Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF97 – marzo 2018
IMMIGRATI:

la famiglia, valore comune

 

Lettere alla rivista

1-COSTRUIRE PONTI, NON MURI

L’identità cristiana è un’ “identità ospitale”

 

Papa Francesco parla sovente di "costruire ponti, non muri". Dobbiamo quindi accogliere tutti, indiscriminatamente?

Carlo

 

Risponde mons. Giancarlo Grandis, Docente di Teologia Morale del Matrimonio

 

Il problema degli sbarchi nel nostro paese di tanta gente che scappa dalle proprie terre, o per motivi di guerra o economici o quant’altro, sta creando uno scontro tra coloro che sono per l’accoglienza, certamente regolamentata, e coloro che la avversano.

La domanda, pur riferendosi a una questione di urgente attualità, permette di fare una breve riflessione sul tema più generale dell’ospitalità, come questione centrale del nostro essere persone, che possono realizzare la propria umanità solo aprendosi agli altri.

In questo senso possiamo comprendere ciò che sta dietro all’affermazione di papa Francesco che invita a non costruire muri attorno a sé, perché minacciati nella nostra identità e nella nostra cultura, ma ponti verso gli altri, accettando e affrontando tutti i rischi che questo comporta e che non devono essere certamente sottovalutati.

Non possiamo quindi abbassare lo sguardo di fronte allo straniero ma fissarne il volto per vedere in esso un altro me stesso, una persona come me, addirittura, come afferma il messaggio cristiano, un fratello, perché tutti siamo figli di uno stesso Dio Padre.

Gli antichi ritenevano l’ospitalità non soltanto come qualcosa di doveroso a motivo della comune umanità, ma anche di religioso perché ritenevano che sotto le sembianze dello straniero si potesse nascondere il volto stesso di Dio.

Nella rivelazione cristiana, l’ospitalità “senza ma e senza se” fa parte del fondamentale e fondativo comandamento della carità, il cui mistero Gesù rivelerà alla fine dei tempi.

L’ospitalità è quindi una componente fondamentale della nostra identità e anche della fede cristiana. Possiamo affermare che l’identità cristiana è un’ “identità ospitale”, con tutto ciò che questo comporta. Tale identità si traduce innanzitutto in un imperativo morale da tradurre poi nella concretezza della complessa situazione attuale.

Tornando a papa Francesco, egli ha affermato che “proteggere questi fratelli e sorelle è un imperativo morale da tradurre adottando strumenti giuridici chiari e pertinenti; compiendo scelte politiche giuste e lungimiranti; prediligendo processi costruttivi, forse più lenti, ai ritorni di consenso nell’immediato; attuando programmi tempestivi nella lotta contro i trafficanti di carne umana; coordinando gli sforzi di tutti gli attori, tra i quali, potete starne certi, ci sarà sempre la Chiesa” (discorso del 21/02/2017).

È questa la grande sfida che siamo chiamati oggi ad affrontare di fronte al problema delle migrazioni.

grandis.giancarlo@gmail.com

 

Dialogo in famiglia

2-IMPARARE A CAMBIARE MENTALITÀ

Oggi abbiamo in casa il mondo e le ricchezze di tante culture

 

Ci chiedono di accogliere gli immigrati e le loro famiglie.

Ma come è possibile mandare il proprio figlio in una scuola dove ci sono più stranieri che italiani?

Carlotta

 

Gli insegnanti hanno bisogno di un bagaglio culturale e di competenze superiori e diverse da quelli del passato: finora siamo vissuti in un Paese con un’unica cultura, oggi abbiamo in casa il mondo.

Ogni insegnante è un mediatore interculturale che valorizza l’apporto di tutti e ogni scolaro scopre lingue, usanze, abitudini diverse dalla proprie che fanno emergere le ricchezze di tutti: è come se viaggiasse e si sa quanto il viaggio sia formativo!

Mi rendo conto che, per i genitori, non sia facile cambiare mentalità e liberarsi dal timore che i figli non imparino a “scrivere e far di conto” perché l’insegnante deve dedicarsi anche a chi non sa una parola d’italiano, ma soprattutto dal credere i propri figli dei geni frustrati se sono un po’ rallentati nelle competenze che erano importanti per noi, dal proteggerli e difenderli ad ogni costo, in un’assurda lotta con gli insegnanti.

Recenti ricerche effettuate da varie Università italiane risulta che, nelle scuole di secondo grado, gli studenti stranieri si impegnano molto più degli italiani, spesso svogliati e che vivono la scuola come un obbligo, mentre per gli “altri” è la via del riscatto e spesso sono non solo i migliori, ma quelli che permettono al “gruppo classe” di lavorare con profitto.

Anna Lazzarini

 

Editoriale
3-LA FAMIGLIA IMMIGRATA

Nell’esperienza migratoria, la famiglia emerge come un valore comune e come un fondamentale fattore di integrazione sociale e culturale, che merita la massima attenzione.

 

di Franco Rosada

Il tema dell’immigrazione non è tra quelli che, come rivista, frequentiamo di più.

L’unico numero che abbiamo esplicitamente dedicato a questo tema risale al dicembre del 2009, un po’ di anni fa.

Quello fu un numero particolare, perché fu il primo che uscì a colori.

Avevamo, infatti, trovato delle foto molto significative ma l’autrice ci aveva richiesto, per poterle usare, di stamparle a colori.

Da quel numero facemmo il “grande passo”, da cui non siamo più tornati indietro.

Cosa è cambiato in questi nove anni?

Tutto e niente. Niente perché il fenomeno migratorio ha continuato ad interessare significativamente il nostro Paese anche se ora si manifesta in modo vistoso con i soccorsi in mare e con la presenza di immigrati in attesa di definizione della loro posizione in parecchi Comuni italiani; tutto perché ormai gli stranieri residenti in Italia sono oltre cinque milioni e, se questo dato resta stabile, è solo perché ogni anno duecentomila persone acquisiscono la nazionalità italiana.

 

Un altro elemento di novità, rispetto al 2009, è dato dagli studi sul tema.

Se allora la documentazione proveniva da realtà che si occupavano di terzo mondo, immigrazione e disagio, oggi questa è frutto di ricerche sociologiche e di un’attenzione generalizzata.

Il tema si è fatto più complesso e anche i contenuti di questo numero ne risentono, richiedendo un minimo di attenzione in più.

Oggi, come allora, abbiamo evitato di trattare gli elementi più divisivi che questo tema comporta.

L’unica incursione che ci siamo permessi di fare nell’attualità riguarda una riflessione molto ponderata sul tema dello ius soli.

Infine una curiosità: alcuni spunti sviluppati in questo numero attingono al numero precedente della rivista dedicato all’istruzione e alla formazione.

 

A pag. 27 numero troverete il calendario provvisorio dei campi estivi organizzati dall’associazione e da alcune realtà diocesane.

Come sapete, le spese dei campi sono in parte coperte con i contributi che provengono dal 5x1000.

Il raddoppio di quest’importo (vedi la rendicontazione sul numero 94 della rivista) ci ha un po’ spiazzato, anche perché l’anno scorso, a causa del terremoto in Italia centrale, non si è potuto organizzare il consueto campo estivo in Umbria.

Nella rendicontazione, quindi, parte del contributo è stato usato per coprire i costi di stampa e spedizione del numero 95 della rivista, dedicato a: Perdono e riconciliazione. Contiamo quest’anno di utilizzare completamente i contributi per il sostegno ai campi, coprendo le quote delle famiglie con problemi economici.

formazionefamiglia@libero.it

 

4-QUALE FRATERNITÀ

La visione dello sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità.

Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio osservava che le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale.

Egli ci invitava a ricercarle in altre dimensioni dell'uomo.

Nella volontà, prima di tutto, che spesso disattende i doveri della solidarietà. Nel pensiero, in secondo luogo, che non sempre sa orientare convenientemente il volere.

Per questo, nel perseguimento dello sviluppo, servono “uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d'un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso”.

Ma non è tutto. Il sottosviluppo ha una causa ancora più importante della carenza di pensiero: è “la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli”.

Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli?

La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità.

Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna.

Paolo VI, presentando i vari livelli del processo di sviluppo dell'uomo, poneva al vertice, dopo aver menzionato la fede, “l'unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.

Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.19

 

5-LA NOSTRA CULTURA, LE ALTRE CULTURE

Siamo stati educati con il mito di Roma, e abbiamo studiato Storia con una visione tutt’al più eurocentrica.

Ci troviamo ora di fronte ad altre culture, ad altre religioni, che conosciamo appena o per riflesso.

Se la presenza di diverse culture è ormai un dato di fatto, per costruire una società solidale serve misurarsi attivamente e positivamente con questa nuova realtà.

 

A cura della Redazione

 

Un po’ di storia

“La storia delle migrazioni in Italia inizia più di quarant’anni fa”, scrive il sociologo Enrico Pugliese (a). “I primi arrivi sono dei tunisini in Puglia e di donne provenienti dai paesi cattolici (sudamericani o africani) che lavorano come cameriere.

Nei primi anni ’80 c’è un cambiamento, legato all’arricchimento degli italiani.

È il periodo in cui nascono professioni come le colf o i venditori ambulanti, (che venivano chiamati ‘vu’ cumprà’’). Per tutti gli anni ’80 arrivano donne sudamericane, filippine e in generale dai paesi cattolici e del Corno d’Africa e i venditori ambulanti dal Senegal e Marocco.

I tunisini trovano casa in Sicilia, come pescatori, agricoltori e muratori. Mentre i primi migranti dall’Africa subsahariana andranno a lavorare nei campi. Ma si tratta di piccoli numeri.

Ovviamente, tutto cambia con la caduta del Muro. Nel corso dei primi anni ’90 il quadro cambia. Arrivano gli albanesi e i primi, sparutissimi, dall’est Europa. Poi, dalla fine del decennio l’immigrazione si cristianizza e de-islamizza. Cominciano a comparire i primi romeni che poi negli anni Duemila, con l’ingresso nell’Ue”, arriveranno molto numerosi.

Ai rumeni seguiranno gli ucraini e i moldavi, e nel censimento Istat del 2011, i cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia risulteranno costituiti da oltre due milioni di cristiani e da meno di un milione di musulmani (b).

 

Un paese multiculturale

A fine 2016 gli stranieri regolarmente residenti in Italia erano oltre cinque milioni, quindi oltre l’otto per cento della popolazione italiana.

Le nostre città, le nostre scuole, le nostre strade sono sempre più ‘colorate’: è un dato di fatto. Dire perciò che viviamo in una società multi-culturale è una constatazione evidente, come dire che le nostre città sono rese sempre più caotiche dal traffico. Negare questo è negare la realtà, è come chiudere gli occhi. Una realtà che può piacerci o meno, ma è una realtà (c).

La multicultura si esprime all'interno delle metropoli dando luogo, spesso, a un multiculturalismo ‘soft’.

I modi di vivere e le abitudini di consumo della parte abbiente ed istruita della popolazione vengono modificati da elementi provenienti dalle culture degli immigrati o, comunque, dalle subculture presenti nelle città. I quartieri arabi, i ristoranti cinesi (chi non c’è mai stato?), la musica reggae, sono alcuni esempi della multicultura urbana (d).

L’esperienza degli USA: da “crogiolo” a “insalatiera”

“La società statunitense è stata coinvolta dai problemi della multiculturalità molto prima della nostra e ha reagito in modi diversi nei vari momenti storici”, scrive Maurizio Disoteo (e).

“Nei primi anni del secolo scorso il modello vigente negli USA era quello del melting-pot, crogiolo, dove tutte le culture dovevano fondersi. Si pensava che la realtà americana fosse in grado di consentire a tutte le culture di unirsi per costruire le magnifiche sorti della ‘Repubblica degli uomini e del Regno di Dio’, dove tutti vanno per lavorare e guardare avanti.

Questo modello di società, basato sulla presunzione che il buon americano si costruisse dimenticando storia e identità degli immigrati si dimostrò ben presto tragicamente illusorio”.

“Negli ultimi anni, infatti, l’immagine che ci viene più frequentemente proposta per rappresentare la società americana è specularmente diversa”, continua Disoteo. “Si parla infatti di salad-bowl, vale a dire di insalatiera (etnica). Nell’insalata, infatti, anche se ricca di sapori e di ‘identità’ diverse, gli ingredienti restano ben distinguibili, ma soprattutto essi non si modificano per il solo fatto di essere giustapposti l’uno all’altro.

Questa metafora implica quindi che le diverse identità restino visibili, fatto indiscutibilmente positivo rispetto al modello melting-pot, ma anche che non trovino momenti di scambio, acculturazione, arricchimento reciproco”.

Altre esperienze

In altri paesi, come in Australia e in Svezia, paesi a forte immigrazione, il multiculturalismo ha ispirato una linea politica tendente ad assicurare la coesione sociale senza la pretesa di una omologazione culturale fra i diversi gruppi culturali ed etnici, ma riconoscendo e difendendo le pratiche culturali delle minoranze, superando così varie forme pre-esistenti di discriminazione.

Un altro volto del multiculturalismo si può trovare all’interno di diversi Paesi, dove sono presenti forti minoranze linguistiche e culturali. Un esempio in Europa è quello del Belgio che vede le comunità vallone e fiamminghe unite attraverso una forma di federalismo, in America è quello della regione del Quebec, in Canada, la cui lingua ufficiale è il francese (f).

Questo aspetto multiculturale è presente anche in Italia. I due esempi più noti sono rappresentati dalla Valle d’Aosta e dalla provincia di Bolzano: entrambe sono realtà non solo bilinguistiche ma che godono di una notevole autonomia rispetto allo Stato centrale.

 

Quale interculturalità?

La multiculturalità è un dato di fatto, che si limita a rilevare la presenza in un territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse. Trova la sua espressione più frequente nella creazione di nicchie etniche, di piccoli ghetti in cui ciascuna cultura continua a esistere (e spesso a cristallizzarsi) senza essere sottoposta al vivificante incontro con l’alterità. Ogni nazionalità, etnia, gruppo religioso continua a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza curarsi delle altre comunità; in questa situazione una parola chiave diventa la tolleranza: tutti possono fare ciò che vogliono finché non invadono lo spazio di un altro gruppo (e).

L’interculturalità, al contrario, oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze culturali come un valore.

Un atteggiamento interculturale riconosce il conflitto e non lo ignora: qualunque incontro tra culture diverse, qualunque migrazione hanno sempre suscitato conflitti che non vanno negati ma gestiti e risolti in modo pacifico (e).

 

Educare all’intercultura

La scuola è l’ambito in cui bambini di culture diverse vengono, volenti o nolenti, a contatto ed è qui che si gioca buona parte della partita sul futuro della nostra società.

Un insegnante attento ai cambiamenti non può non tener conto di questa nuova realtà.

Far conoscere gli altri paesi, le altre culture, far capire che la storia non è solo quella di Roma o dell'Occidente è certamente un movimento positivo verso la sprovincializzazione dei nostri percorsi didattici.

Ma quando la classe esprime, nel suo piccolo, una realtà multiculturale, questo non basta.

È importante la conoscenza delle altre culture ma, se si vuole fare un’educazione interculturale, questo deve avvenire a partire dagli allievi presenti in classe, tutti gli allievi, con una metodologia interattiva e di scambio continuo. È lavorare per superare le differenze individuali e giungere, dove è possibile, ad una sintesi. In quest’ottica, l'insegnante diventa un vero e proprio mediatore interculturale (c).

In questo campo la politica scolastica italiana ha intrapreso, non senza difficoltà, la strada dell’interculturalità, basata sul difficile tentativo di dare cittadinanza a tutte le diverse identità e culture ma anche sulla ricerca di processi di integrazione, acculturazione, trasformazione dinamica delle stesse, cultura italiana compresa (e).

 

Chi resiste all’intercultura: gli immigrati

Chi viene da noi non è particolarmente interessato a conservare la propria cultura, al massimo tende a conservare la propria religione e, finché gli riesce facile, conserva la propria lingua. Se i figli degli stranieri sono nati in Italia, tendono a non ricordare neppure la lingua dei propri genitori.

Prevale sovente nell’immigrato la vergogna di possedere una cultura inferiore, perdente, e quindi, a seconda dei casi, maturerà o la rassegnazione nei confronti delle culture dominanti o il risentimento che porta al rifiuto della diversità (g).

Gli immigrati non hanno voglia di parlare di queste cose: spesso non sono neppure capaci di farlo, non solo perché non conoscono la nostra lingua, ma anche perché non hanno le coordinate culturali per poterlo fare. E poi vogliono integrarsi velocemente, per poter lavorare in tutta tranquillità e spedire le rimesse in patria (g).

 

Chi resiste all’intercultura: noi

Se siamo abbienti, raramente ci chiediamo cosa rappresentino le "culture altre", diverse dalla nostra.

Non ce lo chiediamo perché siamo convinti che la nostra cultura, che è quella industriale, capitalistica, in generale "occidentale", sia la migliore del mondo.

Quindi, mentre ci aspettiamo che gli "altri" facciano lo sforzo d'integrarsi alla nostra cultura, "noi" dovremmo soltanto fare lo sforzo di accettare una presenza ingombrante, imprevista, che se sul piano culturale non ha niente da dirci, su quello economico può anche diventare occasione per realizzare nuovi profitti, come lo sfruttamento della manodopera a basso costo.

Se invece le nostre condizioni economiche sono modeste, abbiamo paura di perdere il poco benessere che abbiamo, la nostra sicurezza, la nostra identità.

Abbiamo paura del diverso, dell'immigrato perché i suoi costumi ci sembrano troppo primitivi, troppo incivili (g).

 

La strada della transculturalità

La parola intercultura contiene un prefisso significativo: inter. Prefisso con il quale passiamo da un contesto statico e immobile, tipico della multicultura, ad un altro ma caratterizzato dal dinamismo.

L’intercultura è caratterizzata da reciprocità, interazione e scambio, dalla volontà e dall’impegno di dare vita a un dialogo fecondo tra le varie culture presenti su quel territorio.

Nasce così un confronto costruttivo alla ricerca di punti di contatto con i quali la varietà, in tutte le sue differenti sfaccettature, può essere valorizzata appieno nel suo potenziale di ricchezza, una ricchezza da cui l’intera società potrà trarre giovamento, un potente volano per la sua stessa crescita (h).

Da questo confronto prende le mosse il concetto di transculturalità, che non è altro che la costruzione di un progetto comune per lavorare insieme, mossi dai medesimi obiettivi e in cui ogni partecipante è e si sente attivamente coinvolto e responsabile per la creazione di una cultura del tutto nuova e differente, in grado di valicare i confini dei singoli, unendoli in nome di ciò che, se raggiunto, li rende tutti vincitori di un’unica squadra (h).

La transcultura, infatti, è possibile sullo sfondo di un progetto sociale finalizzato alla costruzione e allo sviluppo di un pensiero aperto, capace di decentrarsi e di allontanarsi dai propri riferimenti valoriali per andare verso nuove culture comprendendo le differenze e le analogie, e di tornare nella propria cultura di riferimento utilizzando l'esperienza del confronto per valutare con maggiore coscienza la propria specificità negli aspetti più o meno positivi.

Non è una strada semplice, perché non si arriva mai all'integrazione totale; ci sono diversi passi da fare, molti "ponti" da costruire, poiché ogni soluzione richiede ulteriori impegni.

Dobbiamo accettare l’idea che la convivenza tra culture ed etnie è sempre instabile e richiede continui interventi sociali, politici, ed educativi che sappiano risolvere le controversie che, anche se risolte, possono sempre ripresentarsi sotto nuove forme (d).

 

(a) Fonte: openmigration.org

(b) Fonte: wikipedia.org

(c) Fonte: scuolaacolori

(d) Fonte: sociologia.tesionline.it

(e) Fonte: comune.torino.it

(f) Fonte: ospitiweb.indire.it

(g) Fonte: homolaicus.com

(h) Fonte: mediatoreinterculturale.it

 

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Cosa proviamo nei confronti degli immigrati? Fastidio, paura, curiosità, attenzione, apertura?

•          Cosa pensate provino gli immigrati nei nostri confronti?

•          Con quali culture ci sembra più facile o difficile confrontarci?

•          Pensate che sia possibile arrivare a fare esperienze di transculturalità? Che passi dovremmo fare noi, che passi dovrebbero fare loro?

 

6-DAL CONFLITTO ALLA COMUNIONE

L’esempio del cammino ecumenico tra le Chiese cristiane

 Il dialogo che la Chiesa cattolica coltiva con le altre Chiese e Comunità cristiane, non si ferma a ciò che abbiamo in comune, ma tende verso il più alto obbiettivo di ritrovare l’unità perduta.

Unitatis redintegratio

 

A cura della Redazione

Tre sono i termini che caratterizzano i rapporti tra culture: multiculturalità, interculturalità, transculturalità.

Questi tre termini, seppure con una diversa sfumatura, si possono anche applicare al cammino ecumenico delle Chiese cristiane, cammino che può rappresentare un modello interessante per comprendere questi tre passaggi.

Tutto inizia con la riforma protestante e lo scisma anglicano. La prima fase fu segnata dal conflitto armato, racchiuso nel cosiddetto “secolo di ferro” (a).

Con la fine della guerra dei 30 anni (1648) si entrò in un lungo periodo in cui le diverse confessioni cristiane vissero in un clima di forte  separatezza (cuius regio, eius religio) che terminerà con le rivoluzioni del 1848 e i primi regimi costituzionali. Da allora le Chiese si rapportarono fra loro come oggi avviene nelle società multiculturali.

 

Il cammino ecumenico vero e proprio inizia in ambito protestante nel 1910, durante la Conferenza mondiale delle società missionarie protestanti a Edimburgo.

Questo fu il primo passo di un cammino che possiamo ritenere analogo a quello della interculturalità.

A seguito della Prima Guerra Mondiale, nacquero sia diversi movimenti ecumenici in ambito protestante, sia un’importante esperienza di dialogo tra la chiesa cattolica e quella anglicana.

Nel secondo dopoguerra questi fermenti trovarono una prima realizzazione nella conferenza di Amsterdam, a cui parteciparono diverse chiese protestanti e ortodosse, che segnò la fondazione del CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese).

Fino al 1960 l'atteggiamento ufficiale della Chiesa cattolica fu di relativa chiusura nei confronti del cammino ecumenico. La svolta decisiva fu impressa da papa Giovanni XXIII che indisse nel 1959 il Concilio Ecumenico Vaticano II e, nel 1960, istituì il Segretariato per l'unità dei cristiani.

L'ecumenismo è stato da allora costantemente sostenuto dalla Chiesa cattolica: Giovanni Paolo II ha promosso, durante il suo magistero, la redazione di una serie di documenti comuni con la Chiesa anglicana e luterana, nonché con diverse Chiese d'Oriente (b).

Possiamo quindi affermare che, negli ultimi 50 anni, il dialogo interreligioso tra cristiani, compresi i cattolici, ha fatto notevoli passi avanti.

 

Quali prospettive ci sono per passare a una successiva fase che può essere considerata equivalente alla transculturalità? Quali novità ha introdotto papa Francesco su questo fronte?

Bergoglio, nel suo primo saluto ai cattolici, si è autodefinito vescovo di Roma, prima di papa: perché si è papi in quanto “vescovi della Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese”, e non viceversa.

Nella sua prima esortazione apostolica, l’Evangelii gaudium del 2013, autentico programma di governo, ha parlato della necessità di una “conversione del papato” (EG n. 32).

Nel 2014, incontrando a Caserta il pastore evangelico locale, ha definito l’unità della Chiesa simile non ad una sfera, ma ad un poliedro: “il poliedro è una unità ma con tutte le parti diverse; e ognuna conserva e ha la sua peculiarità, il suo carisma. […] È unità nella diversità. In questo cammino noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo ecumenismo”.

Infine, nel 2015, ha ipotizzato che in tempi brevi ogni cristiano possa festeggiare la Pasqua lo stesso giorno, “segno tangibile per i fedeli e per tutti” (c).

 

In realtà l’unità della Chiesa di Cristo è ancora lontana.

Così si esprimeva nel 2001 il cardinale Kasper: “Probabilmente l'ecumenismo nel futuro sarà a due velocità, o anche a più velocità”.

Come procedere allora? Il suggerimento di Kasper era e resta: “lo studio comune della Bibbia, lo scambio di esperienze spirituali, il culto comune attraverso i servizi della Parola, una migliore comprensione della tradizione comune e delle differenze esistenti, collaborazione nella teologia, nella missione, nella testimonianza culturale e sociale, collaborazione nell'area dello sviluppo e della salvaguardia dell'ambiente, nel campo dei mezzi di comunicazione sociale, ecc.” (d).

Facciamo nostri questi suggerimenti!

 

(a) (b) Fonte: wikipedia.org

(c) Fonte: settimananews.it

(d) Fonte: vatican.va

 

7-IL NOSTRO E IL LORO MODELLO DI FAMIGLIA

La religione è il grande collante della famiglia immigrata, perché coincide con la tradizione e con i valori che essa sottende.

Possiamo definire la famiglia immigrata una famiglia tradizionale.

La famiglia ideale potrebbe essere un mix di libertà e autorevolezza come parità nei rapporti uomo-donna ed educazione rigorosa dei figli.

 

A cura della Redazione

 

“Si tratta di imparare a distinguere le società tradizionali dalle società moderne.

Laddove la religione tende a coincidere con la cultura tout court, siamo in presenza di una società tradizionale mentre, dove la religione è separata da altri aspetti della vita - culturali, politici, economici -, siamo in presenza di una società moderna.

Noi siamo propensi a distinguere tra Occidente e Oriente perché in Occidente (Europa e America del Nord) è avvenuto un processo di modernizzazione che ha comportato quel che chiamiamo secolarizzazione: cioè molti aspetti della vita sociale, che originariamente avevano un significato religioso, tendono a perderlo.

Ciò che in genere caratterizza una società tradizionale è una forte coesione a partire dall'elemento familiare.

Invece le società moderne sono tendenzialmente società individualistiche.

L'aspetto della religione introduce in realtà anche altri elementi perché, se la religione è il cuore della tradizione, essa è in connessione con tutti gli aspetti della vita collettiva e in particolare con alcune questioni fondamentali: il rapporto uomo-donna, la famiglia, l'educazione”.

Questi sono alcuni passaggi tratti da una lezione tenuta dal professor Torrero alla sua classe (terza superiore) alla fine dell’anno scolastico 2012-2013.

Così l’insegnante poneva le basi per un’avventura che si sarebbe sviluppata negli anni successivi e avrebbe portato, lui e i suoi allievi, alla realizzazione di una ricerca sociologica sul campo sul tema dell’immigrazione. Una ricerca di tipo qualitativo, non certo quantitativo, visto il numero ridotto di soggetti intervistati, che ha avuto l’obiettivo di indagare su come alcuni giovani immigrati, residenti in Italia e dotati di buone competenze linguistiche, vivevano la loro esperienza familiare, con tutti i suoi corollari, e valutavano le nostre modalità di vivere questa esperienza.

La ricerca è durata tre anni, coinvolgendo più classi e i risultati sono quelli che, in parte, abbiamo provato a sintetizzare di seguito.

 

La famiglia

Dalle interviste risulta che nelle culture degli immigrati i legami familiari sono più forti.

Questo si manifesta in un affiatamento fra i membri della famiglia, in un senso di comunità più profondo. Si dà molta importanza a fratelli, cugini, zii, in una sorta di famiglia allargata. Questo vale tanto in Perù quanto in Marocco.

Una sintesi la possiamo trovare nella testimonianza di Ayoub, marocchino: “Da noi almeno una volta la settimana la famiglia si riunisce tutta, mentre qui da voi la tendenza è di riunirsi solo nelle feste principali come Natale e Pasqua oppure in occasione dei funerali”.

Sotto questo aspetto, gli immigrati si riconoscono molto di più nel modello di famiglia presente in Italia meridionale che in quella presente nel nord.

 

I rapporti uomo-donna

Gli immigrati riconoscono che, nel rapporto uomo-donna, nelle loro culture sono presenti tratti decisamente patriarcali.

Ma tra uomo e donna esiste in realtà un equilibrio, basato su una netta distinzione dei ruoli.

L'uomo si preoccupa di procurare i mezzi di sussistenza, la donna della famiglia. La quale però, proprio per la sua ampiezza e centralità nella vita comune, conferisce alla donna un ruolo tutt'altro che secondario.

Proprio laddove il predominio maschile sembra più pronunciato, si aprono spazi di complementarietà tra i sessi.

Questo fa sì che il predominio maschile sia sovente più apparente che reale.

Così si esprime Jo Rambo, mediatore culturale Rom: “Sotto l'aspetto esterno, quello che è visibile dagli altri, la donna è una posizione inferiore rispetto all'uomo. Ma all'interno della casa l'uomo è sottomesso alla donna. Quando deve prendere una decisione, prima guarda la donna”.

 

L’educazione

L'educazione, per le culture di provenienza degli immigrati, è al centro della vita sociale. Ad educare non è soltanto la famiglia, ma l'intera collettività.

Così si esprime Justine, originaria del Congo: “Anche un vicino di casa può educare tuo figlio, se lo vede sulla strada e si comporta male. Il bambino è un essere sociale, appartiene a tutti, non soltanto al papà e alla mamma, perché, se un bambino fa del male, è la vergogna di tutta la famiglia e della società”.

Mentre Gianfranco, di origini filippine, sottolinea: “Da noi il rapporto amichevole tra genitori e figli è inconcepibile, come è inconcepibile che un figlio si permetta di controbattere alle opinioni dei genitori”.

 

I rapporti tra generazioni

Un aspetto che emerge è la particolare cura verso gli anziani presente nelle varie comunità di origine degli immigrati.

Dice Mohamed, marocchino: “Da voi, quando una persona è anziana, viene portata nelle case di riposo e si lascia lì, mentre nella mia cultura gli anziani della famiglia si accolgono in casa e si sta tutti insieme, fino alla morte”.

Un altro aspetto sono le relazioni comunitarie tra generazioni. Le persone si sentono legate le une alle altre e diventa naturale l'aiuto reciproco.

Dice Monica, congolese: “Nel nostro clan c'è una grande organizzazione e le persone si controllano reciprocamente. Ognuno è responsabile delle altre. Questi sono gli elementi che mi mancano di più della mia cultura di origine”.

 

La religione

Tra le comunità immigrate la religione risponde a un fondamentale bisogno umano, e inoltre svolge una precisa funzione sociale.

È interessante la riflessione di Ayoub, giovane musulmano: “C'è un Qualcuno che ci ha fatti, e questo qualcuno è Dio. Se Dio ha detto quali sono le cose che devo fare per arrivare al paradiso anziché all'inferno, mi dà un motivo per agire così.

La religione ti dice cosa devi fare quando non lo sai, ti dà un motivo per vivere, ti dà un motivo per fare tutte le cose che fai nella vita.

Il nostro libro sacro ci dà una risposta per ogni domanda della nostra vita, è la nostra guida”.

Non è detto che tutti gli immigrati siano personalmente praticanti, e neppure sempre credenti. Si capisce però chiaramente che per loro la religione ha un posto centrale, che non può non stupire chi come noi è interno a una società che l’ha da molto tempo emarginata.

Mentre da noi la religione retrocede, nei paesi islamici sembra avvenire, come spiega Brahim, un fenomeno contrario. È lui stesso a precisare: “Rispetto ai genitori, nel mondo arabo non c'è stato un allontanamento dalla religione, ma invece un riavvicinamento, soprattutto per ragioni di identità. Mio padre alla mia età non pregava, io invece sì”.

E i cristiani al di fuori dell'Occidente testimoniano di una fede viva, che si esprime con una gioia che non riescono a ritrovare in Italia.

Annota Costantine, camerunense: “Qui in chiesa sono tutti più seri; si alzano e si siedono, senza dire niente. Da noi si balla, si suona, ci sono i gruppi che cantano e ognuno è libero di alzarsi e ballare”.

 

Loro e noi

Cosa gli immigrati vorrebbero mantenere della loro cultura e che cosa ritengono di dover accogliere dell'Italia?

Sulla prima parte le risposte sono state scontate, meno prevedibile è stato quello che ritengono di dover acquisire dalla cultura italiana.

Siamo soprattutto apprezzati per una certa sensibilità umana, la capacità di empatia e di mettersi dal punto di vista altrui; di aiutare ed essere attenti a non ferire gli altri.

Lo sguardo altrui non è così impietoso nei nostri confronti: vale la pena di pensarci.

Guardando più in generale ai valori di cui l'Occidente è portatore, quello che viene più apprezzato è la libertà.

Per Brahim: “la libertà è un valore che bisogna difendere con i denti, perché purtroppo in altre parti del mondo manca”.

La libertà è importante anche nella sfera religiosa. Così si esprime Hamed: “Io sono nato musulmano e sono stato obbligato ad esserlo. E, difatti, adesso che sono qua, e posso decidere in cosa credere, mi considero laico”.

Ma, Nell'istante in cui la libertà è riconosciuta come un valore, se ne colgono anche le insidie.

È l’osservazione che esprime Costantine, camerunense: “Secondo me, la vostra cultura è troppo libera: alla fine non ci sono più limiti. Nella nostra cultura, invece, c'è ancora il rispetto, i giovani sono ancora rispettosi”.

E Jo, nigeriana, aggiunge: “I figli parlano ai genitori con troppa libertà. Qui spesso le madri urlano ma, se i figli non vogliono ascoltare, non ascoltano”.

Altre cose apprezzate sono l'organizzazione della vita sociale, la puntualità delle persone, il senso di identità nazionale.

 

Tradizionale o moderna?

Da questo breve confronto tra il nostro modello di famiglia e quello degli immigrati può nascere un senso di rimpianto nei confronti della famiglia tradizionale.

Questo modello di famiglia e la scala di valori che lo sostiene non è molto diverso da quello che era presente anche in Italia nell'anteguerra.

Le differenze più forti rispetto a questo modello si riscontrano là dove i matrimoni sono ancora combinati, o è presente la poligamia, o la struttura della società è basata sul concetto di clan.

Per il resto, il tipo di famiglia vissuto dai nostri nonni non era molto diversa dal quella degli immigrati.

Commenta Joany, peruviana: “La nostra società è basata su tante cose buone, tra cui l'affetto e il rispetto per la famiglia, per i più grandi. Adesso che sono in Italia a mia figlia dico che non deve imparare dalle sue amiche.

Gli italiani apprezzano i nostri valori. Infatti molti mi fanno i complimenti per come si comporta mia figlia. Perché non fa chiasso ed è rispettosa verso tutti”.

Quando le viene chiesto cosa potrebbe nascere se la cultura italiana e quella peruviana si incontrassero a metà strada risponde senza esitazione: “La famiglia perfetta!”. E continua: “ci sarebbe l'equilibrio del rapporto uomo-donna che c'è qui, e noi potremmo portare l'educazione dei figli. Verrebbe davvero fuori una bella famiglia”.

 

L’articolo è una libera sintesi del libro di Claudio Torrero, Famiglia. Culture e valori. Alla ricerca di radici comuni, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2017, la cui prefazione è stata scritta da Massimo Introvigne.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La religione e la tradizione sono il collante della famiglia immigrata, nel bene e nel male. Come credenti cosa possiamo dire delle nostre famiglie?

•          Quanto sappiamo apprezzare il fatto di vivere in un Paese libero e moderno? Cosa dovremmo fare per migliorarlo?

 

8-INVASIONE MUSULMANA?

La maggioranza degli immigrati è cristiana

 

Parlando di integrazione non va sottovalutato il ruolo di supporto che può essere svolto dalle religioni, certo minacciose quando le consideriamo nelle loro derive fondamentaliste, ma che diventano invece una risorsa se, rinunciando alle tentazioni estremistiche, sanno accompagnare l'immigrato evitando quella perdita di riferimenti che può portare al suicidio o alla malattia mentale, ma anche alla radicalizzazione o all’arruolamento nella criminalità organizzata.

Un certo “cattivismo”, che alcuni coltivano per mero tornaconto elettorale, non fa meno danni del buonismo.

Mi occupo di religione e so quanto incerte - e fonte di dibattiti senza fine, politicamente condizionati - siano le statistiche sulle minoranze religiose presenti sul territorio nazionale.

Negli ultimi decenni sono emersi come punto di riferimento del dibattito i dati del rapporto annuale Caritas-Migrantes.

In base a questi dati in Italia nel 2016 gli immigrati erano 5 milioni 498 mila, con un’incidenza pari al 9,1% rispetto ai presenti sul territorio.

Il dato - comparato a quella analogo e proveniente dalla stessa fonte del 2015 - ci dice anche che, contrariamente a opinioni diffuse, gli immigrati musulmani in Italia non sono in aumento ma in lieve diminuzione: erano un milione e 613 mila nel 2015 e sono un milione e 609 mila nel 2016.

E la maggioranza degli immigrati è cristiana: sul totale degli immigrati i cristiani sono il 53,8% contro il 32% dei musulmani.

È vero che, per effetto dell'acquisizione di cittadinanza, sono per converso aumentati i musulmani cittadini italiani e quindi non è scesa la percentuale complessiva di musulmani presenti in Italia, ma il dato è lontano dai fantasmi di una presunta islamizzazione del nostro paese.

Anzi, aumentando gli immigrati aumentano i cristiani (ortodossi e protestanti, ma anche cattolici) praticanti, come si può facilmente intuire visitando il Tempio Valdese o le chiese ortodosse di Torino, ma anche un buon numero di parrocchie cattoliche.

Si scopriranno luoghi di culto frequentati da tanti immigrati, e qualche volta è un immigrato anche il prete o pastore.

Se c'è “islamizzazione” del territorio, c'è anche - anzi, c'è di più - una nuova cristianizzazione grazie agli immigrati che praticano la loro fede cristiana in modo più attivo ed entusiasta di molti italiani.

Le statistiche possono essere noiose ma, lette con intelligenza, possono contribuire al grande scopo di aiutare a vivere insieme in pace in una società pluralistica e multiculturale. O, come afferma spesso Papa Francesco, a costruire ponti e non muri.

Massimo Introvigne

 

9-INSEGNARE LA COMPRENSIONE

Oggi la scuola italiana è un vero e proprio laboratorio in cui si sperimenta l’intercultura e la comprensione dell’altro.

Questo perché le diverse culture pretendono di situarsi al centro del mondo e considerano ostile tutto ciò che è straniero o lontano.

Siamo chiamati a comprendere l’altro senza rinunciare alle nostre convinzioni e scelte etiche, accettando che abbia convinzioni e scelte contrarie alle nostre.

 

A cura della Redazione

“La situazione sulla nostra terra è paradossale: le interdipendenze si sono moltiplicate, tuttavia l'incomprensione permane generale” scrive Morin (1).

Di conseguenza, “il problema della comprensione è divenuto cruciale ed è doveroso che esso contribuisca a una delle finalità dell'educazione”.

Infatti, “L’educazione, per sua natura, richiede apertura alle altre culture – senza perdere la propria identità – e accoglienza dell’altro, per evitare il rischio di una cultura chiusa in se stessa e limitata”, gli fa eco la Congregazione per l'educazione cattolica (2).

Non sempre è vero il principio che “più si è vicini, meglio ci si comprende”, perché la vicinanza, annota Morin, “può alimentare malintesi, gelosia, aggressività, anche negli ambienti in apparenza intellettualmente più evoluti”.

Ed è proprio questo un punto che sottolinea Papa Francesco: “i migranti hanno bisogno prima di tutto di amore, di amicizia, di vicinanza umana” (3).

La scuola, in questo senso, “deve articolare la propria preoccupazione interculturale tenendo presenti le due dimensioni dell’apprendimento: quella cognitiva e quella relazionale-affettiva”, scrive la Congregazione. E continua: “Per il primo aspetto è chiamata ad agire sui saperi da trasmettere e le competenze da promuovere. Per il secondo aspetto agisce sugli atteggiamenti, insegnando a rispettare le diversità, a tener conto dei diversi punti di vista, a collaborare”.

Precisa Morin: “Comprendere l’altro comporta necessariamente un processo di empatia, di identificazione e di proiezione; richiede apertura, simpatia, generosità”.

 

Gli ostacoli alla comprensione

“Gli ostacoli esterni alla comprensione intellettuale o oggettiva di altre culture sono molteplici” continua Morin.

“Possiamo indicare l'ignoranza dei riti e dei costumi altrui, oppure l'incomprensione dei valori imperativi diffusi all'interno di un'altra cultura, come lo sono nelle società tradizionali il rispetto per i vecchi, l'obbedienza incondizionata dei bambini, la credenza religiosa o al contrario, nelle nostre società democratiche contemporanee, il culto dell'individuo e rispetto delle libertà”.

Pertanto, è indispensabile che i giovani apprendano dalla scuola quegli “strumenti teorici e pratici che consentano loro una maggior conoscenza degli altri e di sé, dei valori della propria e delle altre culture”, precisa la Congregazione.

Così, mentre Morin sottolinea la diversità “degli imperativi etici tra le diverse culture, come l'imperativo della vendetta nelle società tribali e l'imperativo della legge nelle società evolute”, la Congregazione afferma che comunque “siamo tutti creature di Dio e Dio è all’opera in ogni persona umana”.

Quindi, ci sono valori etici universali che vanno ricercati attraverso il dialogo, “al fine di contribuire all’affermazione del bene comune, della giustizia e della pace”.

Purtroppo, annota Morin, le diverse culture non solo tendono ad ignorarsi ma pretendono “di situarsi al centro del mondo e di considerare come secondario, insignificante o ostile tutto ciò che è straniero o lontano”.

Una caratteristica negativa dell’Occidente è l'egocentrismo che porta “all'autogiustificazione e alla tendenza a rigettare sugli altri, lontani o vicini, la causa di tutti i mali”.

“L'egocentrismo” continua Morin, “si amplifica nell’allentamento dei vincoli e degli obblighi, devasta le relazioni genitori-figli, mariti-mogli. Ovunque, si diffonde come un cancro della vita quotidiana, suscitando calunnie, aggressioni, auspici di morte”.

Questo tema ci tocca molto come credenti.

Siamo chiamati, scrive la Congregazione, ad evitare di conformarci “acriticamente alle attese di una società improntata ai valori dell’individualismo e della competizione”.

 

L'etica della comprensione

“L'etica della comprensione è un'arte di vivere che richiede innanzitutto di comprendere in modo disinteressato” scrive Morin. E continua “Se sappiamo comprendere prima di condannare, saremo sulla via della umanizzazione delle relazioni umane”.

Gli fa eco - in senso positivo - la Congregazione, quando scrive che è fondamentale “riconoscere negli altri lo stesso anelito che si trova in un importante precetto di molte religioni e culture, la cosiddetta regola d’oro dell’umanità: fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te; non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.

La comprensione dell’altro, prosegue Morin, “è favorita dal ‘bel pensare’ cioè da un modo di pensare che permette di apprendere, insieme, il testo e il contesto, l'essere e il suo ambiente, il locale e il globale, il multidimensionale; in breve, il complesso”.

Infine, “La comprensione degli altri richiede la disponibilità ad essere tolleranti, perché la vera tolleranza non è indifferenza alle idee o scetticismo generalizzato ma presuppone una convinzione, una fede, una scelta etica e nello stesso tempo l'accettazione del fatto che siano espresse idee, convinzioni, scelte contrarie alle nostre”. Anche se, precisa Morin, “la tolleranza vale evidentemente per le idee, non per gli insulti, le aggressioni, le azioni omicide”.

 

La cultura planetaria

La riflessione di Morin ci chiede di “fare un ultimo passo: connettere l'etica della comprensione fra persona tra persone con l'etica dell'era planetaria, che richiede di mondializzare la comprensione.

Le culture devono imparare le une dalle altre, e l'orgogliosa cultura occidentale, che si è posta come cultura che insegna, deve diventare una cultura che impara”.

È il concetto che la Congregazione definisce come “umanesimo integrale, un umanesimo alimentato dalla propria identità e dalla valorizzazione delle sue grandi tradizioni, come la fede, il rispetto della vita umana dal concepimento alla sua fine naturale, della famiglia, della comunità, dell’educazione e del lavoro: occasioni e strumenti di dialogo e di apertura con tutti e con tutto ciò che conduce verso il bene e la verità”.

Ritroviamo qui l’eco di quanto scritto nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (4): “L'umanità comprende sempre più chiaramente di essere legata da un unico destino che richiede una comune assunzione di responsabilità, ispirata da un umanesimo integrale e solidale: vede che questa unità di destino è spesso condizionata e perfino imposta dalla tecnica o dall'economia e avverte il bisogno di una maggiore consapevolezza morale, che orienti il cammino comune”.

 

Come si può realizzare questa “utopia”?

Morin ci ricorda che, se è vero che “in ogni cultura le mentalità dominanti sono più o meno chiuse rispetto alle altre culture” è anche vero che al loro interno “vi sono anche mentalità aperte, curiose, non ortodosse, devianti”.

E continua: “nel caso dell'arte, della musica, della letteratura, del pensiero, la mondializzazione culturale non è omogeneizzante. Oggi i romanzi giapponesi, latino-americani, africani sono pubblicati in tutte le lingue europee, i romanzi europei sono pubblicati in Asia, in Oriente, in Africa e nelle Americhe. Le traduzioni da una lingua all'altra di questi testi permettono a ciascuna cultura di nutrirsi delle culture del mondo pur nutrendo con le proprie opere un ‘brodo’ di cultura planetario. Lo sviluppo, ancora limitato, di questo brodo di cultura dovrebbe amplificarsi nel XXI secolo favorendo così la mondializzazione della comprensione”.

E conclude: “la cultura occidentale può apparire alle altre culture nello stesso tempo non comprensiva e incomprensibile. Ma la razionalità aperta e autocritica nata dalla cultura europea permette la comprensione e l'integrazione di ciò che altre culture hanno sviluppato.

L'occidente deve sapere integrare in sé le virtù delle altre culture al fine di correggere il consumismo sfrenato che ha scatenato dentro e fuori di sé. Ma deve anche salvaguardare, rigenerare e propagare il meglio della sua cultura, che ha prodotto la democrazia, i diritti umani, la protezione della sfera privata del cittadino”.

 

(1) Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.

(2) Educare al dialogo interculturale nella scuola cattolica, 28/10/2013.

(3) Udienza del 09/12/2017.

(4) Fonte: www.vatican.va

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Ci consideriamo al centro del mondo come persone, come famiglia, come società, o c’è anche spazio in noi per ciò che è straniero e lontano?

•          Proviamo a dare una definizione di tolleranza.

•          Umanesimo integrale: come potremmo spiegare questo concetto ai nostri figli?

 

10-IUS SOLI E IUS CULTURAE

Se il ricongiungimento è il primo passo della vita comune della famiglia straniera in Italia e il rapporto con lo Stato Sociale ne caratterizza il percorso di integrazione, è con la cittadinanza che per molte famiglie immigrate si compie sul piano formale e non solo il cammino per diventare italiane.

 

A cura della Redazione

L’ultima legge italiana che norma l’acquisto della cittadinanza risale al 1992.

“Per i genitori e i figli che non siano nati in Italia”, scrive Ennio Codini (1) la legge prevede “la naturalizzazione, che richiede innanzitutto di norma per gli extracomunitari 10 anni di regolare soggiorno (che poi in pratica arrivano fino a 15), oltre che per i minori il raggiungimento della maggiore età”.

La proposta di legge, ora decaduta e che tanto ha fatto discutere, prevedeva sinteticamente per i minori stranieri lo ius soli temperato - non basta essere nati in Italia ma occorre avere almeno uno dei genitori titolare del diritto di soggiorno di lungo periodo - oppure aver completato positivamente nel nostro Paese un ciclo di studi (ius culturae) di almeno cinque anni.

 

Ius soli o ius culturae?

Codini precisa però che lo ius soli, presente ad esempio negli Stati Uniti, è stato progressivamente cancellato dei pochi paesi europei che l'avevano nel proprio ordinamento.

Quindi, forse sarebbe meglio lo ius culturae, adottato in Francia, “dove i nati nel territorio da genitori stranieri possono acquisire la cittadinanza negli anni della scuola dell'obbligo, valorizzando così la scuola quale fondamentale agenzia di integrazione accanto alla famiglia”.

“Negli altri paesi europei, però”, continua Codini, “di solito i minori diventano cittadini perché i loro genitori, se interessati, lo diventano assai prima di quanto possa avvenire oggi in Italia. In Francia o nel Regno Unito un extracomunitario non deve aspettare più di 5 anni; in Germania non deve aspettare non più di 8 e può abbreviare tale tempo seguendo un corso di tedesco.

Prima di concedere la cittadinanza questi paesi chiedono all’immigrato d’avere precisi requisiti, anzitutto una certa conoscenza della lingua e delle regole della vita civile del paese. Ma, diversamente da quanto accade in Italia, i requisiti sono perlopiù ben precisati, con la conseguenza che lo straniero può impegnarsi sistematicamente allo scopo di soddisfarli, accrescendo così la propria integrazione sostanziale.

Se l'Italia allineasse la propria disciplina a quella dei paesi sopracitati”, conclude Codini “senza dubbio l'integrazione delle famiglie straniere ne trarrebbe vantaggio”.

 

Pro e contro lo ius culturae

In un recente confronto tenutosi a Torino (2), si sono misurati su questo tema il demografo Giancarlo Blangiardo e il direttore di Avvenire Marco Tarquinio.

Mentre Tarquinio ha sostenuto a spada tratta lo ius culturae, Blangiardo ha espresso perplessità sull’esigenza di una nuova legge.

Infatti, almeno il 50% degli immigrati in Italia proviene da paesi che non ammettono la doppia cittadinanza.

Per esempio se un cinese diventa italiano, per la Repubblica Popolare Cinese diventa uno straniero; siamo proprio sicuri che desideri che i suoi figli diventino italiani?

La seconda invece riguarda l’unità del nucleo familiare: ha senso che un ragazzo/a diventi italiano mentre i suoi genitori restano stranieri? Non è meglio che diventino tutti italiani quando gli adulti hanno raggiunto i requisiti per acquisire la cittadinanza?

La posizione di Blangiardo è simile a quella di Codini: riduciamo i tempi previsti dalla legge esistente, attenuiamo l’obbligo di residenza senza interruzioni  per i minori stranieri nati in Italia e introduciamo, a livello amministrativo, norme chiare - non lacunose e discrezionali come quelle attuali - per accedere alla cittadinanza stessa.

 

(1) Ennio Codini, Famiglia, migrazioni e diritto, in Cisf (a cura di), Le famiglie di fronte alle sfide dell’immigrazione, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2014.

(2) associazionenuovagenerazione.it

 

11-LE FAMIGLIE IMMIGRATE E NOI

Queste sei pagine riportano le testimonianze della redazione “virtuale” della rivista sul tema di questo numero.

Una di queste ci ha però ricordato che anche noi siamo stati migranti:  sia all’estero sia attraverso la nostra penisola.

Per questo motivo le illustrazioni di queste pagine sono dedicate alle nostre storie di emigrazione.

 

12-ESPERIENZE BELLE...

 

Dalla diffidenza alla conoscenza

Nel 2013 ho acquistato un alloggio che ho successivamente dato in locazione ad una famiglia di immigrati provenienti dal Marocco.

Nei primi tempi il canone veniva pagato regolarmente poi ad un certo punto essi smisero di pagare e intentai loro una causa di sfratto.

La mattina destinata all’accesso con la forza pubblica, ci conoscemmo per la prima volta. Ilham, la moglie, mi disse che avevano licenziato il marito e che non riuscivano più a pagare.

La portai presso il centro di ascolto della parrocchia dove sono catechista e la referente le fece fare tutte le pratiche per accedere ad una serie di agevolazioni previste dal comune per persone in stato disagiato.

Inoltre rivedemmo anche il canone abbassandolo quel tanto che le consentisse di pagare adeguatamente ogni mese. Io tutto sommato ho comunque un introito e lei riesce a pagare dignitosamente alle scadenze. Ci sentiamo regolarmente, ho conosciuto i figli e ne ho apprezzato l’educazione e la correttezza.

Ho imparato che, per superare la diffidenza, serve la conoscenza reciproca.

Gianna

 

Scoprire la fede

Per motivi a me sconosciuti, da sempre provo una forte attrazione per il "diverso" . È forse per questo che è almeno da vent'anni che sono a contatto con immigrati, soprattutto africani.

Ero appena sposata che, per motivi di lavoro, ho conosciuto Dame, un senegalese che lavorava in fabbrica da mio marito come operaio. Gli abbiamo trovato un appartamento vicino casa nostra e subito è diventato uno di famiglia.

Non scherzo quando affermo che io, felicemente atea, sono diventata credente grazie a questo africano musulmano. Quando passavamo il nostro tempo libero insieme, sentivo che tutti noi facevamo parte di un "progetto" nonostante la differenza di pelle e di cultura. Doveva per forza esserci qualcosa che mi faceva sentire così in comunione con quest'uomo. Ecco, iniziò così il mio percorso di fede.

Dopo alcuni anni la famiglia di Dame prese corpo, si sposò, portò sua moglie qui in Italia e nacque la prima di cinque figli.

Quando decisero di trasferirsi ad Olbia per mettersi in proprio, fu per noi un piccolo dramma. Volevamo bene a questa famiglia e ci dispiaceva perdere i contatti. Per fortuna questo non è mai avvenuto. Sembra assurdo ma per tanti anni la prima telefonata che ricevevamo per auguri di Natale e di Pasqua è sempre stata la loro, musulmani.

Quest'estate siamo stati in Sardegna e ci siamo rivisti. Dame mi chiama "la mia sorella bianca" e non è solo un modo di dire.

Alessandra

 

La scuola d’italiano

Il gruppo Caritas del mio paese ha organizzato durante la scorsa estate una "scuola d'italiano" per due famiglie di marocchini.

È stato un po' complicato perché abbiamo dovuto fare due gruppi: uno con i nonni che erano analfabeti, e l’altro per due ragazze delle medie e le loro mamme.

A volte stavamo insieme, specie all'inizio, perché le giovani ci aiutavano con i nonni, che non sapevano né l'italiano, né il francese e a volte era proprio un po' difficile capirci.

Così abbiamo cercato di imparare e pronunciare anche noi qualche parola in arabo col risultato che ci facevamo un mucchio di risate.

Marina

 

Il lavavetri

Il primo incontro vero è stato ad un semaforo. Non ricordiamo se per allungare due spiccioli, anche: di certo per pronunciare una domanda che, chissà perché, ci era uscita dal cuore: come stai.

Perché quella volta e altre no, non lo sappiamo, ma il giovane albanese che avevamo guardato negli occhi quel giorno, poi è entrato nella nostra vita.

Quante volte lo abbiamo rivisto, andando da lui e ritrovandolo ogni volta cresciuto e maturato: prima una fidanzata italiana, infine, l’amore di una famiglia. E il dispiacere immenso di non aver potuto esserci al suo matrimonio,a cui eravamo stati invitati.

“Avevo bisogno di una mamma italiana che mi accompagnasse all’altare”, ci aveva confidato dopo.

Non sapremo mai perché è capitato nella nostra vita quel ragazzo, perché proprio lui, e perché proprio in quegli anni in cui eravamo presi tra figli adolescenti e genitori anziani ed ammalati.

Forse avevamo bisogno di gettare uno sguardo “fuori”, e non solo dal finestrino dell’auto.

Daniela e Claudio

 

Africani sotto casa

Conosciamo due giovani africani che normalmente, a settimane alterne, stazionano davanti a un supermercato di detersivi che si trova a fianco del portone d'ingresso dello stabile dove abitiamo.

Si tratta di due i ragazzi tranquilli e molto educati, ormai ci conoscono e quando ci salutano ci chiamano a me papà e a Pina, mamma. Quasi tutti i giorni offriamo loro un pasto caldo, frutta, dolci, ecc.

Ormai, anche se loro sono presenti soltanto durante l'apertura del negozio, si sono integrati benissimo nel nostro vicinato, tant'è che insieme ad altri condomini li abbiamo presi a cuore e ognuno di noi cerca di non far mancare loro il necessario (cibo, vestiti, coperte e quant'altro).

Quando si va meno di fretta cerchiamo di scambiare con loro anche qualche parola, anche se ciò risulta complicato per via della lingua, loro conoscono solo qualche vocabolo italiano.

Quando qualche persona anziana del condominio si ferma con l'auto davanti al portone per scaricare qualcosa di pesante o deve portare i mastelli della differenziata al punto di raccolta, immediatamente si precipitano per aiutarli.

Nandino e Pina

 

Contatti quotidiani

Noi abbiamo come vicini di casa delle famiglie immigrate da vent'anni e più; quelle con cui abbiamo una relazione significativa hanno i figli dell'età dei nostri, che vivono insieme scuola e/o sport.

I contatti sono quotidiani e le occasioni non mancano: spesso ci aiutiamo e alterniamo per portare i figli a scuola, i figli fanno i compiti assieme, quindi i ragazzi vanno da una casa all'altra liberamente.

In più, in occasioni di feste - anche di carattere religioso - ci sono piatti di dolci fatti per l'occasione che viaggiano da una casa all'altra.

Un episodio mi ha molto colpito: avevamo aiutato una famiglia appena arrivata e questi hanno insistito molto perché andassimo a casa loro.

Sono tornato dalla visita pieno di meraviglia: ci avevano offerto un bicchiere di Coca Cola che continuavano a riempire dopo ogni nostro sorso, delle noci e degli spicchi di mela preparata al momento per noi.

Era tutto quello che avevano.

Renato

 

13-...E MENO BELLE

 

Poca serietà

Anni fa abbiamo tenuto per qualche tempo, nel dopo scuola di materna, una bimba marocchina fino all'arrivo della madre dal lavoro. Non è stata un'esperienza positiva: la madre chiedeva soldi e si lamentava sempre del frigo vuoto, poi ho saputo che chiedeva soldi a tutti.

Mi chiamava solo quando aveva bisogno che le prendessimo la piccola alla materna, ma non mi ha mai avvisato quando trovava all’ultimo momento un parente che la prendesse; così facevo un giro a vuoto. Alla terza volta ho dato forfait.

Fiorenza

 

Molto chiusi

Da qualche anno nel nostro condominio abita una famiglia marocchina allargata (più generazioni) di religione musulmana, non avrei difficoltà a parlare anche con loro ma in realtà sono loro ad evitare i contatti, non solo gli uomini ma anche le donne che ignorano persino il saluto.

Anna

 

Alti e bassi

La mia esperienza con gli extracomunitari è ambivalente.

Per esempio, ho incontrato nell'ambito lavorativo una signora della Somalia che vive in Italia ormai da 20 anni e che mi ha “insegnato” che l'integrazione è possibile; ha imparato la nostra lingua alla perfezione e quando mi parla fa anche delle " battute ".

Al contrario, ho riscontrato molta chiusura in altre persone immigrate, che non si degnano neppure di parlarmi, perché sono una donna.

Non so quindi come possiamo "darci qualcosa " reciprocamente.

Antonella

 

14-IL RAZZISMO

 

Gli invasori

Faccio parte della Caritas del mio paese per cui sono molto in contatto con immigrati, soprattutto donne e bambini. La nostra difficoltà maggiore non è il rapporto con loro, ma quello con i nostri compaesani che vedono nel nostro volontariato un incentivo all’invasione, come la chiamano loro. Per questo motivo abbiamo anche rotto delle amicizie, ma io credo che certi valori siano irrinunciabili.

Chiara

 

Chi è razzista?

Sono medico anestesista in un grande ospedale milanese e vengo a contatto quotidianamente con persone straniere.

Purtroppo molte volte mi fanno terribilmente arrabbiare.

Come è possibile che ancora che dopo anni e anni di permanenza in Italia non sappiano ancora parlare l’italiano - specialmente le donne - e usino i loro figli, magari ragazzini, per fare da traduttore?

Come possono pretendere di avere tutto e subito?

Se fai notare che ci sono delle regole da rispettare ti dicono che sei razzista. Allora noi rispondiamo con molta serenità e serietà: “non sono io che sono razzista, sei tu che sei arabo”.

A questo punto si chetano.

Loretta

 

Una brava persona

L'anno scorso a Pasqua siamo andati in Duomo a Pinerolo e ha parlato anche un esponente del mondo musulmano, in segno di fratellanza. Uscendo avevo mille cose da dirgli, così ho detto la frase sicuramente meno adatta a esprimere ciò che pensavo: “Conosco tanti musulmani che sono proprio brave persone”. E lui a me: “Conosco tanti cristiani che sono proprio brave persone!”. Mi ha fatto effetto sentire la stessa frase al contrario.

Francamente ho pensato che anche se siamo tutti cristiani, spesso non siamo brave persone, ma evidentemente nella sua esperienza c'erano tante persone che, pur essendo cristiane, erano state prossimo anche a lui.

Marina

 

Troppo “buoni”

“Gli italiani devono occuparsi prima degli italiani e poi degli altri, non capisco tutto questo buonismo verso i migranti!”. Sono considerazioni molto diffuse ma quello che mi ha sorpreso è che sono state fatte dalla mia collaboratrice familiare, rumena.

Si vede che si sente un po’ più italiana dei nuovi arrivati; infatti pensa anche che gli italiani, nel loro insieme, siano degli scemi perché sono troppo permissivi.

Betti

 

15-DISCRIMINAZIONI

 

Disgregatori della famiglia

Gli inverni nel 1880 e del 1890 nel veronese furono tra i peggiori e i più rigidi e grande parte della popolazione pativa letteralmente la fame.

Queste condizioni disperate non davano altra possibilità a molte famiglie se non quella dell'emigrazione. I primi paesi meta dei disoccupati furono l'Austria, l'Ungheria e la Germania.

Con l'apertura delle rotte transoceaniche si iniziò a raggiungere anche mete più lontane.

A differenza dei piemontesi e dei liguri che preferirono l'Argentina, i veronesi emigrarono in maggior numero verso il Brasile che aveva abolito la schiavitù nel 1888 e aveva bisogno di manodopera per impiegare nelle numerose fazendas.

Sia le autorità civili che religiose cercarono di nascondere o di stigmatizzare il fenomeno, considerando gli emigranti come degli avventurieri e causa di disgregazione del tessuto sociale e familiare.

Fonte: wikipedia.org

 

I meridionali a Torino

Nell’immaginario di chi emigrava dal sud Italia negli anni del boom economico, Torino aveva contorni di una realtà capace di offrire casa e lavoro, ponendo fine alla miseria e agli stenti patiti nella terra natia.

In realtà l’arrivo in città si trascinava dietro problematiche e difficoltà di non facile superamento.

Differenze culturali e identitarie trasformarono ben presto l’incontro tra i torinesi e gli immigrati in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi.

Una discriminazione che assumeva le sembianze dei cartelli affissi ai portoni delle case arrecanti la frase “non si affitta ai meridionali”, oppure quella dell’attuazione di dinamiche esclusive che passano attraverso epiteti carichi di astio (napuli, terroni, mau mau) coniati dalla popolazione locale per definire, identificare, screditare e deridere gli individui nativi delle regioni del sud.

Fu un fenomeno diffuso, inerente molti comparti della vita quotidiana, che venne anche amplificato da alcuni giornali locali che, anziché svolgere un ruolo di avvicinamento tra torinesi e immigrati, alimentavano sulle loro pagine stereotipi e pregiudizi nei confronti degli immigrati del sud Italia.

Si creò così una situazione di emarginazione, superata solo attraverso una progressiva condivisione di spazi ed esperienze nella sfera pubblica, privata e lavorativa, e che progressivamente portò all’integrazione dei nuovi venuti.

Fonte: MuseoTorino.it

 

In fuga dall’alluvione

In famiglia eravamo in 8: i miei genitori e 6 figli, 4 femmine e 2 maschi.

Abitavamo a Panarella di Papozze (RO) e, a seguito dell’alluvione del Polesine (1951), siamo emigrati nell’alto Piemonte, al confine con la Svizzera.

Dagli abitanti locali, compresa la parrocchia, abbiamo ricevuto un trattamento xenofobo perché eravamo veneti.

Ci siamo poi trasferiti a Gorgonzola (MI), dove i miei genitori hanno faticato a trovare lavoro, sempre perché veneti.

Anche qui la parrocchia non è stata molto accogliente: i pochi aiuti ricevuti ci sono stati dati dalla gente comune.

Per fortuna l’Italia non è un paese razzista!

Gloria

 

16-LE DIVERSITÀ

 

Matrimoni combinati

Sono un’insegnante e qualche giorno fa, a scuola, mentre parlavamo in classe dei diritti delle donne nel mondo e di matrimoni imposti, Xhara è intervenuta timidamente raccontando che in Bangladesh è il padre a scegliere lo sposo per la figlia e che probabilmente questo accadrà anche a lei. I compagni la guardavano con una curiosità crescente e lei ha spiegato che la cosa non la disturba più di tanto perché è convinta che suo padre sappia cosa è bene per lei.

La sua testimonianza è stata come un’esplosione silenziosa.

Paola

 

Donne sottomesse

Sono tre anni che facciamo scuola di cucito e maglia per donne africane ed è stato un successo.

Hanno facilmente imparato così le aiutiamo a sistemare i vestiti per i loro bambini, vestiti che i nostri concittadini italiani, che si lamentano sempre, butterebbero nei rifiuti.

Arrivano con i loro vestiti migliori che noi abbiamo aiutato a sistemare: sono bellissime nel loro abbigliamento africano tutto colorato.

Una cosa che invece non riesco a sopportare è la loro completa sottomissione ai maschi: siano mariti, fratelli o suoceri. Su questo penso che ci voglia ancora tanto tempo.

Una cosa però l’hanno capita: qui donne non sono trattate come in Africa. Una di loro mi ha detto: “Mio marito mi picchia anche qua però, se non ne posso più, so che posso chiamare i carabinieri, al mio paese me le darebbero anche loro”.

Chiara

 

17-LA SCUOLA

 

La bambina marocchina

In classe ho una bambina marocchina, già nata qui.

Il papà lavora in un’industria di salumi, facendo le pulizie la notte. Ha una moglie molto più giovane di lui ed hanno 4 figlie femmine (dai 10 ai 2 anni). Sembra vadano d'accordo. La bambina parla molto bene l'italiano ed è stata tra i primi a non fare errori di ortografia. Nella comprensione dei testi a volte ha qualche problema, perché è precipitosa, ma capita spesso che conosca il significato di parole che altri non sanno.

I genitori hanno spesso qualche problema a capire gli avvisi scolastici, a capire quale tipo di materiale serva. Chiarito tutto, il materiale lo portano sempre; il papà mi ha detto: “Io lavoro, posso portare”.

Marina

 

Avere un futuro

Mio figlio aveva un compagno di classe albanese con cui era diventato molto amico, e così ho conosciuto la sua famiglia.

Erano venuti in Italia a fine anni ’90 perché, mi diceva la mamma, in Albania non vedevano un futuro per i loro figli e desideravano che studiassero e potessero vivere in un Paese meno violento del loro.

Ora ci sentiamo ancora qualche volta, ma si tratta di persone che si sono date molto da fare per imparare la lingua, adattarsi anche a condizioni di lavoro non sempre ottime, al punto che uno dei figli si è laureato.

Anna

 

Insegnare un mestiere

Mio marito è stato un abile carpentiere-saldatore. Nell’87 si trovò a fare da istruttore a 2 fratelli senegalesi appena immigrati. I due fratelli venivano da un paese vicino a Dakar ma non erano privi di istruzione. Qui hanno frequentato corsi per saldatore specializzato e hanno acquisito una buona pratica (sfido chiunque con mio marito a non fare le cose come si deve, ancora oggi loro ridono di quegli anni trascorsi con mio marito dal carattere duro, ma con un animo buono).

Al loro paese avevano lasciato la loro donna, si sono sposati in tempi diversi e hanno portato su anche loro, hanno avuto figli (3/5), le mogli lavorano, hanno acquistato l'appartamento dove vivono tutt'ora. Sono musulmani, ci rispettiamo vicendevolmente.

Alcune volte, quando erano ancora da soli, li invitavamo a pranzo e qualche volta siamo stati anche invitati da loro scambiandoci informazioni sui cibi e gusti. Ora che mio marito è in pensione ci vediamo poco, però quando casualmente ci si incontra è un abbracciarsi unico.

Eugenia

 

18-LA CHIESA

 

In un angolo

Ho conosciuto una famiglia rumena perché aveva mandato i bambini al campo estivo della parrocchia.

Erano arrivati da poco in Italia e alla giornata finale con i genitori stavano in disparte in un angolo perché non conoscevano nessuno, per cui andai da loro a presentarmi.

Sono stati a casa nostra e ci hanno invitato da loro, ci vediamo qualche volta a messa (si tratta di una famiglia cattolica); se incontro la moglie per strada quella diventa sovente l’occasione per fermarci qualche minuto a parlare.

Anna

 

La parrocchia

Un luogo che facilita l’interazione tra culture è certamente l’esperienza della vita parrocchiale, possibile evidentemente solo per i migranti cristiani.

Senza voler fare nessuna discriminazione religiosa, è certo che la frequentazione della vita parrocchiale (liturgia, momenti di festa comunitari, gruppi di catechesi) da parte dei giovani migranti, permette loro in tempi molto rapidi la costruzione di una fitta trama di rapporti umani, di affetto e di attenzioni verso le loro storie, che diventa concreta possibilità di sostegno del loro percorso, una volta concluso il progetto messo in campo dalle istituzioni.

Giovanni Mengoli

 

Non c’è solo il Mediterraneo

Sono un missionario scalabriniano che opera in un Centro di Migrazione a Cucuta (Colombia) al confine con il Venezuela.

Se fino ad un anno fa lo scopo principale del centro era quello di accogliere i colombiani espulsi dal Venezuela, ora la situazione si è invertita.

I venezuelani abbandonano il loro  paese, segnato da una prolungata situazione di guerra, violenza, oppressione.

Si tratta principalmente giovani tra i 15 e 30 anni di età, coppie con bebè, bambini e adolescenti.

Il loro sogno è quello di fuggire da una situazione invivibile, la loro speranza è quella di costruirsi un futuro in Colombia, Ecuador, Cile e Perù.

In Venezuela l’inflazione è alle stelle, mancano cibo e medicine, cure mediche, il tutto contrassegnato dalla repressione del dissenso e da una diffusa violenza praticata dai gruppi paramilitari governativi.

Padre Francesco Bortignon

 

19-LA FEDE

 

Pregare prima dei pasti

Un giorno all’asilo la maestra di Sebastiano mi ha detto che la mamma di Hamed mi voleva parlare.

Mi chiede con molta tranquillità: “ma voi a casa prima dei pasti recitate le preghiere?”. “Sì - le rispondo - perché?”.

Così scopro che Hamed, che ha frequentato casa nostra, prima di mangiare recita le preghiere e questo l’ha turbata ma, ora che sa che lo ha imparato da noi, va tutto bene.

Andiamo a prendere i bambini e… stanno cantando l’Alleluia con altri compagni di scuola.

Loretta

 

Il digiuno

Su suggerimento di mia figlia, sono andata all'hammam di Pinerolo.

La padrona si chiama Adh, è sposata con un rumeno ed è una persona molto socievole che ti fa sentire a tuo agio. Penso abbia studiato parecchio, perché fa discorsi di un certo livello, pur mantenendo l'accento marocchino.

Ammiro Adh, perché quando digiuna, nonostante lavori tutto il giorno, non mangia e non beve fin dopo il tramonto... e lavora col consueto sorriso.

Marina

 

Pregare per la pace

Da quattro anni abbiamo come vicini di casa una famiglia siriana composta da papà, mamma e quattro figli: tre ragazzine e un bambino.

Il rapporto fra le nostre famiglie è stato graduale, aiutato dal desiderio, da parte di entrambe, di conoscersi.

Il primo vero scambio è stato culinario; pochi giorni dopo il loro arrivo, le ragazze ci hanno portato un loro tipico piatto. Poi siamo venuti a conoscenza delle loro tradizioni, e li abbiamo coinvolti a vivere alcune delle nostre; così, pur essendo loro mussulmani e noi cattolici ci siamo trovati insieme a pregare per la pace. Il rapporto che si è creato è carico di affetto, rispettoso, consapevole che le nostre diversità possono diventare, se lo desideriamo, ricchezze per entrambi.

Viola

 

Tutti uguali?

Le due famiglie musulmane che conosco hanno modi diversi di vivere la religione all'interno della famiglia (uno dei due genitori prega 5 volte al giorno, l'altro no) e tra famiglie per ciò che riguarda la carne (in mensa una bambina non mangia solo la carne di maiale, l'altra ogni tipo di carne perché non macellata correttamente). Assolutamente come tra noi cristiani: c'è chi prega di più, chi digiuna, chi è più rigido, chi meno...

Marina

 

20-BUONE PRATICHE

 

Coltivare la pace

Dalla collaborazione tra le Caritas del comune di Riese Pio X (TV) è nata l’anno scorso la “Festa per la pace dei Popoli”. Il desiderio più grande era raggiungere più persone possibili, di religioni e culture diverse dalla nostra, presenti nel nostro territorio e creare un rapporto amichevole per poter crescere insieme.

L’accoglienza è stata celebrata con il rito del the alla menta, versato con il bricco tenuto in alto, preparato appunto da una famiglia marocchina secondo la propria tradizione.

Ha fatto seguito la presentazione di tutti gli invitati.

Poi c’è stata l’introduzione sul tema della pace, davvero molto ricca di spunti, da parte del parroco Don Daniele Vettor, di cui riportiamo questo sintetico messaggio: ”La pace è incontro, ascolto e si costruisce tassello su tassello, un po’ alla volta”.

C’è stato poi un momento di condivisione sul tema da parte di molti presenti in varie forme: con un canto, con una preghiera, con una poesia o con un semplice pensiero.

Dopo aver spezzato e condiviso il pane preparato da persone di diverse nazionalità, è seguita la parte che mi è sembrata la più bella della festa: lo scambio della pace, con sorrisi, strette di mano, abbracci, lacrime di gioia.

Da quel momento mi sono resa conto che è possibile costruire ponti che collegano mondi apparentemente distanti e cuori inconsapevolmente vicini tra loro.

Ma la festa non è terminata così!

È continuata con la degustazione di molti piatti tipici, della Nigeria, della Costa d’Avorio, del Marocco, del Ghana, del Burchina Faso, della Romania... e dell’Italia.

Anna

 

Corridoi umanitari

Il Libano, con una popolazione di 4,4 milioni di abitanti, ospita 1,5 milioni di profughi siriani.

In questo contesto di sovrappopolazione, la Comunità di Sant’Egidio - insieme alla Tavola Valdese e alla Comunità Papa Giovanni XXIII - ha attivato dei “corridoi umanitari”, attraverso i quali sono arrivati in Italia negli ultimi due anni mille persone.

Undici di queste - un’intera famiglia composta da mamma, papà e 9 figli - è stata accolta dalle 6 parrocchie dell’Unità pastorale 9 di Torino e ospitata a Rivalta, presso la comunità del Filo d’Erba del Gruppo Abele.

Il progetto di accoglienza ha coinvolto a vario titolo oltre 150 persone che hanno formato una rete di supporto economico, di servizio e relazionale alla famiglia accolta.

La famiglia è ora impegnata ad imparare la nostra lingua per potersi poi inserire in un percorso di progressiva autonomia che si prevede di raggiungere al massimo entro un anno e mezzo.

Al momento non è ancora terminato l'iter burocratico previsto per i profughi, e quindi nessuno della famiglia può ancora accedere ad un lavoro, mentre otto dei nove figli hanno invece già intrapreso un cammino scolastico.

Francesco

 

21-LE SFIDE PER UNA CONVIVENZA CIVILE

In un momento in cui la famiglia in Occidente subisce un processo di dis-integrazione, attraverso gli immigrati possiamo scoprire un modo diverso e più solido di concepire la famiglia.

Il confronto vero si pone non tra idee di famiglia ma tra famiglie che funzionano oppure che non funzionano.

Considerare la famiglia come “soggetto di cittadinanza” per sostituire il concetto non più accettato di famiglia come “soggetto giuridico”.

 

di Pierpaolo Donati*

Di fronte al fenomeno migratorio, le famiglie italiane appaiono disorientate a causa di pressioni culturali opposte: da un lato, i loro valori sono messi in fluttuazione dai processi di modernizzazione radicali e, dall'altro, devono confrontarsi con culture immigrate che portano valori e comportamenti ritenuti ormai sorpassati da tempo.

Non è solo il caso del velo delle donne musulmane. La gran parte degli immigrati porta con sé dei modi di vita che si presentano come alternativi alla modernizzazione occidentale.

 

Il disorientamento della famiglia

Da un lato, la famiglia occidentale subisce modificazioni radicali, per un complessivo processo di indebolimento e frammentazione (la possiamo chiamare ‘dis-integrazione’ della famiglia), che arriva a elevare la patologia a normalità.

Infatti, per la cultura occidentale, fare una famiglia sembra diventare un gioco che ricalca le opportunità di scelta di un prodotto di consumo o di un modo di vita al quale ci si può adattare presto.

Le generazioni adulte non trasmettono più una cultura ai figli, i sessi tendono a confondersi, e così pure le generazioni tendono a invertire i loro ruoli.

Tendenzialmente, sessi e generazioni sono semplicemente dissolti. Nulla è più maschile o femminile, nulla è più del giovane o dell'adulto, anche perché non si sa quando si diventa adulti. La formazione dell'identità è lasciata all'individuo.

Dall'altro, arrivano culture che ignorano o non condividono il modello di vita occidentale.

Se è vero che gli immigrati sono attratti dal sogno del benessere occidentale, d'altra parte molti di essi non sono disposti ad abbandonare le loro origini culturali.

Appare quindi evidente che le nuove migrazioni in Italia e in Europa mettono in gioco la relazione storica tra processo di modernizzazione occidentale e famiglia.

 

Altri tipi di diritti

Il confronto inter-culturale porta in primo piano la famiglia immigrata non solo come fonte di problemi sociali, ma anche come fonte di diritti ‘altri’ rispetto alle tradizioni autoctone.

Ad esempio, una minoranza etnica può chiedere di vedersi riconosciuti certi rapporti coniugali (matrimoni poligamici, matrimoni a tempo, particolari clausole matrimoniali, ecc.) o certi modi di educazione dei figli (proibizione di mangiare certi cibi) che contrastano o violano il diritto italiano.

Le sottoculture immigrate implicano necessariamente una più o meno implicita competizione con la cultura occidentale moderna, e ancor più con quella postmoderna. Si apre allora, di fatto, un confronto fra culture più forti e più deboli dal punto di vista della capacità di sopravvivenza.

E benché certe sub-culture immigrate siano statisticamente minoritarie, la loro capacità di sopravvivenza è maggiore delle culture autoctone, perché la loro capacità di far vivere le persone in un rapporto più solido con il mondo conferisce loro una maggiore forza nel tessuto sociale.

Come quando un genitore italiano confronta il proprio figlio con quello di una famiglia cinese o di altri paesi asiatici e deve constatare che, in termini di capacità di auto-dominio e di ordine personale, il bambino straniero non teme confronti.

 

Problema o opportunità

Come si uscirà, se si uscirà, da questo confronto? Alcuni assicurano che non se ne potrà più uscire. È questa la versione della nostra società come società paradossale e segmentata, fatta di paradossi e segmenti che sarebbero i minima parte risolvibili e comunicabili tra loro. Secondo questa visione delle cose si potrà solo tentare di far convivere i paradossi e segmenti ‘esistenzialmente’.

Secondo altri, invece è possibile, e anzi è già in atto, un incontro fra culture capace di accettazione reciproca e produttiva di arricchimenti reciproci.

Ma queste ultime sono soprattutto esperienze che riguardano modi di alimentazione, di abbigliamento, di arredamento, occasioni di divertimento comune. Sulle differenze più cruciali si realizza al massimo una tolleranza reciproca, ma non un vero e proprio riconoscimento.

Se è vero che molte famiglie immigrate si modernizzano (le seconde generazioni soprattutto), è possibile che le famiglie autoctone modifichino certi aspetti di modernizzazione occidentale che erano stati dati per scontati. Gli episodi di conversione all'Islam o ad altre religioni diverse da quelli tradizionali presenti sul territorio diventa un segnale molto significativo in tal senso.

Questo grande processo di confronto culturale crea difficoltà, tensioni, e talora anche patologie sociali. Ma è anche un'opportunità per una comparazione tra culture familiari che faccia emergere ciò che esse hanno in comune, cioè i valori e le funzioni che, quale sia la latitudine in cui vivono le famiglie, assolvono per la comunità.

 

Famiglie e modernità

Il confronto vero non si pone fra idee di famiglia, bensì si pone tra famiglie che funzionano oppure non funzionano. La modernizzazione attuale vede la famiglia come vincolo anziché come risorsa, e perciò cerca di prescindere da essa, o almeno dalle sue costrizioni. Ma l'esperienza quotidiana dice che non sono i vincoli, bensì la qualità delle relazioni familiari ad essere il fattore decisivo per il benessere, la felicità e la riuscita nella vita delle persone. Questo è il dato fondamentale.

La modernità occidentale ha pensato e strutturato la famiglia come una cellula privatistica della società. Le culture non occidentali sembrano avere dubbi in proposito.

In ogni caso, il futuro della famiglia, sia essa autoctona o immigrata, non può evitare il confronto culturale con la modernità. Ma oggi c'è una svolta in questo confronto, che consiste nel fatto che la distinzione-direttrice della modernizzazione non è più tra progresso/conservazione, bensì fra umano/non umano.

Anche qui le culture non occidentali rimettono in gioco punti di vista che, radicate in etnie e religioni antiche, hanno come propria distinzione cardine la differenza tra ciò che è naturale e ciò che non è.

Che cosa significa questo? Significa che proprio la famiglia potrebbe diventare un punto di riferimento per una correzione della modernizzazione in senso umano. Il rapporto tra i sessi e quello fra le generazioni sono campi privilegiati di tale confronto.

 

Accoglienza: sì, ma

La maggior parte degli italiani (1) vede nella possibilità che l'immigrato possa vivere in una sua famiglia un fattore decisivo per promuovere l'integrazione sociale e anche culturale.

Tuttavia la maggior parte delle famiglie italiane vede l'immigrazione con una certa preoccupazione e manifesta evidenti timori, anche se non vi sono segnali apprezzabili di rigetto tout court.

Gli autoctoni sono preoccupati innanzitutto dei problemi materiali che l'immigrazione comporta in termine di competizione su beni economici, quali lavoro e casa. Per questo l'assoluta maggioranza chiede che gli immigrati conoscano bene la lingua italiana, i costumi e le regole del contesto in cui si inseriscono. Senza tali requisiti non dovrebbe essere loro concessa la cittadinanza italiana.

Quando sono in gioco gli interessi materiali, evidentemente gli italiani non sono così disponibili come quando si parla di valori e stili di vita.

Nel complesso, emerge chiaramente una certa paura che le famiglie italiane siano discriminate negativamente.

Non consta che gli italiani abbiano diffusi e consistenti pregiudizi razziali. Tuttavia, la maggioranza degli intervistati percepisce gli immigrati come fonte di criminalità e solo un terzo è favorevole a concedere loro il voto amministrativo. Una proporzione analoga di italiani ritiene che la presenza di molti figli di immigrati nelle scuole incida negativamente sul rendimento della classe scolastica.

L'impressione è che la diversità degli atteggiamenti e delle opinioni rifletta anche l'esperienza diretta di contatto tra autoctoni e immigrati. I contatti sono in generale ancora scarsi: quasi 40% non ha contatti o li ha molto raramente e solo circa il 20% li ha spesso o molto spesso. Di fatto, la solidarietà con gli immigrati è praticata solo dal 19% circa degli italiani.

In linea generale, c'è una chiara spaccatura fra chi valuta in maniera veramente positiva la presenza degli immigrati e chi la valuta negativamente.

In conclusione, accoglienza sì, ma purché le famiglie immigrate si integrino alla lingua e alle regole italiane, e non ricevano un trattamento di favore. Di qui la netta preferenza per gli immigrati dell'America Latina rispetto a tutti gli altri paesi di provenienza, perché sono percepiti come culturalmente più vicini alla cultura locale.

 

Che fare?

Il fatto che a livello legislativo, si tenda sempre più a considerare la famiglia come una società di individui priva di valenza pubblica, mette in difficoltà le culture di migrazione, perché erode il senso più profondo della famiglia, specie delle famiglie immigrate che vedono nel principio di solidarietà il fondamento del loro capitale sociale familiare.

Forse questo incontro fra culture potrebbe favorire una nuova visione della famiglia come un soggetto sociale che non è solo la somma di individui, ma è un bene relazionale.

Per questo, proponiamo da tempo il concetto della famiglia come soggetto di cittadinanza: la famiglia ha dei diritti di cittadinanza come diritti aggiuntivi, non sostitutivi di quelli personali, in forza delle mediazione che la famiglia esercita nella coppia e fra genitori e figli. Il concetto di famiglia come ‘soggetto di cittadinanza’ può sostituire quello di famiglia come ‘persona giuridica’ che solleva tanti problemi per la dottrina giuridica contemporanea.

Il medesimo concetto rende ancor più chiaro ed evidente il rapporto di sussidiarietà che lo Stato e tutta la comunità civile devono instaurare con la famiglia quale bene relazionale avente significati e funzioni rilevanti per la sfera pubblica e non solo per quella privata.

Una società multiculturale, infatti, si dovrà di nuovo porre la domanda se la famiglia possa essere messa in grado di operare come produttore di equità tra i sessi e fra le generazioni oppure se le famiglie saranno costrette a chiudersi in se stesse, nella propria sub-cultura e di conseguenza diventare fonte di diseguaglianza ed esclusione sociale.

Occorre che ogni vera cultura della famiglia sappia approfondire e sviluppare i suoi valori, mentre si arricchisce del confronto con le altre, anche con quella della modernizzazione.

Potrebbe venire un giorno in cui l'identità familiare (a partire da quelle di padre, madre, figlio) potrebbero diventare più importanti delle identità nazionali, di appartenenza ad uno Stato- nazione, e quindi potrebbero attraversare i confini della cittadinanza statuale.

Quel giorno, forse, una nuova alleanza tra le famiglie, attraverso generazioni ‘cosmopolitiche’ (nel senso dell’universalità contenuta in ogni appartenenza), potrebbe dare ai cittadini di tutto il mondo la capacità e la forza di creare azioni collettive in cui la famiglia, lungi dall'essere considerata un residuo culturale del passato, diventi il motivo e l'emblema di una società mondiale solidaristica. Poiché per gli esseri umani di qualunque latitudine, la vita non basta. Per loro, la vita deve essere umana.

 

(1) vedi dati rapporto Cisf 2014

 

*Tratto da: Le famiglie italiane di fronte all’immigrazione: le sfide di una convivenza civile, in: Cisf (a cura di), Le famiglie di fronte alle sfide dell’immigrazione, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2014.

Sintesi della redazione.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

L’articolo è molto “denso”; rileggetelo con calma e poi chiedetevi:

•          Secondo voi è vero che le famiglie di immigrati sono più solide delle nostre famiglie?

•          Noi siamo “progressisti” e loro “conservatori” in fatto di famiglia. Cosa preferiamo?

•          La sfida è davvero tra un modello umano e un non-umano di concepire la vita e le relazioni?

 

22-STEREOTIPI E PREGIUDIZI

Due modalità con cui tendiamo a giudicare gli altri

 

di Antonella Forte*

Di tutti gli avvenimenti pubblici che hanno vasti effetti, riusciamo di solito a vedere al massimo un aspetto ma, inevitabilmente, le nostre opinioni coprono uno spazio più ampio, un maggior numero di cose di quanto riusciamo direttamente ad osservare. Esse, infatti, vengono costruite sulla base di ciò che gli altri ci riferiscono e di ciò che noi stessi riusciamo ad immaginare.

I fatti che vediamo traggono origine dal punto di vista in cui ci mettiamo e dalle abitudini contratte ai nostri occhi.

Nella maggior parte dei casi noi definiamo non dopo, ma prima di aver visto. Nel grande caos del mondo esterno scegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi e tendiamo a percepire quello che abbiamo prescelto nella forma che la nostra cultura ci ha stereotipato.

Lippmann nel 1920 ha introdotto il concetto di stereotipo definendolo come rigide generalizzazioni costruite sui gruppi sociali, riprendendo la sua idea dal significato originario della parola: una piastra di metallo in cui veniva impressa un’immagine o un elemento tipografico originale.

Questo strumento, una volta costruito, era molto comodo e facile da utilizzare e, nel caso in cui fossero stati fatti errori durante la sua creazione, esso veniva comunque utilizzato perché la sua modifica era impossibile.

Proprio per questa ragione, questo termine si adatta benissimo alle opinioni precostituite, non basate sull’esperienza diretta e quindi difficilmente modificabili. Gli stereotipi, infatti, sono strumenti cognitivi di facile utilizzo, il cui mutamento o aggiustamento, però, risulta così complicato che non viene praticamente mai messo in atto.

Una caratteristica rilevante dello stereotipo è rappresentata dal fatto che esso precede l’uso della ragione e che è resistente all’educazione e alla critica: se ciò che stiamo guardando corrisponde bene a quello che abbiamo previsto, lo stereotipo viene rafforzato per le situazioni simili future; qualora, invece, l’esperienza contraddice lo stereotipo allora o tendiamo a liquidare la contraddizione come un’eccezione che conferma la regola oppure, se la nostra mente è più aperta, accogliamo la novità nell’immagine e la lasciamo libera di modificarla.

Gli stereotipi, in realtà, non li utilizziamo solo come un modo per semplificare la realtà o per descriverla, ma anche per giudicarla, in quanto essi sono ricchi di preferenze, di simpatia o antipatia, di timori e di speranze.

Nella vita quotidiana, molto spesso, si giudica in questo modo prima di vedere i casi, dando una conclusione che i dati di fatto quasi sicuramente confermeranno.

 

Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni.

È soprattutto una predisposizione a percepire, pensare, giudicare e agire in maniera sfavorevole nei confronti di gruppi diversi dal proprio, di cui necessariamente abbiamo una conoscenza meno approfondita, e di cui siamo quindi meno in grado di vedere le differenziazioni interne.

Ognuno di noi agisce e pensa in funzione delle sue valutazioni, della sua cultura, della sua ideologia, rispetto ai quali può essere più o meno elastico, ma dai quali non può mai liberarsi completamente, tanto che possono condizionare a volte, anche in maniera pesante, le sue scelte.

È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui.

Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

 

* Tratto da: Stereotipi e pregiudizi facilitano/ostacolano le relazioni, in: Lazzarini – Stobbione, Mediare tra culture, Franco Angeli Editore, Milano 2017.

Adattamento della Redazione.

 

Uomini e donne nella Bibbia
23-MARIA, DONNA DI FRONTIERA

Dalla fuga in Egitto alla morte ad Efeso, passando per il Calvario e il Cenacolo

 

Di Tonino Bello*

Maria compare appena sullo scenario della salvezza, e già la vediamo intenta a varcare confini.

Se non proprio con i visti rilasciati dal ministero degli Esteri, deve subito vedersela con le tribolazioni che si accompagnano a ogni espatrio forzato. Come una emigrante qualsiasi del Meridione. Anzi, peggio. Perché non deve passare la frontiera per motivi di lavoro, ma in cerca di asilo politico.

Molto chiaro l’ordine trasmesso dall’angelo a Giuseppe: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”.

Ed eccola lì, sul confine. Da una parte, l’ultima terra rossa di Canaan. Dall’altra, la prima sabbia dei Faraoni.

Eccola lì, tremante come una cerva inseguita. È vero che gode del diritto di extraterritorialità, dal momento che stringe tra le braccia colui il cui dominio va “da mare a mare e dal fiume fino agli estremi confini della terra”. Ma sa pure che, come salvacondotto, è troppo rischioso esibire quel bambino alla polizia di frontiera.

Il Vangelo non ci lascia neppure una riga di quel drammatico momento. Ma non è difficile figurarsi Maria, trepida e coraggiosa, lì, sullo spartiacque di due culture così diverse. Quella foto di gruppo che Matteo non ha scattato sulla striscia doganale, ma che si conserva ugualmente nell’album del nostro immaginario più vero, rimane una icona di incomparabile suggestione per tutti noi, che oggi siamo chiamati a confrontarci con nuovi costumi e nuovi linguaggi.

Perfino nel suo congedo dalla scena biblica Maria si caratterizza come donna di frontiera. E presente, difatti, nel Cenacolo, quando lo Spirito Santo, scendendo sui membri della Chiesa nascente, li costituisce “testimoni fino agli estremi confini della terra”.

Noi non sappiamo se, seguendo Giovanni, ha dovuto varcare ancora una volta le frontiere. Secondo alcuni, avrebbe chiuso i suoi giorni nella città di Efeso: all’estero, cioè. Una cosa è certa: che, dal giorno di Pentecoste, Maria è divenuta madre di “una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua”, e ha acquistato una cittadinanza planetaria che le permette di collocarsi su tutte le frontiere del mondo, per dire ai suoi figli che queste, prima o poi, son destinate a cadere.

Ma c’è un momento ancora più forte in cui Maria si staglia, con tutta la sua grandezza simbolica, come donna di frontiera. È il momento della Croce.

Quel legno non solo ha abbattuto il muro di separazione che divideva gli Ebrei dai pagani, facendo dei due un popolo solo, ma ha anche riconciliato l’uomo con Dio nell’unica carne di Cristo. La Croce rappresenta, perciò, l’ultima linea dì demarcazione tra cielo e terra. Il confine, ormai valicabile, tra tempo ed eternità. La frontiera suprema, attraverso la quale la storia umana entra in quella divina e diventa l’unica storia di salvezza.

Ebbene, Maria sta presso quella frontiera E la bagna di lacrime.

 

Santa Maria, donna di frontiera, mettiti, al nostro fianco. Noi oggi stiamo vivendo l’epoca della transizione. Scorgiamo le pietre terminali delle nostre secolari civiltà. Ammassàti sul discrimine da cui si divaricano le culture, siamo incerti se scavalcare i paletti catastali che hanno protetto finora le nostre identità.

Le “cose nuove” con cui ci obbligano a fare i conti le turbe dei poveri, gli oppressi, i rifugiati, gli uomini di colore, e tutti coloro che mettono a soqquadro le nostre antiche regole del gioco, ci fanno paura. Per difenderci da marocchini e albanesi ingrossiamo i cordoni di sicurezza. Le frontiere, insomma, nonostante il gran parlare sulle nostre panoramiche multirazziali, siamo più tentati a chiuderle che ad aprirle.

Perciò abbiamo bisogno di te: perché la speranza abbia il sopravvento e non abbia a collassarci un tragico shock da futuro.

* Fonte: www.atma-o-jibon.org

 

24-PER APPROFONDIRE IL TEMA

I libri usati per realizzare questo numero

 

Cisf (a cura di), Le famiglie di fronte alle sfide dell’immigrazione, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2014.

Anche se i libro è ricco di tabelle e numeri, non spaventatevi perché troverete comunque tutto ciò che vi serve per approfondire il tema di questo numero della rivista.

Il Cisf, Centro Italiano Studi Famiglia, che ha curato questo studio, promuove una cultura della famiglia nel solco dei valori tramandati senza ignorare la realtà della società contemporanea.

In quest’ottica i dati non sono presentati acriticamente ma commentati e approfonditi.

Qui sta il valore del libro, che non va tanto letto pagina dopo pagina ma ricercando in esso gli spunti che possono interessare, sapendo che le riflessioni proposte partono da dati scientifici consolidati. Dal volume abbiamo tratto una parte delle riflessione di Piercarlo Donati (p.20-22) e di Ennio Codini (p.13).

 

Claudio Torrero, Famiglia. Culture e valori. Alla ricerca di radici comuni, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2017.

Il libro riporta l’esperienza che l’autore, insegnante di filosofia e scienze umane nelle scuole superiori, ha realizzato con i suoi allievi durante tre anni di lavoro.

Torrero riporta il cammino fatto, le interviste raccolte, le riflessioni dei suoi allievi e le sue personali.

Si tratta di un lavoro serio attraverso il quale il professore e suoi studenti sono andati alla ricerca di ciò che simile e di ciò che è diverso tra di noi e le diverse culture presenti sul nostro territorio in tema di famiglia, relazioni uomo-donna e rapporti intergenerazionali.

Un libro di cui consigliamo caldamente la lettura perché entra nel cuore dei problemi trattati in modo diretto, senza eccessive pretese scientifiche ma senza mai cadere nel banale.

 

Giuseppe Dardes - Ignazio Punzi, Dov’è tuo fratello. Famiglia, immigrazione e multiculturalità, Edizioni San Paolo, Cinisello balsamo (MI) 2015.

Raffaella Cosentino, Immigrazione, Città Nuova Editrice, Roma 2016.

Il primo libro affronta il tema non solo sotto l’aspetto di chi arriva ma anche sotto quello di chi accoglie, di famiglie che aiutano altre famiglie a integrarsi.

Il secondo è uscito come Dossier del mensile Città Nuova. Da segnalare il concetto di “sistema adottivo” di integrazione, proposta dalla Comunità di Sant’Egidio e di cui trovate un esempio a pag. 19 nel paragrafo in cui si parla di “corridoi umanitari”.

 

Guido Lazzarini - Tiziana Stobbione (a cura di), Mediare tra culture, Franco Angeli Editore, Milano 2017.

Lo scopo principale di questo testo è di definire il ruolo del mediatore culturale, che si trova a muoversi tra inclusione sociale e promozione delle diversità.

Il libro ha l’ambizione di fornire il numero più alto possibile di informazioni, esperienze e competenze per promuovere la realizzazione di un corso di studi a livello universitario che rilasci un titolo di studio in mediazione culturale, meglio “interculturale”.

Infatti, il mediatore interculturale si configura come “esperto in integrazione” e va collocato al centro degli interventi diretti ai migranti, non alla loro periferia.

Dal libro abbiamo tratto una parte della riflessione di Antonella Forte relativo agli stereotipi e ai pregiudizi (vedi pag. 23).

 

John Steinbeck, Furore, Bompiani - Giunti Editore, Milano - Firenze 2017

Nel 2017, in occasione della "Giornata Nazionale per le vittime dell'immigrazione", è stato trasmesso su Rai 3 il documentario "Steinbeck, Furore" in cui Alessandro Baricco racconta e commenta questo libro.

Anche se non citato in questo numero, il lavoro di Steinbeck descrive bene la “fatica” dell’emigrazione, anche se si tratta di una migrazione interna.

Si narra di una famiglia di contadini del Midwest degli USA che viene espropriata, come tante altre, dalla banca della loro fattoria e si vede  costretta ad emigrare in California in cerca di fortuna, attraverso un fortunoso viaggio che tocca diversi stati americani.

La California sarà tutt’altro che un paradiso e si troveranno a dover scegliere tra i campi profughi e il lavoro sottopagato nelle tenute agricole, in una competizione al ribasso tra poveri.

 

25-CAMPI ESTIVI 2018

Non fatevi mancare una settimana di belle esperienze

 

Grazie perché quando siamo partiti da casa non sapevamo cosa aspettarci, ma siamo arrivati qui con tanta speranza. Adesso ripartiamo felici, con una ricchezza immensa, perché abbiamo conosciuto tante famiglie semplici, molto coraggiose a mostrare i loro limiti e a condividere come noi le nostre debolezze e le nostre povertà. Abbiamo avuto in regalo tanti nuovi amici e fratelli uniti nella preghiera. Grazie per averci permesso di conoscervi.

Felicia, Domenico, Teresa Elisabetta, Gaetano, Silvestro Pio, Annachiara e nonna Anna

 

É già ora di pensare alla prossima estate ai Campi Famiglia: piano ferie di papà, quello di mamma, impegni di ciascuno dei figli tra sport, scout, Acr e vacanze studio o lavoro estivo per i più grandi. Un vero rebus da risolvere e quando tutto si incastra a dovere, esce la scritta “CAMPO FAMIGLIA OK”.

E le novità? Dove saranno quest'anno le case? Chi ci sarà?

Una cosa alla volta! Le settimane sono ad agosto per facilitare la partecipazione di più famiglie e da più parti d'Italia. Chissà quali famiglie arriveranno quest'anno, quanti bambini con dialetti diversi e giochi diversi! Non rinuncerei mai a questo magico miscuglio e scambio di esperienze.

Agli animatori ci si pensa subito, un giro di WhatApp e via. Che ragazzi indimenticabili, sorrisi e disponibilità senza misura, ti fanno allargare il cuore: sono loro il mondo migliore di domani, e come “stregano” i figli più piccoli! Li seguono dovunque, li stanano ovunque trovino riparo. E questi figli sognano di arrivare a fare gli animatori, proprio come loro... e non vedono l'ora di crescere.

Ma dove saranno quest'anno i campi?

Campagna, città o montagna? Magari mare... chissà!

Dietro a tante iniziative ci sono le fatiche di persone che iniziano ad organizzare, a preparare ogni cosa già a febbraio perché sia tutto pronto al momento giusto! Le proposte nascono dalle realtà dei Gruppi famiglia che generosamente si mettono a servizio di altre famiglie per il semplice desiderio di far vivere anche ad altri esperienze che a loro hanno cambiato la vita!

Una settimana che ti cambia la vita! Sarà questa? Basta che ti lasci portare dall'entusiasmo dei più piccoli e vedrai...

Antonella e Renato

 

26-LA FELICITÀ CHE SI NUTRE DI SPERANZA

 

Al momento che le decision si piglia:

pur per quest'anno: campo famiglia

e per il quarto anno consecutivo

abbiam scelto a Voltago il campo estivo.

Ho qui trovato tanti amici sinceri

i nuovi, i vecchi e pur quelli Veri.

Una quindicina sono le famiglie,

siam sessanta, tra sposi, figli e figlie.

Ci son anche animatori e animatrici

che i nostri figli seguon e fan felici,

con programmi secondo le tre età

come nei campi da sempre si fa.

Al mattino alle nove si prega il Signore

Noi adulti ci troviam poi con Gabriella,

per cui la speranza è cosa bella:

Abramo, Emmaus e 'l dubbioso Pietro.

Dio è certezza e mai si tira indietro,

la speranza in Lui ognun lo sa

è prestito fatto alla felicità.

Con Don Sandro c'è la Messa ogni sera

dove il lavor dei gruppi si fa preghiera.

Dopo cena le allegre serate

dagli animatori organizzate.

Domenica sera la presentazione d'ogni famiglia,

a seconda del colore che si piglia

c'è la prospettiva della famiglia.

Lunedì sera serata delle stelle,

(per San Francesco: clarite et pretiose et belle),

alzando lo sguardo verso il ciel stellato

rendiam lode a Dio, che l'ha creato.

II Giovedì in auto di prima mattina

si raggiunge Pescul, Val Fiorentina,

poi sotto il Pelmo lunga escursione

che crea stanchezza ma anche emozione.

Chi non può affrontar la camminata

si consola in cortil con 'na grigliata.

Venerdì tre preti giunti dal piano

(Don Antonio, Florido e Silvano)

più Don Sandro per far le confessioni

posizionati in vari cantoni.

Pomeriggio Messa penitenziale

e rinnovo promessa matrimoniale.

Le spose con un mazzolin di fiori

fatti in carta per i genitori.

Sabato: Voltago-Messa vespertina

e si parte domenica mattina,

dopo aver vegliato un'allegra nottata

dai partecipanti al campo animata.

Con un sorriso sul volto dipinto

saluta in rima...

Nonno Giacinto!!!

 

27-CAMPI ESTIVI 2018

Calendario provvisorio

 

27 luglio – 2 agosto San Giacomo di Entraque (CN)

Tema da definire.

Relatore: Angelo Fracchia, biblista.

Org.: Diocesi di Cuneo.

Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786,

tommy.angela@libero.it

 

5-12 agosto Bettona (PG)

Relatori di alcune comunità umbre.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Antonella e Renato Durante, 348 5558619, ren-anto@libero.it

 

12-19 agosto Bessen Haut (TO)

Tema e relatori da definire.

Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).

Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431, curra@email.it

 

15-19 agosto Chiappera (CN)

Tema: Il Vangelo della famiglia: gioia per il mondo.

Relatori: Nicoletta e Davide Oreglia.

Org.: Diocesi di Mondovì (CN).

Info: Daniela e G.Paolo Basso, 339 1541258, gbasso@credem.it

 

18-25 agosto Valle di Cadore (BL)

Tema e relatori da definire.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595, segninuovi@alice.it

 

19-26 agosto Voltago Agordino (BL)

Tema e relatori da definire.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718,

antoniobottero@alice.it

 

Il calendario, aggiornato in tempo reale, è consultabile sul sito: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le notizie in evidenza.

 

28-BILANCIO 2017 F&F

Praticamente in pareggio, grazie al vostro 5x1000

 

Carissimi, come potete leggere nella tabella sottostante, il bilancio 2017 dell’associazione Formazione e Famiglia, editrice della rivista, si è chiuso quasi in pareggio.

Questo è merito del mantenimento al livello dello scorso anno delle entrate per il 5x1000 per l’anno fiscale 2015.

Dobbiamo segnalare, invece, la riduzione del numero dei contributi liberali che riceviamo annualmente: in cinque anni sono scesi da 303 a 196.

Vi invitiamo quindi ad aiutarci a promuovere la rivista: per esempio presentandola a coppie giovani, al parroco, lasciando delle copie al fondo della chiesa, ecc. oppure a farci avere indirizzi di famiglie che potrebbero essere interessate.

Tra le attività accessorie, sono state inseriti i due ultimi numeri della rivista: il n.95 per utilizzare la quota del 5x1000 non impegnata per i campi e il n.96 perché inserito nel progetto “Immischiati a scuola” organizzato per conto del Forum delle Associazioni Familiari del Piemonte.

il Presidente Noris Bottin

 

29-Pace a tutte le persone della terra!

Tra queste voglio ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati.

Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale, pur consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta.

Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate.

Purtroppo, in molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio.

Siamo chiamati a scoprire, attraverso uno sguardo di fede, che i migranti e i rifugiati non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono.

Papa Francesco, dal messaggio per la giornata della pace 2018