendosi clamorosamente, il Ministero dei Beni Artistici e Culturali quest’anno ha tolto la possibilità di destinare con una firma il 2x1000 dell’IRPEF ad una associazione culturale. Ci scusiamo per il disguido e vi invitiamo a confermarci la vostra fiducia con una firma per il 5x1000 alla nostra associazione di volontariato: CF 97571710017.
Campi estivi 2017
A pag. 27 trovate il calendario definitivo dei campi. Ulteriori eventuali aggiornamenti saranno segnalati sul sito dei Gruppi Famiglia.
4-GLI IDOLI DI QUESTO MONDO
Sessualità, denaro, potere, apparenza, tecnologia, media nei documenti, nelle omelie e nei discorsi di papa Francesco
Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Papa Francesco
Il bene che facciamo deve nascere dalla redenzione che Gesù ci ha dato. Papa Francesco
A cura della Redazione
Abbiamo titolato il numero: ‘gli idoli di questo mondo’ e poi parliamo dei vizi capitali: un’incongruenza?
Abbiamo già spiegato nell’editoriale che non vi è contraddizione ma, anzi, consequenzialità. Comunque ci sembra giusto dedicare almeno un articolo al tema degli idoli e lo facciamo servendoci delle parole di papa Francesco, che ha trattato di questi temi nei suoi documenti magisteriali: Evangelii gaudium (EG), Laudato sii (LS) e Amoris laetitia (AL), nelle sue omelie e discorsi.
La sessualità
Scrive Francesco: “L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune”.
“Imparare ad accogliere il proprio corpo, ad averne cura e a rispettare i suoi significati è essenziale per una vera ecologia umana. Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere sé stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente” (LS 155).
Purtroppo, annota Francesco, “In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’ ‘usa e getta’.
Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva”.
E si domanda: “Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi?” (AL 153).
E conclude: “Senza il pudore, possiamo ridurre l’affetto e la sessualità a ossessioni che ci concentrano solo sulla genitalità, su morbosità che deformano la nostra capacità di amare e su diverse forme di violenza sessuale che ci portano ad essere trattati in modo inumano o a danneggiare gli altri” (AL 282).
Il denaro
Scrive Francesco: “L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi”, eppure “non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà” (EG 52).
“Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società”, continua il Papa. “L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano” (EG 55).
E conclude: “Il denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla solidarietà disinteressata e ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano” (EG 58).
Il potere
Su questo tema papa Francesco sottolinea quanto questo idolo sia presente anche nella Chiesa.
Scrive infatti, “All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica.
Inoltre, alcuni smettono di vivere un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale” (EG 98).
“Chiediamo al Signore”, conclude Francesco, “che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! (EG 101).
L’apparenza
“Nella cultura dominante” annota Francesco, “il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza” (EG 62).
Questo tema il Papa lo ha ripreso, con maggiori dettagli, in un’omelia mattutina a Santa Marta nell’ottobre del 2016 (memoria di San Giovanni XXIII).
Partendo dal passo di Luca (11,37-41) in cui un fariseo, che aveva invitato Gesù a pranzo, si era stupito perché Egli non aveva fatto le abluzioni rituali, Francesco ci ha invitato a chiedere al Signore di respingere la religione dell’apparire.
“Gesù ci chiama, ci invita a fare il bene con umiltà”. Una persona “ può fare tutto il bene che vuole ma se non lo fa umilmente, come ci insegna Gesù, questo bene non serve, perché è un bene che nasce dalla persona, dalla sua sicurezza e non dalla redenzione che Gesù ci ha dato” (1).
La tecnologia
Pur non essendo un “idolo” in senso usuale, la tecnologia condiziona ormai molto la nostra vita.
Secondo papa Francesco, “all’origine di molte difficoltà del mondo attuale” c’è il fatto che il mondo occidentale utilizza il pensiero tecnico-scientifico come “paradigma di comprensione” per spiegare “tutta la realtà, umana e sociale” (LS 107). L’approccio scientifico alla comprensione della realtà, che è appunto solo uno dei possibili, diventa l’unico universalmente riconosciuto e quindi tende ad assolutizzarsi, sacrificando altri aspetti.
Prevale, secondo il Papa, un “riduzionismo che colpisce la vita umana e la società in tutte le loro dimensioni” e che preclude una comprensione ampia e complessa del reale.
Infatti “la specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme” (LS 110) e sebbene consenta di ottenere applicazioni concrete, “spesso conduce a perdere il senso della totalità, delle relazioni che esistono tra le cose”.
Per evitare questo, ciascuna specializzazione, conclude Francesco, dovrebbe “tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere”, riconoscendo anche gli “orizzonti etici di riferimento”, senza i quali “la vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza” (2).
I media
Anche i mezzi di comunicazione di massa non sono “idoli” in senso tradizionale, ma ne sono un ottimo strumento di diffusione.
Non per niente Francesco, parlando ai dipendenti di TV2000 - l’emittente della CEI - ha affermato che “spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell’economia e della tecnica”.
Alla fine Francesco ha raccomandato loro di “parlare alla persona tutta intera”, “evitando quelli che sono i peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione”, un piccolo elenco di vizi capitali (3).
(1) Fonte: Alessandro Ghisotti, Avvenire
(2) Fonte: Giulio Lizzi, Formiche.net
(3) Fonte: Vatican insider, La Stampa
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Il pudore è una virtù che coltiviamo e insegniamo ai nostri figli?
- Pratichiamo l’elemosina verso chi ha più bisogno?
- Quanto crediamo nella tecnica e quanto crediamo in Dio?
- Quanto le nostre opinioni si basano solo sul “sentito dire”?
5-IDOLI, PECCATI E VIZI
I peccati e i vizi capitali, frutto della nostra idolatria, e il combattimento spirituale necessario per sconfiggerli
I peccati capitali sono la declinazione esteriorizzata del male che ci portiamo dentro.
Quando si inizia a non vivere come si pensa, si finisce per pensare come si vive.
A cura della Redazione
Guardare in faccia i nostri vizi è entrare nella complessità e nei meandri del nostro cuore.
Questo è “un percorso tutt'altro che piacevole perché non di rado ci incontriamo con ciò che siamo e che non vorremmo essere: orgogliosi oltre misura, arrabbiati perché invidiosi, indifferenti a tutto, conformisti e via elencando”, scrive Frigato. E continua: “Eppure conoscerci con realismo, senza scandalizzarsi di ciò che scopriamo in noi, è un passo necessario per avviare un processo di maturazione umana e dare la scalata alle virtù morali, a quei valori umani e cristiani senza i quali non ce n'è maturità umana e neppure cristiana”.
Sulla stessa linea si pone Scquizzato. “La via che conduce a Dio ha il suo inizio con la conoscenza di noi stessi. Sono io, con tutto quello che mi porto dentro, ad essere chiamato all'unione con lui”. E prosegue: “Non si può percorrere la strada di Dio senza aver prima percorso la difficile strada della conoscenza di sé, dell'incontro con le proprie zone d'ombra.
Nella vita spirituale si sale a Dio nella misura in cui si discende nel proprio inferno interiore. E questa discesa, nella tradizione spirituale di sempre, si chiama umiltà”.
Felicità e idolatria
Per una riflessione seria sui vizi capitali occorre tenere sempre presente che questi hanno a che fare, in ultima analisi, con la felicità.
“Il vizio è la disordinata ricerca di qualcosa in sé buona ma condotta in modo disordinato. Caratteristica del vizioso è di aver fatto di un singolo elemento il centro della propria vita, il proprio idolo, consacrando ad esso tutte le proprie energie ed investimenti a livello fisico, affettivo e immaginifico”, afferma Scquizzato citando Giovanni Cucci. E prosegue: “I peccati capitali promettono dunque molto: gli onori, il piacere, l'avere... Per questo si è disposti a inchinarsi dinanzi ad essi. Vivere in base a questi vizi è come adorare un idolo, ma l'idolo è una realtà finita che si fa per passare per infinita”.
“L'uomo, in fondo”, termina l’autore, “ha due chance per la felicità: adorare Dio o gli oggetti. Questo perché ogni atto di adorazione è un atto di amore, e l'uomo per sua natura non può non amare, e quindi non può non adorare. È possibile scegliere solo tra Dio e l'idolatria. Non vi sono altre possibilità”.
“È significativo”, sottolinea Bianchi, “che, per la Bibbia, non esistano gli atei, i senza-Dio: esistono invece gli idolatri, esiste la tentazione dell'idolatria che colpisce tutti, il credente come chi credente non può o non vuole definirsi”.
L’origine del peccato
Da dove nasce il peccato? Alcuni possono sorridere di fronte al racconto eziologico del peccato dei nostri progenitori (Gen 3) eppure contiene molte verità che trovano conferma in psicologia, ‘nel nostro inferno interiore’.
“Nella nostra storia personale”, scrive la Fusaro, collaboratrice di Scquizzato, “sono presenti mondi di diverse persone: i genitori, i parenti e poi, via via che cresciamo, tutte le persone che incontriamo. Dentro di noi sono presenti vari modelli di come vivere, sono presenti innumerevoli esperienze che forse non ricordiamo più, ma che, nel bene o nel male, ci hanno condizionato”.
Per capire l’origine del peccato che è in noi, e a maggior ragione il vizio, “il primo passo è individuare in noi cosa abbiamo ereditato dalle persone, dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, come hanno contribuito, nel bene e nel male, alla formazione della nostra personalità. Ci può essere nella nostra storia”, continua l’autrice, “un lato oscuro, un trauma che ci ha segnato. Se abbiamo avuto una mamma che non è stata attenta a noi, cercheremo quella mamma in tutte le relazioni a cui daremo vita e non saremo mai soddisfatti”.
È il peccato dei genitori che ricade sui figli, proprio come per il peccato ‘originale’.
“Solo se accettiamo di conoscerci, e in questo coloro che ci sono vicini ci possono aiutare perché vedono delle cose di noi che noi stessi non vediamo, non perderemo le nostre fragilità ma riusciremo a costruire relazioni soddisfacenti, anche se non saranno intense come la relazione che avremmo voluto avere con nostra madre”, conclude la Fusaro.
Peccato e vizio
Come abbiamo già detto, il peccato è un atto singolo, mentre il vizio indica un comportamento abitudinario, che risulta dalla ripetizione di numerosi atti peccaminosi dello stesso genere e diventa quasi una seconda natura.
“La nozione di vizio” scrive Fanzaga, “aggiunge questo alla nozione di peccato: il vizio è il peccato ripetuto tanto da diventare un'abitudine, che non solo è radicata nella nostra anima, ma anche nella nostra psiche e nel nostro corpo. Il vizio è il peccato consolidato che ha messo radici nella nostra natura psicofisica, oltre che spirituale. Per questo il vizio è veramente difficile da estirpare: non si tratta solo di rompere la radice del cuore, ma anche di purificarlo dai veleni che sono nella psiche e nel corpo. Se noi vogliamo rompere con il peccato, quando esso è ormai diventato vizio, le passioni urlano e come spire ci avvolgono. L'atto di peccare è momentaneo, il vizio resta anche dopo che abbiamo deciso di non peccare più. Sradicare le abitudini richiede un lungo cammino spirituale”.
La lotta spirituale
I Padri della Chiesa non avevano a disposizione la psicologia e ignoravano il significato di ‘inconscio’ eppure avevano ben presente la lotta spirituale, in cui l'uomo oppone resistenza al male e lotta per non essere vinto dalle tentazioni e travolto dal peccato.
Bianchi si chiede: “Con quale dinamismo la tentazione si sviluppa nel cuore dell'uomo?”. E risponde: “Semplificando le indicazioni dei Padri, è possibile delineare un itinerario che si snoda in quattro tappe: suggestione, dialogo, acconsentimento, passione.
Tutto incomincia con una suggestione maligna, quando un'idea fuggitiva sollecita il nostro immaginario, diventando una suggestione seducente.
Queste suggestioni dipendono molto dal nostro modo di vivere: incontri, letture, immagini scavano in noi e lasciano tracce ed echi che risuscitano inavvertitamente con la potenza accresciuta dal desiderio.
La lotta esige pertanto come condizione preliminare un habitus di igiene dei sensi, degli occhi in particolare, delle immagini che immagazziniamo e coltiviamo; essa richiede vigilanza sul nostro immaginario.
I pensieri vanno stroncati sul loro nascere, altrimenti si instaura con essi un dialogo, la suggestione si ingigantisce fino a divenire una presenza assillante e ossessiva che ci domina e ci priva della libertà interiore. Tutto ciò è preludio alla sua manifestazione concreta in azioni peccaminose che, se reiterate, portano al vizio”.
Come combattere la tentazione?
“Munendosi di armi spirituali”, risponde Bianchi. E prosegue: “scendendo nello specifico, vi è innanzitutto l'assiduità con la Parola di Dio contenuta nelle Scritture e la pratica della lectio divina.
Strettamente legate a tali assiduità sono la preghiera e l'invocazione al Signore: ‘non ci abbandonare nella tentazione, ma liberaci dal Maligno’ (Mt 6,13).
Non si dovrebbe poi dimenticare l'importanza dell'apertura del cuore a un padre spirituale, a chi è più esperto in umanità e in vita spirituale.
Infine, occorre saper fare dell'Eucaristia il magistero della lotta spirituale, l'insegnamento che governa i nostri rapporti con la realtà, con gli altri, con noi stessi e con Dio”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Sappiamo riconoscere i nostri difetti?
- In quali atteggiamenti riconosciamo di essere debitori nei confronti dei nostri genitori?
- Come combattiamo i nostri ‘vizi’?
- Quali strumenti usiamo per sconfiggere le tentazioni?
6-SUPERBIA
Chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato (Mt 23,12)
Il superbo è forte con i deboli, debole con i forti.
L'autentica umiltà sta nel riconoscere che i nostri talenti sono dono di grazia e non solo opere delle nostre mani.
A cura della Redazione
La tradizione occidentale pone la superbia a capo dei sette vizi capitali perché alla base di tutti i vizi è sempre ravvisabile un amore smodato per il proprio io, cioè un atteggiamento superbo!
“Il superbo”, scrive Frigato, “anche se non allo stato puro, è una persona tremendamente antipatica e insopportabile. L’unica relazione che può instaurare è quella dall’alto in basso. Gli altri sono solo pedine da usare per la propria affermazione. Il superbo è anche un presuntuoso, un vanaglorioso, un millantatore, un arrogante, un ipocrita e, per completare, un terribile egoista”.
Egoismo e indipendenza
Il primo vizio capitale si manifesta essenzialmente attraverso due modalità: l'egoismo e l'indipendenza.
“L'egoista”, scrive Scquizzato, “è colui che riesce a coniugare il verbo essere solo alla prima persona singolare: io sono. E non va oltre. L'egoista è colui che non ama gli altri e non ha mai amato nessuno; se l'ha fatto è stato solo per un tornaconto personale.
In questo caso si mostra capace di fare anche un gran bene arrivando, all'occorrenza, ad essere finanche missionario e martire. Potrà realizzare grandi opere, ma ciò che lo muoverà sarà sempre la superbia. Infatti c'è una verità fondamentale nella vita spirituale: il bene compiuto fuori dall'amore può risultare essere il peggiore dei mali”.
“Il superbo”, continua Scquizzato, “è colui che può anche adoperarsi molto per l'altro, e per Dio, ma è sempre un ‘solo’. Ovvero, indipendente. Egli crede di essere all'origine del proprio essere. Ha dimenticato la provenienza del proprio essere da un principio altro. Egli vuole essere indipendente da tutti, dagli altri e da Dio.
Ma, attenzione, l'amore per se stessi e indipendenza sono due aspetti fondamentali della natura umana. È dunque importante sapere che si ha una propria dignità. Una bassa stima del sé porterà necessariamente ad essere schiacciati dall'altro, anche, e soprattutto, dalla persona amata”.
Il narcisismo
“La maggior parte dei soggetti caratterizzati da superbia”, scrive la Carpinello, collaboratrice di Scquizzato, “ha avuto un genitore adorante che gli ha attributo talenti e qualità a volte reali, a volte eccessivi; è come se quel genitore avesse avuto di fronte un figlio ideale anziché reale. Sovente, in questi casi, il padre è spesso isolato o distaccato dalla famiglia: madre e bambino diventano un'unità dalla quale egli è escluso”.
Vivere in queste situazioni comporta per il figlio il rischio concreto di diventare un narcisista, una persona che ha un amore e di un'ammirazione di sé così forti e pervasivi da non permettere di vedere niente o nessuno al di fuori di sé.
“Il superbo, il narcisista”, continua la Carpinello, “è dunque una persona che solo apparentemente è forte. In realtà il narcisismo nasconde una grande fragilità, poiché la vera autostima, che dà forza e fiducia, si acquista nel rapporto coi genitori, e se questo rapporto è falsato, il soggetto vive in costante competizione tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, ma sempre nella bramosa voglia di eccellere su tutti per dimostrare a se stesso che vale.
Il ragazzino che a scuola prende un brutto voto, una nota, oppure che è ha una lite con un amichetto e vede costantemente rimandare l'immagine di sé come quello che aveva ragione - e dunque vede il genitore scagliarsi talvolta con violenza contro chiunque neghi le sue capacità o possibilità - non imparerà mai a confrontarsi, a correggersi, ad acquisire un senso di giustizia, una morale, ma avrà imparato che tutto gli è dovuto, che l'errore non sta mai dalla sua parte”.
“In definitiva”, conclude l’autrice, “non avrà mai l'opportunità di crescere e di migliorarsi, ma resterà ancorato a quella precocissima fase di onnipotenza che caratterizza i primissimi anni di vita”.
Superbia e umiltà
“La superbia è al vertice dei peccati capitali”, annota Bianchi, ”perché è certamente il peccato che più sfigura, nega l'umanità di una persona. È il vero peccato ‘verso l'alto’ e perciò è un peccato che trascina in alto per lasciarci poi cadere dall'alto con una rovina devastante, talora definitiva.
I peccati ‘verso il basso’ restano peccati, ma sovente non sono così disastrosi e così difficili da piangere in vista della conversione.
Chi invece si sente a posto, chi si sente giusto, ama restare quello che è e non ha nulla da attendere dal Signore, che è venuto per chi si sente malato, peccatore”.
Proprio per questo, aggiunge Fanzaga, “Dio, a volte, permette che l’orgoglioso cada in altri peccati, per esempio quelli carnali, che sono meno gravi per l'anima ma comportano una vergogna più manifesta agli occhi degli uomini: in questo modo, l’orgoglioso si rende conto di quanto è miserabile, lui che riteneva di essere così in alto”.
Il primo passo per superare la superbia è ricollocare se stessi al proprio posto di fronte a Dio. “La tradizione spirituale”, scrive Bianchi, “ha individuato nell'umiltà, ‘maestra e madre di tutte le virtù’, l'arma per eccellenza contro la superbia”.
Però, “per vincere la superbia”, scrive Scquizzato, “non è sufficiente praticare l'umiltà. Purtroppo a volte il superbo indossa anche i panni dell'umile.
Occorre quindi saper riconoscere, negli attacchi che subiamo, la parte di verità che comunque essi contengono e farne tesoro.
Occorre praticare la carità, praticarla in segreto, senza attendersi un grazie, un'approvazione.
Serve anche accettare le proprie emozioni, non aver paura di piangere, di arrabbiarsi, di ridere anche di fronte agli altri. Allo stesso modo serve anche saper ridere di se stessi, divenire consapevoli che la storia che viviamo, in fondo, non è poi tutto.
E poi concedersi il lusso di non essere perfetti, di essere se stessi e praticare l'umiltà”.
L'umiltà non significa però piccineria o peggio ancora modestia.
“L'umiltà è qualcosa di estremamente forte”, annota Scquizzato. “Non significa nascondere i doni ricevuti, le proprie capacità. La negazione di sé è falsa umiltà. L'autentica umiltà sta anzitutto nel riconoscere i propri talenti, i propri doni, ma sempre come doni ricevuti, donatici per grazia e non come opere delle nostre mani. L'umile non è dunque il modesto che nega le qualità più evidenti, ma piuttosto colui che non se ne attribuisce il merito. Pertanto l’umiltà è giusto mezzo tra la superbia e la modestia, o pusillanimità, letteralmente ‘piccolezza d'animo’ ”.
“L'umiltà”, conclude Fanzaga, “recupera il genuino rapporto dell'uomo con Dio, e mette l'uomo nella condizione di riamare Dio con quell'amore con cui Dio lo ama. È la virtù fondamentale della Madre del Verbo incarnato”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- In casa nostra chi ‘comanda’?
- Sappiamo lodare in modo ‘giusto’ i nostri figli?
- Sappiamo accettare la ‘correzione fraterna’?
- Quanto, nella nostra devozione a Maria Vergine, è legato alla sua umiltà?
7-AVARIZIA
Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne (Lc 16,9).
Il motto dell’avaro è: “io sono ciò che io ho”.
La condivisione è il vero mezzo per uscire da sé stessi, dal proprio isolamento, e per farsi degli amici.
A cura della Redazione
“L'avaro ha il terrore del futuro, da cui si garantisce scegliendo un tipo di potere che non si esprime in ciò che è disponibile ed effettivo nel presente, preferendogli un potere più raffinato, un potere che non si esercita nel presente, ma che nel futuro può essere esercitato in qualsiasi momento”.
Così si esprime Galimberti a proposito di questo vizio. E continua: “L'avaro gode di questa possibilità e la protrae fino al giorno della sua morte, che è sempre una morte disperata, non perché l’avaro in quell'occasione è costretto a separarsi dal suo denaro, ma perché è costretto a separarsi dal futuro, per garantirsi il quale ha accumulato denaro per tutta la vita. Quindi l'avaro ha paura della morte, non accetterà la condizione di mortale che è propria dell'uomo, per questo il suo vizio è davvero un vizio capitale”.
Le paure dell’avaro
Se la morte è la paura ultima, vi sono tante paure penultime che affliggono comunque questo genere di viziosi.
Per Scquizzato “l’avarizia è la passione di colui che vorrebbe fuggire dalla paura di vivere nell’incertezza, nella precarietà. Ma l’ansia e l’insicurezza, da cui avrebbe dovuto liberarlo il denaro, si diffondono e crescono con maggiore insistenza, in un terribile circolo vizioso”.
Inoltre, “l’avaro coltiva l’illusione che, accumulando, può vincere tutte le paure che coltiva: quella dei ladri, dei mutamenti economici, delle rivoluzioni, delle malattie”.
L’avarizia dei sentimenti
Questo vizio incide anche sulla qualità delle relazioni. “Scontrarsi con l’avarizia rappresenta un vissuto doloroso, quando si è figli o partner di una persona avara, perché, oltre al denaro, sono i sentimenti e gli affetti ad essere centellinati”, scrive la Piccoli, collaboratrice di Scquizzato.
“I congiunti di un avaro sono privati di un clima caldo e accogliente, dell’atmosfera protettiva, quale quella che deve regnare in un contesto familiare e soprattutto privati dell’arte del ‘saper dare’ senza misurare costantemente”.
L’avarizia verso Dio
“Sarà bene ricordare anche un tipo speciale di avarizia, che è l'avarizia spirituale”, ci ricorda Fanzaga.
“Essa consiste nel desiderare la perfezione o delle grazie straordinarie per uno spirito di proprietà, non accettando di lasciarsi spogliare per entrare nell' intimità divina. Forma classica di avarizia spirituale è l'avidità di accumulare i mezzi di perfezione con una preoccupazione più quantitativa che qualitativa: si collezionano i doni, le grazie, le pratiche di pietà, si tesaurizzano le indulgenze come se fossero conti in banca; si vive nel loro computo minuzioso, nell'avidità di accrescerle; si tiene la contabilità delle preghiere fatte, delle comunioni, delle opere buone”.
L’avarizia male sociale
“Se la tradizione ha inteso l'avarizia come vizio privato, va riconosciuto che negli ultimi secoli, almeno in Occidente, essa ha assunto il volto di stile economico-sociale collettivo, al punto che è lecito chiedersi se essa oggi non sia piuttosto ritenuta una pubblica virtù, in quanto fonte di una vita soddisfacente, segnata dal benessere” scrive Bianchi. E continua: “Non solo, oggi una persona per molti vale in base a ciò che guadagna o possiede, sì che il denaro è assunto a misura di stima e di valutazione del singolo”.
“Ma perché questa brama di possesso, questa voracità di denaro e di beni seduce tante persone al punto che nell'odierna società opulenta occidentale possiamo considerarla come un male sociale?”, si domanda l’autore.
E risponde: “Certamente perché siamo diventati preda di un'ideologia sociale che vuole assicurarsi, garantirci il domani: regna una paura del domani, che chiede di accumulare beni e denaro per far fronte alle incertezze, alle possibili malattie, all'eventuale solitudine, alla debolezza e che abbisogna di aiuto altrui.
Allora l'insicurezza del domani appare compensata dai beni posseduti e così si scatena una bulimia dell'avere”.
Anche Scquizzato è sulla stessa lunghezza d’onda. “Il tema dell’avarizia oggi risulta essere rilevante sia a livello individuale che sociale.
È sufficiente seguire i media per riscontrare come numerose vicende descritte abbiano quale causa scatenante l’avidità, per la quale si è disposti a commettere ogni sorta di azione: corrompere, uccidere, perpetrare guerre. Oggi come ieri”.
E continua: “L’aspetto sociale dell’avarizia è una mera questione di constatazione. L’80% delle risorse della terra vengono godute dal 30% della popolazione mondiale. Di conseguenza, solo il 20% delle risorse sono lasciate al 70% della popolazione”.
Cambiare visione
Questa società ci illude che la felicità si trovi nel possesso delle cose e degli altri, dei loro sentimenti, del loro corpo e delle loro azioni.
“Se ci facciamo illudere”, annota la Piccoli, collaboratrice di Scquizzato, “invece di possedere, finiamo per esser posseduti: dai mass-media, dai governi, dai bisogni consumistici delle industrie”.
E continua: “L’ideale della felicità intesa come soddisfacimento di tutti i bisogni è in verità la causa dell’alienazione, basato non sul valore esistenziale (ovvero la capacità di dare senso alla vita) ma sul valore d’uso di una cosa o una persona.
Se la nostra società ha smesso di domandarsi cosa è bene per l’uomo, per orientarsi su cosa è bene per il profitto e lo sviluppo economico, è importante invece che torniamo a domandarci cosa ci serve veramente per vivere bene. È necessario porre nuovamente l’uomo al centro e non il profitto”.
Elemosina e condivisione
Di conseguenza, “bisogna iniziare a considerare gli altri come il mio prossimo senza calcolarne costi e utilità”, scrive Frigato.
Per Scquizzato “il più potente rimedio all’avarizia è la fiducia in Dio. Da questa fiducia nasce la libertà nei confronti delle cose e la capacità di dono, la capacità di praticare la generosità. Dare senza aspettare assolutamente nulla in cambio”.
“Dall’analisi della cupidigia”, constata Fanzaga, “emergono con chiarezza i motivi dell’importanza che ha l’elemosina nella Bibbia: per tutti, ma in modo particolare per i più ricchi, l’elemosina è necessaria alla salvezza.
Il nostro tempo, adducendo la motivazione che occorre battersi per la giustizia al fine di eliminare le cause della povertà - motivazione che spesso diventa un pretesto per evitare l’aiuto concreto e tempestivo a chi è nel bisogno -, non conosce più il significato altissimo dell’elemosina”.
Per Bianchi “l'antidoto all'avarizia è in primo luogo la conversione dei desideri, ossia l'esercizio per giungere a recidere alle radici la brama di possesso e ristabilire il primato dell'essere sull'avere. L'avarizia non è infatti una questione di quantità di beni posseduti, ma di disposizione del cuore”.
E continua: “Occorre scegliere di rinunciare, prima che ci costringa a farlo, troppo tardi, la vita stessa. Occorre soprattutto condividere il denaro, i beni: è questo il vero mezzo per uscire da sé stessi, dal proprio isolamento, e per farsi degli amici”.
Infine, conclude: “Va detto con risolutezza: la condivisione fraterna è il vero nome della povertà cristiana!”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Quanto i nostri risparmi sono orientati a garantirci il ‘futuro’?
- Siamo ‘generosi’ nell’esprimere l’amore che proviamo per l’altro/a?
- Conosciamo qualcuno avaro ‘spiritualmente’?
- Cosa serve, secondo noi, per ‘vivere bene’?
8-LUSSURIA
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,8)
La lussuria è la ricerca spasmodica del piacere sessuale, slegato alla sua dimensione di dono e di reciprocità.
Vi chiedo: fate lo sforzo di vivere l’amore castamente! Papa Francesco
A cura della Redazione
“Per lussuria si intende ‘fare sesso’ e molto, non importa con chi, come, quando, purché si faccia!”, scrive Frigato. “Se stiamo ai discorsi e alle trasgressioni sessuali messe bene in mostra da media e pubblicità, il ‘fare sesso’ sembrerebbe l'idolo del secolo anche se indagini affidabili dicono che di sesso si parla molto, ma se ne fa molto meno”.
Sesso come possesso
“La lussuria è la ricerca spasmodica del piacere sessuale, quando questo è slegato alla sua dimensione di dono e di reciprocità, concentrandosi piuttosto sul solo desiderio di possesso”. Annota Scquizzato. E prosegue: “Quando l'atto sessuale è vissuto solo come piacere fine a se stesso, paradossalmente non si giunge al piacere agognato e quindi alla felicità, ma piuttosto alla distruzione e a una profonda tristezza.
Scriveva Freud che un comportamento erotico senza più norme od ostacoli di qualunque genere diventa ‘privo di valore’, al punto che una libertà sessuale illimitata è nefasta non meno di una libertà continuamente frustrata”.
“Queste osservazioni” continua l’autore, “sono confermate dalla riflessione filosofica più recente: il piacere non mantiene mai la parola data.
L'attuale ricerca psicologica parla di ‘assuefazione del piacere’ e di ‘caduta del desiderio’, quando questi sono considerati come ragione esclusiva dell'agire. Chi cerca il piacere come fine a se stesso non lo trova mai”.
“La lussuria” conclude Scquizzato, “altro non è che la libertà negata. Dove c'è la lussuria non c'è più la libertà. Si diventa schiavi di un ‘dittatore’, la propria passione, una passione in grado di generare cecità, incapacità di vedere la propria vita nella totalità. È per questo che quando siamo presi dalla passione confondiamo il bene con il male”.
Fare ciò che si vuole
“Quello che si osserva in questi ultimi decenni”, annota la Fusaro, collaboratrice di Scquizzato, “è un ‘senso di deriva’ presente nella società: la libertà si sta in qualche modo esprimendo con la filosofia del ‘fare ciò che si vuole’.
E nel ‘fare ciò che si vuole’ rileviamo i comportamenti più strani, specialmente in campo sessuale. Infatti, sul tema della sessualità riscontriamo l'esplosione di tutte le perversioni catalogate e non nei manuali di psichiatria”.
“Ritengo”, continua l’autrice, “che tali esplosioni siano in qualche modo pilotate, nel senso che esse producono consumi, cambiamenti negli stili di vita, interessanti ricadute di tipo commerciale, oltre al fatto che, ovviamente, si tende a disinteressarsi delle tematiche sociali ed esistenziali di maggior peso per la vita personale e collettiva.
La libertà che conosciamo oggi molto spesso non è libera espressione di una scelta, in quanto questa è frutto di una maturazione, ma è una libertà apparente. La libertà del ‘faccio ciò che voglio’, in realtà è la libertà del ‘faccio ciò che mi sento in quel momento’ o ‘faccio ciò che gli altri mi suggeriscono di fare’. Di conseguenza, divento vittima o prigioniero di aspetti che sono sicuramente anche i miei, ma su cui potremmo nutrire dei dubbi circa il fatto che siano effettivamente ciò che voglio”.
Sessualità e morale
“La posizione cattolica nel definire la lussuria è molto equilibrata”, scrive Fanzaga,”da una parte non demonizza la sessualità umana, dall'altra finalizza l'uso della sessualità al progetto di Dio, considerando peccato grave ogni uso della sessualità al di fuori del matrimonio e, all'interno del matrimonio, ogni uso della sessualità non conforme alla legge di Dio.
Indubbiamente, la posizione della morale cattolica urta la mentalità moderna, che potremmo qualificare come permissiva e ‘pansessuale’ per il valore spropositato che attribuisce al piacere sessuale, fino a farne una ragione di esistenza”.
“Oggi si fanno tanti discorsi generici sul valore della sessualità”, continua l’autore, “ma non si danno indicazioni precise sui peccati sessuali, mentre è necessario che le persone ne sappiano individuare con chiarezza la specie, la gravità, le aggravanti, sia pure in una visione positiva della sessualità.
Serve qui una precisazione: quando parliamo di peccato grave vogliamo fare riferimento alla materia del peccato, cioè al suo aspetto oggettivo, alla natura dell'atto considerato in sé, e non ai suoi aspetti soggettivi cioè alle condizioni di consapevolezza e al grado di libertà di chi lo compie.
Questi aspetti soggettivi vanno giudicati caso per caso e possono alleggerire la gravità dell'atto. E comunque, solo Dio legge nel profondo dei cuori”.
Sessualità e castità
“Tra gli strumenti più concreti per affrontare e vincere la lussuria va innanzitutto annoverata l’istanza di riti di purificazione dell'immaginazione: occorre un’igiene dei pensieri, una lotta senza tregua per purificare il cuore e l'immaginazione da fantasie sessuali distorte”, scrive Bianchi.
E continua: “Ma soprattutto, occorre affrontare un discorso cruciale, anche se non facile da comprendere, quello del significato profondo della castità.
La castità non sta alle nostre spalle come una virtù perduta, ma sempre ci precede, in qualunque stato noi ci troviamo.
Quello per la castità è un combattimento rude, continuo, e molte possono essere le cadute, ma bisogna non cedere mai alla mancanza di speranza; anzi, la misericordia di Dio sempre rinnovata sulle nostre cadute deve tenerci lontani da eccessi di sensi di colpa”.
Può essere d’aiuto, per coltivare la castità, praticare il pudore cristiano.
“Il pudore”, scrive Fanzaga, “è un atteggiamento di cui abbiamo perso addirittura le tracce. È svanito dalla proposta educativa”.
Praticando il pudore si mantiene un linguaggio corretto, si evitano comportamenti scomposti e familiarità eccessive.
“Riservatezza e austerità”, conclude Fanzaga, “evitano che ci si lasci coinvolgere nella mentalità moralmente accomodante e nella leggerezza che caratterizzano i nostri tempi”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Siamo consapevoli che quasi tutto il ‘sesso’ che vediamo ha una radice commerciale?
- I consacrati si impegnano a non avere nessuna donna, i laici si impegnano a non avere nessuna donna, tranne la propria moglie. Condividiamo?
- Pratichiamo la castità coniugale?
9-IL VALORE DELLA CASTITÀ
Io non vorrei fare il moralista ma vorrei dire una parola che non piace, una parola impopolare.
Anche il Papa alcune volte deve rischiare per dire la verità. L’amore è nelle opere, nel comunicare, ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo, in questo mondo edonista, in questo mondo dove ha pubblicità soltanto il piacere, passarsela bene, fare la bella vita, io vi dico: siate casti, siate casti.
Tutti noi nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile, ma è proprio la via di un amore genuino, di un amore che sa dare la vita, che non cerca di usare l’altro per il proprio piacere.
È un amore che considera sacra la vita dell’altra persona: io ti rispetto, io non voglio usarti. Non è facile. Tutti sappiamo le difficoltà per superare questa concezione “facilista” ed edonista dell’amore. Perdonatemi se dico una cosa che voi non vi aspettavate, ma vi chiedo: fate lo sforzo di vivere l’amore castamente.
Papa Francesco
10-IRA
Imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29b)
Nell'occhio adirato la pagliuzza diventa una trave, e la collera si trasforma in odio. Gregorio Magno
Per combattere l’ira in primo luogo è necessaria una grande forza di resistenza e di sopportazione nelle contrarietà.
A cura della Redazione
Iniziamo con una precisazione: l’ira non è l'aggressività, che al pari della sessualità è una pulsione assolutamente fondamentale per la conservazione dell'individuo e della specie.
Questa precisazione è necessaria, sottolinea Galimberti, perché “di solito, nella considerazione che abbiamo dell'ira cogliamo qualcosa di significativamente immorale, nel senso che ciascuno di noi si identifica con la parte razionale e ben educata di sé e rifiuta di riconoscere come propria la parte passionale, della cui attivazione è sempre responsabile l'altro”.
In realtà, continua l’autore, “le passioni sono dinamiche del corpo che lo danneggiano sia quando vengono eccessivamente compresse, sia quando vengono scatenate senza limiti. Per questo i filosofi hanno sempre pensato e detto che la salute del corpo e l'equilibrio della mente non si mantengono con la repressione delle passioni, o peggio con la loro rimozione, ma con la loro misurata espressione, applicando cioè nel nostro agire la ‘giusta misura’”.
Ira nera e ira bianca
Non ci arrabbiamo sempre nello stesso modo. Si parla, infatti, di due principali tipi di ira: quella nera e quella bianca.
La collera nera, scrive Frigato, “scatta quando uno si sente ‘aggredito ingiustamente’ e si accende come un fiammifero, come di fronte ad un sorpasso azzardato, ad una coda troppo lunga al supermercato, ad una mano di carte ‘sfortunate’ ”.
È l’ira che “nasce da dentro, come un vulcano che erutta” commenta Scquizzato, “non possiamo trattenerla ma solo constatarne l’esplosione e i danni ingenti provocati agli altri oltre che a noi stessi”.
La collera bianca, riprende Frigato, “riguarda coloro che sanno trattenersi, anche se in realtà sono i più pericolosi. Conservano dentro un livore e una rabbia che non aspetta altro che l’occasione buona per colpire. È l’ira amara, vendicativa, di chi è subdolo e aspetta solo il momento opportuno per farla pagare all’altro: il collega d’ufficio, il vicino di casa, il parente antipatico”.
È l’ira che “non dà a vedersi, ma cova all’interno, provocando rancore e corrodendo tutto come un tarlo”, annota Scquizzato. E continua: “Quest’ultimo tipo di ira è distruttiva anzitutto nei propri confronti. Infatti, ha una ricaduta negativa anche sul corpo con aumento della pressione arteriosa, mal di stomaco, ulcera, malattie psicoanalitiche…”.
Ira maschile e ira femminile
“Le donne si arrabbiano in modo diverso dagli uomini” sottolinea Galimberti. “Preferiscono interrompere il contatto oculare ed evitare il dialogo piuttosto che esprimere energicamente il proprio dissenso. Le donne più degli uomini piangono di rabbia e si sentono colpevoli sia per la rabbia, sia per il fatto di non saper reagire adeguatamente”.
“Ma la differenza più grande tra uomini e donne “, continua l’autore, “si vede nella reazione dei due sessi alla rabbia suscitata dal tradimento o dall'abbandono. La reazione maschile è prevalentemente sul piano fisico con sopraffazioni violente che talvolta neppure le mura di casa e le porte blindate riescono a contenere, mentre la reazione femminile tende a colpire sul piano economico e su quello affettivo con il ricatto dei figli”.
Ira e psicologia
Ma lo scatto d’ira può rivelare anche una persona fragile psicologicamente. “Molti genitori si trovano in questa situazione” annota Frigato.
“Perdono le staffe per la disobbedienza del figlio, si sentono non presi sul serio e allora, per riaffermare la propria autorità gridano imprecano, umiliano... e talvolta menano le mani”.
Questo capita anche tra coniugi, quando i rapporti si deteriorano.
La Sini, collaboratrice di Scquizzato, riporta un esempio concreto: “Una paziente di 43 anni, separata dal marito, è venuta in psicoterapia. Aveva un’angoscia di abbandono devastante perché sentiva di non riuscire più a stare in piedi senza suo marito, sentiva di non essere più in grado di condurre una vita stabile, avendo anche una figlia. Ma tutte le volte che entrava in relazione con suo ex marito si scatenava una furia devastante. Cominciavano a litigare tirandosi degli oggetti, picchiandosi”.
In quei momenti d’ira quella donna si dimenticava completamente che suo marito comunque continuava ad essere il padre di sua figlia e che la ragazza, che in quella situazione di sofferenza coniugale c’entrava solo relativamente, ne poteva restare traumatizzata.
La santa ira
Anche se è vero che “non è assolutamente facile adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel momento giusto e per la giusta causa”, scrive Frigato, “certe volte ‘incavolarci’, ma senza esagerare, è giusto.
‘Sdegnarci’ per delle ingiustizie, per la violenza contro gli innocenti o per la falsità e l’ipocrisia di tanti non solo è giusto ma è doveroso”.
A questo proposito Fanzaga scrive: “L’ira può anche essere una reazione positiva al male. La Bibbia parla di sante ire. Gli uomini di Dio che si accendono di santa ira lo fanno in nome di Dio e nello stesso senso di Dio: lo comprendiamo meglio se ci soffermiamo a considerare il comportamento di Gesù.
Egli era certamente un uomo mite e umile di cuore, eppure dalla sua bocca sono uscite parole terribili, d’ira tremenda, parole in cui sfolgora la santità di Dio che non tollera l'ingiustizia e la malvagità”.
Combattere l’ira
“In quanto passione dell’umano, l’ira non è facile da definire”, scrive Scquizzato. “Il limite tra ira come peccato e ira in qualche modo necessaria è piuttosto evanescente”.
Comunque, quali strumenti adottare per contenere gli scatti d’ira?
Per Frigato “Il più immediato e anche il più difficile rimedio contro l’ira è sottrarsi alla tirannia dell’urgente e all’ansia dell’ultimo minuto: sul lavoro, in famiglia, con gli amici”.
E continua: “Avere poi qualcuno cui confidare le proprie difficoltà e paure non è solo utile, è necessario.
Infine, iniziare la giornata con un momento di preghiera fissando lo sguardo sul crocifisso: allora è possibile guardare alla vita con occhio più realistico e maturo”.
Fanzaga invece annota: “Per combattere l’ira in primo luogo è necessaria una grande forza di resistenza e di sopportazione nelle contrarietà. Le avversità si sopportano con pazienza, spesso tacendo, a volte, addirittura, sorridendo.
Oltre la pazienza - ma qui siamo al vertice della virtù, che sradica le fondamenta il vizio dell'ira - è la capacità di perdonare. Il perdono salva: noi e gli altri”.
E conclude: “Il Cristo che più di tutti arse di zelo, che arse della santa ira di Dio, più di tutti seppe sopportare con estrema mansuetudine e umiltà l'ira dei peccatori”.
Un ultimo suggerimento che lo fornisce Bianchi: “Per sconfiggere la collera occorre la capacità di porsi una semplice ma decisiva domanda: chi è l'altro per me? È una persona con cui entrare in relazione oppure è qualcuno da dominare a mio piacimento?”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- La virtù si definisce come ‘il meglio in circostanza’. Sappiamo scegliere nel nostro agire quotidiano la via mediana tra ira e apatia?
- Sappiamo indignarci, nei modi e nelle forme dovute, per una giusta causa?
- Quando siamo arrabbiati, teniamo tutto ‘dentro’ o ci sfoghiamo?
11-GOLA
Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete (Mt 6,25)
L’abbuffarsi è spesso il segnale di un vuoto interiore che si cerca di colmare riempiendo lo stomaco.
Il nutrirsi è un volersi bene, un prendersi cura.
A cura della Redazione
“Noi tutti con il cibo intratteniamo dei rapporti che superano la pura necessità dell'alimentazione”, scrive Frigato.
“Il cosa e il come mangiamo assume più di un significato: primo fra tutti quello relazionale. Se anche per ragioni di lavoro mangiamo di corsa, la cosa più bella e naturale è trovarci intorno ad un tavolo di casa con tutta la famiglia e gli amici”.
Comunione e solitudine
Ma quante volte, nel corso della settimana, questo è possibile? Come si svolgono i nostri pranzi?
“Nelle stesse nostre famiglie”, ci ricorda Ravasi citato da Scquizzato, “anche se si è seduti insieme alla tavola, col televisore acceso è come se ognuno si nutrisse in un angolo, proprio secondo la norma di chi vive da solo”.
E, purtroppo, “un uomo che mangia solo somiglia a un animale alla mangiatoia”.
È un comportamento analogo a quello “di tanti adolescenti e giovani che - anche se in massa - si ubriacano in modo lugubre, la loro sguaiatezza è disperazione, il loro branco è solitudine, il loro bere è un accecarsi”.
Il vizio della gola
In cosa consiste questo vizio? “Il goloso da vizio capitale si rapporta al cibo con voracità e ingordigia”, scrive Frigato. “Non è certo il vizio più grave ma, degradando l'uomo a livello animalesco, apre la strada agli altri vizi”.
“L’abbuffarsi è spesso il segnale di un vuoto interiore, di un bisogno di riconoscimento che si cerca di colmare riempiendo lo stomaco. La fame dell'ingordo è il sintomo di un'altra fame: quella di affetto”.
Per Scquizzato “Il vizio della gola non è legato tanto alla sensazione del piacere, ma del godere per un piacere smodato”. Si tratta quindi di “porre attenzione a come assumiamo il cibo che ci è essenziale per vivere. E sarà un peccato di gola anche il nutrirsi poco, non far onore ad un piatto oppure ingoiare voracemente una porzione”.
Forme di golosità
“Si è golosi unicamente di cibo?” Si interroga Scquizzato. E risponde: “No, lo si può essere di tutto. Anche nella vita spirituale si può essere golosi: ci riferiamo a chi è sempre in ricerca di consolazione, a chi pretende di sentire, ‘gustare’ nella preghiera”.
Anche Fanzaga sottolinea quest’aspetto. “Vale la pena di mettere in evidenza, in quanto oggi ha assunto una notevole rilevanza, la ricerca dello straordinario, per cui molte persone affermano di essere protagoniste e destinatarie di visioni, apparizioni, rivelazioni, grazie speciali, locuzioni interiori. Questi fenomeni straordinari possono anche essere in sé positivi, ma la ricerca di queste cose non lo è”.
“Il vizio della gola, come o ogni altra dipendenza”, riprende Scquizzato “diviene moralmente rilevante, in senso negativo, nel momento in cui inficia la dimensione della libertà dell'essere umano; in questo modo limita, in maniera drastica, la capacità di godere del bene ricercato”.
E continua: “Il nutrirsi è un volersi bene, un prendersi cura. Il vizio al contrario in qualche modo diminuisce l'essere umano. La brama smodata associa gola e lussuria anche per le conseguenze morali cui entrambe portano, in quanto c'è una somiglianza di fondo, nel bene e nel male, tra appetito e sessualità”.
Anoressia e bulimia
“Il rapporto sregolato con il cibo rivela problemi irrisolti”, scrive Frigato, e ciò “è del tutto visibile in chi soffre di bulimia e di anoressia. Sono due atteggiamenti opposti ma che rivelano lo stesso problema: mancanza di autostima, vuoto interiore, deserto affettivo e difficoltà ad affrontare la vita com'è”.
Questo tema viene approfondito dalla Borgialli, collaboratrice di Scquizzato.
“Il meccanismo della bulimia sta nella ricerca compensatoria attraverso il cibo. Di più ardua comprensione è il meccanismo dell'anoressia, ovvero del rifiuto del cibo.
In genere il vizio ci gratifica, male - perché prima o poi ha l'effetto boomerang - ma ci gratifica. Invece il rifiuto del cibo inizialmente non produce piacere. L'anoressia ha un significato profondo ricollegandosi al significato simbolico-affettivo del cibo.
Il cibo si può assumere per riempire un vuoto interiore, una mancanza, la sensazione di non essere accettato”, continua Borgialli. “Se accetto il cibo è perché c'è qualcuno che me lo dà, e a questo qualcuno sono portato a dire grazie. Se rifiuto questo cibo, ovvero il gesto di dono che mi viene fatto, in realtà respingo quella persona, mi chiudo e mi difendo dalla sensazione di essere invaso o controllato.
Nel caso dell'anoressia il cibo ha questo significato: non voglio relazionarmi con te perché non voglio dirti grazie e non voglio che tu mi controlli, perché se mi dai il cibo e mi nutri, io dipendo da te. Dunque, rifiuto quello che tu mi dai”.
E termina: “Per poter cambiare un rapporto poco corretto con il cibo è fondamentale essere consapevoli dei propri bisogni.
Eccone alcuni: sentirsi accettati, essere persone interessanti, bravi genitori, bravi coniugi, saper amare, consolare, proteggere, saper controllare l'aggressività, saper combattere lo stress”.
Cibo e diete
“Un antidoto alla bulimia”, riprende Borgialli, “ non potrà essere certamente la dieta. Infatti, ogni dieta combatte il sintomo, non la causa.
Contrastare la gola significa affrontare il vuoto che l'ha generata, gli ostacoli che impediscono alla persona di prendersi cura di sé. Le cause sono sempre molto serie: un inconsapevole volontà di farsi del male”.
A proposito di diete, Galimberti scrive: “Per questo tutte le discipline che un tempo servivano per salvare l'anima - mortificazione, astinenza, digiuno - sono state reintrodotte sotto forma di esercizi, diete, moderazione e misura, non tanto per garantire la salute del corpo, quanto per salvare quell’identità e quella possibilità di essere accettati e cercati che l’obesità compromette”.
Per superare il vizio
“Non esistono soluzioni facili e valide per tutti”, scrive Frigato. E continua: “Decisivo è educarsi ed educare alla moderazione come attenersi agli orari dei pasti. Comunque, certe sofferenze interiori che le abitudini golose cercano di nascondere si possono meglio affrontare e gestire in un clima educativo, familiare, affettivo e relazionale ricco di umanità”.
“Chi non sa praticare una rinuncia elementare a una piccola quantità di cibo” annota Bianchi, “non potrà mai disciplinare i bisogni prepotenti che insorgono nel proprio cuore, assumendo il volto di bestie fameliche. Non si tratta di norme legalistiche, ma di un esercizio di disciplina della propria oralità, in vista di un’ascesi del bisogno e di un'educazione del desiderio”.
“Si comprende allora”, continua Bianchi, “lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana contro l’ingordigia: il digiuno moderato e intelligente, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o del corso dell'anno, in particolare durante il tempo della Quaresima. Il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di distanza dal cibo stesso, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è necessario per vivere”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- La tavola facciamo comunità o ci cibiamo come fossimo ‘soli’?
- Bulimia e anoressia, va cercata la causa e non solo curato il sintomo. Condividiamo?
- Pratichiamo il digiuno (pane e acqua) secondo l’insegnamento della Chiesa?
12-INVIDIA
Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri (Gv 15,17)
La nostra invidia dura sempre più a lungo della felicità di quelli che invidiamo. Francois de La Rochefoucauld
Per guarire dall’invidia è necessaria la buona volontà, ma soprattutto è necessario l’aiuto della preghiera e della grazia.
A cura della Redazione
“A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l'invidia è forse l'unico vizio che non dà piacere”, scrive Galimberti. “Eppure è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza per avere invidiato o essere stato invidiato”.
“Se provo invidia sono peccatore?”. Si chiede Scquizzato. E risponde. “È naturale che una donna sposata che non riesce ad avere figli sia invidiosa di un'amica che ne ha. È naturale che un celibe non per scelta sia invidioso dei suoi amici sposati. Questa invidia diventa peccato se viene coltivata, quando si denigrano le persone che si ritengono più fortunate”.
Peccare d’invidia
“L’invidia - piaccia o no - è una terribile frustrazione”, sottolinea Frigato. “Non solo ce la troviamo dentro ma, come dice la parola in-vidia, ci fa veder male, nel senso che rende il nostro occhio cattivo fino a non vedere più l’altro e a volerne addirittura la sparizione.
L’invidioso, nonostante le apparenze e i modi cordiali, cova sentimenti negativi che sfiorano il rancore, l’ostilità e, talvolta, anche l’odio verso chi ha in sé qualcosa che a lui non è dato avere.
L’invidia nasce dall’inevitabile confronto con chi ci sta accanto. Questo può essere un pungolo alla competizione e all’emulazione, una provocazione a tirar fuori il meglio da noi stessi. Diventa invidia quando il confronto viene vissuto come una minaccia alla nostra presunta superiorità”.
“Quando la propria autostima è ballerina”, conclude Frigato, “qualsiasi confronto non sentito vantaggioso diventa un attentato alla propria immagine. L’invidioso deve, quindi, fare i conti con se stesso, con la sua debole personalità”.
Fanzaga annota: “L'invidia sembrerebbe un vizio minore, invece è uno dei più mortali per quanto riguarda il cammino spirituale perché colpisce l'essenza stessa della vita cristiana che consiste nella carità. Se non blocchiamo per tempo l'invidia, il nostro cuore viene pian piano conquistato dall'odio. Ne viene espulsa la carità e svanisce ogni traccia di vita cristiana”.
“L'invidia è un sentimento perverso”, evidenzia Scquizzato, “perché impedisce di essere contenti di ciò che si ha. E non si riesce ad apprezzare i propri doni, le proprie capacità, si è concentrati esclusivamente sul bicchiere mezzo vuoto, su ciò non si ha e che gli altri ingiustamente possiedono”.
L’invidia in famiglia
“Nell’invidioso manca la capacità di porre un confine dentro di sé tra il positivo e il negativo”, ci ricorda la Fusaro, collaboratrice di Scquizzato.
“Questa capacità si inizia ad acquisirla fin da neonati. È fondamentale per il bambino sentire che la mamma è più forte della sua aggressività, che resiste ai suoi attacchi senza entrare in crisi (altrimenti sarebbe il caos!). In questo ha una parte importante anche la figura paterna, che aiuta il bambino a comprendere che lui è venuto dopo, che la mamma prima ha amato il marito e poi ha amato il figlio.
Quando un adulto non ha maturato pienamente questa consapevolezza, di fronte all’angoscia di perdere l’oggetto desiderato, preferisce distruggerlo. Alla radice di molti delitti passionali non c’è tanto la gelosia quanto il bisogno di possesso senza confini: ‘piuttosto che perderti, ti uccido’ ”.
“Se la prima esperienza di invidia sta nel rapporto del bambino con la mamma questa può essere riattivata dal modo con cui si gestiscono le relazioni tra i fratelli e le sorelle”, continua Fusaro. “L’esperienza della divisibilità dell’amore - che il bambino fa nel momento in cui il papà si introduce nel rapporto tra la mamma e il figlio - si riattiva di fronte all’atteggiamento dei genitori nei confronti degli altri figli.
Il bambino coglie queste attenzioni come qualcosa che lo danneggia, come qualcosa che gli viene sottratto”.
E conclude: “Tutte le mamme sanno, se hanno più di un bambino, che quando i bambini sono lasciati soli litigano e prima o poi si pacificano. Se c’è invece un adulto in zona continuano a litigare perché vogliono contendersi l’attenzione dell’adulto. Come genitori, siamo chiamati a restare vigili, ma senza entrare nel merito del litigio, perché il conflitto si sposta dal giocattolo conteso al ‘possesso’ dell’adulto”.
L’invidia e Dio
“Dal punto di vista della fede, l'invidia è il sentimento che prova colui che non si sente più amato da Dio, di colui che non si sente più figlio”, sottolinea Scquizzato. “Sono invidioso quando non credo più che Dio sia in grado di realizzare l'impossibile conducendo la mia storia - che ha conosciuto dei vuoti, degli abbandoni, delle ferite, delle infedeltà - verso un bene. Di conseguenza sentirò la necessità di impossessarmi di quel bene che ritengo impossibile che Dio mi doni, e lo conquisterò attraverso il peccato”.
“Quando l'uomo si separa da Dio”, prosegue l’autore, ”guarderà tutto in un'ottica di possesso, mentre tutto è dono”.
Superare l’invidia
“L'uomo che è in Dio ha tutto, malgrado le sue ferite”, conclude Scquizzato. “Sa che Dio gli sta elargendo tutto quello che è necessario per avere una vita felice”.
Secondo Fanzaga “per guarire dall’invidia è necessaria la buona volontà, ma soprattutto è necessario l’aiuto della preghiera e della grazia. L’invidioso deve avere una particolare luce da parte di Dio per rendersi conto che sta distruggendo se stesso e gli altri e capire che i suoi successi non devono essere mai soltanto per lui, ma anche a vantaggio degli altri”.
“Quando riusciamo ad accedere ad aspetti più ampi dell'esistenza e ad essere sufficientemente soddisfatti della nostra vita”, evidenzia Fusaro “riusciamo a provare soddisfazione anche nei confronti della vita altrui. In questo senso si dice che ‘il benessere è l'unico bene che si moltiplica invece che dividersi’: quando una persona sta bene, fa star bene anche gli altri, il valore si moltiplica per tutti”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Nel nostro parlare sappiamo evitare argomenti che possano suscitare l’invidia dei nostri interlocutori?
- Siamo portati a fare confronti con quello che hanno coloro che ci stanno accanto?
- Come poniamo rimedio alla gelosia che provano i nostri figli tra di loro?
13-ACCIDIA
Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini (Mt 6,34)
Il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indifferenza; il contrario della vita non è la morte, ma l'indifferenza. Elie Wiesel
Nell'ultimo giorno non ti sarà chiesto perché non sei diventato come Mosè o Elia o uno dei profeti. Ma perché non sei diventato te stesso. Racconto chassidico
A cura della Redazione
Il cane e il gatto che illustrano queste due pagine trasmettono un’idea di noia, di apatia.
Infatti, “per molti l'accidia è negligenza, indifferenza, instabilità, pessimismo, noia, indolenza, pigrizia ma in realtà è la paralisi dell'anima”, scrive Frigato.
“Accidioso non è necessariamente un pigro e un fannullone, può anche essere uno che lavora, ma svogliatamente, oppure è un iperattivo.
L'accidia, infatti, ha intaccato il modo di vivere delle nostre società”.
“Ci sforziamo come matti di mostrare ogni giorno nuovo interessi, tanti impegni, grande dinamismo. Riempiamo con mille sciocchezze un contenitore che per molti si è svuotato lentamente: il cuore”, conclude l’autore.
“Accidioso è colui che inneggia alla novità come se fosse la panacea di tutti i mali, ma vissutala, alla sera è già troppo vecchia. Vive nell'illusione che il dopo è meglio di ora, il domani più attraente che l’oggi. E che ieri si stava meglio di oggi” scrive Scquizzato.
“Il tempo per l’accidioso è eterno. Si vuole tutto e subito, in tutti gli ambiti. Tutto è ad alta velocità, la nostra vita in testa. Il tempo va risparmiato e quando si ha un po' di tempo libero occorre comunque fare qualcosa, altrimenti monta la noia!”.
Accidia e affetti
“L'accidia attecchisce in una vita tutta giocata in superficie, in cui prima o poi da dentro affiora il vuoto: un vuoto intriso di nulla.
Quando il giorno successivo è uguale a quello presente comincia ad aumentare la voglia di cambiare. Cercare alternative è l'obbligo esistenziale del momento”, argomenta Frigato.
“Quando tutto ciò si accompagna all’amara sensazione di aver sbagliato un po' tutto, allora scoppiano le crisi professionali, matrimoniali, esistenziali.
Le manifestazioni tipiche dell'accidia sono fondamentalmente due: il disinteresse per Dio e la verità e l'incapacità di relazioni stabili e durature.
L'indifferenza spirituale e il disinteresse per Dio penetrano la vita di tanta gente. Anziché ricercare la verità si preferisce dare retta alle proprie opinioni.
Le relazioni, le amicizie e gli amori ‘eterni’ sfumano nel breve giro di poco tempo.
Che fare quando le relazioni diventano tediose e frustranti se non cercare gratificazioni inedite e più intense altrove?”, conclude l’autore.
Accidia e psicologia
“La tristezza, la noia e la malinconia sono, insieme alla gioia, emozioni che appartengono alla nostra esistenza.
C'è stato un tempo in cui le emozioni erano considerate unicamente in modo negativo: andavano ben controllate, all'occorrenza represse, in quanto rappresentavano una minaccia alla razionalità”, scrive la Pràstaro, collaboratrice di Scquizzato.
“Oggi, tuttavia, stiamo sperimentando l'estremo opposto: si parla fin troppo di emozioni. Tutto è emozione e tutto quello che è emozione è lecito, sembra essere il suggerimento diffuso. Si è passati da una visione estrema ad un'altra, altrettanto estrema”.
“Generalmente la tristezza è l'emozione del lutto, della morte e implica una difesa, una chiusura. Inizia così a tratteggiarsi il comportamento accidioso, seppur ancora in un ambito di normalità”, continua Pràstaro.
“Se la tristezza diventa patologizzazione, parliamo di depressione.
La depressione più grave è legata alla perdita di senso per la propria esistenza. È la patologia di chi ha perso di vista il perché della vita. Forse è proprio perché è difficile accettare e vivere le emozioni negative, il loro senso, che le evitiamo.
“Dobbiamo però distinguere la persona depressa dalla persona accidiosa”, precisa Pràstaro. “Monsignor Ravasi scrive che ‘il peccato si annida non tanto nella sensazione di vuoto - di tristezza, appunto - quanto nella sua accettazione, nella sua scelta’.
Quante volte la depressione è alibi per la non attività, per una scelta di passività definitiva? Quando la passività diviene un fine e non un mezzo, ebbene, lì c'è lo spazio del peccato”.
Accidia e fede
“La grande teologia del Medioevo ha colto nell’accidia sopratutto l’aspetto specifico di tedio e di tristezza prodotto dalle cose spirituali per lo sforzo che costano”, scrive Fanzaga. E continua: “Ecco perché così poche persone attendono alla santità: niente è più faticoso dello sforzo di diventare santi.
Si ha la vera accidia quando il soggetto, invece di trovare gusto e gioia nelle cose dello spirito, incontra piuttosto disgusto e tristezza.
Insomma”, conclude l’autore, “l’accidia è lo sbadiglio dell'anima. Non la si può confondere, ad esempio, con l'aridità spirituale: questa molte volte è semplicemente una prova che Dio ci dà per purificarci, ma dove la volontà è ben tesa verso la perfezione”.
Una società accidiosa
L'accidia è una malattia che riguarda in profondità non solo ogni persona, ma per molti è “il male del nostro tempo, quello che tocca più da vicino l'uomo contemporaneo”.
Secondo Bianchi “oggi che, in occidente, non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco che si è aperto lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità”.
E ancora: “quando oggi si cerca di capire l'aumento dei suicidi, la rivendicazione sempre più insistente di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo una società depressa, viziata dall'accidia, da questo ‘male oscuro’ che impedisce il dinamismo dell'amare e dell'essere amati”.
“L'accidia”, continua Bianchi; “è la nausea di cui parlava Jean-Paul Sartre, è il non-senso che ci assale, è ciò che si avvicina pericolosamente allo stato di depressione”.
E conclude: “L'accidia può tradursi in uno dei mali più devastanti, l'indifferenza perché ‘il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indifferenza; il contrario della vita non è la morte, ma l'indifferenza’ ”.
Vincere l’accidia
“Il primo rimedio contro questa insidiosissima malattia spirituale” scrive Fanzaga, “è lo spirito di vera penitenza, perché tiene l'anima pronta al servizio di Dio. Facciamo della nostra giornata il vero campo di battaglia contro l'accidia, non pensando al domani - perché dipende da Dio che ci sia o non ci sia un domani - non rappresentandoci il futuro della nostra vita, come se dipendesse da noi”.
Per Bianchi “Il primo e decisivo passo per combattere l'accidia è quello di riconoscerla e chiamarla per nome.
Da un punto di vista cristiano, questo è il terreno della perseveranza, l'arte di rimanere saldi, di pazientare e di non venire meno nell'ora cattiva. Solo chi ha imparato a coltivare una vita interiore ricca e profonda, che consenta di non essere sballottato da ogni soffio di vento, solo questi non vacilla”.
“Io credo”, conclude Bianchi, “che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come sacrificio di lode pieno di stupore contemplativo nei confronti del ‘Dio’ che ‘è amore’ ”.
Secondo Frigato “per vincere l’accidia è necessario dare un senso a tutto ciò che si fa, ad assumersi le proprie responsabilità, a non cedere alla tentazione di rimettere sempre tutto in discussione. Ognuno di noi ha nell'intimo una vocazione, una chiamata alla vita che va scoperta ed ascoltata. È scoprire Colui che dà un senso al presente e al futuro: Dio“.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Sappiamo rallegrarci per ogni giorno che il Signore ci dona?
- Conosciamo persone che sono incapaci di relazioni stabili e durature? Come le aiutiamo?
- Un viaggio emozionante, un’esperienza emozionante, tutto deve emozionare. E la vita di ogni giorno com’è?
14-I NUOVI VIZI
Oggi non si parla più di vizi capitali, non perché non esistano più, ma perché si preferisce definirli virtù
Il consumismo è una forma di illibertà che ben pochi avvertono.
Oggi la parola libera ed esigente del Vangelo è forse la sola vera voce anticonformista.
Recuperare il senso del pudore è l'unico modo per non svendersi sul mercato dell'effimero e del nulla.
A cura della Redazione
“A differenza dei vizi capitali che segnalano una ‘deviazione’ della personalità, i nuovi vizi, legati alla società del benessere, segnalano il ‘dissolvimento’ della personalità, ‘dissolvimento’ che non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti”. Con questa considerazione Galimberti propone una serie di nuovi vizi che “non sono ‘personali’ ma ‘tendenze collettive’ a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale”.
Il consumismo
“Il consumismo è un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto”, scrive Galimberti. “Eppure il consumo sollecita la produzione, mette alla portata di tutti una serie di scelte personale che un tempo erano riservate solo ai ricchi.
Perché dunque il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere”.
“Dando la falsa impressione di rifornire gli individui di mondi possibili”, conclude Galimberti, “di identità proteiformi e di scelte sempre reversibili, la cultura del consumo diffonde, nello sfarfallio delle possibilità, quella illibertà che è poi l'astensione dalla scelta, tipica nel mondo del conformismo. Ma siccome non è connessa a immagini di oppressione, questa forma di illibertà non è assolutamente avvertita”.
“Fin da piccoli si cresce in un sistema di vita che inocula voglie, desideri, tensioni ad avere sempre il più nuovo per apparire di più. Si pensa di rendere un bambino felice coprendolo di nuovi giocattoli. Questo è lo spirito del consumismo”, annota Frigato.
“Ciò che rende il consumo consumismo, cioè vizio, non è l'acquisto di oggetti ma l'averli con una mentalità nichilista. Una parola grossa per indicare la sistematica distruzione del prodotto ‘vecchio’ per far posto al ‘nuovo’ sentito quale garanzia di identità, stato sociale, esercizio di libertà e benessere.
Le cose non hanno più ‘un fine’, bensì solo ‘una fine’. Non c'è prodotto senza data di scadenza.
Quante relazioni sono vissute come ‘prodotti’ usa e getta. Quanti matrimoni, quante esperienze affettive, partite con il vento in poppa verso un amore eterno, sono state consumate, cioè usate e gettate nel giro di poco tempo! È questa è la libertà che realizza una vita, o non è piuttosto il collasso della libertà?”.
“Su questo tema non si tratta di fare i moralisti a buon mercato, ma di criticare per educare”, conclude Frigato. “Il nostro è il tempo - come si dice - dell'emergenza educativa, vale a dire della ripresa critica dei grandi temi dell'uomo per passare dalla quantità delle cose alla qualità della vita”.
Il conformismo
“Non c'è mai stato uomo che non sia stato figlio del suo tempo e quindi in qualche modo omologato”, scrive Galimberti. “Però la nostra epoca è la prima che chiede ai soggetti non un’omologazione come dato di fatto, ma un’omologazione di principio.
Affinché questo non venga avvertito come una coercizione è necessario che il mondo in cui viviamo, che è poi il mondo della tecnica e dell'economia globale, non venga avvertito come uno dei possibili mondi, ma come l'unico mondo fuori dal quale non si danno migliori possibilità di esistenza.
Quando il vincolo non è avvertito come un atto esplicito di coercizione, ma come semplice condizione del vivere e dell'agire, quando è la vita stessa a compiere il lavoro di omologazione, più naturale diventa l'obbedienza e più garantita è l'illusione della libertà.
Parliamo di illusione e non di libertà, perché di libertà si può parlare propriamente quando si dà una scelta tra scenari diversi, tra mondi possibili e non all'interno di un unico mondo (cfr LS 107), tra i prodotti di cui senza sosta veniamo quotidianamente riforniti.
Senza interruzione, senza lacune (p.e. uno sciopero dei mezzi di trasporto), non ci rendiamo conto da quante catene ci ha reso dipendenti l'età della tecnica e dell'economia globale.
Le condotte personali difformi sono tollerate”, conclude Galimberti, “solo se confinate nel privato e coltivate come tratto originale della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Infatti, nelle società omologate, la differenza, la specificità e la peculiarità individuale, oltre a non essere remunerative, destano persino qualche sospetto”.
“L'omologazione è un vizio perché riduce l'uomo a strumento funzionale al sistema”, annota Frigato. “Il conformista, non avendo altri riferimenti se non quelli che questo mondo tecnico-economico tollera e promuove, vive delle opinioni correnti nella convinzione di trovarsi sempre dalla parte ‘giusta’. Per questo motivo il conformista contemporaneo è un ‘ignorante’. Ignora la complessità delle situazioni e spara sentenze a raffica.
Tuttavia”, conclude Frigato, “non mancano né spiriti critici, né voci profetiche per nulla omologati. Certamente fanno una gran fatica a farsi ascoltare. Ma ci sono. Anche la morale cristiana - nonostante il coro uniforme di voci contrarie - è una parola che rompe e contesta i tanti pensieri unici del nostro tempo. Oggi la parola libera ed esigente del Vangelo è forse la sola vera voce anticonformista”.
La spudoratezza
“Conformismo e consumismo hanno messo in circolazione un nuovo vizio che per comodità chiamiamo spudoratezza”, scrive Galimberti “con riferimento non tanto a uno scenario sessuale, quanto al crollo di tutti quegli elementi che consentono di distinguere tra l'interiorità e l’esteriorità della persona. Potremmo parlare di senso del pudore, di ciò che difende la nostra intimità e al contempo difende la nostra libertà.
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo, che vuole la pubblicizzazione del privato, perché in una società consumista, dove le merci per essere vendute devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra.
Quello che vale per le merci, infatti, vale anche per gli uomini che sostituiscono l'individualità mancata con la pubblicità dell'immagine. Ciò produce una metamorfosi dell'individuo che ormai si riconosce solo nella propria immagine”.
“Contro la spudoratezza vale solo il pudore”, concorda Frigato. E continua: “Una parola pressoché estranea dal comune vocabolario. E, se conosciuta, con grande probabilità evocherà ansie censorie. Il pudore non è per nulla cosa da repressi, men che meno una questione di glutei e seni al vento. Il pudore è la difesa del nostro intimo. Riaffermare con forza la necessità del pudore, vale a dire della discrezione, della difesa della propria interiorità, anche a costo di apparire introversi e disadattati sociali, è l'unico modo per non svendersi sul mercato dell'effimero e del nulla”.
Per la biografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
- Acquisti on-line: abbiamo quindici giorni per cambiare idea. Vale anche per i sentimenti?
- Abbiamo il coraggio di testimoniare la nostra fede cristiana in ogni ambiente e situazione?
- Quanto cediamo alla tentazione di metterci in mostra, di vantarci per noi o per i nostri figli?
Uomini e donne nella bibbia
15-LE TENTAZIONI DI GESÙ
Tutte le concupiscenze non vengono da Dio ma dal mondo
di Franco Rosada
Nella prima domenica di quaresima, ogni anno la liturgia ci propone l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto, all’inizio della sua missione. Seguirò, in questa riflessione il testo di Luca (4,1-13).
Gesù viene tentato, come ciascuno di noi, dagli idoli di questo mondo, dietro i quali si nasconde il Maligno.
Ci possono essere di aiuto, in questa riflessione, la prima lettera di Giovanni, che ci ricorda che “tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo” (1Gv 2,16) e il brano notissimo di Genesi, nel quale Eva coglie i tre aspetti seducenti del frutto proibito: “l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gn 3,6a).
Le pietre in pane
La prima tentazione, quella del pane, riguarda, secondo i Padri della Chiesa, l’ingordigia - era buono da mangiare – e quindi il vizio della gola, parente stretto della lussuria - la concupiscenza della carne.
Noi cediamo a questa tentazione quando poniamo al primo posto nella nostra vita i bisogni immediati, veri o presunti che siano. È il “nuovo” vizio del consumismo.
I regni di questo mondo
La seconda tentazione, quella di avere il dominio sui regni di questo mondo, riguarda, secondo i Padri della Chiesa, l’avarizia, la concupiscenza degli occhi.
Il denaro, espressione più visivamente immediata di questo vizio, è il simbolo del possesso.
Questa tentazione è l'illusione di poter risolvere i nostri problemi assecondando i progetti dei poteri forti di questo mondo: “Se, prostrandoti mi adorerai” dice Satana a Gesù. È la tentazione del potere come primo valore della vita.
Il pinnacolo del tempio
La terza tentazione, quella di sfidare Dio gettarsi dal pinnacolo del tempio, riguarda, secondo i Padri della Chiesa, la superbia; qualcosa di desiderabile, come il frutto proibito, per acquistare saggezza, quella saggezza che Dio sembra negarci.
È la pretesa di poter disporre dell'onnipotenza di Dio nella nostra vita, è la tentazione dell'impazienza che ama risultati spettacolari, grandiosi, immediati; è la tentazione di chi vorrebbe risolvere i problemi senza impegnarsi e cambiare il mondo senza fatica.
La risposta di Gesù
“Gesù rifiuta i meccanismi correnti della sua e di ogni epoca” scrive Fausti. “Sono i tre idoli che dominano l'uomo, proiezione dei suoi bisogni: idolatria delle cose, con un meccanismo economico che trasforma il pane in pietre, l'idolatria del potere, con un meccanismo politico che vuol dominare tutti, e idolatria di Dio con un messianismo miracolistico che vuol disporre di Dio stesso”.
“Gesù le supera” continua Fausti, “obbedendo alla Parola: è il Figlio che, a differenza di Adamo, ascolta la Parola del Padre. Questo brano ci svela come noi ci perdiamo nell'illusione di salvarci, e ci rivela come il Signore ci salva in modo divinamente diverso dalle nostre attese” (1).
La nostra risposta
Anche noi, come Gesù, siamo chiamati a superare le tentazioni affidandoci alla Parola.
Ce lo ha ricordato recentemente anche papa Francesco che, a conclusione del messaggio per la quaresima di quest’anno, ha affermato: “La Parola di Dio è una forza viva, capace di suscitare la conversione nel cuore degli uomini e di orientare nuovamente la persona a Dio” (2).
(1) Silvano Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo, EDB, Bologna 1998
(2) Fonte: https://w2.vatican.va/content/
francesco/it/messages/lent/documents/papa-francesco_20161018_messaggio-quare
sima2017.html
16-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Sabino Frigato,Vizi
capitali. Come parlarne oggi?, Editrice Elledici, Leumann (TO) 2010.
Il volume presenta, con essenzialità ed immediatezza, i
vecchi e i nuovi vizi capitali.
Infatti, è un volumetto di una cinquantina di pagine, facile da leggere e rivolto ai giovani. Crediamo comunque che vada bene per tutte le età.
Scrive l’autore, sacerdote salesiano: “In questi anni ho avuto modo di parlare a gruppi più o meno giovanili sia dei vizi capitali che delle virtù morali. Inutile dire che le seconde hanno avuto meno appeal dei primi. A pensarci bene nulla di strano. Anzi. I vizi, capitali o meno che siano, rispecchiano il nostro essere: ciò che siamo. Le virtù, invece, ci fanno intraprendere il dover essere: vale a dire il cammino, spesso faticoso, verso un di più di maturità umana.
Guardare in faccia i nostri vizi è entrare nella complessità e nei meandri del nostro cuore”.
Paolo Scquizzato,
L’inganno delle illusioni, I sette
vizi capitali tra spiritualità e psicologia, Effatà Editrice, Cantalupa (TO)
2010.
Questo libro è un testo corposo scritto da un autore che si
dedica da anni alla formazione spirituale, in particolare del laicato, ed è
responsabile della casa di spiritualità “Mater unitatis” di Druento (TO).
Una sua caratteristica, che abbiamo apprezzato in modo particolare, è quella di trattare il vizi sia sotto l’aspetto spirituale, sia sotto quello psicologico. In questa operazione Scquizzato si è servito, infatti, della collaborazione di sei psicologhe di scuola adleriana.
I tema dei vizi è quindi trattato in modo ampio, cogliendo non solo quanto alberga nel cuore delle persone, ma anche nei risvolti sociali, a cominciare dalla famiglia.
Padre Livio Fanzaga,
I vizi capitali e le contrapposte
virtù, Sugarco Edizioni, Milano 2010.
Padre Livio è una figura notissima. Infatti, è da decenni
il direttore di Radio Maria, l’emittente cattolica più ascoltata in Italia e nel
mondo.
Ma padre Livio non comunica solo via radio; le sue riflessioni, opportunamente riviste, vengono periodicamente pubblicate sotto forma di volume. In questo modo l’autore ha la possibilità di sviluppare in modo più compiuto il suo pensiero.
Scrive l’autore: “L'obiettivo di queste riflessioni, che affondano le radici nella grande tradizione biblica e filosofica, è quello di aiutare a identificare le ferite e le debolezze della nostra natura, per poterle guarire con l'unica medicina possibile, che è la buona volontà protesa nella pratica della virtù”.
Nel volume abbiamo soprattutto apprezzato gli spunti biblici e patristici.
Enzo Bianchi,
Una lotta per la vita, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2012.
Il libro di Bianchi ha duecento pagine ma, grazie al
formato, è scorrevole e gradevole.
Si distingue dagli altri testi che abbiamo usato per questo numero per l’approccio più marcatamente spirituale. Il tema di fondo è la lotta spirituale che ogni cristiano è chiamato ad affrontare, la lotta contro le tentazioni.
Cedere di fronte ad esse significa cadere nel peccato ed essere sempre più deboli di fronte alle sollecitazioni del Maligno, fino ad arrivare al vizio.
I vizi trattati da Bianchi sono quelli individuati per primo da Evagrio Pontico, monaco orientale dei primi secoli.
“Quella spirituale”, scrive l’autore, “è una lotta per la vita piena, una lotta il cui scopo è l’amore: saper amare meglio ed essere amati meglio”.
Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli Editore, Milano 2007.
L’autore è un filosofo laico che non disdegna di affrontare temi religiosi.
Tratta in questo libro dei sette vizi capitali ‘tradizionali’ a cui ne aggiunge altri sette, legati alla contemporaneità.
Mentre per i primi presenta un pensiero ‘originale’, solo in parte in linea con la tradizione cattolica, per i ‘nuovi vizi’ coglie nel segno e ciò lo rende degno di attenzione, tanto che anche Frigato ne ha seguito le orme.
Il libro è scritto in modo brillante ma l’approccio filosofico che lo caratterizza rende, in alcuni punti, la lettura un po’ ardua.
La sua provocazione iniziale è che il cristianesimo è una morale (della mortificazione) e l’economia è un’altra morale (della soddisfazione). Quindi, quelli che un tempo erano vizi privati, nell’economia di mercato sono diventati pubbliche virtù.
17-NARRARE LA PIENEZZA
Dall’incontro di collegamento tra Gruppi Famiglia
di Antonella e Renato Durante
In occasione della segreteria del Collegamento dei Gruppi Famiglia tenutasi in febbraio a Ronco Briantino (MB), abbiamo condiviso le nostre fatiche e la gioia di vivere un periodo così intenso per la Chiesa, spronata da papa Francesco a mettere al centro la famiglia.
Sulla scia dei due Sinodi sul tema, le chiese locali hanno dedicato alla famiglia iniziative e riflessioni: questa scelta chiede una visione carica di speranza e coraggio, un nuovo annuncio in un contesto di crisi di valori che ha cambiato soprattutto le relazioni fra le persone e, di conseguenza, la famiglia.
Ci siamo chiesti, in questo passaggio così delicato, cosa come famiglie possano fare.
Più di quanto lo fosse in passato, oggi sono centrali le relazioni o meglio la cura di esse. La solidarietà fra formazioni sociali, tra cui la famiglia, e quella fra le generazioni sembra minata dalle scelte delle persone: figli che scelgono la convivenza invece del matrimonio, genitori che non battezzano i propri figli, cioè i nostri nipoti, situazioni di fragilità che segnano la vita, che fuggono l'orizzonte del ‘per sempre’, perché troppo difficile.
Sappiamo che il cambiamento di partner o di famiglia, salutato all’inizio da un misto di entusiasmo e di rassegnazione (piuttosto che continuare così, meglio...) produce sovente situazioni complicate, si scontra con diritti sacrosanti di coniugi e figli, genera vite aggrovigliate anziché essere via per una nuova felicità.
In questo, l'annuncio della Misericordia per le famiglie deve passare attraverso la vicinanza e la solidarietà senza pregiudizio.
L'accogliere è un duro banco di prova per tutti, ma solo così possiamo costruire una solidarietà nuova, evangelica e capace di “salvare” la nostra vita.
È in virtù di quello che abbiamo ricevuto, di Colui che abbiamo incontrato, del sentirci amati così come siamo, che possiamo sostenere le prove della vita senza perderci; è grazie alla ricerca ostinata di comunità ancora aperte e vive, che cerchiamo, pur nelle fatiche, di trovare le ragioni che ci uniscono agli altri più che quelle che ci dividono.
Questa santa fatica ci avvicina agli altri per sentirli fratelli, e allo stesso tempo ci fa incontrare Dio, un Dio che cammina nelle nostre strade, che ancora oggi ci raggiungere attraverso i poveri, le difficoltà, i momenti bui.
È una presenza silenziosa, la Sua al nostro fianco, e chiede a noi di raccontare questa esperienza. Siamo chiamati ad essere narratori di una pienezza, perché Gesù è venuto a portarci la vita, e ce la dona in abbondanza.
18-SPELLO E DINTORNI
Quest'estate non ci saranno settimane estive in Umbria e Marche, anche se la decisione non è stata facile. Abbiamo sentito recentemente le comunità che di solito visitiamo e abbiamo potuto verificare che le difficoltà provocate dal terremoto non sono ancora superate.
Nessuno ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni e hanno superato l'inverno grazie alla solidarietà di molti. Abbiamo deciso di non creare difficoltà ulteriori in questa fase ed essere vicini a loro come possiamo. Lanciamo da questa pagina un appello per sostenere in particolare due comunità:
• Comunità Sorelle Eremo Francescano di Campello sul Clitunno nei pressi di Spello (PG);
• Monastero Clarisse di S. Giuseppe di Pollenza (MC).
Chi volesse ulteriori informazioni può contattarci tramite e-mail o telefono:
ren-anto@libero.it, tel. 0423 670886
Antonella e Renato Durante
19-I TEMI DEI PROSSIMI NUMERI
Come in questo numero abbiamo trattato due temi tra quelli da voi richiesti, così faremo anche per il numero di dicembre. Parleremo di “Educare ai doveri in una società di diritti” insieme a “Imparare ad imparare”.
Il numero si settembre, al contrario, sarà interamente dedicato a “L’arte del perdono”.
20-CAMPI ESTIVI 2017
Il calendario definitivo
23-30 luglio San Giacomo di Entraque (CN)
Tema: "Dio e io". Il volto di Dio e dell'uomo nella Bibbia.
Relatore: Angelo Fracchia, biblista.
Org.: Diocesi di Cuneo.
È possibile partecipare anche al solo week-end finale.
Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786, tommy.angela@libero.it
5-12 agosto Valle di Cadore (BL)
Casa alpina villa Letizia
Tema: Il perdono.
Relatore: Fabiola Dall'Agnol.
Sacerdote: don Daniele Vettor.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595, segninuovi@alice.it
13-20 agosto Bessen Haut (TO)
Tema: Storie d'amore nella Bibbia.
Quando le coppie incontrano il progetto di Dio.
Relatori: Luca e Ileana Carando.
Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).
Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431, curra@email.it
15-20 agosto Chiappera (CN)
Tema: Il nostro amore quotidiano.
Relatori: Nicoletta e Davide Oreglia.
Sacerdote: don Beppe Viglione.
Org.: Diocesi di Mondovì (CN).
Info: Daniela e Giampaolo Basso, 3391541258, gbasso@credem.it
20-27 agosto Voltago Agordino (BL)
Casa alpina Al castagneto
Tema: La felicità che si nutre di speranza.
Relatore: Gabriella Del Signore.
Sacerdote: don Francesco Pellizzer.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718, antoniobottero@alice.it
Il calendario, aggiornato in tempo reale, è consultabile sul sito: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le notizie in evidenza.
21-DIAMOCI IL CINQUE!
Una firma per il 5x1000 alla nostra associazione
Carissimi,
Anche quest'anno la legge finanziaria consente di destinare la quota del 5x1000 della vostra imposta sul reddito delle persone fisiche relativa all'anno 2016 (CUD, modello 730 o Unico), ad una serie di realtà fra cui le ONLUS (associazioni non lucrative di utilità sociale).
L'attività del Collegamento tra Gruppi Famiglia - e quindi dell’associazione Formazione e Famiglia che ne è l’espressione legale - rientra fra queste e con la vostra firma potrete sostenere la pubblicazione del Foglio di Collegamento, promuovere le settimane estive per famiglie e le altre iniziative formative (convegni, incontri e attività).
Il contributo che riceviamo viene da noi usato per pagare le spese vive, essendo tutti noi volontari.
Questa è una scelta che non costa nulla, perché si tratta di una quota delle tasse a cui lo Stato rinuncia.
È un gesto che chiediamo a tutti voi e, tramite voi, a tutti quelli che ritenete sensibili e interessati alle nostre iniziative.
Per destinare il 5x1000 al Collegamento dei Gruppi Famiglia è sufficiente scrivere sulla denuncia dei redditi (Unico, 730 e CUD) nello spazio dedicato al sostegno del volontariato il nostro codice fiscale 97571710017.
In questi anni, come potete vedere dalla tabella qui sotto, le vostre firme sono prima progressivamente aumentate, e da due anni si sono stabilizzate, registrando numeri che per noi sono molto importanti.
Di tutto ciò non possiamo che ringraziarvi molto.
Antonella e Renato
22-PER CONCLUDERE
Gesù, pieno di Spirito Santo,
si allontanò dal Giordano
ed era guidato dallo Spirito nel deserto,
per quaranta giorni,
tentato dal diavolo.
Non mangiò nulla in quei giorni,
ma quando furono terminati,
ebbe fame.
Allora il diavolo gli disse:
«Se tu sei Figlio di Dio,
di' a questa pietra che diventi pane».
Gesù gli rispose:
«Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l'uomo».
Lc 4,1-4