Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF96 dicembre 2017
IMPARARE A ... IMPARARE
Famiglia, scuola, lavoro, vita
Lettere alla rivista
1-IL BELLO, IL BUONO, IL VERO
Tre dimensioni sempre intrecciate tra loro
Ci sono una serie di aggettivi ricorrenti negli scritti di Alessandro D'Avenia, insegnante e scrittore: bello, vero, buono. Potrebbe aiutarmi ad approfondirli?
Grazie, Enrico
Non ho una competenza specifica in materia e, per trovare una risposta, sono anche ricorso ad Internet.
Qui mi sono imbattuto in un’espressione greca: kalòs kagathòs, bello e buono.
Così mi è venuto in mente che questa espressione era molto cara dalla mia professoressa di Lettere del biennio delle Superiori.
Lei ce la spiegava come una qualità della persona non tanto esteriore quanto interiore: è il cuore che conta, un cuore bello perché animato da sentimenti buoni.
Questo vale, innanzi tutto per il Dio cristiano che è, oltre che onnipotente e onnisciente, l'essenza della bontà, della bellezza e della verità.
Questo vale anche per noi cristiani, chiamati a annunciare il Cristo Risorto mostrando “che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove” (Evangelii gaudium, n.167).
Per calarci appieno nel tema di questo numero mi piace ricordare alcuni passaggi del discorso tenuto da papa Francesco, quando si è rivolto nel 2014 al mondo della scuola.
“La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello”.
Infatti a scuola “impariamo che queste tre dimensioni non sono mai separate, ma sempre intrecciate.
Se una cosa è vera, è buona ed è bella; se è bella, è buona ed è vera; e se è buona, è vera ed è bella. E insieme questi elementi ci fanno crescere e ci aiutano ad amare la vita, anche quando stiamo male, anche in mezzo ai problemi. La vera educazione ci fa amare la vita, ci apre alla pienezza della vita!”.
Quindi “l’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla”.
Franco Rosada
formazionefamiglia@libero.it
Mons. Grandis ha avuto seri problemi di salute e, per questo numero, l’ho sostituisco, con molti limiti, nella gestione di questa rubrica.
A lui va il nostro affetto, le nostre preghiere, insieme agli auguri di una pronta guarigione.
Dialogo tra famiglie
2-LA SCUOLA E IL LAVORO
L’esperienza del lavoro aiuta a trovare la voglia di studiare
Mio figlio ha da un anno iniziato le superiori ma con
pessimi risultati. Come faccio a fargli capire quanto è importante studiare?
Liliana
Non è facile motivare un ragazzo allo studio: all’età dei primi anni delle superiori i ragazzi sono concentrati sul presente e vivono un momento di massimalismo: pensano di sapere tutto, di essere capaci di scegliere da soli ciò che è bene e ciò che è male, per l’oggi… al domani pensano poco o nulla!
Inoltre sono abituati a guardare più che a pensare: Tv e telefonini hanno limitato la capacità di riflettere, di leggere, di parlare, di scrivere e anche il linguaggio sta diventando poverissimo.
Detto questo, se non si è riusciti a far “innamorare” della lettura i figli fin da piccoli, credo che sia necessario, anche se spesso faticoso, almeno in casa, parlarsi, discutere, ascoltare e imparare ad essere critici.
Favorendo queste attitudini diventa più facile ascoltare i docenti e i compagni, passare ore su un libro pensando che quello che scopro e imparo è per me, oggi, perché mi arricchisce, mi rende libero, capace di spirito critico, di difendermi da false informazioni e/o ideologie, di constatare che il mondo non è stretto nel mio presente, ma che ci sono tante cose “belle” da sapere e che mi resteranno dentro per sempre, indipendentemente da quali saranno le scelte di vita e lavoro, da adulti.
Anna Lazzarini
EDITORIALE
3-IMPARARE A IMPARARE
Condizione indispensabile per un mondo che cambia
di Franco Rosada
Quando ho iniziato a pensare a questo numero mi sono posto la domanda: quale educazione serve? e la risposta che mi sono dato è: imparare ad imparare. Provengo da una formazione tecnica ma, curando la rivista, mi sono dovuto “aprire” ad una serie di competenze su cui non avevo familiarità.
Pensate al numero su “educare da 0 a 6 anni” che parla di neuroscienze, pensate al numero sul morire e sul lutto, pensate anche all’ultimo numero sul perdono e la riconciliazione.
Credo che la forma di istruzione che serve di più, oggi, è quella che genera una “testa ben fatta” non una testa “ben piena”: più che la capacità di acquisire specifiche nozioni dettagliate, serve quella di acquisirne continuamente delle nuove.
Questo dovrebbe essere il compito della scuola oggi.
Sotto quest’aspetto sono stato fortunato: uscito dal mondo del lavoro mi sono iscritto a Scienze religiose e ho trovato un ambiente universitario che, devo riconoscere, mi ha insegnato ad imparare. D’altra parte è questa la missione della facoltà: preparare insegnanti di religione che siano capaci di confrontarsi con realtà culturali lontane o indifferenti all’esperienza religiosa e con allievi potenzialmente in grado, grazie ai loro studi, di mettere in crisi valori e idee di fede apparentemente consolidate.
La parte centrale di questo numero è dedicata alle testimonianza delle famiglie che hanno risposto ad una serie di perché sul tema dell’educazione.
Stavo facendo fatica a raccogliere delle testimonianze quando ho avuto l’occasione di partecipare alla serata conclusiva della Settimana della scuola organizzata dalla diocesi di Torino.
In quella sede il relatore di turno, Andrea Schiavon, autore di un libro che prende spunto da Lettera a una professoressa di don Milani, ha posto ai presenti questa domanda: “perché come genitore mando a scuola i miei figli?”.
Grazie a questa provocazione, le testimonianze non sono più mancate.
Volevo portare la vostra attenzione sul tema Educazione e lavoro (pag. 18-19). Tra i diversi temi trattati è quello che mi ha spiazzato di più. Appartengo ad una generazione educata al mito del “posto fisso” mentre la realtà sociale per molti dei nostri figli e nipoti è estremamente diversa.
Mi ha colpito, in particolare, la relazione di Pietro Ichino al convegno promosso dall'Associazione Giuslavoristi Italiani. Non è un testo facile ma ve ne consiglio la lettura.
I temi dei prossimi numeri
I temi dei numeri del 2018 sono stati scelti tra quelli che mi avete indicato a inizio anno e che non abbiamo ancora trattato. Più precisamente:
• la ripresa dell’enciclica Amoris laetitia per approfondire le dinamiche dell’amore coniugale;
• educare ai doveri “sociali” in una società di diritti “civili”;
• immigrazione e società multiculturale.
Un quarto tema l’ho maturato durante la realizzazione di questo numero ed è la decrescita “felice”, non solo come idea utopica ma anche come presa d’atto de futuro che ci attende.
Vi sarò grato se mi vorrete far pervenire i vostri suggerimenti.
4-NOTIZIE DAL MONDO DELLA FAMIGLIA
Negli scorsi mesi si sono tenuti, a livello nazionale, due avvenimenti che come famiglie ci hanno interessato.
La prima, in ordine di tempo, è stata la 3° Conferenza nazionale della famiglia che si è tenuta a Roma il 28 e il 29 settembre, la seconda è stata la 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani che si è tenuta a Cagliari dal 26 al 29 ottobre e che ha avuto come tema: Il lavoro che vogliamo, libero, creativo, partecipativo e solidale.
La Conferenza della famiglia ha visto coinvolti i principali rappresentanti del Governo, ma concretamente non ha sortito alcun effetto positivo per le famiglie.
La Settimana Sociale ha trattato di un tema veramente scottante come quello del lavoro, che sovente manca o non è “degno”.
Non ho ritenuto opportuno dare spazio a questi avvenimenti sulla rivista perché altri, in altre sedi, lo hanno già fatto meglio di me.
La conferenza della famiglia ha trovato largo spazio sul numero di ottobre del mensile Noi, famiglia e vita, che potete consultare sul sito:
http://www.forumfamiglie.org/wp-content/uploads/2017/10/NoiFV.pdf
Per la settimana sociale vi rimando invece al sito http://www.settimanesociali.it/ da dove potrete scaricare le principali relazioni.
5-EDUCAZIONE: EMERGENZA O SFIDA?
Non riusciamo più ad educare i nostri ragazzi. Abbiamo insegnato loro dei valori e ne troviamo poca traccia nei loro comportamenti.
Dove abbiamo sbagliato? Non siamo stati abbastanza significativi?
Quanto siamo stati incongruenti tra il dire e il fare?
Contiamo ancora qualcosa o la loro educazione è in balia della cultura edonistica e utilitarista che ci circonda?
Cerchiamo insieme una risposta...
a cura della Redazione
“Negli ultimi anni è stata prodotta una mole poderosa di documenti ufficiali, che sempre più cercano di richiamare l'attenzione su alcuni importanti interrogativi riguardanti la centralità dell'educazione e il suo ruolo decisivo per lo sviluppo umano. Molti parlano di una vera e propria emergenza” scrive De Beni. “Madri e padri, nonni, insegnanti, educatori non sembrano più in grado di comprendere le mutazioni culturali e sociali in atto, e di spiegarsene le cause”.
L’emergenza educativa
Su questo tema si è espresso, a suo tempo, anche Benedetto XVI (1) che ha scritto: “Si parla di una grande ‘emergenza educativa’, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita.
Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato.
Si parla inoltre di una ‘frattura fra le generazioni’, che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori”.
E conclude: “alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita” da parte degli adulti.
“È forse proprio questa l'eredità più pesante e negativa della recente storia occidentale: la dimenticanza che la vita si conserva solo trasmettendosi, che la vita umana si trasmette attraverso una generazione simbolica, psicologica, culturale, spirituale e che tale trasmissione è essenziale alla vita buona degli uomini”, riflette il Comitato per il progetto culturale della CEI.
“È inevitabile l'emergenza educativa in una società in cui prevale il relativismo, l'insoddisfazione e il senso di vuoto esistenziale, lo sradicamento dei legami più sacri e dagli affetti più degni, la fragilità delle persone, la precarietà delle relazioni e, infine, anche la sfiducia fino all'odio di sé.
In questo contesto la crisi dell'idea educativa è la sintesi di una stanchezza della nostra civiltà, che si manifesta come deficit di speranza e di volontà di futuro. La condizione giovanile, infatti, risente senza protezione del ‘deserto di insensatezza’ a cui sembra giunta l'esistenza contemporanea.
‘Senso’ vuol dire significato e direzione, vuol dire anche provenienza da una realtà più grande di sé con cui si instaurano confronti, e anche conflitti, ma con cui si ha comunque riferimento e si è in comunicazione.
Il venir meno del ‘senso’ espone le persone, i giovani in particolare, a un confronto senza mediazioni con una inedita cultura tecnologica (o, meglio, tecnocratica) che è una sorta di apparato anonimo e potente che produce mezzi ma non dà scopi, Che prospetta possibilità innumerevoli ma non dà criteri sensati di scelta”.
Fallimenti o successi?
“A me pare”, scrive provocatoriamente Attard (2), “che il risultato che noi uomini moderni abbiamo ottenuto in campo educativo non sia il frutto di un fallimento dei nostri progetti e delle nostre aspirazioni, quanto piuttosto di un loro pieno successo. Vale a dire: abbiamo effettivamente ottenuto quello che volevamo ottenere; i nostri giovani hanno assorbito davvero il modello che abbiamo trasmesso loro; il risultato ottenuto è veramente quello che era stato programmato”.
Abbiamo educato “le nuove generazioni al calcolo, a non fare nulla se non per stretta convenienza in vista della carriera, del successo, della salute fisica, del benessere materiale, della tutela dei propri interessi, ecc.”, e siamo stati noi adulti ad istruirli in tal senso. “Perciò le famiglie sono disposte a fare grandi sacrifici per un corso di inglese all’estero, che torna molto utile per la carriera scolastica e lavorativa, ” come “per potenziare la salute dei figli con un’attività sportiva”; ma quanto ‘spendono’ per trasmettere loro i valori che contano?
“Quello che noi adulti diciamo di fatto ai nostri figli è questo: metti al primo posto il tuo interesse e il resto fallo solo se ti avanza tempo, tanto non è essenziale”.
Molti dei lettori si possono risentire per le affermazioni di Attard, ma l’autore continua: “talvolta anche i figli delle famiglie più generose e profonde sul piano educativo sono travolti dal mondo circostante”. I modelli che consideriamo negativi “sono trasmessi ai giovani dall’insieme del mondo adulto, cioè dall’intera società in cui vivono. La singola famiglia ha una grande importanza, ma incarna solo una parte del messaggio che i figli ricevono”.
E conclude: “La domanda dunque non è: ‘come rendere efficace il nostro lavoro educativo’, ma ‘quale è lo scopo del nostro lavoro educativo’, anzi: ‘quale è lo scopo della nostra vita, ciò per cui si vive, ciò per cui vale la pena vivere’. La domanda dunque è su di noi, non sui ragazzi”.
Vogliamo individui o persone?
“Nel 1943 Jacques Maritain pubblicò un celebre saggio sull'educazione contemporanea dal titolo L'educazione al bivio che ancora oggi suggerisce utili criteri di analisi pedagogica”, scrive Chiosso in un saggio contenuto nel libro di Bozzolo-Carelli.
“Con la metafora del bivio Maritain indicava due possibili svolgimenti dell'educazione occidentale. Il primo era quello di pensare l'uomo come ‘individuo’ emergente dall’evoluzione naturale e dallo sviluppo sociale. Lo scopo dell'educazione era perciò quello di adattare l'individuo alla vita sociale e produttiva, con lo scopo di fornire le competenze necessarie per rendersi utile. La seconda via era quella di pensare all’individuo umano come a ‘una persona che si possiede per mezzo dell'intelligenza e della libertà’.
In questo secondo caso la prospettiva educativa era alquanto diversa: si trattava di considerare l'uomo nella sua integralità in quanto corpo e anima, natura e sovranatura, conoscenza e azione, libertà e grazia. Si trattava di educare innanzitutto l'uomo”.
“Anche se sono trascorsi molto decenni”, continua Chiosso, “questo bivio ci sta ancora di fronte e si presenta in forme - se possibile - ancora più radicali e si inserisce in quella crisi dell'umanesimo occidentale che si è venuta configurando lungo il travaglio del XX secolo è che appare oggi caratterizzata, da una parte, da un'inedita potenza tecnico-scientifica e dall'altra da un indirizzo economico-pratico ordinato secondo le leggi del mercato, indifferente al bene comune e dunque nella sua intima sostanza nichilista (3)”.
Seminare speranza
Cosa fare dunque? Un primo spunto ce lo offre papa Francesco (4) che ci ricorda quanto l’educazione possa contribuire, in un mondo “senza senso” a dare senso, a seminare speranza.
“L’uomo non può vivere senza speranza e l’educazione è generatrice di speranza. Infatti l’educazione è un far nascere, è un far crescere, si colloca nella dinamica del dare la vita. E la vita che nasce è la sorgente più zampillante di speranza; una vita tesa alla ricerca del bello, del buono, del vero e della comunione con gli altri per una crescita comune. Sono convinto che i giovani di oggi hanno soprattutto necessità di questa vita che costruisce futuro. Perciò, il vero educatore è come un padre e una madre che trasmette una vita capace di futuro. Per avere questa tempra occorre mettersi in ascolto dei giovani. E lo faremo in particolare con il prossimo Sinodo dei Vescovi dedicato a loro. L’educazione, poi, ha in comune con la speranza la stessa ‘stoffa’ del rischio. La speranza non è un superficiale ottimismo, nemmeno la capacità di guardare alle cose benevolmente, ma anzitutto è un saper rischiare nel modo giusto, proprio come l’educazione”.
(1) Lettera del santo padre Benedetto XVI alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.
(2) Responsabile mondiale della Pastorale giovanile dei Salesiani.
(3) Per approfondire il concetto di nichilismo vedi: GF88, dicembre 2015.
(4) Discorso di papa Francesco ai partecipanti alla plenaria della congregazione per l'educazione cattolica, 9 febbraio 2017.
Per gli autori non citati in queste note vedi la bibliografia a pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanto ci lamentiamo di come vanno le cose?
• Quanto abbiamo messo in pratica quello che ci hanno insegnato i nostri genitori?
• Quanto viviamo “contro-corrente” e quanto seguiamo le logiche di questo mondo?
• Siamo seminatori di speranza nei confronti del nostro prossimo?
6-FORMAZIONE O EDUCAZIONE?
Vorremmo che i nostri figli/nipoti trovassero subito un lavoro terminati gli studi: pensiamo quindi che siano utili gli studi tecnici, specialistici.
Ma la tecnica è in continua evoluzione, serve una formazione continua o si resta indietro, si diventa obsoleti.
Forse potrebbe servire un’educazione più ad ampio spettro, che allarghi la mente e il cuore ad apprendere, che insegni ad imparare.
a cura della Redazione
“Nella società contemporanea si parla molto di educazione, mentre paradossalmente sembra diminuire per varie ragioni il tasso di impegno educativo effettivo” scrive Garelli.
“Crescono a dismisura le denunce degli esperti in questo campo, tuttavia ci si limita ad offrire agli adolescenti attività tese ad ampliare le loro abilità e capacità in alcune sfere dell'esistenza, senza prefigurare disegni formativi più ampi”.
Questo perché “ai giovani viene insegnato che viviamo in una società liquida, del rischio e dell'incertezza. Tutti termini che servono per dire che tutto è vano, che non serve prepararsi al lavoro, che non serve darsi delle mete”, precisa il Comitato per il progetto culturale della CEI.
La formazione
“La formazione soffre di un noto paradosso: se un giovane decide che cosa studiare sulla base delle attuali prospettive di lavoro, corre seriamente il rischio, una volta terminati gli studi, che quelle opportunità non esistano più o, comunque, si siano profondamente modificate” scrive Gavosto (1). E continua: “Per superare questo paradosso, è diffusa la convinzione che la formazione debba diventare continua, prolungarsi dopo gli anni scolastici e universitari, in modo da garantire l’aggiornamento delle competenze, l’adattamento alle novità tecnologiche e organizzative e, in alcuni casi, il passaggio a occupazioni del tutto diverse: l’apprendimento permanente, appunto”.
Basta solo questo? O è necessario anche allargare lo spazio dell’apprendimento “proprio perché è rischioso investire in una formazione troppo specialistica, che può diventare presto obsoleta”?
Quindi, conclude Gavosto, “bisogna acquisire saperi trasversali, come imparare a imparare, risolvere problemi e lavorare in gruppo, applicabili a tutti i campi e in tutte le circostanze lavorative”.
Formazione e educazione
“Le proposte educative in tema di lavoro dovrebbero essere collocate in un'ottica precisa: la formazione al lavoro, anziché puntare a fornire abilità che rispondono a professioni tramandate o pre-strutturate, deve mirare a sviluppare una vocazione scelta, attraverso il potenziamento delle capacità riflessive del giovane”, annota il Comitato per il progetto culturale. “Non si tratta, come suggeriscono le visioni efficientistiche, di educare il giovane all'apprendimento come una formula vuota, senza finalità. Si tratta, invece, di educare ad apprendere l'attività lavorativa come relazione sensata con se stessi, con gli altri, con il mondo. E dunque un'educazione che mira a formare il giovane in scienza e coscienza”.
Così, continua il Comitato, “lo scopo formativo diventa quello di acquistare una competenza rispetto a un'attività, e acquisirla con la massima perfezione possibile, non per mera utilità, ma come espressione di un progetto di vita personale”.
L’educazione
Ma quale deve essere lo scopo di fondo dell’educazione? Quella di “promuovere un’intelligenza ‘generale’ capace di riferirsi al complesso e al globale” scrive Morin. E continua: “la cultura generale sollecita a contestualizzare ogni informazione o ogni idea mentre la cultura scientifica e tecnica parcellizza, disgiunge e compartimenta i saperi, rendendo sempre più difficile la loro contestualizzazione. Contrariamente all'opinione diffusa, lo sviluppo delle attitudini generali della mente permette un migliore sviluppo delle competenze particolari o specializzate. Più potente è l'intelligenza generale, più grande è la sua capacità di trattare problemi specifici. Così, la comprensione di dati particolari richiede l'attivazione dell'intelligenza generale che opera e organizza la mobilitazione delle conoscenze in grado di chiarire ogni caso particolare”.
Di conseguenza, secondo l’autore, “l'educazione deve favorire la capacità naturale della mente di porre e risolvere i problemi essenziali e, allo stesso tempo, deve stimolare il pieno uso dell'intelligenza generale. Questo pieno uso richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa è più viva nell'infanzia e nell'adolescenza, ossia la curiosità, che troppo spesso la scuola spegne e che si tratta, al contrario, di stimolare o risvegliare, se dorme”.
Gli studi classici
“La scuola che ha perso più appeal è il liceo classico: negli ultimi 4 anni ha registrato un calo di iscrizioni del 10%” scrive la Spotorno (2).
“Una delle ragioni è la pericolosa convinzione che gli studi umanistici siano inutili nel mondo del lavoro. Non è così: lo studio delle lingue morte, latino e greco, è vitale per la mente e la sua ginnastica. La traduzione potenzia la logica e l’attitudine a risolvere i problemi (problem solving), insegnando a scomporre un problema nei più piccoli particolari. Proprio quello che cercano oggi le imprese”.
La cultura classica, infatti, “quando non è confinata entro l'orizzonte del pedantismo filologico, si nutre di grandi opere capaci di dare forma alle esigenze eterne dello spirito umano”, scrive Chiosso. “Vi sono in essa capolavori che aprono l'uomo all'eccellenza della vita e lo spingono verso la sua ‘perfezione’ ”. Con una condizione: che i docenti sappiano tradurre la bellezza, alle volte complessa, dei capolavori classici ad uso degli allievi, appassionandoli con l'arma non solo della motivazione ma anche della chiarezza.
La realtà della scuola
“Purtroppo, ancora oggi molti programmi scolastici puntano quasi esclusivamente su una cultura di tipo nozionistico, di studio delle discipline”. Scrive De Beni.
“In pratica la scuola, oggi, non tiene conto a sufficienza della grande forza educativa offerta dal programma implicito, non scritto nei programmi ufficiali, rappresentato dal comportamento dei propri insegnanti, dal clima affettivo sociale creato nella classe, dalle relazioni fra i giovani e docenti all'interno di una comunità scolastica. Abilità cognitive, affettive e sociali vanno formate attraverso un graduale e integrale processo educativo. Così, il pensiero logico, di cui tanto la scuola si fa carico, dovrebbe contemporaneamente essere educato insieme al pensiero di tipo affettivo e sociale”.
Un altro aspetto che gioca “contro” è il fatto che gli stessi studenti pensano di essere “definiti” dal voto e dal risultato, e i test Invalsi si muovono in tal senso.
Come si può, con questi strumenti, valutare se un allievo è capace di gustare una poesia, un dipinto, un testo filosofico, il rigore di una dimostrazione, parlandone poi con competenza e passione?
Manca la capacità, scrive Segre (3), di “mettere in luce quegli aspetti che la metodologia dei test non è in grado di cogliere, poiché non quantificabili” eppure così vitali.
Le abitudini del cuore
Formazione, educazione, intelligenza generale, cultura classica: sono tutte parole che abbiamo incontrato finora. “Ma l'intento di educare non è connesso alla formazione di quelle ‘abitudini del cuore’ (di quei fondamenti umani e sociali) che una società o una parte di essa ritiene preziose per la sua armonia interna?” si chiede Garelli.
E continua: “L'educare, infatti, ha un suo linguaggio specifico, fatto di proposte e di esperienza, di ‘abitudini del cuore’ da coltivare nel corso degli anni, con adulti che si impegnano in un'azione faticosa e nascosta.
Nella società contemporanea si parla molto di virtù civiche, dei valori della cittadinanza. Ma non sono etichette autoadesive, quanto tratti da alimentare nel profondo, da proporre e costruire nelle dinamiche della vita quotidiana, nel via vai del vissuto delle persone.
Anche nell'epoca in cui la società globale irrompe nella nostra vita ognuno di noi - più di quanto si pensi - è figlio delle esperienze fatte in famiglia, tra i banchi di scuola, e gruppi che si frequentano, nella rete di conoscenze (professionali e non) annotata in agenda o sul cellulare.
Servono quindi adulti ‘significativi’, servono figure capaci di lasciare una traccia nel vissuto delle persone, gli attivare interessi, passione, coinvolgimento, nuove domande”.
(1) Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli di Torino.
(2) Giornalista di Famiglia Cristiana.
(3) Docente di storia e filosofia al collegio San Giuseppe di Torino. Tratto dal settimanale La voce e il tempo, 12 febbraio 2017.
Per gli autori non citati in queste note vedi la bibliografia a pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• In che modo incoraggiamo i nostri figli ad acquisire saperi trasversali?
• Cultura generale o cultura scientifica? Questo è il dilemma!
• Assecondiamo la curiosità naturale dei nostri figli e/o nipoti?
• Quanta importanza diamo ai voti? Quanto facciamo pesare questo tipo di giudizio?
• Ci impegniamo ad essere adulti “significativi”?
7-EDUCAZIONE E FAMIGLIA
Per educare bisogna prima di tutto educarsi.
Educarsi ad essere persone adulte, ad essere coppia.
Solo così potremo a nostra volta educare.
Non si può diventare adulti solo con la nascita del primo figlio.
È molto bello essere “amici” dei figli ma loro hanno bisogno, per crescere, di educatori, non di amiconi.
Amare è anche saper dire di no.
A cura della Redazione
“Nell’orizzonte della comunità cristiana, la famiglia resta la prima e indispensabile comunità educante”, scrivono i vescovi italiani negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buona del vangelo. “Per i genitori, l’educazione è un dovere essenziale, perché connesso alla trasmissione della vita; originale e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; insostituibile e inalienabile, nel senso che non può essere delegato né surrogato”.
L’educazione di coppia
Prima però di parlare dell’educazione dei figli soffermiamoci un momento sulla realtà di coppia.
Oggi “alla relazione di coppia si chiede molto, forse troppo” scrive il Comitato per il progetto culturale. “Alte sono le aspettative reciproche tra coniugi: completa intesa sessuale, capacità di comunicazione, condivisione di svariati aspetti della vita e al contempo tutela dei diritti di ciascuno”.
E continua: “La nostra odierna e positiva sensibilità per un rapporto autentico che eviti il formalismo di un legame di facciata è destinata a fallire senza una continua educazione e alimentazione del legame sia in senso affettivo che morale. L'educazione, il buon governo di sé, non è perciò cosa confinabile a una specifica età della vita, è invece un processo continuo che accompagna uomini e donne, padri e madri, lungo tutta la loro traiettoria vitale”.
Purtroppo oggi molti tendono “non tanto a costruire e mantenere un legame unico e speciale, sapendolo rinnovare nel corso del tempo, ma reagiscono alle difficoltà spesso abbandonando il campo e ricercando in altri rapporti la stessa iniziale intensità”.
Si tratta invece di “riconoscere l'altro nella sua realtà di risorse, pregi e limiti” e di “darsi la mano guardando avanti, in cammino verso una meta da raggiungere”.
L’educazione dei figli
La nascita di un figlio è una di queste mete. “Esiste un nesso stretto tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli”, sottolineano i vescovi. “L’uomo non si dà la vita, ma la riceve. Allo stesso modo, il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale.
Il legame che si instaura all’interno della famiglia sin dalla nascita lascia un’impronta indelebile. L’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo”.
“Oggi rispetto al passato siamo molto più sensibili alle esigenze dei bambini ma siamo incerti sulla direzione cui indirizzare il nostro investimento”, scrive il Comitato per il progetto culturale.
Infatti, “il genitore odierno non è tanto teso ad educare nel senso di tirar fuori le potenzialità del figlio (ex-ducere), ma piuttosto tende a tirare il figlio a sé (se-ducere), a compiacerlo, a saturare e prevenire ogni suo bisogno, spesso iperstimolandolo”.
Troppo di tutto?
“L'eccesso di stimoli sembra essere l'emblema di una società della sovrabbondanza, una specie di malattia del nostro tempo”, annota De Beni. “Corse e tempi frenetici, madri stanche e padri troppo assenti” per cui resta poco tempo per dialogare con i figli.
“Questo attivismo” però, se “sorretto da buone intenzioni e buone prassi” commenta Garelli, “può essere positivo”.
È un bene “che le famiglie orientino i loro figli a sviluppare nel tempo libero capacità e abilità non coltivate né nell'ambito domestico né in quello scolastico, che possono dunque favorire uno sviluppo più armonico della personalità dei ragazzi, oltre che ampliare il loro bagaglio di conoscenze, esperienze e relazioni”.
Regole e prospettive
“L'attuale famiglia appare ben diversa da quella di alcuni decenni orsono.
I rapporti tra le generazioni sono nel complesso buoni, con genitori che non pongono ai figli troppi aut aut, li spingono a cercare una loro realizzazione, investono sulle loro capacità, concedono ampi spazi di libertà” continua Garelli. “Resta da chiedersi se questa famiglia ‘pacificata’ sia l'ambiente migliore possibile per lo sviluppo delle personalità giovanili, se contenga al suo interno quegli stimoli sufficienti per richiamare i giovani ad ampi orizzonti e responsabilità”.
Il tema delle regole è uno dei più gettonati negli incontri per genitori che si tengono in parrocchia e in altri ambiti.
Infatti, “i genitori sono chiaramente in difficoltà nel dare una prospettiva alla crescita dei loro figli. Forte è l'attaccamento dei genitori verso i figli, ma debole il senso di un progetto che travalichi l'immediata gratificazione”, scrive il Comitato.
Il genitore “amico”
“L'immagine del genitore amico è a proposito significativa”, continua il Comitato. “Certamente i genitori devono aver ben chiaro sia che i figli sono persone libere e non una loro proprietà sia che la quota di autonomia decisionale va ben commisurata alla fase evolutiva che attraversano ma, in ogni caso, i genitori non possono sottrarsi al compito di cura responsabile”.
“Infatti, i genitori non possono pensare di risolvere i problemi lasciando decidere tutto ai figli, caricandoli in questo modo di un peso di responsabilità non appropriato.
Questo atteggiamento può essere sentito a tutta prima come liberatorio anche per i figli, soprattutto se adolescenti, ma nel profondo li fa sentire soli, senza una guida che li contiene e li sorregge”.
“Rischiare nelle scelte concrete e dare dei limiti è difficile per i genitori di oggi, che sono in genere disponibili a sopportare sacrifici per i figli mentre sono in difficoltà a chiederli ai figli. Questo perché i genitori temono di perdere l'affetto dei loro figli. Oggi ancora più che temere di far danni ai figli si teme di perderli”.
Più genitori che coniugi
“Perché è così forte il timore di perdere il legame con il figlio?” si chiede il Comitato. E risponde: “Perché esso non è solo, come ovvio, un asse portante della propria identità, ma spesso l'asse esclusivo della propria identità.
Questo è il punto cruciale che ci differenzia da un passato anche recente. Infatti, a fronte dell’instabilità coniugale, il legame con i figli pare l'unico su cui valga la pena di investire in modo certo. Come dire che è il figlio che istituisce e dà consistenza al legame coniugale. Anche l'alleanza genitoriale è in qualche misura subordinata al figlio ed è quindi debole”.
Affetti e valori
“Sovente l'equilibrio tra padri e figli viene trovato a livello ‘affettivo’, in una logica di accettazione e tolleranza reciproca che non innesca un proficuo scambio generazionale. La cura sembra dunque prendere il sopravvento rispetto all'educazione” annota Garelli.
“Siamo ben lontani dal motto ‘I care’, che don Milani ha voluto fosse scritto a caratteri cubitali su una parete della scuola di Barbiana: per dire che ‘mi sta a cuore’ soprattutto il tuo ‘essere’, il chi sei, dove stai andando, come ti stai costruendo, il tuo volto interiore, che ne fai dei talenti”.
Il valore dell’amore
“Se siamo adulti attenti, sappiamo che la domanda essenziale che i giovani ci rivolgono è sintetizzabile in questa domanda: ‘qualcuno mi ama?’ ”. scrive De Beni.
“Chiunque, genitore, educatore o insegnante che sappia cogliere questo grido di invocazione viene a trovarsi di fronte alle stessa essenza del processo educativo, faccia a faccia con il bisogno più radicato di ogni uomo: quello di essere amato.
Ma per amare occorre saper penetrare nel segreto dell'anima giovanile, con quello sguardo educativo che richiede una conoscenza ancora più sensibile e raffinata di quella psicologica. È un amore educativo che non si esprime solo nell'affetto. Esso sa penetrare come sguardo spirituale.
L'educazione è il bene più prezioso, ma se c'è un'emergenza, forse più grande di ogni altra in questa nostra società senza padri, riguarda proprio la ‘mission’ e la vocazione dell'educatore”.
Per la bibliografia vedi pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come adulti, cosa facciamo per continuare ad educarci?
• Nella nostra famiglia ci sono delle regole che ci siamo dati e cerchiamo di far rispettare? Quali?
• Cosa vuol dire per noi voler bene ai nostri figli?
• Siamo una società ‘senza padri’ come qualcuno afferma? Che ruolo ha il papà nella nostra famiglia?
8-Educazione e famiglia: TESTIMONIANZE
Fare figli è procreazione, educarli a crescere è creazione. Efim Tarlapan
L'educazione è l'arma più potente che si può usare per cambiare il mondo. Nelson Mandela
I VALORI
In famiglia la trasmissione di valori si concretizza perché prende il volto dei genitori, dei fratelli, dei nonni.
Gli atteggiamenti, le scelte, i discorsi ai quali assistono i nostri figli all’interno della famiglia lasciano di sicuro un segno.
Adesso che i figli sono grandi constatiamo che i valori che hanno “respirato” in famiglia, come l’onestà, la solidarietà, l’amore per la giustizia, sono diventati anche per loro dei punti di riferimento saldi.
Per quanto invece riguarda la trasmissione della fede non è stato così facile. A volte pensiamo di aver sbagliato qualcosa.
Di quattro figli solo una ragazza coltiva la pratica religiosa ed è impegnata in parrocchia. Gli altri si sono allontanati. È vero, la scelta di fede deve essere libera e noi non avremmo voluto che si adeguassero alle nostre scelte solo per tradizione o per farci contenti.
Pensiamo che a questo riguardo siano determinanti alcune esperienze ed amicizie dell’età giovanile. Per esempio, quando lasciano la famiglia per qualche esperienza all’estero (i più grandi si sono impegnati nel servizio civile in Portogallo e in Brasile) hanno l’occasione di allargare i loro orizzonti, scoprono realtà e persone molto diverse da quelle che erano abituati a frequentare, ma corrono anche il rischio di tagliare i ponti con le amicizie e le esperienze passate e a volte non riconoscono più tutto ciò che li aveva aiutati e fatti crescere negli anni precedenti.
Come genitori sentiamo un po’ di amarezza per questo loro allontanamento dalla fede, anche perché continuamente constatiamo quanto essa ci sorregga nei momenti difficili della vita ed abbiamo paura che loro non riescano a sperimentare la consolazione della fede nelle difficoltà.
Noi continuiamo a coltivare il nostro rapporto con Dio e glieli affidiamo ogni giorno nella certezza che Lui avrà a cuore la loro felicità.
Daniela e Angelo
EDUCARE
Oggi si parla spesso di educazione e, soprattutto chi ha figli in età scolare, si rende conto che anche nel percorso scolastico si dà largo spazio all’approfondimento dei diversi ambiti in cui l’educazione può essere suddivisa; per cui, già alla prima assemblea di classe, gli insegnanti propongono attività su temi quali: educazione alimentare, sessuale, intercultura, stradale, ecologia, musicale, linguistica e, chi più ne ha, più ne metta!
Il dizionario della lingua italiana dà la seguente definizione di educazione: “Il processo attraverso il quale vengono trasmessi ai bambini, o comunque a persone in via di crescita o suscettibili di modifiche nei comportamenti intellettuali e pratici, gli abiti culturali di un gruppo più o meno ampio della società”.
Da ciò potremmo dedurre che vi è un’educazione che può essere trasmessa da esperti dei vari ambiti, ma riteniamo che l’educazione dei nostri figli debba passare dai principi fondamentali in cui crediamo noi genitori.
Pensiamo comunque che il percorso educativo non si esaurisca mai.
I principi educativi che sono alla base delle relazioni e del vivere quotidiano in una società vanno trasmessi fin da subito ai bambini con fermezza e coerenza.
Vanno trasmessi, perché educare non vuol dire solo insegnare delle nozioni, ma consegnare a chi ci è affidato quelle regole e quei valori che, come genitori o educatori, riteniamo importanti per la crescita e la felicità dei nostri figli.
Ernesta e Gianprimo
9-EDUCAZIONE E SCUOLA
Il segreto dell’apprendimento: imparare ad imparare.
La difficoltà di valutare il rendimento scolastico del proprio figlio.
L’orientamento scolastico: una delle funzioni educative più difficili.
La sfide che devono affrontare i docenti.
Una scuola in bilico tra autorità e autorevolezza.
a cura della Redazione
“Nei primi anni di scuola si impara a 360 gradi, poi piano piano si approfondisce un indirizzo e infine ci si specializza. Ma se uno ha imparato a imparare, - è questo il segreto, imparare ad imparare! - questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: Don Lorenzo Milani” ha detto anni fa papa Francesco (1). E poi ha continuato: “Gli insegnanti sono i primi che devono rimanere aperti alla realtà, con la mente sempre aperta a imparare! Perché se un insegnante non è aperto a imparare, non è un buon insegnante, e non è nemmeno interessante; i ragazzi capiscono, hanno ‘fiuto’, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, ‘incompiuto’, che cercano un ‘di più’, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti. Questo è uno dei motivi perché io amo la scuola”.
Le aspettative scolastiche
Davvero è questo ciò che cercano nella scuola le famiglie?
Molte di loro guardano “alla scuola dei figli più in termini strumentali che formativi, più come un passaggio obbligato per l'accesso al mondo del lavoro che come un luogo di arricchimento delle conoscenze e delle competenze” annota Garelli. “L'interesse poi per la riuscita scolastica dei figli non sempre si inserisce in una visione formativa più ampia, tesa alla crescita di soggetti vivaci intellettualmente e armonici sul versante etico e civile”.
Anche quando non è così “in molte famiglie il problema del rendimento scolastico dei figli può essere fonte di scontri quotidiani. Tutti sanno che un buon rendimento scolastico può scaturire dal concorso di alcuni fattori essenziali, senza i quali non si possono conseguire i risultati sperati: il talento, la motivazione e la presenza di circostanze esteriori favorevoli” scrive De Beni. Ci sono infatti ragazzi pieni di talenti ma svogliati come ce ne sono altri, non particolarmente dotati, ma molto motivati.
È importante allora, continua De Beni, “tenere presente che il vero rendimento di un ragazzo va misurato mettendo in rapporto il risultato ottenuto con le sue capacità. L’autentica prestazione umana si ha quando questa è superiore, per quanto di poco, alle effettive capacità personali”.
Accade anche che “gli adulti incitino i ragazzi allo studio spiegando loro il potenziale vantaggio che ne potrebbero trarre da adulti. Questo obiettivo però non può servire per incentivare la motivazione di un bambino di 10 anni, in quanto il comportamento di una persona è poco influenzabile da un vantaggio percepito come lontano”, sottolinea De Beni. E conclude: “Si sente parlare spesso di ricompense materiali, di regali, di giochi”, ma i veri strumenti “sono l'incoraggiamento, la lode, la vicinanza, la partecipazione dei genitori, il tempo dedicato ai loro figli e condiviso fraternamente in famiglia”.
L’orientamento
“La scuola è chiamata a formare non solo il nucleo fondamentale dello sviluppo cognitivo”, scrive Lazzarini, “ma anche quello della personalità, offrendo simultaneamente le mappe di orientamento relative almeno a quattro tipi fondamentali di apprendimento:
• imparare a conoscere: acquisire gli strumenti della comprensione;
• imparare a fare: agire creativamente nel proprio ambiente;
• imparare a vivere insieme: partecipare e collaborare con gli altri nelle diverse attività sociali;
• imparare ad essere: attivare un processo continuo di crescita.
È necessario prevedere un processo formativo che permetta lo sviluppo globale dell'allievo: psiche, corpo, intelligenza, sensibilità, senso estetico, responsabilità personale e orientamenti di valore”.
Se questi sono i ‘desiderata’, come si devono muovere i genitori nella scelta dell’indirizzo di studi per i propri figli?
“Una delle funzioni educative più difficili e delicate è quella dell'orientamento”, cioè l’offerta di strumenti personalizzati da offrire “al giovane perché prenda coscienza delle sue attitudini e inclinazioni”, scrive De Beni.
“Le attitudini di un ragazzo dovrebbero infatti essere stimolate, in modo che al termine della scuola dell'obbligo egli abbia consapevolezza di se stesso. In tal modo, sarà nelle condizioni di poter orientarsi in maniera più selettiva nella scuola superiore, dove sarà sempre più indirizzato alla scelta di una formazione più confacente alle sue capacità”.
Conta, in questo percorso, anche “la fiducia che i genitori e insegnanti nutrono nei confronti delle loro capacità educative e la fiducia nel successo dei loro allievi”.
Questi due elementi, conclude De Beni, “sono fattori chiave spesso determinanti per lo sviluppo della percezione di sé da parte dei giovani” e per il loro futuro professionale.
Gli insegnanti
E che ne è degli insegnanti? “Siamo di fronte ad uno scenario eterogeneo”, scrive Garelli, “con molti insegnanti disorientati e sfiduciati, ma con tanti altri che pur fiaccati non si danno per vinti. La maggior parte comunque resta convinta non soltanto delle potenzialità formative della scuola, ma anche della centralità, perlomeno ideale, del ruolo docente in una società che ha sempre più bisogno di figure che sappiano offrire conoscenze per la vita.
I docenti più sensibili (e non sono pochi) sono sufficientemente coscienti delle sfide che hanno di fronte. Come valorizzare i programmi scolastici e il sapere consolidato senza cadere nel nozionismo? Come essere culturalmente ed eticamente propositivi in un mondo ormai plurale e globale? Come aprire la scuola alla società senza disperdere il suo linguaggio e il suo patrimonio di fondo? La presenza di questi docenti più consapevoli attesta il gran fermento oggi in atto nella scuola”.
Sono questi i docenti che le famiglie, attraverso le reti di conoscenze, dovrebbero ricercare. Scrive Chiosso in un articolo (2) “Le scuole funzionano bene quando ci sono docenti che non si limitano a una stanca ripetizione di nozioni riciclate sempre identiche a se stesse, ma capaci di mantenere vivo e vitale il rapporto con gli allievi senza cedere - beninteso - a un falso e controproducente giovanilismo o a un buonismo tollerante”.
Nuovi modi di insegnare
Come insegnare oggi? Chi è più attento all’evoluzione tecnologica parla di docente “liquido”, cioè di un professore capace di “scendere dalla cattedra per imparare davvero di cosa hanno bisogno gli alunni, personalizzando gli apprendimenti e ‘capovolgendo’ la classe”.
Scrive a proposito la Bardi (3): “Dobbiamo prendere tutti indistintamente atto del fatto che se i nostri studenti passano molto tempo con il cellulare in mano, è evidente come, in classe, per quanto noi possiamo pensare che le nostre lezioni siano attrattive e interessanti, loro facciano altro”.
Quindi bisogna puntare non tanto sul digitale, quanto sull’innovazione. “La vera innovazione” continua l’autrice, “è rappresentata dalla condivisione tra docente e studenti. Che si tratti del lavoro di gruppo, della ricerca, del fornire materiali per approfondimenti” i ragazzi vanno almeno informati delle finalità del momento formativo, altrimenti “non si farà altro che allontanarli sempre più dal compito che devono svolgere, proprio perché non riusciranno mai a percepirlo come qualcosa di ‘loro’, come un qualcosa che li veda davvero protagonisti”.
In altre parole, “oggi si apprezza maggiormente la circolarità che si instaura nella comunicazione tra il docente e l’alunno, molto più aperta di un tempo, molto più favorevole all’ascolto reciproco”, scrive la Congregazione per l'educazione cattolica in un suo documento (4). “Questo non significa che gli adulti debbano rinunciare a rappresentare un riferimento autorevole, ma bisogna saper distinguere tra un’autorità esclusivamente legata ad un ruolo, ad una funzione istituzionale, e l’autorevolezza che deriva dalla credibilità di una testimonianza”.
(1) Discorso di papa Francesco al mondo della scuola italiana, 10 maggio 2014.
(2) Fonte: La voce e il tempo, Torino 9 aprile 2017.
(3) Fondatrice centro ricerche ImparaDigitale.
(4) Congregazione per l’educazione cattolica: Educare oggi e domani. Una passione che si rinnova.
Per gli autori non citati in queste note vedi la bibliografia a pag. 25.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanto ci preoccupa il rendimento scolastico di nostro figlio?
• Quanto abbiamo lasciato liberi i nostri figli nella scelta degli studi superiori?
• Nella scelta della scuola primaria ci siamo affidati al caso o ci siamo informati prima sui docenti?
10-Educazione e scuola: TESTIMONIANZE
La cl@sse 2.0
Insegno ormai da 16 anni e questo è il lavoro che mi ero scelta sin dall'Università.
In realtà ci ho messo un bel po' prima di entrare in una classe perché, quando ho terminato gli studi, era un periodo di grande saturazione nella scuola.
Così, mentre aspettavo, mi sono inventata altre occupazioni ( fra cui anche due figli) che hanno contribuito a formarmi. Nonostante le migliori intenzioni, però, quando per la prima volta mi sono trovata davanti a dei ragazzi veri, mi sono sentita veramente inesperta. Infatti l'università, che ho frequentato negli anni ’90, dava tantissimo peso al nozionismo mentre non sapeva cosa fosse la didattica.
Grazie al consiglio dei colleghi più anziani, però, a diverse letture e ad un po' di buonsenso, la situazione è cambiata in meglio rapidamente. All'epoca insegnavo nella scuola del mio paese e la cosa più difficile era tenere le giuste distanze dai genitori che incontravo ovunque.
Dopo aver avuto la mia terza figlia, sono stata spostata in un istituto più grande nella cittadina vicina a quella in cui abito. Lì ho vissuto anni ricchissimi di esperienze formative. Ho per esempio potuto far parte di una cl@sse 2.0 dove alunni ed insegnanti avevano tutti a disposizione un pc. Una grandissima svolta nelle modalità di apprendimento!
Un altro momento cruciale per la mia storia personale è stata la scoperta del fatto che la mia figlia più piccola è dislessica. Non è stato facile accettare e gestire la situazione, ma è stato sicuramente utilissimo per comprendere dall'interno le difficoltà di tantissimi alunni con questo o altri problemi di apprendimento.
Il mio atteggiamento è cambiato verso di loro e spero di averne guadagnato in umanità.
La necessità di formarmi dal punto di vista didattico è tornata ad essere preponderante e ho cominciato a frequentare una serie di corsi che poco alla volta mi hanno aiutato a cambiare il mio stile di insegnamento. Mi sento però ancora una novellina nell'ambito della cosiddetta didattica inclusiva.
Fin qui ho parlato poco dei ragazzi. Ecco i ragazzi sono... il vero motivo per cui insegnare. Possono essere caotici, a volte strafottenti, sfibranti ed impegnativi, ma sempre ricchi di un candore disarmante e di una vitalità vibrante. Restare in ascolto dei loro percorsi interiori è veramente una grazia e vederli maturare un po' alla volta una enorme soddisfazione. Talvolta poi si creano legami di autentico affetto e la stima reciproca cresce negli anni anche dopo che ci si è lasciati.
Se dovessi, in conclusione, indicare le sfide della scuola oggi, direi che essa deve giocarsi tutta nella relazione coi ragazzi che vanno ascoltati, coinvolti ed appassionati e in una didattica seria e ben strutturata.
Paola Misciagna
La mia maestra
Parlando di educazione mi sono subito venuti in mente i due insegnanti che sono stati fondamentali per la formazione della persona che sono adesso: la mia maestra ed il professore di italiano del Liceo.
Non a caso ho scritto mia in grassetto perché ancora adesso se parlo di lei ne parlo con il possessivo perché, anche se eravamo trenta alunne, lei era mia, solo mia: era la mia seconda mamma.
Mi ha insegnato oltre che a leggere, scrivere e far di conto, ad essere responsabile delle mie scelte e dei miei errori e mi ritorna spesso in mente la sua affermazione per la bocciatura di un’allieva: per lei questo rappresentava un fallimento suo, perché non era riuscita a far innamorare del sapere la bambina.
Questo l’ho ritrovato con la stessa intensità nel mio professore di liceo che davanti a tutta la classe chiese scusa ad un mio compagno che sarebbe stato bocciato per la seconda volta, perché lui non era riuscito a coinvolgerlo, a interessarlo alle sue materie; insomma lui, il professore era stato sconfitto, non l’allievo.
Queste due persone mi ricordano sempre che gli altri dipendono da noi, non possiamo disinteressarci di loro solo dicendo “ho fatto il mio lavoro, non posso fare di più”, bisogna sempre andare oltre e cercare di capire che cosa posso fare per l’altro, anche solo stargli accanto e ascoltarlo.
Antonella Ronchegalli
11-I PERCHÉ DELL’EDUCAZIONE
TESTIMONIANZE
L’idea di queste domande mi è sorta partecipando alla serata conclusiva della Settimana della scuola organizzata dalla diocesi di Torino e animata da Andrea Schiavon, autore di un libro che prende spunto da Lettera a una professoressa di don Milani.
Le ho quindi proposte alla redazione “virtuale” della rivista. Di seguito trovate le risposte.
Perché ho mandato/mando mio figlio a scuola?
Ho mandato i miei figli a scuola perché imparassero a leggere e scrivere, ma anche a socializzare e pian piano diventare autonomi nelle loro decisioni.
Antonella G.
Ho mandato a scuola i miei tre figli perché imparassero prima di tutto a relazionarsi in modo positivo con gli altri, coetanei ed adulti, perché sono assolutamente convinta che la scuola sia un luogo sociale, dove si incontrano persone diverse con cui è necessario entrare in contatto in modo pacifico e costruttivo. Certamente, anche l’aspetto più prettamente legato all’apprendimento è importante, ma non quanto quello civico, sociale, di gruppo.
Emanuela
Ho sempre creduto che la scuola sia una palestra di vita; una opportunità imperdibile per me a suo tempo e ora per i miei figli, senza però considerarla l'unico momento e luogo di crescita. Per i nostri figli abbiamo scelto anche la parrocchia, gli scout e lo sport. Perché? Per imparare a stare al mondo, e per conoscerlo.
Renato
Ho mandato a scuola mio figlio perché ricevesse una cultura generale e perché credo che gli studi aiutino ad aprire la mente.
Fiorenza
Cosa ho ricavato dai miei 8-13-18 anni di scuola?
La scuola mi ha dato una cultura di base adeguata, la capacità di pormi in modo critico nei confronti della realtà che mi circonda, le conoscenze necessarie per superare un concorso pubblico ed entrare in ruolo come insegnante di scuola primaria.
Invece le competenze indispensabili per fare la maestra le ho apprese strada facendo, confrontandomi con colleghe, genitori, alunni, studiando ancora tanto, perché “chi vuole insegnare, non deve mai smettere di imparare!”.
Emanuela
Posso dire che sedici anni da studentessa mi hanno dato il desiderio di conoscere e imparare, anche con fatica: desiderio che mi è rimasto e torna utile anche alla mia età.
Elda
Adesso che “sono grande” posso dire di essere contenta degli studi che ho fatto: ho frequentato il liceo classico “D’Azeglio” di Torino. Se penso a quegli anni mi viene in mente la grande fatica, soprattutto negli anni del ginnasio, ma adesso mi rendo conto della ricchezza che mi hanno regalato quegli studi, soprattutto mi hanno insegnato un metodo che adesso posso applicare ai più svariati momenti della vita.
Sul lavoro mi hanno permesso di passare dalla contabilità aziendale allo svolgimento di pratiche con il ministero dei trasporti, dal servizio in biblioteca all’esperienza di progetti e laboratori di arte con le scuole.
Antonella R.
Dai miei studi ho ricevuto una cultura e una conoscenza di base. Alle superiori ho acquisito delle capacità che ho scoperto di avere solo terminati gli studi.
Non ho studiato le materie specifiche che ora sono parte del mio lavoro, ma la mia formazione alla scuola superiore mi ha aiutato a "imparare" dopo anche ciò che non avevo studiato. Mi ha aperto la mente e dato una personalità stabile.
Antonella G.
Il mio percorso è stato lungo e mi ritengo molto fortunato: ho imparato a fare fatica, a lottare per raggiungere gli obiettivi e a scegliere.
Mi ha dato cultura, la passione per il lavoro che faccio e tante persone con cui confrontarmi. Devo dire che a livello di valori per una vita felice non è stata decisiva. Lo sono stati di più parrocchia e mondo delle associazioni nell'età giovanile.
Renato
Cosa dovrebbe insegnare la scuola?
Negli ultimi anni ogni volta che un problema sale all’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto se legato a casi di cronaca, c’è qualcuno che invoca l’intervento della scuola come panacea di tutti i mali: per il cyberbullismo, per l’educazione alimentare, stradale, affettiva, sessuale… e chi più ne ha più ne metta!
Io credo che a scuola si possano e si debbano trattare tutti questi argomenti, ma senza perdere di vista quello che è il suo scopo fondamentale: formare il cittadino di domani, permettendogli di costruirsi un bagaglio di conoscenze (ciò che si sa), abilità (ciò che si sa fare), competenze (capacità di usare consapevolmente ed efficacemente le conoscenze in rapporto a contesti reali) adeguate e sufficienti ad inserirsi nella società nella quale dovrà vivere.
Tutto ciò però deve essere fatto in sinergia - e non in sostituzione - con le altre agenzie educative: famiglia in primis, poi parrocchie, associazioni, enti locali.
Emanuela
La scuola dovrebbe insegnare non tanto nozioni, ma come trovare le informazioni che ci servono in quel preciso momento: non si può “sapere tutto”, ma si può imparare come “trovare tutto”.
Questo si impara allenandosi a scuola attraverso le diverse materie che ci aiutano a vedere il mondo che ci circonda sotto diversi aspetti: lo posso descrivere, lo posso calcolare, lo posso disegnare, lo posso osservare, lo posso ascoltare, lo posso toccare e manipolare… ma è sempre il mondo che mi sta intorno.
La scuola dovrebbe sì insegnare la teoria ma dovrebbe poi farci toccare e fare quello che abbiamo letto sui libri, perché come dice Aristotele: “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo”.
Antonella R.
La scuola, oltre alla cultura generale, sempre utile e molto importante, dovrebbe formare i giovani ad avere senso del dovere e relazioni umane valide.
Antonella G.
Come insegnante, per me la scuola è un’opportunità che le persone possono cogliere oppure no. È importante la cultura, ma anche capire la ricchezza che c'è nella diversità. Certo che fare questo senza la collaborazione o la partecipazione della famiglia, è quasi impossibile...
Renato
La scuola dovrebbe dotare gli allievi di una cultura generale ed essere il luogo dove si possono sperimentare relazioni umane autentiche.
Fiorenza
La scuola dovrebbe rivolgersi all’uomo nella sua interezza, educando non solo mente, ma anche corpo, cuore e spirito. È necessario che la scuola educhi al controllo delle emozioni e allo sviluppo dell’affettività. Nel rapporto con gli altri ogni alunno dovrebbe riconoscere la propria unicità, ma anche imparare il rispetto e l’accettazione delle diversità.
Daniela e Angelo
Cosa faccio per continuare ad educarmi?
Grazie alla scuola mi è rimasto il desiderio di imparare, di cercare spiegazioni quando leggo di argomenti che non conosco, di confrontarmi per sapere e apprendere nuove informazioni.
Ho imparato l’umiltà di riconoscere ed ammettere i miei sbagli, perché questo mi permette di correggere e rimediare ai miei errori.
Antonella R.
Per continuare ad educarmi io leggo (giornali, notizie in Internet, libri), ascolto (mio marito, i miei figli, le mie colleghe, il miei amici, il Gruppo Famiglia…) e mi confronto con loro. Cerco di seguire i TG nazionali, ma i vari talk show mi hanno decisamente stancata perché sono poco oggettivi.
Come insegnante, credo che la formazione continua sia un mio preciso dovere e seguo costantemente corsi di aggiornamento sui temi della didattica innovativa.
Emanuela
Le neuroscienze hanno scoperto che il nostro cervello evolve - grazie a nuove conoscenze, esperienze, relazioni che viviamo - fino alla nostra morte.
È dunque tramontata l’idea che la maturità sia una fase della vita statica, con poco ormai da apprendere, e questo anche in conseguenza del vertiginoso sviluppo tecnologico, che ci richiede di stare in qualche modo al passo; quindi mi trovo a mettermi in discussione e ad essere “in cammino” su vari fronti: come moglie, come madre, come lavoratrice, come cristiana.
Ciò che mi è più utile, in tutti gli ambiti, è il confronto serio con altre persone, soprattutto all’interno di piccoli gruppi: la ritengo una risorsa preziosa da sfruttare, potenziare, creare.
Elda
Leggo i giornali, ascolto i TG, navigo su Internet, mi confronto con il mio coniuge e i miei figli, seguo un gruppo di persone che hanno la mia stessa vocazione salesiana e cristiana.
Non faccio l'insegnante, ma non perdo l'occasione di aiutare qualche giovane che incontro nella mia giornata, anche solo soffermandomi a parlare con lui/lei e guardandolo/a negli occhi con amorevolezza.
Antonella G.
Frequento i Gruppi Famiglia, leggo, partecipo a incontri su vari argomenti che si svolgono sul mio territorio.
Fiorenza
Certo mi informo, partecipo ai Gruppi Famiglia, mi costringo a leggere, ad ascoltare la gente; sì, credo che da tutti possiamo imparare qualcosa.
Renato
Perché faccio l’insegnante?
Faccio l’insegnante nella stessa scuola da più di 30 anni e sono molto soddisfatta del mio lavoro, perché mi permette di essere sempre in contatto con i bambini, che secondo me sono fantastici!
Il lato migliore della mia professione è la creatività: non mi annoio mai, ogni giorno posso inventare e realizzare qualcosa di nuovo per aiutare i miei alunni ad apprendere e io stessa imparo sempre da loro. Io amo collaborare, non competere, e in questi anni sono riuscita a costruire rapporti interpersonali molto positivi con colleghe, genitori, dirigenti.
Emanuela
Insegno ormai da 40 anni nella Scuola Primaria e ricordo come nei primi tempi fossi molto assillata dal programma e dai contenuti da trasmettere.
Dopo alcuni anni ho capito invece che dovevo puntare sulla relazione con i bambini. Se loro si sentono accolti e benvoluti e se in classe si vive un clima sereno, anche l’apprendimento diventa più facile e i contenuti passano più facilmente.
La caratteristica principale che viene richiesta ad un insegnante penso sia la passione per l’opera educativa.
Insegnare è un lavoro straordinario perché tutto ciò che si trasmette ritorna indietro arricchito e perché si scopre che, assieme agli alunni, non ci si stanca mai di imparare.
Daniela
Non sono insegnante ma faccio la catechista, quindi insegno. Lo faccio perché lo ritengo un mio dovere come credente e mi aiuta nella formazione personale. Devo confessare che i ragazzi del catechismo non mi danno molte soddisfazioni.
Fiorenza
Faccio l'insegnante perché un mio insegnante delle medie mi ha fatto innamorare di questo mestiere; lo faccio perché amo stare in mezzo ai ragazzi. E vederli crescere è sempre uno spettacolo... che ha pochi eguali a questo mondo.
Renato
Quanto la scuola è servita ai miei figli?
Non tutto è stato facile, tutti e tre hanno vissuto esperienze meravigliose accanto a momenti bui, ma ora che sono cresciuti, diplomati e laureati (manca solo la più giovane, che ha appena iniziato l’università) credo di poter dire che la scuola è stata una buona palestra.
A scuola hanno potuto sperimentare modalità comunicative e relazionali diverse e mettersi in gioco personalmente, imparando dall’esperienza abilità fondamentali per il lavoro che stanno svolgendo, come liberi professionisti, nel campo della comunicazione multimediale.
Emanuela
A cosa sia servita la scuola ai miei figli, oltre che (per i due più grandi) a trovare un buon lavoro appena conseguita la laurea breve, “lo scopriremo solo vivendo”, come cantava Lucio Battisti. Di certo non ha insegnato loro nemmeno una parvenza di utile manualità.
Elda
Dalla scuola i miei figli hanno ricevuto un po’ di formazione professionale secondo l'ambito da loro scelto, una serie di nozioni superate e poco sul fronte della trasmissione dei valori.
Antonella G.
I nostri quattro figli hanno alle spalle parecchi anni di scuola (tre sono già laureati) con esperienze diverse. Purtroppo i più grandi hanno dovuto constatare che la fatica e l’impegno dedicati allo studio non li hanno poi aiutati ad inserirsi con facilità nel mondo del lavoro. Questo ha fatto nascere in loro una certa amarezza.
Il più piccolo è stato abbastanza influenzato dal pensiero di alcuni insegnanti. Ha maturato la convinzione che ogni cosa si possa spiegare con la ragione. Noi non la pensiamo così e abbiamo cercato di testimoniare quanto sia importante coltivare anche la dimensione spirituale… ma ad una certa età forse alcuni insegnanti incidono più dei genitori!
Daniela e Angelo
Abbiamo quattro figli, di cui due all'università, uno alle superiori e uno alle medie: la scuola è servita a verificare le loro doti e la loro determinazione.
Non è stata invece il luogo dove trovare una realizzazione di sé: oggi le esperienze in cui i giovani si sentono protagonisti sono altre. La scuola sembra ingessata a riprodurre i saperi delle generazioni passate, più che luogo in cui rielaborarle e farle proprie.
Renato
Cosa faccio per educarmi alla fede?
Mi ha aiutato, e continua a farlo, appartenere a un gruppo parrocchiale di famiglie; frequentare un gruppo di mutuo aiuto per le relazioni interpersonali, guidato da facilitatori formati; partecipare a equipe con diverse competenze e professionalità; condividere con altri, in un percorso di catechesi biblica, le gioie e le fatiche del cammino di fede.
Elda
Pensiamo che avere fede significhi camminare sempre e ciò implichi la necessità di crescere e formarsi continuamente. Noi cerchiamo prima di tutto di coltivare la coppia, anche se dopo diversi anni di matrimonio dovrebbe ormai essere consolidata. Cerchiamo di dedicarci del tempo e di liberarci ogni tanto dai timori e dalle preoccupazioni per i figli. In questo ci aiutano le coppie di sposi del gruppo che seguiamo come responsabili. Cerchiamo poi di partecipare alle iniziative di formazione che ci vengono offerte dalla Parrocchia. La fede si coltiva anche con qualche momento di preghiera quotidiana e qualche buona lettura.
È proprio un grande dono che va conservato con cura!
Daniela e Angelo
Partecipo ai Gruppi Famiglia di Vallà e approfitto delle occasioni di diocesi e parrocchia per vivere momenti di formazione e crescita della fede. Coltivo nella preghiera il rapporto quotidiano con la Parola.
Renato
Vado a messa la Domenica, spendo un po’ del mio tempo come consigliere nell'ambito dei Salesiani Cooperatori, cerco di seguire i dettami di Don Bosco che dice "Fa che i giovani si sentano amati , insegna loro ragione, religione e amorevolezza , rendili onesti cittadini e buoni cristiani".
Antonella G.
Non sono molto originale: recito il rosario, vado a Messa e se c’è qualche sacerdote giovane mi gusto l'omelia, leggo delle riviste religiose, seguo qualche catechesi su Radio Maria e partecipo a incontri di formazione nella mia parrocchia.
Fiorenza
Per educarmi alla fede cerco soprattutto di vivere rifacendomi ai valori del Vangelo, confesso di fare un po’ fatica a seguire con costanza le pratiche religiose, perché purtroppo vedo molta incoerenza in chi vuole insegnare agli altri come comportarsi, senza dare in prima persona l’esempio.
Antonella R.
Il cammino educativo, soprattutto in campo spirituale, non si esaurisce mai, come ci insegnano i nostri Vescovi ambrosiani che nel corso dei vari anni hanno così intitolato i vari programmi pastorali: da “Dio educa il suo popolo” e “Itinerari educativi” del card. Martini, a “Educarsi al pensiero di Cristo” del card. Scola. Ecco quindi da dove i genitori cristiani devono imparare l’arte di educare!
I nostri ragazzi devono vedere che noi genitori non ci sentiamo superiori o degli arrivati, ma più “esperti” perché abbiamo qualche anno in più e, nonostante ciò, abbiamo ancora bisogno di metterci alla scuola di Gesù per imparare ad amare, ad accogliere, a perdonare, a condividere, a rispettare…
È anche vero che a volte i figli, quando sono grandi, fanno delle scelte che noi non condividiamo, ma anche questo fa parte della sfida di educare, aiutarli a capire la loro vocazione e aver la capacità di lasciarli liberi, liberi di scegliere, sapendo bene che a volte Dio ci chiede di percorrere vie diverse da quelle che noi immaginavamo!
Ernesta e Gianprimo Brambilla
12-EDUCAZIONE E LAVORO
Il lavoro dipendente e garantito è sempre meno diffuso.
Prevalgono i lavori atipici, sovente sottopagati, e si diffonde il lavoro autonomo nelle sue varie forme
Serve un’educazione che sviluppi l’autonomia del soggetto, la sua capacità di cooperazione e l’attitudine ad un costante apprendimento.
a cura della Redazione
“Gli adolescenti e i giovani che si preparano a entrare nel mondo delle attività professionali hanno un grande desiderio di fare, ma - arrivati alla soglia del lavoro - constatano l'impossibilità o l’incapacità di fare”, scrive il Comitato per il progetto culturale della CEI. “Ai giovani viene insegnato che viviamo in una società liquida, del rischio e dell'incertezza. Tutti termini che servono per dire che tutto è vano, che non serve prepararsi al lavoro, che non serve darsi delle mete. Spesso, gli stessi insegnanti rinunciano a proporre una qualunque progettualità ai loro alunni, limitandosi a trasferire solo competenze cognitive.
Le stesse scuole tecniche e professionali, che più dovrebbero indirizzare i giovani a un preciso mestiere, appaiono disorientate”.
Le aspettative dei giovani
“Nei giovani, invece, crescono le preferenze per il lavoro autonomo e anche per forme atipiche (specie per chi ha esigenze particolari nel modo di organizzare il tempo della vita quotidiana), oppure, laddove il lavoro è dipendente, aumentano le esigenze di un'autonomia più ampia; crescono le aspettative per un lavoro più creativo; crescono le preferenze per un lavoro rapporto vita-lavoro più equilibrato nei tempi e nelle transazioni, e con passaggi fra l'una e l'altro più reversibili e meno traumatici. Per i giovani la misura del lavoro è sempre meno il tempo quantitativo e prestabilito e diventa sempre più il tempo qualitativo e flessibile”, prosegue l’analisi del Comitato.
Il lavoro autonomo
E continua: “nell'economia dell'informazione emerge una nuova soggettività del lavoro, nel senso che il lavoro diventa protagonista non già di una società salariata, ma di una società di produttori-e-consumatori dotati di più elevate esigenze soggettive di autorealizzazione e di incidenza etica sui processi economici”.
In questa direzione “Internet ha allargato enormemente la possibilità per il singolo lavoratore autonomo di individuare su scala mondiale l’azienda dove più gli conviene inserirsi” scrive Ichino (1). “Meno evidente è che la globalizzazione stia allargando altrettanto la possibilità per una collettività di lavoratori di individuare su scala mondiale l’imprenditore che meglio può valorizzare il loro lavoro e di ottenere che questi si induca a investire nel luogo in cui essi risiedono. Questa nuova possibilità costituisce un dato destinato ad assumere importanza sempre maggiore nel sistema delle relazioni industriali e più in generale nelle vicende dell’economia”.
Il lavoro oggi e domani
Per rimanere in Italia “oggi c’è almeno mezzo milione di posti di lavoro che rimangono permanentemente scoperti per mancanza di persone competenti: tecnici informatici, elettricisti, falegnami, infermieri, artigiani dei mestieri più vari”, continua Ichino.
In un domani, con il progredire della robotica e dell’automazione “ci sarà comunque un bisogno senza limiti di lavoro umano non sostituibile dalle macchine nei settori dell’assistenza medica e paramedica alle persone, dell’istruzione, della diffusione delle conoscenze, dei servizi qualificati alle famiglie e alle comunità locali, della ricerca in tutti i campi, e l’elenco potrebbe continuare a lungo: certo, sono tutte funzioni nelle quali l’alfabetizzazione digitale sarà sempre più indispensabile”.
Quello che stiamo vivendo oggi è un passaggio da vecchi a nuovi assetti del tessuto produttivo che produce inevitabilmente disorientamento.
Come educarsi per il domani
I giovani sono chiamati ad orientarsi verso “un lavoro che, se da un lato chiede di essere più autonomo e inventivo, dall'altro deve essere praticato all'interno di processi di reticolarizzazione dei ruoli e degli scambi fra produttori, tra produttori e distributori, e tra questi ultimi e i fruitori dei beni e servizi.
Cosicché va posta attenzione su quei metodi educativi che puntano a sviluppare sia l'autonomia sia la capacità di cooperazione con gli altri”, sottolinea il Comitato. E prosegue: “non si tratta, come suggeriscono le visioni efficientistiche, di educare il giovane ad apprendere l'apprendimento come una formula vuota, senza finalità. Si tratta, invece, di educare ad apprendere l'attività lavorativa come relazione sensata con se stessi, con gli altri, con il mondo. E dunque un'educazione che mira a formare il giovane in scienza e coscienza”.
Quindi “lo scopo formativo diventa quello di acquistare una competenza rispetto a un'attività, e acquisirla con la massima perfezione possibile, non per mera utilità, ma come espressione di un progetto di vita personale”.
Di conseguenza “è importante la preparazione tecnica ma, alla base di tutto, ci deve essere una pedagogia della riflessività capace di esplicare il significato del lavoro, i motivi ultimi, le premure fondamentali che accompagnano le scelte”.
(1) Tratto dalla relazione al convegno promosso dall'Associazione Giuslavoristi Italiani. Torino, 15 settembre 2017.
Per gli autori non citati in queste note vedi la bibliografia a pag. 25.
13-INNER DIRECTION
Farsi guidare dalla propria coscienza e dai valori piuttosto che dalle pressioni di conformità esterne
La razionalità che governa il mondo industriale postula che esista una soluzione ottimale per ogni problema e che vada perseguita con il minimo impiego di mezzi e il massimo risultato. Si sono così affermati valori quali il successo, l'affermazione personale, la ricerca di reddito sempre più elevato e il prestigio ad esso conseguente.
Di fronte a ciò, si assiste alla crescita del bisogno di nuovi valori, di una razionalità che consideri i bisogni profondi dell'essere umano e che possa offrire nuovo senso e significato all’agire sociale.
Si richiede una nuova logica di comunicazione, una rete circolare, un'intesa e una contrattazione continua e reciproca con gli altri.
In questo movimento, la costruzione della propria inner direction consiste nella scelta del proprio ruolo sociale, delle amicizie, del grado di istruzione da raggiungere, della professione da svolgere, ecc.
Le decisioni non sono definite dall'esterno, ma è l'individuo che si crea un ambiente appropriato attraverso le relazioni, gli investimenti e le revisioni continue con lo scopo di perfezionarsi e migliorarsi.
La costruzione dell'inner direction è un processo collegato a concetti come: imparare ad imparare, capacità di auto formarsi ed autogestirsi, di apprendere in modo consapevole, di imparare e a vivere nella vita di tutti i giorni rapportandosi con gli altri e con se stessi in maniera autocritica.
Sono concetti collegati al valore secondo cui gli individui devono imparare ad auto gestirsi al meglio, nel proprio intimo e nella vita con gli altri, ad acquisire maggiori capacità di adattamento ai cambiamenti che si stanno verificando sia in ambiente lavorativo che sociale.
Alla base della inner direction vi è l'acquisizione del senso critico. Di fronte a una società pervasiva è necessario prendere coscienza di sé e imparare a selezionare le informazioni con le proprie capacità personali, cercando di far propri gli elementi positivi che si colgono dall'esterno, affinché possano divenire un bagaglio utile per destreggiarsi più facilmente nei problemi di tutti i giorni.
Guido Lazzarini
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Condividiamo l’idea diffusa che tutto è vano e non serve darsi delle mete?
• Quale posizione abbiamo nei confronti del lavoro autonomo?
• Quale progetto di vita abbiamo? In quale misura siamo riusciti a realizzarlo?
• Cosa facciamo per aiutare i nostri figli a sviluppare il senso critico?
14-EDUCAZIONE E FEDE
Ogni fase della vita richiede un approccio diverso alla fede.
Quando i figli sono piccoli il compito educativo è dei genitori, come ci suggerisce mons. Elio Tinti.
Quando crescono tocca agli educatori, serve gente alla don Milani.
Quando siamo adulti tocca a noi non dare la fede per scontata perché in ciascuno in di noi c’è un credente e un non credente: parola di Carlo Maria Martini.
Educate vostro figlio alla fede!
- Nel giorno del battesimo di vostro figlio, carissimi genitori, vi è stato richiamato il dovere di educarlo nella fede, sviluppando i germi di grazia ricevuti nel battesimo. Vi è stata consegnata una candela, segno della vostra fede, fiamma che voi genitori dovete alimentare.
- Al battesimo del vostro figlio, in genere è sempre preceduto il vostro matrimonio in Chiesa, in una apertura piena della vostra vita al Signore e volendo vivere ogni giorno, voi e i vostri figli, alla sua presenza e nella sua grazia.
- È allora conseguente e doveroso che voi, papà e mamme, insegnate al vostro bambino che in casa c’è Lui, il Signore, insieme a voi e che Lui è sempre presente e ricco di grazia e di amore; e insegnate anche a parlare con Dio come ad un papà, con le vostre parole, ogni mattina, ogni sera, prima dei pasti, nella Messa domenicale, perché la salute, la vita, l’affetto, il pane, il lavoro, l’andare d’accordo sono doni del Signore e noi gli chiediamo di assicurarceli, ricordando che le preghiere imparate da piccolo, non solo non si scordano, ma ci aiutano a sentirci Lui accanto.
- Quanti adulti continuano a dire le preghiere imparate da piccoli, dalla propria mamma! Fate capire come sia importante insegnare a vostro figlio non tanto delle formule, ma la bellezza e l’importanza dell’intrattenerci con il Signore in vari momenti della giornata, da piccoli, da ragazzi, da giovani e da grandi; eventualmente anche con una pagina del Vangelo ogni sera per conoscere Gesù e quello che Lui dice e ci raccomanda.
- Carissimi genitori, fate attenzione a presentare un Dio autentico, quello che Lui è, un Dio che è Papà, che mi ama e sempre mi accompagna e vuole solo il mio bene, nonostante il male che tanti compiono e che è comunque presente nel mondo. Non dite mai e non vi scappi mai detto “Non fare questo e non fare così, perché Dio ti punisce e ti castiga!”. È un Dio deformato, cui purtroppo tanti credono e di cui hanno paura!
- Fate e chiedete molta attenzione ai segni: l’acqua benedetta, che purifica; il Tabernacolo dove c’è Gesù; le immagini della Madonna e dei Santi; il Crocifisso con tutta la ricchezza di significato di amore e condivisione che contiene; le candele ecc.
- Collaborate pienamente con la Parrocchia, con i catechisti e gli educatori, perché se non c’è il vostro coinvolgimento e la vostra collaborazione, a poco valgono i momenti formativi e il catechismo della parrocchia.
- Insegnate a vostro figlio a scegliere le giuste compagnie, e vigilate con discrezione e costanza.
- Non meravigliatevi se vostro figlio nell’adolescenza non vuole più andare a Messa! Non obbligatelo, ma dategli l’esempio con dolcezza pronti a fargli capire la bellezza e la necessità della Messa domenicale, facendovi aiutare da un bravo sacerdote che abbia la fiducia del vostro figlio. La fede e la pratica religiosa non le si può imporre, ma le si propone dando l’esempio.
- Davanti ad un fallimento matrimoniale di vostro figlio, fate tutto ciò che umanamente è possibile col dialogo, con il Consultorio cristiano, con un bravo sacerdote, offrendo tutta la sofferenza e il dramma al Signore, mettetelo nelle sue mani con la preghiera e con l’offerta del vostro dolore.
- Pregate per vostro figlio, perché il Signore crei in lui la dolce consapevolezza di non essere mai solo, ma sempre sotto la custodia di un Dio che è Padre che lo ama e lo guida nel cammino della vita.
+ Elio Tinti, già vescovo di Carpi (1)
La scuola popolare
Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto a scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, sono io che l'ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Sono loro che hanno fatto di me quel prete dal quale vanno volentieri a scuola, del quale si fidano più che dei loro capi politici. Io non ero così e perciò non potrò mai dimenticare quello che ho avuto da loro.
Ed ecco toccato il tasto più dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quel che si ha. Ma quando si sa, il dare vien da sé, senza neanche cercarlo. Quando si ha idee chiare e un progetto preciso di costruire uomini capaci di affrontare vittoriosamente la lotta sociale, allora ha questa dignità persino la parola che spiega un po' di aritmetica.
In 7 anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina. E neanche mi sono preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto che diventassero loro. A avere io un pensiero impregnato di religione.
Quando ci si affanna a cercare apposta l'occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare.
Ma quando questa occasione non si cerca, purché si faccia scuola e scuola severa, si presenterà da sé, sarà anzi sempre presente e nei modi più impensati e meno coscienti. Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.
Lorenzo Milani (2)
Credente e non credente
Mi sento spinto alla teologia come essere pensante, per dare senso alle mie domande che sono molte. Come stanno insieme i dolori e le gioie della vita? Come si conciliano le gioie autentiche di questo mondo con le prospettive della morte? Perché, se è vero che Dio ci ha salvato, non ci ha liberato dalla necessità di morire? E, dietro la morte, tutti i dolori e le angosce dell'esistenza umana: perché?
Da queste domande nasce il pensante come credente, come colui che ha bisogno della teologia per essere aiutato a pensare. E notate: il pensare ancora prima di essere credente, perché ogni pensante, anche non credente, si pone tante domande e cerca chi gli possa rispondere.
Sono interessato alla teologia nel pormi come credente di fronte al non credente che è in me. In ciascuno di noi c'è un credente e un non credente, in colui che alla fine si decide a credere, il credente ha la voce più alta, ma la voce del non credente continua a farsi sentire. È allora necessario andare a fondo, sostenere, chiarire, nutrire il proprio credere.
Infine, mi colloco davanti alla teologia per essere credente e pensante. Non basta essere giunti alla fede, credere, accettare i misteri di Dio e la sua rivelazione; occorre quotidianamente cercare di comprendere il senso globale e l'ordine di quanto accade intorno a me, che in maniera rivelata può essere chiamato “il disegno di Dio”, e che faccio molta fatica a capire. Ho bisogno di essere aiutato a capire perché ciò che accade è disegno di Dio, in quale modo fa parte di un piano di salvezza.
Oltre a queste tre ragioni, ritengo ci sia una quarta ragione ed è la forza ultima e più vera che spinge me e ogni battezzato alla teologia. Potrei chiamarla al di là della teologia, la tensione verso il termine di essa, che muove l'intelligenza a una contemplazione più degna e riverente del mistero.
Questa forza cerca il Dio vivente, il Dio amico, il Dio fattosi vicino all'uomo, il Dio crocifisso, il Dio nascosto sotto i veli eucaristici, abisso di verità e di bellezza.
C'è quindi un al di qua della teologia, che è la pazienza della ricerca e dell'ascolto da parte del discente; c'è un al di là della teologia che è il silenzio adorante.
+ Carlo Maria Martini (3)
(1) Tratto da: Alcuni suggerimenti per educare i figli, 2010.
(2) Tratto da: Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, 1954.
(3) Tratto da: Al di qua e al di là della teologia, in: Un invito alla teologia, Glossa, Milano 1998.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come i nostri figli/nipoti colgono in casa nostra la presenza di Dio?
• Quanto imponiamo e quanto promuoviamo la pratica religiosa?
• Quanto servono i discorsi pii e quanto la testimonianza?
• Di fronte alle prove della vita quanto il credente che è in noi va in crisi? Come e dove cerchiamo le risposte per conservare la fede?
15-QUALE EDUCAZIONE?
L’attenzione alla dimensione “sociale”
Gli autori non hanno figli ma hanno alle loro spalle anni di servizio e di progetti in Nicaragua. Questo impegno è nato dalla loro passione per i viaggi, unita al desiderio di conoscere il mondo nella sua realtà.
Ma presto sono resi conto che la povertà e la miseria segnano una grande parte dell’umanità e la loro coscienza - e conoscenza - li ha portati ad impegnarsi concretamente.
di Gloria e Dino Verderio
Quale educazione serve
Nella coscienza condivisa, ai suoi diversi livelli, oggi sembra smarrita non solo la pratica felice di processi educativi, bensì l'idea stessa di educazione.
Progetto culturale CEI
In base alla nostra esperienza, il mondo della scuola è sovente avulso dalla realtà. I giovani non sono educati alla vita reale e soprattutto non vengono preparati a diventare adulti responsabili. Inoltre, la scuola presta poca attenzione alle effettive capacità dell’alunno.
Una volta si parlava di pedagogia, noi ricordiamo quella rustica ma di grande valore umano ed educativo di don Milani. L'educazione utile deve essere legata alle radici culturali e storiche dell’umanità, alla capacità di lettura del presente per poter vivere un futuro condiviso e intelligente.
Crediamo infine che il sapere derivi dall’esperienza, pertanto, pensiamo che i giovani debbano studiare ma anche lavorare e fare ricerca sul campo, perché solo così si fa esperienza.
Educazione e famiglia
La specificità della crisi attuale della famiglia riguarda la grave e generalizzata difficoltà di dar vita e mantenere vive nel tempo relazioni familiari stabili che siano generative.
Progetto culturale CEI
L’instabilità delle relazioni coniugali può avere molti e diversi motivi, ma noi ne individuiamo uno sugli altri, il fatto che ognuno tende a vivere per sé ed è svanito il senso di collettività/comunità come quello di responsabilità/condivisione. In parecchi casi, i figli sono il prodotto di coppie unite formalmente ma separate nella vita reale.
Educare in famiglia significa, invece, saper ascoltare l'altro (moglie-marito-figli) e l'autorità deve essere non repressiva ma basata sul discernimento costante.
Tuttavia noi, in base alla nostra esperienza in Italia, in Nicaragua e altrove, siamo ottimisti perché la ragione, il bene, la solidarietà, l'amicizia, la disponibilità, non sono morte, anche se faticano a rendersi visibili.
Non dimentichiamo mai che la famiglia si colloca all’interno della più grande Famiglia Umana.
Educazione e figli
Se il figlio fin da piccolo viene educato prevalentemente al consumo e al divertimento, sarà poi molto difficile che formi le capacità e soprattutto le motivazioni per farsi carico di un piano di vita responsabile.
Progetto culturale CEI
Troppe famiglie pensano che ai figli non bisogna far fare la vita carica di sacrifici che hanno fatto loro e magari continuano a fare, quindi permettono ai figli tutto, senza discernere tra ciò che è utile e il futile per la loro educazione.
La nostra esperienza, in base alle attività che svolgiamo, ci dice che nel rapporto genitori-figli alla base vi sia l'ascolto, poi viene l'amicizia, il vivere tempo assieme, senza pretendere dai figli docilità ma suscitando sane “inquietudini”. Meglio figli un po' ribelli ma pronti ad essere altruisti, ad essere “ricercatori” di bene piuttosto che degli eterni svogliati.
Non dimentichiamo poi che i nostri figli, una volta usciti di casa, vengono plasmati dal dio mercato, che vuole fare di loro solo dei consumisti.
Sotto questo aspetto, il tempo dell’adolescenza è il più critico, perché il mondo virtuale offre ai giovani un continuo e abbondante programma di evanescenza, stupidità e pericoli.
Crediamo, infine, che sia molto utile far conoscere ai figli e, quando possibile, far toccare loro con mano le situazioni di povertà e miseria, le conseguenze delle guerre, le fatiche del lavoro.
Educazione e scuola
I giovani desiderano essere ascoltati dagli adulti, di incontrare persone prima silenti e attente che parlanti; in secondo luogo desiderano confrontarsi con qualcuno che essi sentano alla ricerca della verità.
Alessandro D'Avenia
Da anni teniamo lezioni in alcune scuole su temi quali costituzione/lavoro, guerra/pace, sviluppo/sottosviluppo, uomo/natura etc... e possiamo affermare che gli insegnanti su questi temi spesso non sono preparati.
Quante volte abbiamo sentito dire dagli studenti: “ma di queste cose che ci avete detto nella nostra scuola non si parla, eppure sono interessanti!”.
Ci sono studenti che si annoiano per mancanza di motivazioni e interesse sulle lezioni che ascoltano, che trovano senza anima e spina dorsale.
Così scriveva Paulo Freire: “qualsiasi cosa si insegni ai giovani, deve essere fatto con convinzione che sia utile a loro”. La scuola, come la famiglia, dovrebbe essere una “fucina che forma uomini e donne”.
Oggi, poi, è anche importante formare giovani aperti alla realtà interculturale che li circonda, capaci di difendersi dai seminatori di odio.
Le caratteristiche dell'educazione
Contrariamente all'opinione diffusa, lo sviluppo delle attitudini generali della mente permette un migliore sviluppo delle competenze particolari o specializzate.
Edgar Morin
Siamo pienamente d’accordo. L'educazione fatta di sole nozioni è asfittica, porta gli studenti a prepararsi solo per passare l'esame.
La scuola migliore è quella che sa educare con diverse attività sociali e formative nel programma; va fatta non solo nelle aule, ma anche uscendo dalla scuola per conoscere il territorio, le associazioni impegnate in vari campi sociali, visitando luoghi di lavoro, ascoltando le narrazioni degli anziani.
Un’educazione sana dovrebbe far conoscere e studiare la realtà al di fuori della scuola in termini di: cultura, economia, lavoro, socialità.
Riteniamo che l'educazione debba essere anche globale, nel senso che i ragazzi debbano conoscere le vicende di questo mondo globale e incamminarsi verso la maturità con cognizione di causa.
Una educazione che vale, scriveva Danilo Dolci non deve “trasmettere ma comunicare”.
Educazione e fede
Ogni essere pensante, anche non credente, si pone tante domande e cerca chi gli possa rispondere.
Carlo Maria Martini
Oggi, forse, il problema non è solo credere o non credere in Dio, poiché tutti siamo portati a pensare e a porci tanti perché sulla vita umana. In fondo possiamo dire che siamo tutti credenti in qualche cosa.
Pensiamo che molti confondano il concetto di fede, non leggano Vangelo e Bibbia, ma aderiscano alla religione senza porsi domande. La fede, invece, come diceva il card. Martini, deve essere alimentata.
Educare alla fede non deve essere una lotta tra chi è credente e chi no, o tra religioni e fedi diverse. Crediamo che educare alla fede debba essere una ricerca continua della verità e una disponibilità al confronto, allo studio, alla disponibilità verso gli altri.
La fede si deve vivere con azioni sociali in favore del bene comune, dei poveri e degli oppressi.
Il Vescovo emerito di Sao Felix Pedro Casaldaliga, con cui abbiamo vissuto un seminario di studio in El Salvador, diceva che molti cattolici pensano che la fede sia la sola messa la domenica e la monetina messa nella borsa del sacrestano quando passa per le offerte.
No, la fede deve essere vissuta ogni giorno con atti concreti, richiede testimonianza.
La fede non è qualche cosa di astratto, è forza propulsiva per vivere positivamente in una società sempre più senza anima.
dino.nica@gmail.com
Uomini e donne nella bibbia
16-GESÙ, NOSTRO MAESTRO
Lo stile educativo del Signore
Una delle prime pagine del Vangelo secondo Giovanni ci aiuta a ritrovare alcuni tratti essenziali della relazione educativa tra Gesù e i suoi discepoli, fondata sull’atteggiamento di amore di Gesù e vissuta nella fedeltà di chi accetta di stare con lui (cfr Mc 3,14) e di mettersi alla sua sequela.
Giovanni Battista posa il suo sguardo su Gesù che passa e lo indica ai suoi discepoli.
Due di loro, avendo udito la testimonianza del Battista, si mettono alla sequela di Gesù. A questo punto, è lui a volgersi indietro e a prendere l’iniziativa del dialogo con una domanda, che è la prima parola che l’evangelista pone sulle labbra del Signore.
“Che cosa cercate?” (1,38): suscitare e riconoscere un desiderio.
La domanda di Gesù è una prima chiamata che incoraggia a interrogarsi sul significato autentico della propria ricerca.
È la domanda che Gesù rivolge a chiunque desideri stabilire un rapporto con lui: è una “pro-vocazione” a chiarire a se stessi cosa si stia cercando davvero nella vita, a discernere ciò di cui si sente la mancanza, a scoprire cosa stia realmente a cuore.
Dalla domanda traspare l’atteggiamento educativo di Gesù: egli è il Maestro che fa appello alla libertà e a ciò che di più autentico abita nel cuore, facendone emergere il desiderio inespresso.
In risposta, i due discepoli gli domandano a loro volta: “Maestro, dove dimori?”. Mostrano di essere affascinati dalla persona di Gesù, interessati a lui e alla bellezza della sua proposta di vita. Prende avvio, così, una relazione profonda e stabile con Gesù, racchiusa nel verbo “dimorare”.
“Venite e vedrete” (1,39): il coraggio della proposta.
Dopo una successione di domande, giunge la proposta. Gesù rivolge un invito esplicito (“venite”), a cui associa una promessa (“vedrete”).
Ci mostra, così, che per stabilire un rapporto educativo occorre un incontro che susciti una relazione personale: non si tratta di trasmettere nozioni astratte, ma di offrire un’esperienza da condividere.
I due discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo Rabbì, cioè maestro: è un chiaro segnale della loro intenzione di entrare in relazione con qualcuno che possa guidarli e faccia fiorire la vita.
“Rimasero con lui” (1,39): accettare la sfida.
Accettando l’invito di Gesù, i discepoli si mettono in gioco decidendo d’investire tutto se stessi nella sua proposta. Dall’esempio di Gesù apprendiamo che la relazione educativa esige pazienza, gradualità, reciprocità distesa nel tempo.
Non è fatta di esperienze occasionali e di gratificazioni istantanee. Ha bisogno di stabilità, progettualità coraggiosa, impegno duraturo.
“Signore, da chi andremo?” (6,68): perseverare nell’impresa.
L’itinerario educativo dei discepoli di Gesù ci conduce a Cafarnao (cfr 6,1-71). Dopo aver ascoltato le sue parole esigenti, molti si erano scoraggiati e non erano più disposti a seguirlo.
Il loro abbandono suscita la reazione di Gesù, che pone ai Dodici una domanda sferzante: “Volete andarvene anche voi?” (6, 67).
I discepoli misurano così il prezzo della scelta. La relazione con Gesù non può continuare per inerzia. Ha, invece, bisogno di una rinnovata decisione, come dichiara pubblicamente Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (6, 68-69).
Egli solo ha parole che rendono la vita degna di essere vissuta.
Tratto da: Educare alla vita buona del vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 25.
17-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Franco Garelli,
Educazione, il Mulino, Bologna 2017.
L’autore, noto sociologo, affronta in modo garbato e costruttivo il tema
dell’educazione oggi.
Non tralascia di segnalare i punti critici che contrassegnano questo argomento ma le sue conclusioni evitano le drammatizzazioni e mostrano un cauto ottimismo.
Di fronte al tema dell’emergenza educativa Garelli preferisce la parola sfida.
Rifiuta, basandosi sulla sua esperienza di professore universitario, di definire i giovani come “generazione nichilista”, anche se il loro modello di vita è oggi policentrico, quando non eccentrico. Per quanto riguarda la famiglia sottolinea che questa non rinuncia - seppure in modo contradditorio - alle sue responsabilità educative, mentre la scuola continua, nonostante le sue oggettive difficoltà, a godere della fiducia degli utenti.
In conclusione, un libro da leggere.
Michele De Beni,
Educare. La sfida e il coraggio, Città Nuova Editrice, Roma 2010.
Lo sguardo dell’autore, psicoterapeuta e pedagogista, nei confronti del tema
dell’educazione è quello del credente.
Scrive infatti De Beni: “la ricerca della verità, del bene, del bello deve riproporsi nella sua irrinunciabile centralità educativa. Sono valori che, soprattutto oggi, dobbiamo avere il coraggio di rimettere al centro dei nostri dibattiti e stili di vita e devono essere alla base di ogni riforma della scuola”.
In quest’ottica l’attenzione dell’autore si concentra su una “pedagogia della relazionalità, di comunione, di una scelta esistenziale protesa a essere con l'altro ma soprattutto per l'altro” senza trascurare l’importanza dell’imparare a pensare.
Si tratta di un testo rivolto agli insegnanti e agli educatori in generale, ma che può anche essere molto utile alle famiglie.
Comitato per il progetto culturale della CEI,
La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari 2009.
Conferenza Episcopale Italiana,
Educare alla vita buona del Vangelo, Edizioni Paoline, Milano 2010.
La lettura di questi documenti ci fa cogliere bene il cambiamento di
prospettiva introdotto dal pontificato di papa Francesco.
Il primo testo è uno studio corposo e articolato sul tema dell’educazione. Si parla di famiglia, scuola, ma anche di lavoro, impresa, consumo, mass media, ecc.
Purtroppo su diversi temi prevale una lettura orientata al pessimismo.
Il secondo documento risulta invece più equilibrato ma inevitabilmente meno approfondito.
Edgar Morin,
I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2001.
L’autore è filosofo e sociologo ed è noto per il suo approccio
transdisciplinare alle tematiche che affronta.
Da questo testo abbiamo tratto solo una breve citazione ma l’approccio con cui affronta il tema dell’educazione è così ampio che ci ha notevolmente stimolato e ci ha aperto sbocchi per trattare anche altre tematiche (immigrazione, diritti e doveri, ecc.).
A parte i primi due capitoli, un po’ ostici, il libro è leggibile ed è senz’altro da leggere.
L’idea di fondo dell’autore è che oggi serve avere una “testa ben fatta”, perché è finita l’epoca in cui era utile una “testa ben piena”: il mondo è segnato da una trasformazione così veloce che le nozioni invecchiano rapidamente; ciò che serve è la capacità di “imparare ad imparare”.
Andrea Bozzolo - Roberto Carelli (a cura di),
Evangelizzazione e educazione, Editrice LAS, Roma 2011.
Guido Lazzarini,
Un protagonismo da costruire, Franco Angeli Editore, 2003.
Si tratta di due libri specialistici: il primo ha un taglio pedagogico, il secondo sociologico.
Abbiamo utilizzato nel numero quelle parti dei testi che più si prestavano al tema proposto.
Il testo di Lazzarini non parla direttamente di educazione ma del lavoro, un tema su cui molti sono ancora legati al discorso del “posto fisso” mentre la realtà sociale è estremamente diversa.
Già nel 2003 l’autore prefigurava scenari che oggi hanno ben più ampia portata e diffusione.
18-CAMPI ESTIVI 2017
Un’estate di belle esperienze per le famiglie
Valle di Cadore 5-12 agosto
A Valle di Cadore abbiamo vissuto una bella esperienza di formazione per famiglie sul tema del perdono aiutati da suor Fabiola Dall'Agnol e con l’aiuto di don Daniele Vettor.
Certo, il tema del perdono ritorna spesso nella formazione di adulti e famiglie, visto che Papa Francesco lo ha messo tra le parole chiave per la vita di un cristiano e più volte ne ha parlato nei suoi interventi, ma affrontarlo in maniera più estesa all’interno di una settimana estiva e sentirlo calato nella realtà della vita familiare è stata davvero una bella possibilità.
Il costante riferimento alla Parola di Dio presente nelle proposte di suor Fabiola ci ha fatto riscoprire la bellezza di un Dio che parla davvero della e alla nostra vita, conoscendo le nostre forze e le nostre debolezze, le nostre risorse e i nostri limiti.
Don Daniele ci ha aiutato a guardare la nostra esperienza di famiglia con occhi nuovi, leggendo tra le righe della quotidianità i tanti aspetti sui quali possiamo riflettere per essere ogni giorno dei cristiani nuovi.
Nell’intensa settimana vissuta insieme a tante belle famiglie ogni giornata ci ha preparato, davanti all’altare della nostra bella chiesetta, una “perla-dono”, bianca del bene, gialla della gioia, rossa dell’amore, verde della vita, blu della riconciliazione che i nostri figli più piccoli ci mostravano aprendo giorno dopo giorno le conchiglie.
Naturalmente c’è stata anche una giornata dedicata tutta allo stare insieme e ad ammirare le bellezze della natura che ci circonda e che Dio ci ha donato. Affrontare il tema del perdono calato nell’ambito familiare è stato impegnativo e importante; è proprio dove le relazioni sono più strette e forti che possono emergere delle divergenze e delle incomprensioni, soprattutto tra gli sposi e nell’ambito dell’educazione e della testimonianza ai figli. Vivere il perdono è una strada da percorrere in molte direzioni, verso gli altri ma anche verso se stessi e naturalmente verso Dio.
Alessandra e Massimo Bonato
Bessen Haut 13-20 agosto
Siamo una famiglia con tre figli di 14, 11 e 7 anni alla sua prima esperienza di un campo famiglia.
Siamo arrivati a Bessen Haut invitati da un altra famiglia, veterani ormai dei campi famiglia, anche se eravamo non troppo convinti (i figli grandi in particolare…), parecchio stanchi (mamma e papà soprattutto…), ma anche curiosi di questa esperienza (la figlia piccola innanzitutto) che non avevamo mai sperimentato in questa versione.
Il tema del campo poteva a prima vista spaventare un po’: “Storie d’amore nella Bibbia: quando le coppie incontrano il progetto di Dio”, ma Luca e Ileana Carando, responsabili della Pastorale Familiare della Diocesi di Torino, ci hanno accompagnato, con uno speciale mix di serietà e leggerezza, in un percorso di approfondimento che, a partire dalla riscoperta di alcune coppie bibliche, si è calato nella concreta quotidianità della vita di ciascuno di noi, proponendo letture e riflessioni puntuali, profonde, spirituali e psicologiche, che hanno stimolato il confronto prima di coppia e poi in gruppo, riuscendo a rendere intenso e piacevole anche un tema così arduo e a “sdoganare” spiritualità e sessualità in un connubio perfetto che avvicina la coppia a Dio.
Anche i bambini e i ragazzi hanno potuto apprezzare, oltre ai giochi e ai laboratori creativi, la proposta di un “catechismo su misura” sui temi che mamma e papà stavano affrontando e che durante la Messa quotidiana venivano raccontati ed esposti creando uno speciale clima di condivisione spirituale familiare. Un grazie particolare va a Laura e Cristiano che hanno preparato e seguito gli animatori in questo percorso, stimolando creatività e interesse anche tra i figli - preadolescenti e adolescenti - più ostici alla proposta.
Ci hanno accompagnato, alternandosi, alcuni sacerdoti e ben due Vescovi a cui dobbiamo un grazie per l’attenzione mostrata alla formazione spirituale della famiglia e dei giovani.
L’accoglienza calorosa, l’organizzazione perfetta di Corrado e Nicoletta, l’animazione entusiasta, gli interventi dei relatori intensi e stimolanti, la preghiera semplice e la liturgia quotidiana su misura, il clima conviviale e al tempo stesso profondo, e, non ultima… la cucina super di Sergio e Graziella, hanno reso questa esperienza indimenticabile anche per chi, come noi, era partito un po’ pigro e diffidente. Lasciarsi coinvolgere dall’entusiasmo è stato più facile del previsto e straordinariamente arricchente per cui ci sentiamo di consigliare questa proposta di campo famiglia a tutti coloro che, travolti dalla fatica quotidiana della routine familiare e lavorativa come noi, vogliono ricaricarsi e fare il pieno di positività.
La rimpatriata dello scorso 5 novembre è stata una piacevole occasione per rivedersi tra amici, genitori e figli, condividere la S. Messa, riascoltare Luca e Ileana, riapprezzare la pastasciutta di Sergio e le prelibatezze portate da casa, giocare ancora insieme e darsi appuntamento a Bessen Haut 2018!
famiglia Balbis
Voltago Agordino 20-27 agosto
Anche quest’anno abbiamo organizzato la settimana estiva a Voltago Agordino. Il tema era molto invitante: “La felicità che si nutre di speranza”.
La nostra relatrice, Gabriella Del Signore, (nostra, perché da alcuni anni ci accompagna in queste settimane), ci ha guidato all’interno della Bibbia, alla ricerca della speranza. La stessa speranza che ha sostenuto Abramo ad uscire dalla sua terra per realizzare il progetto che Dio aveva su di lui, quello di una discendenza pari alle stelle del cielo.
Anche noi una sera, abbiamo spento le luci della casa e siamo usciti nel prato a mirare le stelle. Abbiamo cercato di contarle, ma non ci siamo riusciti. Grazie all’astrolabio che gli animatori avevano costruito nel pomeriggio con i ragazzi, siamo riusciti ad individuare l’orsa maggiore, l’orsa minore e altre costellazioni. È stata una piacevole e interessante serata.
Un bel gruppo di animatori ha accompagnato il percorso dei bambini e dei ragazzi e ha reso vivaci e allegre le serate. Un grazie a don Sandro, che si è affiancato a noi famiglie accompagnandoci in questa settimana.
La riuscita della settimana è stata positiva grazie all’impegno e alla collaborazione di tutte le coppie. Il bel tempo ci ha accompagnato per tutta la settimana, specialmente nelle due uscite.
Molte altre cose ci sarebbero da raccontare, vi invitiamo a scoprirle nella poesia di Giacinto Bruschi. Ringraziamo il Signore per questo tempo passato tra famiglie, dono e risorsa per un continuo cammino insieme.
Fiorenza e Antonio Bottero
PER APPROFONDIRE
Questo numero è stato realizzato sia attingendo ai libri riportati a pag. 25 che da altre fonti.
I link per un rapido accesso a queste ultime sono disponibili sul numero on-line della rivista, in rete a partire da fine gennaio.
19-PER CONCLUDERE
Quanti sono 15 anni?
Sono pochi o sono troppi?
Mi dicono che sono troppi
per giocare con i peluche,
per far tardi a scuola,
per la favola della buonanotte,
per piangere come una folle
quando un compito va male.
Eppure sono pochi, mi dicono.
Pochi per far tardi la sera,
pochi per uscire con quel ragazzo
che forse mi ha guardata
alla fermata della metro
- si chiama Federico,
ed è in III geometri.
Pochi per restare a dormire a casa di Eleonora
che può fare tutto quel che vuole
perché tanto i suoi sono separati.
Pochi per dire "oggi a messa non ci vado",
pochi per occupare la scuola
insieme ai miei compagni di classe.
Signore, a te ho sempre detto tutto
e ora vorrei che mi rispondessi
sincero sincero:
ma quanti sono i miei 15 anni?
Sono ancora una bambina
o sono abbastanza donna
per baciare il ragazzo che mi piace
(ma poi non so ancora se mi piace
e se io piaccio a lui…)
e fare le vacanze
senza mamma e papà?
Ho 15 anni, Signore,
e ti chiamo ancora “Gesù mio”,
ma vorrei sapere dove sei
quando non ti trovo.
Vorrei sapere perché permetti le guerre
e perché qualche volta sono triste
senza nessun motivo.
Oggi niente Avemaria.
Ho 15 anni e prego come mi va.
Non te la prendi vero?
Amen.
Bacio.
T.v.t.b.
Carmen L.
(Tratto dal gruppo Facebook: Hai un momento Dio?)
GF96 Extra
A-IL LICEO ITALIANO
In una recente conversazione con un gruppo di studenti, un giovane imprenditore torinese, che vive e lavora con successo negli Stati Uniti, ha messo in guardia dal sottovalutare le potenzialità della scuola superiore in Italia.
Il liceo italiano, se non verrà totalmente sfigurato, riesce ancora a trasmettere una certa visione globale, una formazione di base sia umanistica sia scientifica.
È una delle carte vincenti, che consentono agli italiani all’estero di essere ben considerati. E continuava: in un pranzo di lavoro non si parla di economia, ma di altro, arte, storia. Si impara a conoscersi, si consolidano le relazioni umane e la fiducia, e solo dopo si concludono affari. In conclusione, sottolineava la necessità di essere umili, per imparare da tutti e da tutto.
Gianluca Segre
B-HARDWARE E SOFTWARE
Credo di poter dire che nella nostra Università il punto è quello di educare alla conoscenza senza perdere di vista le competenze, chiedendo molto agli allievi ma anche mettendoli nella condizione di orientarsi in un mondo dove le grammatiche cambiano di continuo. Le competenze invecchiano rapidamente e vanno aggiornate, come fosse un software, ma è il sistema operativo delle conoscenze quello che serve a leggere il futuro, quello che ti consente di realizzare i progetti. E di vincere le partite. Anche di competere, certo, quando è necessario, ma senza farne una leggenda che non aiuta affatto i nostri ragazzi che si preparano al futuro. Perché il mondo è un po’ più complesso di una discesa sugli sci.
Roberto Cotroneo
C-TORQUATO TASSO
Per me è cominciato tutto con “Erminia tra i pastori”. Era il 1968, facevo la seconda media è il mio professore di lettere spiegava quel brano della “Gerusalemme liberata” dove si parla di Erminia che fugge tutta tremante, timida, sola, sul suo cavallo e miracolosamente arriva nell'universo incantato dei pastori, separato dal resto del mondo, avulso, lontano dalla guerra, estraneo agli intrighi di corte. Ero inebriata di quelle lezioni e correvo a casa a rileggermi i versi, e studiarli. Forse è lì che mi sono innamorata della letteratura e dello studio. Merito del Tasso o del mio professore che sapeva così bene fare lezione?
Paola Mastrocola
D-BELLO, BUONO, VERO
In che modo Leopardi, la termodinamica, la tavola periodica, la fotosintesi, le disequazioni, Kant, la guerra del Peloponneso sono interessanti? Nella misura in cui mi aiutano a crescere, cioè se sono soggetti attivi nella vita interiore dell’insegnante, che mostra durante la lezione in che modo quell’argomento non sia un oggetto del programma quantificabile in una valutazione, ma un pezzo (bello, buono, vero) di mondo, necessario a orientarsi nella realtà di se stessi e di ciò che ci circonda.
Alessandro D’Avenia
E-LAUREARSI CONVIENE
Un problema ormai centrale per il futuro del nostro Paese è senza dubbio quello dell’università e della ricerca scientifica.
Il primo aspetto notevole è che il sistema universitario italiano si è ridotto di circa un quinto rispetto al 2008.
L’Europa si è data l’obiettivo nel 2020 di avere il 40 per cento di giovani laureati. L’Italia nel 2014 è al 23,9%: questo la colloca all’ultimo posto tra i 28 Paesi della Unione europea.
Eppure studiare "paga", ha spiegato Alessia Tripodi sul Sole24Ore.
Mettendo in rapporto i primi stipendi annui dei neolaureati con la spesa totale sostenuta dalle famiglie, si può misurare il "ritorno" economico dell’investimento in istruzione, che sembra notevole. I numeri dicono che, a fronte di un costo totale di 31.750 euro per una laurea quinquennale e di uno stipendio medio annuo di 16.800 euro, il tasso di rendimento che ne risulta è pari al 53%.
Antonio Denanni