Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF98 – giugno 2018
L’epoca delle pretese
Educare ai doveri in una società di “diritti”
Lettere alla rivista
1-La Chiesa di papa Francesco
Per una Chiesa il cui vertice si trovi al di sotto della base
La Chiesa sostiene i diritti dei più deboli, degli esclusi, ma al suo interno mi sembra prevalere la gerarchia, l’obbedienza, il dovere. Mi può spiegare il perché?
Matteo
Il problema della struttura gerarchica della Chiesa è molto sentito dai laici, soprattutto da coloro che sono impegnati attivamente a fianco dei presbiteri.
L’impressione di un eccesso di autorità da parte dei chierici nei confronti dei laici molte volte è frutto della mancanza di un dialogo aperto e di un eccesso di presunzione nelle proprie capacità.
Ma alcune volte, purtroppo, l’autorità “viene esercitata male e diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità”, afferma papa Francesco.
Invece “l’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene”.
Infatti, scrive il Papa al cardinale Ouellet, “la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma tutti formano il santo popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il popolo di Dio, la cui identità è ‘la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio (Lumen gentium, n. 9)’ ”.
Ne consegue che “ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati (Evangelii gaudium, n.120)”.
La Chiesa auspicata da Francesco (1) non può non essere una Chiesa “sinodale”, dove tutti, consacrati e laici, camminano insieme per annunciare e testimoniare in modo efficace il Vangelo.
Nella Chiesa sinodale “ciò che riguarda tutti, da tutti è trattato”, nessuno si eleva al di sopra degli altri e chi esercita le funzioni di governo lo fa ricordandosi che il più grande è come il più piccolo e chi governa come colui che serve (Lc 22,16).
L’immagine privilegiata di questa chiesa è quella della piramide capovolta, il cui vertice si trova al di sotto della base. In una Chiesa sinodale non si può separare rigidamente una chiesa docente e una chiesa discente.
Franco Rosada
(1) Cfr. Roberto Repole, L’ecclesiologia di papa Francesco, LEV 2017.
Dialogo tra famiglie
2-Obbedienza e rispetto: sono ancora valori?
Aiutare i figli a porsi domande che facciano crescere la loro empatia
Come si può educare al rispetto, all’obbedienza un figlio in una società dove contano i valori opposti?
Noemi
Credo che in un’ottica educativa il primo passo sia riconoscere il bene in cui siamo immersi e poi indirizzarlo. La nostra società ha al centro proprio il rispetto per l’individuo, ma è chiaro che c’è un risvolto negativo: l’individualità esasperata diventa individualismo, esigere rispetto senza riconoscere l’altro come valore al pari di me. Allora io lavorerei su questo: sul riconoscere l’importanza che ha il sentirsi rispettati, aiutando i figli a porsi domande che facciano crescere la loro empatia: “come ti sentiresti tu se…?”, facendo leva cioè sulla loro positiva esperienza di essere rispettati, in primis da noi genitori! Riguardo all’obbedienza scontiamo tutti un retaggio antico: l’idea che corrispondere a un comando senza aderirvi sia in fondo una buona cosa.
Certamente la vita offre infinite occasioni di costrizione (p.e. la scuola), ma nelle relazioni, per quanto asimmetriche, la possibilità di ragionare ci dovrebbe essere sempre. Non si tratta di derogare al fatto che alcune decisioni le devono prendere i genitori, ma creare le condizioni perché i figli possano farle proprie. Se dicessi di non toccare la presa della corrente dovrei essere obbedita perché madre o perché è un pericolo? Se fin da piccoli li aiutiamo a vedere la ragione delle nostre regole e “comandi”, più facilmente li accoglieranno e li porteranno dentro anche negli anni della ribellione.
Paola Lazzarini
Editoriale
3-Doveri e diritti
Oggi anche la libertà è diventata un comando
di Franco Rosada
Il tema dei diritti e dei doveri è stato un argomento molto sentito dai nostri lettori, quando nel 2017 avevamo chiesto loro di esprimere delle preferenze sui temi da trattare sulla rivista.
Eppure lo trattiamo solo ora, e non senza qualche difficoltà, perché il tema è difficile e apparentemente lontano dagli argomenti più usuali della rivista.
Fatta questa premessa, che in parte vuole essere anche una giustificazione se non troverete nel numero le risposte che vi attendevate, entriamo nel merito.
Viviamo in una società di diritti, diritti reclamati a gran voce pur trattandosi a volte di argomenti discutibili come il riconoscimento di una doppia maternità o paternità - diritti contestati in modo più o meno acceso da parte del mondo cattolico - ma soprattutto viviamo in una società di mancati doveri.
Doveri sociali, come il mancato rispetto delle regole di circolazione: auto in doppia fila, biciclette che circolano in contromano e sui marciapiedi, pedoni “arrotati” sulle strisce pedonali o che attraversano ovunque dando di spalle ai veicoli in arrivo; smaltimento indiscriminato dei rifiuti o delle cose che non servono più; litigiosità diffusa, dalle relazioni di vicinato a quelle tra sconosciuti per pretesi diritti non rispettati; le scorrerie notturne nelle scuole o negli spazi pubblici con relative devastazioni e sfregi, e così via.
Cosa si nasconde dietro questo imbarbarimento della vita civile? Senz’altro una “fatica” di vivere legata alla precarietà, alla mancanza di prospettive, all’assenza delle istituzioni o alla loro eccessiva tolleranza. Direi soprattutto una caduta dei valori, di ideali che aprano alla speranza e non schiaccino le prospettive di vita solo nel presente.
Le questioni che hanno condotto a questo stato di cose sono molteplici e investono una pluralità di campi: la politica, l’economia, ma anche la filosofia e la religione.
In un periodo di passaggio da un’appartenenza alla Chiesa di tipo sociologico ad una appartenenza per scelta di fede, i valori della cristianità diventano quanto mai attuali, in grado di indicare una strada per superare questa stagione di decadenza morale.
Se questo è l’argomento principe del numero, ve ne sono altri collegati. Per esempio la democrazia, su cui si basa la vita civile del nostro paese, la distinzione tra diritti personali e sociali, l’insegnamento di quella che una volta si chiamava “educazione civica”.
Otre a questi vi è la riscoperta che tutti i nostri legami sociali, dalla coniugalità alla genitorialità e alla nostra vita di fede sono contrassegnati da “diritti” e da “doveri”.
Parlare in questo modo dell’amore tra un uomo e una donna, o tra un genitore e i suoi figli, o del rapporto tra il credente e Dio sembra irrispettoso.
Eppure, sposandoci o vivendo insieme, abbiamo sottoscritto, esplicitamente o implicitamente, un patto coniugale che, nei confronti dei figli, diventa un patto genitoriale. Eppure, con il battesimo, siamo entrati in una comunità, la Chiesa, che ha bisogno di “regole” per realizzare la sua missione.
Quanto vi ho detto finora vi può spiegare perché non sia riuscito a coinvolgervi nella realizzazione di questo numero chiedendo le vostre testimonianze. La rivista si è sviluppata passo dopo passo e, ad ogni angolo, emergevano delle nuove prospettive.
In questo senso devo ringraziare il professor Giuseppe Goisis, filosofo politico, per gli ottimi suggerimenti librari che mi ha fornito.
4-La civiltà dei doveri
Norberto Bobbio, analizzando il Settecento, sosteneva che in quel tempo era avvenuta una svolta epocale di civiltà. Si era passati dai doveri ai diritti, dall’obbligo alla libertà.
Naturalmente, ci si potrebbe chiedere dove nascessero quegli obblighi, e si dovrebbe rispondere che c’erano dei valori a sostenere il comando. Proprio perché tu lo stimi, il valore diventa cogente, obbligatorio.
Ci si potrebbe ancora naturalmente chiedere che cosa si comandasse nel passato, ma altrettanto che cosa si comandi oggi; perché, paradossalmente, anche la libertà è diventata un comando. Quali sono i cogenti comandi della libertà, i cogenti comandi dei diritti?
Più interessante invece è tener conto di un’osservazione fatta dal sociologo delle religioni Bryan Wilson: noi vivremmo ancora di rendita dell’accumulo di capacità di sacrificio e dedizione creati dalla società del passato, la società dell’obbligo.
È alla civiltà dell’obbligo che dobbiamo ancora il deposito a cui attingiamo, mentre noi oggi non saremmo più in grado di costruire un deposito di valori sufficienti a reggere i costi del vivere in società. Dal che scaturisce in Bryan Wilson una domanda in lui persino angosciante: quando sarà finito il deposito accumulato dalla civiltà dei doveri dove attingeremo noi?
Ermes Segatti
5-L’umore del Paese
L’Italia è un paese in declino. Il calo demografico ha molti fattori, soprattutto economici, ma tra questi vi è anche la domanda: “ma perché devo far vivere mio figlio in un paese così?”.
Da un lato corruzione, lassismo, permissivismo, immoralità, dall’altra disoccupazione, solitudine, povertà, crisi di valori.
Molti coltivano l’illusione che la felicità si avrà solo quando sarà abolito ogni precetto morale.
A cura della Redazione
Siamo un paese litigioso, arrabbiato, poco rispettoso delle regole, dove tutti vantano diritti ma pochi si assumono i doveri loro propri, dove ha ragione chi urla più forte, dove sembrano contare di più gli interessi di minoranze (economiche e sociali) che quelli della maggioranza.
Questo articolo introduttivo è una sorta di raccolta dei “mal di pancia” degli italiani, tratta dai giornali e dalla rete.
La questione morale
“Ogni giorno scompare qualcosa. Ci impoveriamo. E gli italiani sono assuefatti al degrado. Non vedono via d’uscita. Sono arrabbiati. Nutrono rancore. Sono stanchi di un paese fermo“.
Così parla Piero Angela, riferendosi all’attuale situazione italiana, frutto di una politica allo sbando e di cittadini che però non sono privi di colpe: “Quando ero bambino, non mi hanno mai detto che ero titolare di diritti. Avevo molti doveri, se li rispettavo venivo premiato, altrimenti venivo punito. In Italia oggi tutti vogliono tutto.
Nessuno è più educato a pensare che per avere qualcosa prima deve essere disposto a offrire qualcos’altro in cambio. - Angela prosegue, rincarando la dose, - il problema dell’Italia è un problema morale, che non si può risolvere in cinque minuti.
Ogni giorno leggiamo di casi di corruzione. Non sono solo politici, palazzinari, delinquenti: sono anche avvocati, giudici, uomini della guardia di finanza, dipendenti pubblici che truffano lo Stato per cui lavorano. Non ci sono punizioni per chi sbaglia e non ci sono premi per chi merita. Un paese così non può funzionare. È un paese morto”.
Sara Ghisoni (1)
Diritti farlocchi
Osservo sempre più spesso un fatto davvero deprimente: la completa distorsione del termine “diritto”. La gente si riempie la bocca dei “diritti” più assurdi, se ne fa scudo contro il resto del mondo, li usa come pretesti per rifiutare qualsiasi forma di compromesso.
Ovviamente, non parlo dei Diritti Fondamentali dell’Uomo, dei Diritti veri, quelli con la lettera maiuscola: la Vita Dignitosa, la Salute, l’Istruzione,…Di questi ci dimentichiamo completamente o a volte, peggio, li trattiamo con sufficienza e disprezzo (forse ci ricorderemo di loro e del loro valore quando ci saranno tolti?).
Parlo delle sciocchezze: di chi ritiene suo diritto mettere l’auto nel posto dell’handicappato se gli altri sono occupati; di chi ritiene suo diritto non farti passare avanti alla cassa per mamme in dolce attesa, anche se tu sei chiaramente incinta e lui chiaramente no; di chi ritiene suo diritto tenere acceso il cellulare dove ce n’è un chiaro divieto (e ti risponde irritato se glielo fai notare); di chi ritiene suo diritto fregarsene delle regole della strada perché tanto ha un SUV e quindi “peggio per gli altri”; di chi ritiene suo diritto pretendere il silenzio assoluto alle sette di sera per andare a letto con le galline.
Ci hanno sempre insegnato che “i miei diritti finiscono dove iniziano quelli degli altri”, cioè che nel nome del mio diritto non posso calpestare chi sta vicino a me.
Bene, ora sembra che non sia più così. I diritti (quelli idioti, autoproclamati, che non meritano certo la maiuscola) diventano l’ennesimo strumento di prevaricazione nei confronti degli altri. Il risultato? La solitudine. Ci creiamo campane di vetro con bei giardini e tante comodità da cui tutti gli altri sono esclusi. Ci rapportiamo tra noi col coltello tra i denti, pronti a pretendere prima di dare (e fermamente convinti di essere nel giusto, nel diritto).
Alice Zamagni (2)
Buon senso e senso comune
Tra senso comune e buon senso non sempre è facile distinguere: oggi, se vediamo un bambino che sembra essersi smarrito, abbiamo molta più difficoltà di un tempo a offrirci di assisterlo, come il buon senso (e non solo quello) imporrebbe. Questo perché il senso comune diffuso in questi anni storti e incoerenti ci dice che rischieremmo di essere scambiati per pedofili.
D'altra parte, il buon senso stesso può essere contraddittorio se non ambiguo: potrebbe guidarci a non intervenire in una rissa scatenata da un gruppo di bulli contro un ragazzino per paura di venire noi stessi malmenati.
A volte dunque è difficile distinguere tra buon senso e timore: timore di esporci, di venire danneggiati, timore semplicemente di alterare la struttura di abitudini che intesse le nostre vite. In effetti il buon senso talora non è che paura mascherata.
Alessandro Manzoni scriveva: “Il buon senso c'era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Alessandro Defilippi (3)
L’Italia della rabbia
L'Italia del livore sta esplodendo? Certo il 30% e oltre di giovani senza lavoro né futuro sono una ferita lacerante insopportabile, poi ci sono i nonni che in molte famiglie italiane sono l'unica ancora di salvezza per i figli, la Caritas assediata da persone in difficoltà.
C'è rancore crescente, c’è livore inarrestabile, c’è rabbia.
È un’Italia della rabbia. Genitori con i figli plurilaureati in casa che non trovano lavoro; giovani cui offrono nei call center 400 euro al mese; figli tra i 25 e i 35 anni che sopravvivono passando da un impiego precario all'altro, da contratti a chiamata ai voucher; donne e uomini rimasti per le ragioni più svariate fuori dei cancelli delle fabbriche e condannati a lavorare attraverso cooperative per 5-8 euro l’ora.
Eccolo il Paese che ha il volto del 2018, ma gli stipendi di 10 anni fa. Nelle nostre periferie, da Torino a Milano, a Roma o Napoli si registra, nella solitudine delle mattine d'inverno, l'esasperazione di una generazione dimenticata, del ceto medio disossato dalle difficoltà e spesso piegato dalla crisi, quella dei commercianti obbligati ad abbassare le saracinesche e a spegnere, uno dopo l'altro, i presidi sotto casa, presidi di convivialità, di qualità di rapporti e di vita, di dignità umana.
Gian Mario Ricciardi (4)
Chiudere un occhio
In Italia, pur essendo vigenti leggi molto severe, queste sono interpretate con molta comprensione e molta liberalità.
La loro applicazione non avviene o avviene solo saltuariamente come nei casi più gravi ed eclatanti, mentre in quelli che non danno scandalo o immediata preoccupazione sociale, le norme vengono raggirate o molto edulcorate.
Chiudere un occhio o entrambi diventa la norma.
Capire chi sbaglia, chi pecca, chi commette un crimine o un'inosservanza della legge o dei regolamenti, diventa bontà, magnanimità, virtù.
Emidio Tribulato (5)
La società permissiva
Il permissivismo si dichiara neutrale nei confronti dei valori o ideali che ciascuno assume, nel senso che ognuno è libero di professare i suoi valori nella sfera privata, purché non pretenda di farli valere oltre ad essa.
In realtà, la società permissiva non è neutrale come pretende: la concezione della realizzazione umana che sta alla sua base è quella che “l’uomo si realizza quando sia abolito ogni precetto morale che si definisca sotto forma di divieto, ossia i ‘comandamenti’ e gli ‘imperativi’: la felicità conseguirà come risultato necessario della loro abolizione. Vero non è altro se non ciò che per ognuno è favorevole all’intensificazione della vita”; e questa posizione è portata spesso così avanti che ogni distinzione di bene e di male viene eliminata.
Giuseppe Riconda (6)
(1) Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/personaggi/13284796/piero-angela-italia-paese-morto.html
(2) Fonte: https://villaggiogiovane2010.wordpress.com/2013/01/13/larroganza-dei-diritti-di-alice-zamagni-86/
(3) Fonte: La Stampa, 28 marzo 2018
(4) Fonte: La voce e il tempo, 29 aprile 2018
(6) Fonte: http://www.interdependence.eu/archivio/riflessioni/370-critica-della-societa-permissiva.html#_ftn1
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Non ci sono punizioni per chi sbaglia, non ci sono premi per chi merita: concordiamo?
• Come ci comportiamo nelle relazioni con il prossimo, soprattutto quando questo è maleducato?
• Come conciliamo il giusto desiderio di giustizia con la misericordia evangelica?
• Cosa vorremmo che cambiasse, in meglio, nella nostra società?
6-La società dei “diritti”
Oggi l’immaginario dei diritti, della libertà, non è di certo l’egualitarismo dei nostri padri, oppure costruire la democrazia, ma essere aperti, disponibili a nuove esperienze, pronti anche alla violenza se qualcun altro ci intralcia. Mauro Magatti
I nuovi “diritti” umani stanno diventando una religione secolare, forse l'unica a cui il secolarismo presta fede.
Il nuovo diventa il buono, il possibile diventa il lecito, l'essere coincide con il poter essere fatto, il mistero diventa problema.
A cura della Redazione
Il cammino dei diritti, in epoca moderna, inizia con la Costituzione americana (1787) seguita dalla Costituzione francese (1789), uno dei primi frutti della Rivoluzione.
La platea degli aventi diritti, inizialmente limitata dal censo e dal sesso, si è nel tempo estesa fino ad arrivare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.
Nella storia c’erano già stati contesti in cui alcuni diritti avevano trovato spazio, come l’Atene di Pericle, i due secoli di repubblica nella Roma antica, l’epoca dei Comuni nel tardo Medioevo. Ma in generale si erano sempre privilegiati i doveri.
Infatti, scrive Vittorio Possenti (1): “l'eccellenza e la dignità dell'uomo erano collegate alla conoscenza dei doveri”.
Questo non vuol dire che non si sentisse bisogno di rivendicare i propri diritti, soprattutto di fronte alla prevaricazione del potere politico, della corona o dello stato, ma serviva una “rivoluzione”, per l’Europa quella francese del 1789 e poi quelle del 1848 (2), per cambiare la situazione e dare origine agli Stati di diritto e alle relative Costituzioni.
La società post-moderna
Se la conquista dei diritti, soprattutto di quelli sociali, è stata una grande conquista delle società europee nel secondo dopoguerra, oggi ci misuriamo con nuovi “diritti” umani che “stanno diventando una religione secolare”, scrive ancora Possenti”, “forse l'unica religione a cui il secolarismo presta fede”.
Questa nuova “religione” nasce dalle macerie di quelle che erano state le grandi narrazioni metafisiche dell’età moderna: cristianesimo, illuminismo, idealismo, marxismo, che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e ne hanno ispirato le utopie rivoluzionarie.
Con il declino delle ideologie, che costituivano una forma di pensiero totalizzante, si è aperto il problema di reperire nuovi criteri di giudizio e di legittimazione.
È la società post-moderna, quella che viviamo oggi, una società che non è più sostenuta da un’idea forte che dia una spiegazione della realtà, in cui non sussistono valori ultimi né fondamenti stabili.
Il nichilismo
In questo contesto di “vuoto” di valori, si è inserita una forma di pensiero che ha attraversato, come un fiume carsico, tutto il secolo scorso e che ha fatto il gioco del neo-liberismo e della sua economia finanziaria globalizzata: il nichilismo, dal nome del filosofo che l’ha concepita, Friedrich Nietzsche.
Nietzsche è considerato da molti come uno tra i massimi filosofi e scrittori di ogni tempo. Scomparso prematuramente il padre, viene educato dalla madre, una donna molto normativa, in un contesto molto rigido, e ciò gli suscita una reazione di rifiuto.
È come se Nietzsche si rivolgesse alla madre e al mondo che lo circonda dicendo: “Tu mi educhi con grandi concetti - obbedienza, giustizia, carità, servizio - ma quando me li mostri incarnati? Sono solo parole vuote, perché io credo che l’essere umano sia fatto di voglia di vivere, di volontà di potenza, di emozioni: questa è la realtà”.
“La sfida del nichilismo”, scrive Mauro Magatti (3), “è molto semplice: Proclami dei valori? Mettili in pratica, fammeli vedere, altrimenti taci. Invece, la mia volontà di potenza, il mio desiderio di godimento è una cosa vera, che sento nella mia carne.
La definizione antropologica dell’essere umano come volontà di potenza è un modo più elaborato per tradurre quello che nella tradizione cattolica si definisce come egoismo. Però esprime meglio di egoismo un concetto vitale: la volontà di potenza è fondamentalmente desiderio di vita, di vita in pienezza, di vita al massimo.
La volontà di potenza è presente in ciascuno di noi, anche se non la manifestiamo palesemente, ma per il neo-liberismo non ci sono altre dimensioni nell’uomo. Anche se noi siamo anche molto altro, non conta. Il messaggio del nuovo capitalismo è: sfrutta ogni opportunità che ti capita, perché ‘ogni lasciata è persa’. Non badare ai principi morali, afferra l’attimo…”.
Da questo modo di pensare nasce il “diritto di avere diritto”, la crescente domanda del singolo di fare e pretendere, emarginando la nozione di dovere.
La dittatura dei nuovi “diritti”
“Nel mondo cosiddetto progredito si moltiplicano diritti avanzati, diritti all'ultima moda e persino eccentrici”, scrive Stefano Fontana (4). “Nella loro espansione massima i diritti finiscono per annientare se stessi e per ridursi ad una fruizione immediata ed immotivata di pulsioni.
La trasformazione del desiderio in diritto si sposa con efficienza tecnica dell'apparato. Il nuovo diventa il buono, il possibile diventa il lecito, l'essere coincide con il poter essere fatto, il mistero diventa problema”.
“La radicalizzazione dei diritti fa emergere forme inedite di dittatura”, continua Fontana. Questa dittatura “impone come un dogma l'assenza di legami e terrorizza con l'esclusione sociale chi coglie le conseguenze disgreganti di una libertà assoluta. Ciò significa che la versione libertaria dei diritti viene oggi imposta come un obbligo a cui non ci si può sottrarre, come una forma a priori avente la forza morbida di una imposizione dittatoriale”.
Giustizia e diritti
Secondo questa visione dei diritti “la giustizia non è principalmente la giustizia distributiva e l'equità, ma il rispetto dei diritti individuali, tra cui spiccano libertà e proprietà”, scrive Possenti. “Si chiede che si lasci molto spazio ai diritti individuali sin verso la soluzione dello Stato minimo. In altre parole si chiede il minimo dello Stato e il massimo del mercato”. In quest’ottica “si può considerare giusto solo lo Stato che eserciti il monopolio della forza e protegga i diritti individuali dei cittadini da ogni violazione”, continua l’autore.
“Questa teoria separa anche la giustizia dalla carità: secondo giustizia non siamo obbligati a contribuire al benessere degli altri; secondo carità dobbiamo invece aiutare coloro che non hanno diritto al nostro aiuto”.
Questo è il criterio che ispira il conservatorismo compassionevole del neo-liberismo, scrive Pierre Rosanvallon (5). Di fronte ai costi ritenuti eccessivi del welfare state bisogna de-istituzionalizzare la solidarietà e tornare pian piano alla carità individuale. Questa, annota l’autore, “è veramente una vera e propria perversione dell’idea dell’attenzione agli altri, poiché rivela una crisi morale della solidarietà”, e una società che approva la diseguaglianza.
Lo scambio e il dono
“Un modo problematico di intendere i diritti umani in Occidente”, riprende Possenti, “si fonda sull'idea che essi si riassumano nel divieto di interferire nella sfera altrui, e che di conseguenza in loro si esprima l'impossibilità di chiedere ad altri qualcosa che sia al di fuori della logica dello scambio. Io appartengo solo a me stesso; io sono mio, io sono senza relazioni e non instauro rapporti con gli altri se non contrattualmente”.
Ma l’uomo non si può ridurre alla sola dimensione economica. Anche se il contesto culturale è avverso, la “differenza umana” trova, come l’acqua, nuove strade per esprimersi.
Nell’esperienza umana non c’è solo lo scambio economico, ma anche quello simbolico rappresentato dal dono. Attraverso il dono, scrive Luciano Zanchi (6), “l’apparente dovere di ricambiare consente la conservazione e il rilancio dei legami umani.
Il dono, modello della più pura gratuità, prevede in realtà un tacito obbligo a ricambiare, onorando il quale le parti in causa rimangono tra loro soggette a vincolo reciproco, assestando la natura della relazione. Offrendo e ricambiando il dono si resta legati.
Il legame del resto è la forma originaria della umanizzazione e la logica del dono ne è la struttura portante”.
L’elemento curioso, ci fa notare Zanchi, è che lo scambio simbolico risulta necessario anche per lo scambio economico.
Infatti, “per trasformare l'individuo in consumatore il mercato deve dare l'idea di trattarlo come prossimo”, fidelizzandolo, facendolo sentire destinatario e protagonista dello scambio sociale.
C’è ancora speranza!
(1) Diritti umani, L’età delle pretese
(2) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Primavera_dei_popoli
(3) Vedi: GF88, La libertà immaginaria
(4) Per una politica dei doveri
(5) direttore della Ecole des hautes ètudes en Sciences sociales di Parigi. Fonte: La Stampa 10 gennaio 2018
(6) Prove tecniche di manutenzione umana, Vita e Pensiero, Milano 2012.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Una vita vissuta al massimo: quanta felicità se ne può ricavare?
• Quanto ci va bene uno Stato che si occupi solo della nostra sicurezza?
• Si può sostituire lo Stato sociale con la carità individuale?
• Il valore del dono: quanto lo coltiviamo?
7-Il primato dei doveri
È nel volto dell’altro che noi troviamo il limite ai nostri diritti e la fonte dei nostri doveri.
Solo riconoscendo l’altro come prossimo possiamo superare la logica mercantile del “contratto” e coltivare il bene comune.
I diritti non conoscono il limite, mentre la persona umana è per sua natura limitata.
Il dovere è l'assunzione di un compito, ossia la rinuncia a poter fare tutto, e quindi è per sua natura definito e delimitato.
A cura della Redazione
Scriveva Giovanni Paolo II: “La comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha perlopiù trascurato di insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l'ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell'esercizio dell'arbitrio”.
Diritti e doveri
Da questa citazione emerge evidente la tesi della complementarietà tra diritti e doveri.
Questa complementarietà “ha due aspetti e il Magistero li mette ambedue in luce” scrive Stefano Fontana (1). “Il primo è che nella medesima persona ad ogni diritto corrisponde un dovere, Infatti, ‘coloro che mentre rivendicano i propri diritti, dimenticano o non mettono nel debito rilievo i rispettivi doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l'altra’ (Pacem in terris).
La seconda è che per ogni diritto dell'uomo c'è un dovere della comunità nei suoi confronti. Infatti, leggiamo sempre nella Pacem in terris, ‘nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona corrisponde un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto’.
La teoria della complementarietà si fonda sul presupposto che nessuno dei due, diritto e dovere, venga prima. Da un punto di vista di ordinamento - morale o giuridico - è proprio così.
Ma dal punto di vista assiologico, cioè come scala dei valori, non sembra essere così: il dovere sembra essere più importante del diritto.
Il dovere viene prima, nel senso dell'importanza, perché l’accogliere viene prima del fare, il ricevere viene prima del produrre, l'assumere e l’assumersi vengono prima dell’affermare e dell'affermarsi.
Il fondamento ultimo di questa priorità è antropologico: è il nostro essere a funzionare così e, quindi, anche il nostro conoscere e il nostro agire.
Non tenendo conto di questa asimmetricità originaria, la tesi della simmetricità tra diritti e doveri è insufficiente e si presta essa stessa ad una deriva relativistica. Sul piano dell'esperienza, infatti, tutti noi sappiamo che è facile inventarsi per ogni nuovo diritto un corrispondente nuovo dovere. Per esempio, il diritto all'eutanasia, sia attiva che passiva, è spesso argomentato come un dovere nei confronti della vita e della sua qualità”.
“La filosofia classica, medievale e cristiana ha sempre affermato, con molti diversi accenti ma anche con una notevole continuità, che prima vengono i doveri e poi i diritti” continua Fontana. “La filosofia moderna ha invece sostanzialmente affermato che originariamente l'uomo ha solo o prevalentemente dei diritti” e i risultati li abbiamo ben presenti.
“Se si rimane dentro lo schema della simmetricità non si riesce veramente a dare corpo ad una cultura e una politica e dei doveri. Infatti, i diritti non conoscono il limite, mentre ‘l'essere persona umana comporta la limitazione’. Il dovere, invece, è l'assunzione di un compito, ossia la rinuncia a poter fare tutto, e quindi è per sua natura definito e delimitato”.
Questo in pratica, conclude Fontana, produce “una vera e propria asimmetria tra diritti e doveri, per cui i diritti, se lasciati a se stessi, tendono a sfondare il limite, mentre i doveri partono già fin dall'inizio dall'assunzione di un limite”.
Diritto e persona
“Vi sono molti motivi per cui la filosofia dei diritti sia radicata nella persona, sia cioè personalista, e altrettanti per cui la negazione della persona conduca alla crisi del diritto e infine al nichilismo giuridico” scrive Vittorio Possenti (2).
“Rosmini osserva che ‘la persona dell'uomo è il diritto umano sussistente: quindi anche l'essenza del diritto’.
Questa grande espressione radica il diritto non nella natura fisica ma nell’essenza universale della persona umana, aprendo il giusto cammino per fondare l'universalità dei diritti umani. Questa per prima cosa stabilisce che non vi può essere diritto se non vi è persona.
Di conseguenza, la sorgente del diritto sta nella persona ben prima che nello Stato.
Con ciò si conferma la crucialità del concetto di natura umana, che non è soltanto quella istintuale di un individuo che cerca di troneggiare gli altri, ma è soprattutto una natura dotata di logos e aperta all'alterità”.
Dopo questa premessa, proviamo ad esaminare, attingendo alle riflessioni di Possenti, su cosa si fondano i diritti secondo le tre principali correnti filosofiche in questo campo.
Lo strutturalismo
“Nel primo caso, quello più radicale, non si può neppure parlare di fondamento dei diritti. Secondo questa corrente di pensiero non esistono diritti dell'uomo perché non esiste l'uomo: è l'orizzonte strutturalista e post strutturalista, che nel suo antiumanesimo elimina coerentemente anche il soggetto”. Da qui traggono origine le dottrine gender e post-gender.
Il contrattualismo
“Nel secondo caso si cerca di fondare i diritti non nella natura invariante dell'uomo, nella sua essenza, ma nella coscienza del soggetto e nel consenso collettivo che sono mutevoli”. Di conseguenza, il fondamento sarà sempre provvisorio e potrà mutare in funzione dell'utilità, l'interesse, la forza.
“A questa linea si collegano le posizioni contrattualiste, storiciste, positiviste, secondo cui i diritti rivestono un semplice valore funzionale.
Tra gli argomenti il più citato è forse il consenso che si riesce a stabilire intorno ai diritti.
C'è di che rimanere pensierosi di fronte alla contraddizione di correnti della cultura contemporanea, che proclamano con forza il pieno diritto della donna all'aborto e quello di qualsiasi animale alla vita. Contraddizioni di questa portata indeboliscono molto la causa dei diritti e li fanno apparire come meri postulati convenzionali e/o utilitari”, in altre parole ‘diritti deboli’.
Il personalismo
“Nella terza posizione i diritti sono fondati nella legge morale naturale inscritta nel cuore dell'uomo, e in ultima istanza in Dio: essi risultano pertanto ‘diritti forti’, sebbene l'uomo non li conosca tutti in una volta e ne prenda anzi coscienza nel corso della Storia. Sono diritti fondamentali che esprimono finalità antropologiche irrinunciabili che devono trovare espressione, garanzie e protezione del diritto positivo mediante mediazioni storiche.
Il loro fondamento filosofico risiede nella posizione secondo cui l'uomo possiede una natura differente da quella degli animali, specificata dal possesso dell'intelletto e della libera volontà.
Alla posizione più espressamente personalista appartiene l'insegnamento sociale della Chiesa quale si è sviluppato nel ventesimo secolo su base più antica, trovando poi consacrazione nel Concilio Vaticano II”.
Quale uomo?
Le prospettive di fondo del personalismo comunitario e del contrattualismo sono quindi differenti. “Nel primo l'accento cade sulla struttura cooperativa dell'azione che può emergere dalla relazione interpersonale. In questa linea di pensiero la società politica è formata da persone umane, non da individui isolati che regolano contrattualmente i loro rapporti. La società politica vale come una comunità di destino e di bene comune che possiede un potenziale normativo obbligante, il quale può giungere sino alla disponibilità e al sacrificio da parte del singolo.
Tale rappresentazione della società si distanzia da quella secondo cui essa è una libera associazione di consociati giuridici che si intendono gestori di un contratto sociale o come protagonisti di un'auto legislazione in cui essi sono gli autori di leggi a cui prestano obbedienza”.
Oggi “la vera posta in gioco nel dibattito pubblico europeo non sono tanto le verità di fede del Cristianesimo ma la sua concezione dell'essere umano, dove non sembra bastare un'etica della dignità che naturalmente è necessaria” ma può diventare un mero pretesto.
“Il cammino opportuno è di pensare la persona più in profondità, non rigettando in linea di principio” la visione cristiana dell’uomo, solo perché si teme che non sia altro “che teologia travestita, e quindi confessionale, parziale, non universale”.
(1) Per una politica dei doveri
(2) Diritti umani. L’età delle pretese
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Viviamo in un mondo complesso, dove la concezione dei diritti e dei doveri non è univoca. Qual è la nostra posizione?
• Non si fa un passo indietro nella Storia affermando che i doveri vengono prima dei diritti?
• Secondo noi, il Cristianesimo ha qualcosa di importante da dire sull’uomo e sulle relazioni sociali?
8-Diritti personali e diritti sociali
La prevalenza dei ‘diritti non costosi’ a scapito dei ‘diritti che costano’
Le domande che si levano dalla società a volte non sono esaminate secondo criteri di giustizia e di moralità, ma secondo la loro forza elettorale o finanziaria. Centesimus annus, n.47
La globalizzazione non teme i diritti personali ma quelli sociali, perché portano alla liberazione dal bisogno.
La cittadinanza richiede di uscire da noi stessi per incontrare gli altri assumendo dei doveri sia personali sia comunitari.
A cura della Redazione
A volte, anche in televisione si trovano spunti interessanti. Nel mese di novembre del 2017 un ospite alla trasmissione Otto e mezzo de LA7 se ne è uscito con questa osservazione: “La maggioranza della gente non se ne fa niente dei diritti di libertà (unioni civili, maternità surrogata, inasprimento pene per i casi di femminicidio… ) ma vuole che le vengano riconosciuti i diritti sociali come un lavoro degno, una casa salubre, una sanità pubblica che funzioni…”.
Lo Stato sociale
A partire dal secondo dopoguerra e fino agli anni ’80 molto si è fatto nel campo dei diritti sociali. Con il boom economico si è arrivati alla piena occupazione, si sono costruite molte case popolari (anche se si sono creati sovente quartieri ghetto), tutti sono progressivamente riusciti ad avere accesso a cure mediche adeguate.
Da lì in poi il sistema sociale ha iniziato ad implodere, il lavoro è diventato nel tempo sempre più precario sia per i giovani in cerca di prima occupazione sia per coloro che hanno perso il loro posto di lavoro, l’edilizia residenziale pubblica si è dovuta misurare con l’invecchiamento del patrimonio immobiliare e con l’alta morosità degli affittuari, la sanità è andata “in rosso” nonostante l’introduzione di ticket sempre più onerosi.
La crisi del sistema sociale ha coinciso con quella del capitalismo societario che ha lasciato progressivamente spazio al capitalismo finanziario.
Le imprese si sono trasferite dove il costo del lavoro è più basso (p.e. paesi dell’Est Europa), è cresciuto il terziario che comporta un’occupazione più volatile, lo Stato si è dovuto misurare con conti che non tornano più, perché la qualità e la quantità dei servizi erogati è condizionata dalla “quadratura dei conti” (1).
I diritti civili
Con la Costituzione del 1948 molti diritti cancellati dal ventennio fascista sono stati ripristinati: si è trattato soprattutto di diritti politici, come la libertà di stampa, di opinione e il ripristino dei partiti.
Più lungo è stato invece il cammino per quanto riguarda il mondo del lavoro.
Il diritto di sciopero e di rappresentanza sindacale non ha avuto vita facile, per le ripercussioni negative che in molte aziende potevano colpire chi li praticava. Solo nel 1970, con lo Statuto dei Lavoratori (2), si arrivò a definire una normativa completa.
Tutto questo appartiene al passato perché oggi il 50% della forza lavoro non rientra più in quelle normative.
Questo è frutto, scrive Vittorio Possenti (3), della “netta condizione postfordista della produzione”, in cui “il carattere individualistico del lavorare e del vivere favoriscono la formazione di ‘individui atomici chiusi’, sempre meno capaci di creare legature sociali”, e di rivendicare i propri diritti.
In compenso, oggi, scrive Luciano Violante (4) vi è stato “un allineamento delle politiche dei diritti alle logiche proprie della globalizzazione, che non temono i diritti attinenti all’individuo, ma avversano con decisione i diritti che portano all’uguaglianza sostanziale e alla liberazione dal bisogno”.
Globalizzazione e diritti
“La globalizzazione economica”, continua Violante, “ha reso prevalenti anche nella cultura comune i valori dello scambio e dell'individualismo, che sono indifferenti ai valori umani della liberazione dal bisogno, che invece sono la ragion d'essere dei diritti sociali”.
Dal punto di vista pratico, i diritti di libertà tendono ad essere riconosciuti dalle istituzioni politiche (come è il caso delle unioni civili) e, quando ciò non accade, spesso si possono acquisire direttamente per via giudiziaria (come il riconoscimento della doppia paternità o maternità) (5).
Ben diverso il discorso per i diritti sociali, che comportano scelte di priorità e di spesa pubblica. Osserva giustamente Violante: “Anche la Corte Costituzionale si è rivelata ragionevolmente cauta quando ha dovuto affrontare il tema dei ‘diritti che costano’, prudenza che invece non ha caratterizzato le decisioni relative ai ‘diritti non costosi’ dal punto di vista finanziario”.
C’è anche un aspetto mercantile, come sottolinea Vittorio Possenti. “L'attribuzione di nuovi diritti di libertà - per esempio in campo biotecnologico e biopolitico - rappresenta una manna, sia dal lato degli introiti risultanti da un mercato in crescita sia da quello dei cospicui risparmi conseguiti con il silenzio sui diritti sociali.
Non si è lontani dal vero nel sostenere che per vari poteri forti esista uno scambio occulto nel senso che riconoscimento di nuovi diritti va di pari passo con il silenzio su quelli sociali”.
Diritti, doveri e cittadinanza
Oggi il concetto di cittadinanza è in crisi. “Lunghi anni di demagogia hanno disabituato gli italiani all'adempimento delle proprie responsabilità” annota Violante, “e hanno concentrato sulle varie ‘caste’, con un pizzico di furbizia demagogica, l'intera responsabilità della crisi italiana.
Le responsabilità dei gruppi dirigenti, pubblici e privati, ci sono e sono gravi. Ma questo non esime i cittadini dalle loro responsabilità”, dall’esercizio della cittadinanza.
“Non si vive di soli diritti”, soprattutto se sono solo diritti di libertà. “L'Italia ha bisogno di una nuova pedagogia civile, incentrata sull'equilibrio fra doveri e diritti, sul principio di responsabilità, sui valori della responsabilità politica, economica e sociale, come dispone l'articolo 2 della Costituzione (6)”.
Serve educare ad una “cittadinanza etica”, come la definisce Stefano Fontana (7).
Infatti, continua l’autore, “la cittadinanza è, prima che una serie di condizioni formali, la dimensione dell'uomo come cittadino, la sua dimensione civica e politica. Essa esprime il dinamismo dell’uscire da sé stesso per incontrare gli altri e, in questo processo, assumere dei doveri sia personali che comunitari”.
“Oggi c'è anche una nuova cittadinanza internazionale o sovranazionale composta da grandi manager e tecnocrati, da fruitori di paradisi fiscali e da frequentatori del gran mondo, che non risponde a nessun dovere legato a singoli stati o singole comunità nazionali” ma, continua Fontana, “c'è anche un mondo di sotto-cittadinanza. Sono gli abitanti di certe periferie e zone degradate o i lavoratori sotto occupati delle nuove industrie che sono sì cittadini, ma non di prima serie. La cittadinanza non è riconosciuta nemmeno ai tanti bambini concepiti a cui è stato impedito di nascere per la pretesa tutela dei diritti individuali”.
“Una comunità politica che si rassegni ad un compito notarile di automatico conferimento dei diritti indipendentemente dai doveri è una comunità che già si è svenduta al maggiore offerente” quindi, conclude l’autore,“bisogna passare a una cittadinanza che, senza negare certo i diritti ma, anzi, per renderli maggiormente reali e partecipati, assegni la priorità ai doveri: è questa la cittadinanza etica”.
Diritti, doveri e sussidiarietà
La sussidiarietà nasce da un dovere di aiuto, è un “prendersi cura di”. Un prendersi cura della persona, della famiglia, delle associazioni e dei corpi intermedi, da parte degli organismi sociali superiori.
“È molto importante ribadire questo” scrive sempre Fontana, perché nella società dei diritti “spesso essa viene proposta come un semplice lasciar fare”.
Invece, la sussidiarietà è fare in modo che l'aiutato possa fare da sé, possa fare a meno dell'aiuto. “È una modalità emancipatrice. In questo senso la sussidiarietà è l'assunzione di un dovere che mira a permettere l'assunzione dei doveri”.
Non può essere un semplice “lasciar fare”, perché l’organismo sociale superiore dovrà sia “verificare la capacità di autonomia di quella inferiore, sia tornare a svolgere funzioni di supplenza anche dopo aver riconosciuto spazi di autonomia.
Un caso assolutamente emblematico di questi intrecci tra doveri e diritti nell'esercizio della sussidiarietà è quello della famiglia. Lo Stato ha spesso posto sulle spalle della famiglia compiti sociali e ingenti senza preoccuparsi preventivamente della sua capacità di supportarlo”.
A quando il fattore famiglia?
(1) La corte costituzione ha costantemente sostenuto che i diritto sociali devono essere oggetto di bilanciamento con le esigenze organizzative e di finanza pubblica: consistendo in una pretesa di prestazione, essi hanno dei costi.
Fonte: https://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=117&id=201
(2) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Statuto_dei_lavoratori
(3) Diritti umani, L’età delle pretese
(6) La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Fonte: https://www.senato.it/1025?sezione=118&articolo_numero_articolo=2
(7) Per una politica dei doveri
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come vediamo il futuro per i nostri figli: migliore o peggiore del nostro?
• Quali interessi economici sostengono i cosiddetti ‘nuovi’ diritti?
• Cosa possiamo fare per riportare al centro del dibattito pubblico i diritti sociali?
• Perché la famiglia: padre, madre e figli, è così sotto considerata?
9-Democrazia e valori
Una democrazia autentica implica il consenso degli spiriti e delle volontà su ciò che concerne le basi della vita comune... deve creare all'interno di se stessa un credo umano, un credo della libertà. Jacques Maritain
La riduzione del politico al tecnico e all'economico produce l'indebolimento del senso civico e la fuga nel privato.
Il fondamento politico dei diritti fondamentali, nella nostra Costituzione, trae origine dal personalismo cattolico.
A cura della Redazione
Ci sono cose a cui siamo abituati e a cui non facciamo più caso. Ci accorgiamo di quanto siamo dipendenti dall’energia elettrica solo quando questa manca: i computer si spengono, gli ascensori si fermano, il frigo si sbrina…
Anche la democrazia, a nostro avviso, rientra in questa categoria, con un’aggravante, la stimiamo così poco che non esercitiamo più il diritto di voto: tanto sono tutti uguali! Forse dovemmo conoscerla meglio per poterla difendere come una preziosa conquista.
La democrazia
“La democrazia consente la relazione ricca e complessa tra individuo e società, nella quale gli individui e la società possono aiutarsi, schiudersi, regolarsi, controllarsi gli uni con l'altra”, scrive Edgar Morin (1).
Però la democrazia non può essere definita in modo semplice ed è forse per questo che la consideriamo poco: costa troppa fatica capirla!
“La sovranità del popolo cittadino comporta nel contempo l'autolimitazione di questa sovranità attraverso l’obbedienza alle leggi e il trasferimento di sovranità agli eletti.
La democrazia ha evidentemente bisogno del consenso della maggioranza dei cittadini e del rispetto delle regole democratiche. Ma, oltre che del consenso, la democrazia ha bisogno di diversità e di antagonismi”.
“La democrazia” ”, continua Morin, “deve comportare il diritto all'esistenza e all'espressione per le minoranze e deve permettere l'espressione delle idee eretiche e devianti.
La democrazia vive di pluralità, anche al vertice dello stato (divisione dei poteri esecutivi, legislativo, giudiziario) e deve mantenere questa pluralità per mantenere se stessa”.
“Le democrazie sono fragili” conclude Morin, “è vero che vivono di conflitti, ma questi ultimi possono sopraffarle”.
La fragilità della democrazia
“La democrazia non si risolve nei suoi aspetti formali e procedurali, ma deve porre al centro delle sue preoccupazioni la persona umana, in modo che nessuno venga ridotto a strumento e ognuno possa sentire se stesso come fine dell’intero ordinamento sociale”, scrive Giuseppe Riconda (2).
Se ciò non avviene, la democrazia si può trasformare in una dittatura della maggioranza.
Già alla fine dell'800 il sistema democratico si era dovuto misurare con una serie di “teorie politiche che convergevano nella denuncia delle sue debolezze, dei suoi limiti e delle sue contraddizioni profonde” sottolinea Giorgio Campanini (3).
Fu “soltanto l'amara esperienza dei totalitarismi - che ha offerto la possibilità di confrontare fra loro due modelli reali - ha portato alla rivalutazione della democrazia”. Ma sembra che la Storia non ci abbia insegnato nulla, perché oggi il rischio che abbiamo di fronte è quello di avere “la tentazione di abbassare la guardia; che non si senta più il bisogno di contrapporre valori a pseudo-valori”.
In quest’ottica si collocano “i processi di regressione democratica che tendono ad espropriare i cittadini delle grandi decisioni politiche, con il pretesto che queste sono molto complicate e devono essere prese da ‘esperti’ “ riprende Morin.
“La riduzione del politico al tecnico e all'economico, la riduzione dell'economico alla crescita, la perdita dei punti di riferimento e degli orizzonti, tutto ciò produce l'indebolimento del senso civico, la fuga e il rifugio nella vita privata, l'alternanza tra apatia e rivolte violente”.
Ecco due sfide con cui oggi si deve misurare la democrazia: la tecnica e l’economia.
Tecnica e democrazia
“Nel corso del ‘900 - e in modo sempre più evidente nella sua ultima parte - la tecnica è diventata un sistema integrato su scala planetaria, fatto di infrastrutture e conoscenze, apparati e procedure, mercati e burocrazie, indispensabile per organizzare la vita di miliardi di singoli individui” annota Mauro Magatti (4).
“La tecnica ha inoltre un’altra caratteristica: quella di essere continuamente innovativa, è capace di aumentare gli obiettivi che possiamo perseguire. Il fatto che la tecnica si evolva continuamente e ci permetta di fare ogni giorno che passa più cose o cose nuove, non è qualcosa di neutro ma ci cambia dentro e anche all’esterno” (5).
“Questa rivoluzione, destinata a proseguire nei prossimi anni, tende a mettere in crisi tanto la religione quanto la politica. La prima perché si trova messa in discussione da una concezione del mondo puramente immanente. La seconda perché si vede privata della sovranità - cioè del potere di decisione - su cui fonda la propria autorità”.
Economia e democrazia
Un’altra sfida alla democrazia è la globalizzazione dell’economia che relega la politica ad un ruolo secondario.
Viviamo in “una società di mercato, nella quale lo scambio mercantile si estende ad ambiti sempre più vasti del vivere civile quali la cultura, la salute, il tempo libero” scrive Davide Maggi (6). “La logica di mercato trasforma il modo di percepire e valutare i beni, soprattutto quelli relazionali, che vengono considerati” al pari di una merce.
“La democrazia, certamente, è anche il mercato”, scrive sempre Giorgio Campanini (7), “ma che ne sarà di essa se diventerà soltanto un mercato? Il rischio di un’identificazione fra società e mercato è che le categorie del successo economico e dunque del profitto dominino tutte le altre e che il solo ‘valore aggiunto’ riconosciuto sia quello proveniente dall’economia, e non dalla cittadinanza. Mentre una società democratica ha bisogno tanto di un’economia prospera quanto di una cittadinanza attiva, né necessariamente la prima deriva dalla seconda”.
La società complessa
Queste sfide si possono riassumere nella definizione di “società complessa”.
L’esigenza di “riduzione della complessità” come caratteristica tipica della società postmoderna porta a poco a poco ad abbassare il livello di unificazione della società, e dunque i fondamenti etici della democrazia, sino ad esaltare il ruolo dei singoli gruppi sociali e dei diversi soggetti.
Per fare fronte al conflitto sui valori che ne scaturisce, cresce la tentazione di ridurre la democrazia ad un semplice sistema di regole. Sarebbe questo il “prezzo” da pagare alla complessità.
“Questa transizione potrebbe essere sinteticamente riassunta nel passaggio da una democrazia pluralistica ad una pluralità democratica” è la considerazione di Campanini. Che precisa: “per pluralismo si intende una varietà e diversità di opinioni, di proposte, istanze e anche di interessi che alla fine trovano un punto di incontro: in questo senso l'autentico pluralismo non è semplice sommatoria ma sintesi.
La pluralità, invece, registra il continuo ingresso nella società di nuovi soggetti, ciascuno dei quali persegue le sue finalità e fra i quali riesce impossibile individuare valori comuni condivisi e nei confronti dei quali ci si dovrebbe limitare a dettare alcune regole minimali di comportamento per evitare l'anarchia sociale”.
“Il pluralismo, in sostanza, riconosce le diversità ma aspira a ricondurre ad unità, individuando alcuni valori comuni sui quali fondare regole da tutti condivise; la pluralità rinuncia all'unità del corpo sociale e si appaga di una semplice regolazione delle diverse sfere dei diritti e dei doveri”.
La coscienza religiosa
L’articolo 2 della nostra Costituzione parla tanto i diritti quanto i doveri.
Entrambi, spiega Luciano Violante (8), “hanno un fondamento pre-politico, che precede il riconoscimento statale e prescinde da esso. Il fondamento politico del riconoscimento dei diritti fondamentali, nella nostra Costituzione, trae origine più che dalla tradizione illuminista dal personalismo cattolico. Il fondamento pre-politico dei doveri sta invece nei valori di solidarietà politica, economica e sociale delle organizzazioni dei lavoratori, del cattolicesimo democratico e delle forze politiche di sinistra”.
Questi fondamenti possono tornare ad essere l’elemento unificante della democrazia, la fonte “di valori comuni e condivisi, grazie ai quali può essere raccolta e superata la sfida della complessità” scrive Campanini nel libro già citato.
“In tal modo, un poco paradossalmente, coloro, e cioè i credenti, che all'inizio dell'avventura democratica nell’Ottocento ne erano stati i più severi critici ne sono diventati, per una sorta di incoerenza della storia, i più lucidi difensori.
Non è un caso che nell’immenso cantiere di lavoro che si è aperto per irrobustire e per rifondare la democrazia, la coscienza religiosa sia oggi in prima linea.
Si profila qui una inedita possibilità di incontro, come scriveva Maritain, tra fede religiosa e ‘fede democratica secolare’: la consapevolezza cioè, di una serie di valori comuni a tutti gli autentici democratici, ancorati ad un sistema di valori che, alla fine, conferisce senso alle regole e alle stesse procedure della democrazia, contrastando ogni possibile deriva relativistica”.
(1) I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.
(2) Fonte: http://www.interdependence.eu/archivio/riflessioni/370-critica-della-societa-permissiva.html#_ftn1
(5) GF88, La libertà immaginaria
(6) Fonte: La voce e il tempo, 26 novembre 2017
(7) Fonte: http://azionecattolica.it/sites/default/files/Campanini.pdf
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Viviamo in un paese democratico: ce ne rendiamo conto?
• La politica è troppo complicata, va lasciati agli esperti: condividiamo?
• Quanti, tra coloro che frequentiamo, dichiarano di credere nel trascendente?
• Quando incontriamo gli altri, coltiviamo ciò che ci unisce o ciò che ci divide?
10-Educare alla cittadinanza
Pensare ad un sevizio civile universale per insegnare ai giovani le regole della società democratica.
Famiglia, Chiesa, partiti: tre istituzioni in declino.
Cosa succederebbe se tutti lavorassero e pagassero le tasse?
la Costituzione della Repubblica definisce il fondamento e i rapporti di convivenza tra le persone e tra esse e lo Stato.
A cura della Redazione
Recentemente, in Francia, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato la sua intenzione di ripristinare il servizio militare obbligatorio (1). Non sarà il servizio di leva che molti ricordano, ma un servizio “universale”, che coinvolgerà anche le ragazze, e avrà come scopo di rafforzare nei giovani il “senso di appartenenza ai valori della Repubblica, ma anche imparare disciplina e rispetto per le regole della società e condividere un’esperienza con giovani di altre origini e classi sociali”.
Un elemento molto interessante sarà, al termine del servizio, la consegna di un “passaporto civile” ai partecipanti (2), che a noi richiama alla mente uno dei requisiti richiesti agli immigrati in Germania per acquisire la cittadinanza (3).
E in Italia?
Era il 1958 quando “Aldo Moro, allora ministro della Pubblica Istruzione, introdusse l'insegnamento dell'educazione civica nelle scuole medie e superiori: due ore al mese obbligatorie, affidate al professore di storia, senza valutazione” scrive Carlo Troilo (4). “La sua decisione ebbe pochissimo seguito, come può testimoniare chi ha studiato negli anni Sessanta e nei seguenti”.
Abbiamo ripreso in mano il testo di Alessandro Galante Garrone (5) per le Superiori di allora e siamo rimasti stupiti per la ricchezza del testo, a fronte del poco che ci avevano insegnato.
In questi cinquant’anni, poi, molto è cambiato nella scuola e nella società.
Tre sono, secondo Attilio Oliva (6) i mutamenti più significativi. “Il primo è il passaggio storico e impetuoso da una scuola per pochi a una scuola ‘per tutti’: le sue dimensioni si sono triplicate.
Il secondo è conseguenza dell’entrata in campo di nuove e potenti agenzie formative (Tv, Internet, industria del tempo libero ecc.) che operano in concorrenza con la scuola e spesso in dissonanza visto che non hanno responsabilità educative.
Il terzo è che il tessuto sociale del passato (famiglia, chiesa, partiti) si è molto indebolito”.
Famiglia, Chiesa, partiti
Non c’è bisogno di lunghi discorsi per spiegare l’indebolimento del ruolo della famiglia in ambito educativo (7). Se i rapporti coniugali sono fragili, questa fragilità si trasmette anche in campo educativo (vedi pag. 18-19).
Anche il ruolo educativo della Chiesa si è indebolito molto, perché è finita l’epoca del cristianesimo sociologico, in cui le regole morali non erano seguite tanto per una scelta profonda di fede quanto perché “tutti” facevano così, ed era scandaloso agire diversamente (8).
“Oggi”, scrive Enzo Biemmi (9), “la cultura non trasmette più la fede ma la libertà religiosa”. Inoltre, tra coloro che ancora praticano il cattolicesimo, serpeggia da tempo, come scriveva Pietro Prini (10), uno scisma sommerso che si è riflesso, secondo l’autore, in “un divario profondo, forse irrecuperabile, tra la dottrina ufficiale e le coscienze dei fedeli”, tra morale e vita quotidiana.
Ancora più radicale è la posizione dei giovani oggi verso la Chiesa. Rossano Sala (11) in un recente convegno ha affermato che molti giovani europei (soprattutto del nord ed est Europa) non chiedono più nulla alla Chiesa, anzi chiedono solo che li si lasci in pace e non li si importuni.
Cosa c’entrano infine, in questa riflessione, i partiti politici? I grandi partiti politici hanno rappresentato nel secondo dopoguerra, scrive Piero Ignazi (12), “una grande, ramificata, complessa organizzazione, fondata sul principio della democrazia delegata”.
Ma, dagli anni ottanta in poi, “i partiti sono diventati ‘pigliatutto’, in cui la partecipazione degli iscritti alla vita del partito, diventa irrilevante”. Se i contenuti ideologici si diluiscono, con essi si diluiscono anche i contenuti valoriali. “La leadership si distacca dalla base” e, grazie ai mass media, ha “la possibilità di rivolgersi direttamente a tutto l’elettorato, mentre prima non era possibile farlo”.
Il declino dei vecchi partiti, scrive Laura Polizzi (13), “ha eliminato il più importante motore sociale che poteva spingere uomini e donne a diventare cittadini politicamente attivi”e, aggiungiamo noi, ad avere coscienza del bene comune.
Cosa serve
Per ripristinare un tessuto sociale così compromesso “serve un’etica forte e condivisa (14)”, scrive Cesare Nosiglia (15), “serve ancorarsi a un quadro di valori condivisi, che minimali non sono: il senso dello Stato, del servizio pubblico, delle istituzioni”.
Una via per ritrovare un quadro di valori condivisi, può essere quella di un vero e serio insegnamento di quella materia che abbiamo definito all’inizio educazione civica.
Alla base di questa materia vi è la Costituzione repubblicana, testo che definisce “il fondamento e i rapporti di convivenza tra le persone e tra esse e lo Stato, i reciproci diritti e doveri, nonché la struttura e l’equilibrio fra le componenti dello Stato”, come scrive Giovanni Maria Flick (16).
Serve, per prima cosa, trovare in essa quali sono i diritti e i doveri dei cittadini, che costituiscono un binomio inscindibile. “Le società umane si basano da sempre sull’adempimento di doveri da parte dei loro componenti e sul riconoscimento agli stessi di una serie di diritti”, scrive Carlo Troilo in un altro articolo (17), anche se la “Costituzione, molto dettagliata sui temi dei diritti, è assai asciutta per quanto riguarda i doveri”.
“Solo a due doveri la Costituzione dedica altrettanti articoli specifici: il dovere del lavoro, nel senso di ‘svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società’ (articolo 4) e ‘il dovere di prestazioni patrimoniali (imposte) per concorrere alle spese pubbliche, in proporzione alla propria capacità contributiva’ (articolo 53)”.
Questi due doveri, che permettono “l’attuazione del principio di solidarietà sociale, vengono definiti inderogabili dai giuristi perché nessuno può essere esentato dalla loro osservanza, in quanto costituiscono il fondamento di una pacifica e costruttiva convivenza”.
Infatti, “il mancato adempimento degli obblighi di solidarietà economica attraverso l'evasione fiscale diventa un presupposto della disuguaglianza sociale”, annota Luciano Violante (18), mentre se l’obbligo fosse rispettato si “potrebbe assicurare il godimento di diritti sociali, alla salute e all'istruzione, a molti di coloro che oggi ne sono, di fatto esclusi”.
Serve quindi imparare che lo Stato siamo tutti noi e che “vive” bene nella misura con cui ciascuno di noi vive “bene”.
In Italia, meglio del servizio civile su base volontaria per ragazzi e ragazze “sarebbe stato, e potrebbe ancora essere, un servizio civile obbligatorio, con durata, tempi e modalità flessibili, che concorra a trasmettere i valori e civili essenziali per vivere in una comunità di persone libere”. Luciano Violante, Il dovere di avere doveri, p. 102ss
(3) Vedi: GF97, Ius soli e ius culturae, p.13
(5) Questa nostra repubblica, Loescher Editore, Torino 1963
(6) Fonte: http://sociale.corriere.it/come-essere-buoni-cittadini-si-deve-imparare-a-scuola/
(7) Vedi: GF96, Educazione: emergenza o sfida, p.4-5
(11) Segretario Speciale per il Sinodo sui giovani. Intervento durante la Giornata di studio interfacoltà del Piemonte 2018: Non lasciamoci rubare la speranza. Con i giovani verso il Sinodo.
(12) Fonte: https://scienzaepolitica.unibo.it/article/viewFile/2861/2258
(13) Fonte: https://www.tesionline.it/appunto/813/13/Il_consenso_e_il_declino_dei_partiti_di_massa
(14) Etica forte non nel senso di assolutezza ma di sistemi di valori largamente condivisi (cfr. Carlo Campanini, Democrazia e valori, p.5)
(15) Fonte: https://gruppifamiglia.wordpress.com/2017/02/03/fatti-alternativi/
(18) Il dovere di avere doveri
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• È un male che sia finita l’epoca del cristianesimo sociologico?
• Cosa ne pensate dei nuovi partiti politici “personali”?
• Il senso dello Stato, il bene comune: c’è qualcuno sulla scena pubblica che pratica questi valori?
• Pensate che sia possibile partecipare alla vita politica, compresa quella locale? Sostenete chi si impegna in tal senso?
11-Il patto coniugale
Io …, accolgo te, …., come mia sposa. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.
Nel patto fiduciario del matrimonio sono presenti due poli: uno etico - l’impegno reciproco - e uno affettivo - la fiducia.
Il patto coniugale si colloca tra la dichiarazione di impegno e la presenza di una dimensione inconsapevole.
A cura della Redazione
Se durante un percorso di preparazione al matrimonio si parlasse di contratto, i fidanzati potrebbero rimanere, a ragione, interdetti.
Eppure per molto tempo, alla base del matrimonio, vi era un vero e proprio contratto, stipulato non dagli sposi, ma dalle loro famiglie.
Solo a partire dall’Ottocento si è progressivamente superato questo modello, trasformando il matrimonio da un “affare” tra famiglie ad una scelta libera dei due sposi, legata al sentimento e all’attrazione reciproca.
Il matrimonio è diventato una questione “privata”, talmente privata che oggi lo Stato tende a penalizzare economicamente questo istituto, soprattutto quando la coppia si allarga per la presenza dei figli.
Il patto coniugale
“Oggi al centro dell’attenzione si pongono la coppia e la relazione” scrive Anna Bassoli (1).
Di conseguenza, il matrimonio “si fonda su un patto fiduciario, nella misura in cui il patto rappresenta il polo etico, la dimensione dell’obbligo e dell’impegno reciproco, e la fiducia il polo affettivo, perché consente l’apertura di credito verso l’altro e la costruzione nel tempo di un rapporto esclusivo. Senza la fiducia il patto diventa freddo contratto, senza il patto la fiducia diventa una rischiosa apertura di sé, perché affidata solo alla dimensione emotiva della relazione”.
Dichiarato e segreto
“Il patto coniugale”, continua l’autrice citando Scabini e Cigoli (2) “è un’area cruciale del legame, è un patto che si colloca tra la dichiarazione di impegno e la presenza di una dimensione inconsapevole.
Il patto dichiarato ha nel matrimonio la sua visibilità a livello sociale, è una dichiarazione di impegno consapevole ed esplicita che si esprime, p.e. nel rito religioso, con una promessa di fedeltà “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”, e si rifà prevalentemente al polo etico della relazione.
Il patto segreto è il contratto segreto che comprende i bisogni, gli ideali, le aspettative che ciascuno dei due partner porta dalla sua storia personale e familiare e che ciascuno ambisce a soddisfare nella relazione coniugale.
Si può affermare che la salute/malattia della relazione coniugale è data dalla prossimità tra patto dichiarato e patto segreto”.
A seconda della confluenza tra i due patti, la coppia sarà più o meno in grado di superare gli eventi critici che si presenteranno nel corso del ciclo vitale di tutte le coppie.
Un patto da rinnovare sempre
Il patto coniugale ha anche elementi di dinamicità, di conseguenza “la coppia ha come compito permanente il rilancio della coniugalità nelle transizioni della vita” scrive Maria Anna Spaltro (3).
Infatti, sempre Scabini e Cigoli affermano (4) che “le persone hanno bisogno di tre matrimoni: in giovinezza un amore romantico e appassionato; per allevare i figli un rapporto con responsabilità condivise; più tardi nella vita un rapporto con forti capacità affettive e di accudimento reciproco.
Piuttosto che di nuovi partner le persone hanno bisogno di cambiare il patto coniugale secondo le diverse fasi del ciclo di vita, dal momento che le cose necessarie per il soddisfacimento all’interno di un rapporto cambiano nel corso del tempo anche al variare dei requisiti familiari”.
“Naturalmente”, conclude l’autrice, “ogni passaggio di fase necessita di un rilancio del patto coniugale e non sempre la crisi che lo accompagna è risolta in modo indolore per la coppia”.
La fine del patto
“La causa più frequente della fine di un unione è data dal fallimento dell’incastro fra i patti segreti e patti dichiarati”, scrive Antonio Dorella (5) citando sempre Scabini e Cigoli. In questo specifico caso raramente si ricorre al divorzio e, di solito, “la fine del rapporto si declina secondo la modalità di dannazione dell’altro, in cui il partner diventa l’incarnazione del male o come stillicidio di lotta e di opposizione senza quartiere.
Un’altra forma di fine dell’unione”, continua l’autore, “è provocata dall’esaurimento del compito assegnato al legame. Come se una volta raggiunto l’obiettivo reciproco, il patto si sgonfiasse perdendo di slancio e la coppia non fosse più in grado di rilanciarlo.
Una terza forma di fine del patto è la presenza di un avvenimento sconcertante, nefasto come la malattia o la morte di un congiunto o anche lieto come le crisi che si situano a ridosso dell’attesa e della nascita di un figlio.
Quarta e ultima possibile forma di crisi è dovuta alla debolezza di pattuizione fra i partner, nel quale i valori narcisistici predominano su quelli di coppia. In questo caso basta l’attribuzione all’altro di qualche difetto e limite o il sentore di una delusione, perché il patto salti.
L’importante è che la fine del patto, cioè il divorzio o la separazione, non coincida mai con la fine storica del legame, cioè con la definitiva rottura, quanto con una fine-passaggio. Non è possibile uscire da un vincolo affettivo annullandolo, anche se ciò è quello che molti disperatamente ricercano. È invece possibile separarsene, nel senso di riconoscerlo per quello che è stato, sapendo al contempo riproporre il valore e la speranza del legame in altri contesti” (6).
Lo Stato e il patto coniugale
L’attenzione dello Stato nei confronti del patto coniugale, facendo riferimento a quanto il legislatore ha prodotto nell’ultima legislatura, è decisamente basso (7).
Annoveriamo il bonus bebè e il bonus giovani coppie, mentre per l’aumento degli asili nido e l’introduzione del reddito base di emancipazione ne parleremo forse nella nuova legislatura. In compenso si è legiferato p.e. sul divorzio breve e sulle unioni civili.
Eppure la Costituzione, all’art. 29, afferma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Sono passati i tempi in cui Arturo Carlo Jemolo (8) affermava: “La famiglia è la rocca sull'onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto… Appare sempre come un'isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto; la sua intima essenza rimane metagiuridica”.
La Chiesa e il patto coniugale
Mentre lo Stato ha legiferato bene sul matrimonio, ma poi lo ha trascurato, la Chiesa italiana ha seguito il cammino inverso. Lo ha dato in larga parte per scontato e ha iniziato ad occuparsene solo negli ultimi decenni, quando l’istituto matrimoniale ha manifestato evidenti segni di crisi.
Come esempio possiamo ricordare che l'Ufficio Nazionale per la pastorale della Famiglia fu istituito dalla CEI nell’ottobre 1986 (9) e che il Collegamento tra Gruppi Famiglia nacque nel 1990 proprio per tentare di sopperire all’assenza di una proposta organica di pastorale familiare a livello diocesano.
A quasi trent’anni di distanza, tutte le diocesi, tranne le più piccole, si sono dotate di un Ufficio Famiglia e i gruppi famiglia, variamente organizzati, sono presenti in molte parrocchie.
Anche a livello giuridico la Chiesa si è mossa in ritardo. Nel Codice di Diritto Canonico del 1917 il matrimonio è definito “contractum”. Solo nel Codice del 1983, frutto maturo del Vaticano II, la parola contratto è sostituita da patto.
Su questo punto lasciamo la parola a mons. Paolo Rigon (10) che scrive: “il consenso tra due persone suppone un contratto, ma nel nostro caso il contratto non è su un bene esteriore (come p.e. compra/vendita di un immobile) o comunque valutabile e soppesabile (come nel caso del contratto di lavoro o di prestazioni p.e. assicurative), bensì riguarda l’intera propria persona che decide, d’accordo con un’altra persona di sesso diverso, di creare una comunità di vita (che non è sola e semplice coabitazione e convivenza sotto lo stesso tetto) in ordine al bene dei coniugi stessi e quindi anche in ordine alla procreazione.
È l’intera persona che si coinvolge in un patto, è l’intera persona che sceglie di vivere un tipo di vita nuovo che coinvolge un’altra persona alla quale per il suo bene, per la sua felicità, debbo dare tutto me stesso: queste semplici espressioni ci fanno comprendere la portata enorme del contratto matrimoniale che di natura sua impegna tutta la nostra vita e non solo nel concetto del ‘per sempre’ ma anche nel concetto di ‘tutto a una persona’.
Non solo, ma questa scelta impegna un’altra persona, quella del coniuge che in me vede - e viceversa - la fonte della sua realizzazione e della sua felicità”.
(1) Psicologa e Psicoterapeuta. Fonte: http://www.ansiasociale.it/articoli-psicologia/il-patto-nella-coppia
(2) Scabini E., Cigoli V., Il famigliare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000
Per una sintesi vedi: http://www.opsonline.it/psicologia-31685-riassunto-del-libro-Il-famigliare-di-Scabini-e-Cigoli-prof-D-Agostino-universita-degli-studi-roma-tre.html
(3) Psicologa e Psicoterapeuta. Fonte: http://www.psicologia-roma.it/file.php?a=32&file=leggiarticolo&sez=articoli&art=104&idsezione=70
(4) Scabini e Cigoli riprendono una citazione da Froma Walsh
(5) Specializzato in psicologia cognitivo-interpersonale. Fonte: http://centrostudipsicologiaeletteratura.org/2014/01/la-crisi-della-coppia-una-prospettiva-sistemico-relazionale/
(6) Vedi: GF95, Riconciliarsi, pag.18-19.
(7) Fonte: https://www.partitodemocratico.it/gCloud-dispatcher/4c508fe8-0850-11e8-b337-0010186dda0c
(8) Citato in: Alessandro Galante Garrone; Questa nostra repubblica, Loescher editore, Torino 1963.
(9) Vedi: http://www.gruppifamiglia.it/anni90-94/Costa1.htm
Per l’istituzione del dell'Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia vedi: http://www.progettoculturale.it/cci_new/documenti_cei/2013-06/25-1047/Comunicato_CEP_06-09.10.1986.pdf
(10) Vicario giudiziale. Fonte: http://www.dehoniane.it:9080/komodo/trunk/webapp/web/files/riviste/archivio/04/20042112.htm
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• In che misura siete riusciti a realizzare nel matrimonio le vostre aspettative segrete?
• Quante volte, nella vostra vita di coppia, vi siete trovati nella condizione di dover rinnovare il vostro patto matrimoniale?
• Cosa dovrebbe fare lo Stato per sostenere il matrimonio?
• Cosa dovrebbe fare la Chiesa?
12-Il patto generazionale
Dal secondo dopoguerra ad oggi gli adulti sono cambiati, sono senz’altro meno autoritari ma molto più narcisisti.
Stregati dal mito dell’eterna giovinezza fanno concorrenza ai loro figli.
Serve un patto generazionale, per evitare l’adultizzazione dei bambini.
È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Art. 30 della Costituzione
L’instabilità familiare pesa soprattutto sui bambini, impedendo loro di crescere in un ambiente di amore e serenità.
A cura della Redazione
Quando una coppia sceglie di dare origine ad una nuova vita è ben consapevole dell’impegno che si assume. Con l’arrivo di un figlio non si è più soltanto sposi ma si diventa anche genitori, con tutte le responsabilità che ne conseguono.
Il problema è proprio qui: quanto le coppie sono disponibili ad assumersi queste responsabilità? Oppure: quanto sono “adulte” e consapevoli di tutto ciò che essere genitori comporta?
Da queste domande nasce la necessità di evidenziare cosa vuol dire “patto generazionale”.
Un po’ di storia
Armando Matteo (1), citando Baumann, scrive: “Possiamo suddividere i nostri contemporanei, ad eccezione dei più anziani, in tre generazioni successive e distinte. La prima è la generazione dei boomers: i nati tra il 1946 e il 1964, durante il baby boom del dopoguerra, quando coloro che erano allora adulti decisero che si poteva di nuovo pianificare il futuro, sposarsi e mettere al mondo dei figli. A loro ha fatto seguito la generazione X composta da coloro che oggi hanno tra i 45 e i 28 anni di età, e che ha adottato, sia pure con riluttanza, la filosofia e la strategia di vita dei genitori.
Ma, man mano che il mondo circostante si arricchiva e le prospettive di vita si facevano più sicure, questa generazione è diventata impaziente di riscuotere e di godere i premi della loro moderazione e abnegazione: per questo è stata definita sarcasticamente da qualcuno la ‘generazione io’. Poi è arrivata la generazione Y, composta da coloro che hanno tra 28 e 11 anni” i nostri figli o nipoti.
La generazione X
Questa generazione è caratterizzata, nel suo insieme, da una scarsa propensione ad assumersi la responsabilità generativa a causa, continua Armando Matteo, “dell’imporsi di un modello di giovanilismo che ha tutte le vesti di una vera e propria religione” che li ha sedotti. “La generazione adulta con la quale i nostri giovani e ragazzi hanno oggi da relazionarsi”, continua l’autore, “è sempre di più una generazione che non vive affatto la propria elementare vocazione alla adultità e alla responsabilità generativa”, rinnegando una delle caratteristiche fondamentali dell’adultità, “che è quella di sapersi dimenticare di sé in vista della cura d’altri”.
Armando Matteo sostiene le sue argomentazioni citando altri autori. Per esempio, Francesco Stoppa annota: “La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovane come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo, questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane”.
E Gustavo Zagrebelsky aggiunge: “Dov'è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazione e chirurgia; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella ‘cultura giovanile’ dei figli”.
Il patto generazionale
In modo più ponderato, così nel 2008 si esprimeva su questo tema un documento dell’Osservatorio nazionale per l'infanzia e l'adolescenza (2): “Diverse ricerche ed indagini delineano il contesto intergenerazionale e il rapporto educativo in modo apparentemente non univoco perché, se da un lato si denuncia una crisi dei rapporti tra generazioni”, segnata da poca comunicazione e ascolto, “dall’altro si sottolinea invece una prossimità tra generazioni, una contiguità che rende difficile il separarsi”.
Queste “due immagini della realtà sono apparentemente contraddittorie: ciò che le unifica è il rischio di una crescente indifferenziazione tra generazioni, la mancanza di confini e di identità che porta sì ad una contiguità, ma non ad una reale comunicazione” perché solo “la differenza permette l’incontro, lo scambio, anche il sano conflitto, che a sua volta aiuta l’autonomia e l’individuazione”.
“È in questo scenario”, continua il documento, “che si sta facendo strada l’esigenza di un rapporto costruttivo tra le generazioni attraverso la formulazione di un patto”, un patto intergenerazionale, “dedicando un riflettore particolare sul tema dell’accoglienza dei nuovi nati”.
Infatti, conclude il documento, “La Costituzione afferma il diritto-dovere dei genitori di educare. Una comunità che intende essere educante è chiamata innanzitutto ad interrogarsi su come possa salvaguardare questo diritto e sostenere attivamente l’esercizio di questo dovere, in stretto rapporto con il principio di solidarietà che attraversa tutta la nostra carta costituzionale”.
Dopo dieci anni, questo documento ministeriale suona come un atto di accusa nei confronti di una classe politica che ben poco ha fatto, da parte sua, per attuarlo.
La “scomparsa” dei bambini
Se la politica ha fatto poco, anche sul fronte della società non si è fatto molto.
Scrive Alessandro D’Avenia (3): “La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita.
C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli caccino i padri”.
“L'agire educativo è radicato nella famiglia; infatti, le relazioni familiari appartengono originariamente a un contesto comunitario e soprattutto civile ‘oltre l'individualismo dell'io e il collettivismo del noi’ ”, scrivono Bozzolo e Carelli (4).
Purtroppo oggi per la società l'educazione dei figli non ha più alcuna rilevanza culturale e, concludono, “alla scomparsa dei figli è seguita la scomparsa dei bambini, i quali o vengono considerati minori, o vengono adultizzati, o le due cose insieme”.
I diritti dei bambini
Possiamo non riconoscerci in quanto scritto finora. In questo caso probabilmente apparteniamo a quel terzo di famiglie che il sociologo Donati, citato da Fausto Lardelli (5), definisce “normo-costituite”. Purtroppo un altro terzo delle famiglie presenta varie forme di difficoltà - sono più deboli, precarie e bisognose di assistenza - e l’ultimo terzo è costituito da “famiglie molto problematiche”, segnate da grande instabilità e forme patologiche di relazioni.
In quest’ultimo caso, scrive Fausto Lardelli, magistrato minorile, in un articolo da cui attingiamo per trattare questo tema, i limiti della ‘generazione io’ emergono con particolare evidenza.
L’instabilità familiare pesa soprattutto sui bambini, sui figli minorenni che sempre più spesso finiscono per perdere l’ambiente di amore e di serenità nel quale crescere. Oggi, chi frequenta il mondo della scuola sa che l’interrogativo che si pongono questi bambini non è più se i genitori si separeranno, ma quando si separeranno.
Il disagio che prova un figlio incluso e inglobato in relazioni di coppia e di famiglia dove i sentimenti prevalenti sono di perdita, abbandono e rifiuto, riflette ciò che i genitori “sentono” e “fanno sentire” ai figli. Se queste situazioni creano molte croci per i genitori, ne creano ancor di più per i figli.
In una società che mette al centro i diritti individuali, in molte relazioni ci si dimentica del “noi”, un “noi” che implica il dovere nei confronti dell’altro e dei figli, e, come coppia, dei diritti dei minori e dei doveri dei genitori.
(1) Armando Matteo, La chiesa che manca, San Paolo Editore, Cinisello Balsamo (MI) 2018. p.44-51
(2) Fonte: http://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/lav2.pdf
(4) Andrea Bozzolo - Roberto Carelli (a cura di), Evangelizzazione e educazione, Editrice LAS, Roma 2011.
(5) Presidente della Camera di protezione della Sezione di diritto civile del Tribunale d’appello del Canton Ticino (CH). Fonte: https://issuu.com/dialoghi/docs/dialoghi_244
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanti, fra coloro che conoscete, si comportano come la generazione X dell’articolo?
• Educare è un diritto e un dovere: come lo esercitiamo?
• Secondo la vostra esperienza, le famiglie “normali”, quelle che Donati definisce normo-costituite, sono ancora in maggioranza?
13-Il patto ecclesiale
I fedeli cristiani e i loro diritti e doveri
Il fedele cristiano ha diritti e doveri che nascono dalla sua incorporazione a Cristo mediante il battesimo e gli altri sacramenti.
Il popolo di Dio e la struttura gerarchica della Chiesa.
Il dovere più grande del cristiano: ricercare la santità.
La dignità della persona umana ha in Cristo e nel Vangelo la sua espressione più perfetta.
Siamo chiamati ad esercitare la santità “della porta accanto”.
A cura della Redazione
Ci si può chiedere legittimamente che cosa se ne può fare una Chiesa fondata su Cristo di un Codice che, al di là dei contenuti, è strutturato come i Codici di Diritto degli Stati moderni.
Non basta la Parola del Vangelo? Non è abbastanza tagliente ed affilata?
Si può però osservare che, proprio per questa ragione, il cristianesimo, da scelta radicale di fede, è stato in molte circostanze e periodi storici “annacquato” a tal punto da dare scandalo.
Un Codice, che definisca i doveri e i diritti dei credenti, sancisca le procedure giuridiche e le pene nel caso del loro mancato rispetto, risulta quindi importante per non lasciare la Chiesa, intesa come comunità di uomini, priva di regole.
Doveri e diritti
Degli oltre 1700 canoni di cui è composto il Codice ci limiteremo a prendere in considerazione solo alcuni canoni del Libro II dedicata agli “Obblighi e diritti di tutti i fedeli”.
Perché gli obblighi dei cristiani precedono i diritti? Perché la fede è una risposta alla chiamata divina, Dio e la sua grazia sempre ci precedono.
“La Chiesa ha, infatti, un concetto di libertà ben diverso da quello sostenuto dalla cultura laica e razionalistica”, scrive padre Lorenzo Lorusso (1), sottosegretario della Congregazione per le Chiese Orientali, “in quanto ritiene che l’uomo debba sempre riconoscere e rispettare la sua originaria dipendenza da Dio”.
Inoltre, “il fatto che il fedele cristiano abbia diritti e doveri è evidente, ma questi nascono dalla sua incorporazione a Cristo mediante il battesimo e gli altri sacramenti conferiti dalla Chiesa”.
Vera uguaglianza?
Il primo canone di questa sezione è il 208, che afferma la vera uguaglianza che sussiste tra tutti i fedeli in Cristo.
La vera uguaglianza affermata da questo canone viene però “contraddetta” da quanto riporta il canone 212 che chiede ai fedeli obbedienza a quanto i pastori dispongono come capi della Chiesa. In realtà, in tutti i 16 canoni di questa sezione si coglie, scrive Lorusso, “il tentativo operato dal legislatore di conciliare nelle stesse norme l’affermazione dei diritti dei singoli e la tutela delle prerogative dell’autorità”.
Il costante richiamo alla diversità dei ministeri, conclude Lorusso, “rivela nel legislatore la discutibile preoccupazione che il riconoscimento dei diritti dei fedeli possa essere male interpretato e dare luogo a inaccettabili abusi” ma “rischia di lasciare l’esercizio di qualunque diritto in balia dell’autorità”.
Una società ineguale
Il principio di uguaglianza del canone 208 discende “dall’ecclesiologia del Concilio Vaticano II e specialmente nella Lumen gentium dove troviamo che uno solo è il popolo eletto da Dio, esiste un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, quindi non c’è nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa” (2).
Se il concetto di “popolo di Dio” è il tema del capitolo II della Lumen gentium, nel capitolo III il documento tratta della costituzione gerarchica della Chiesa.
Quindi, quando il Codice tratta degli obblighi e diritti di tutti i fedeli, risente inevitabilmente della “tensione” presente tra queste due esigenze contrapposte.
Abbiamo ben presente il concetto di gerarchia nella Chiesa.
Se nei primi secoli della Chiesa “chierici e laici svolgevano un ruolo attivo nella comunità ecclesiale, successivamente si è accentuata la distinzione tra i due ruoli, con i chierici chiamati a svolgere un ruolo attivo nella Chiesa (chiesa docente) e i laici chiamati a svolgere un ruolo passivo (chiesa discente)” (3).
Questa distinzione gerarchica di ruoli viene codificata dopo l’anno mille con il Decreto di Graziano ed è praticamente arrivata fino ai giorni nostri.
Ci sono molte ragioni per questo declassamento del ruolo dei fedeli laici ma principalmente sono due.
“Nel medioevo la Chiesa si trovò a lottare col potere imperiale per difendere e mantenere la propria autonomia. Si trattava di un confronto tra due autorità: quella del Papa e, implicitamente, del clero e quella dell’Imperatore e dei suoi vassalli, laici.
Nell'età moderna, invece, fu il Concilio di Trento che dovette reagire alla riforma protestante di Martin Lutero, riaffermando il ruolo del sacerdote e della sua ministerialità, contro l’abolizione del sacerdozio ordinato e dei sacramenti”.
La comunione gerarchica
Ci troviamo ora, dopo il Vaticano II, a ricercare un nuovo equilibrio tra autorità ed uguaglianza. “I tentativi fatti”, ha affermato a suo tempo Benedetto XVI (4), “sono stati quelli di usare l'aggettivo ‘pastorale’ - come pure l'idea di ‘comunione’- quasi in opposizione al concetto di ‘gerarchico’ ”.
“L'opinione comune è che ‘gerarchia’ sia sempre qualcosa di legato al dominio ma questo non corrisponde al vero senso della Chiesa, dell'unità nell'amore di Cristo. Anche il Papa - punto di riferimento di tutti gli altri pastori e della comunione della Chiesa - non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell'obbedienza a Cristo”.
“Quindi”, continua Benedetto, “si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l'una all'altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola: comunione gerarchica. Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti”.
Il dovere più grande
Tante sarebbero le osservazioni che si possono fare sul rapporto sacerdoti – laici, partendo dal rapporto che ciascuno di noi ha con il proprio parroco.
Ma vorremmo invece terminare indicando, tra tutti i diritti e doveri del cristiano quello che a noi sembra il più importante: il dovere di perseguire la santità secondo la propria condizione (can. 210).
In che cosa consiste la santità? Papa Francesco ce l’ha indicata bene nella sua ultima Esortazione Apostolica: “nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante.
Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’ ” (Gaudete et exsultate, n.7).
E, più avanti papa Francesco scrive: “Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova.
Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione.
Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa.
Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli.
Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù.
Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali” (n.14).
(1) Fonte: http://www.iuraorientalia.net/IO/IO_05_2009/VI_06_Lorusso.pdf
(2) Fonte:https://doc.studenti.it/podcast/i-diritti-e-i-doveri-fondamentali-del-diritto-canonico.html
(3) Fonte: https://doc.studenti.it/podcast/il-diritto-canonico-ed-i-fedeli-laici.html
(4) Udienza generale del 26 maggio 2010
Fonte: http://www.osservatoreromano.va/it/news/nella-chiesa-autorita-e-gerarchia-sono-un-servizio
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Il primato dei doveri sui diritti nasce dalla nostra dipendenza da Dio e dagli obblighi di carità verso gli altri: condividiamo?
• Quando ci confrontiamo, tra sacerdoti e laici, quanto siamo condizionati dalle realtà immanenti e quanto da quelle trascendenti?
• Sappiamo coltivare la santità “della porta accanto”?
14-La dottrina sociale della Chiesa
La dottrina sociale della Chiesa prende le mosse dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891) e si è costantemente aggiornata nel corso dei decenni fino alla Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009) e la Laudato sii di papa Francesco (2015).
I dieci comandamenti ‘insegnano’ la vera umanità dell'uomo e indicano la morale umana universale.
La partecipazione alla vita comunitaria è una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia.
A cura della Redazione
In quest’ultimo articolo, abbiamo raccolto alcune riflessioni del Magistero sulle principali parole “chiave” utilizzate negli articoli di questo numero.
Nichilismo
Nell’articolo su “La società dei “diritti” (p. 6-7) abbiamo parlato di nichilismo. Ecco cosa ha scritto al proposito Giovanni Paolo II: “Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio” (Fides et ratio, n.46).
Individualismo
Un altro argomento toccato in quell’articolo sono stati i diritti individuali, espressione dell’individualismo.
L'ideologia liberale, scriveva Paolo VI, “ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola a ogni limite, stimolandola con la ricerca esclusiva dell'interesse e del potere, e considerando la solidarietà sociale come conseguenza più o meno automatica delle iniziative individuali e non già quale scopo e criterio più vasto della validità dell'organizzazione sociale” (Octogesima adveniens, n.26).
Diritti
Nell’articolo “Il primato dei doveri” (p. 8-9) abbiamo parlato di diritti e di doveri. A proposito di diritti il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (di seguito Compendio) scrive: “La radice dei diritti dell'uomo è da ricercare nella dignità che appartiene ad ogni essere umano… La fonte ultima dei diritti umani non si situa nella mera volontà degli esseri umani, nella realtà dello Stato, nei poteri pubblici, ma nell'uomo stesso e in Dio suo Creatore” (n.153).
E ancora: “I diritti dell'uomo vanno tutelati non solo singolarmente, ma nel loro insieme: una loro protezione parziale si tradurrebbe in una sorta di mancato riconoscimento” (n.154).
Doveri
Sul fronte dei doveri, sempre il Compendio riporta: “I dieci comandamenti, che costituiscono uno straordinario cammino di vita e indicano le condizioni più sicure per una esistenza liberata dalla schiavitù del peccato, contengono un'espressione privilegiata della legge naturale. Essi ‘insegnano’ la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana’. Essi connotano la morale umana universale” (n.22)
Sussidiarietà
Un argomento trattato nell’articolo “Diritti personali, diritti sociali” (p. 10-11) è stato la sussidiarietà. Questo è un tema che riguarda da vicino la famiglia. Così ne scrive Giovanni Paolo II: “In forza del principio di sussidiarietà lo Stato non può né deve sottrarre alle famiglie quei compiti che esse possono egualmente svolgere bene da sole o liberamente associate, ma deve positivamente favorire e sollecitare al massimo l’iniziativa responsabile delle famiglie. Convinte che il bene della famiglia costituisce un valore indispensabile e irrinunciabile della comunità civile, le autorità pubbliche devono fare il possibile per assicurare alle famiglie tutte quegli aiuti – economici, sociali, educativi, politici, culturali – di cui hanno bisogno per far fronte in modo umano a tutte le loro responsabilità” (Familiaris consortio, n.45).
Bene comune
Un altro argomento trattato implicitamente in quell’articolo è quello del bene comune. Così ne scrive Benedetto XVI: “Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis” (Caritas in veritate, n.7).
Democrazia
L’articolo successivo è dedicato a “Democrazia e valori” (p. 12-13). Scrive il Compendio: “La partecipazione alla vita comunitaria non è soltanto una delle maggiori aspirazioni del cittadino… ma anche uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia” (n.190). Purtroppo: “Meritano una preoccupata considerazione… tutti gli atteggiamenti che inducono il cittadino a forme partecipative insufficienti o scorrette...: si pensi, ad esempio, ai tentativi dei cittadini di ‘contrattare’ le condizioni più vantaggiose per sé con le istituzioni, quasi che queste fossero al servizio dei bisogni egoistici, e alla prassi di limitarsi all'espressione della scelta elettorale, giungendo anche, in molti casi, ad astenersene” (n.191).
Economia
Sempre nello stesso articolo, un’altra parola ricorrente è ‘economia’. Su questo tema il Compendio precisa: “La dottrina sociale della Chiesa, pur riconoscendo al mercato la funzione di strumento insostituibile di regolazione all'interno del sistema economico, mette in evidenza la necessità di ancorarlo a finalità morali, che assicurino e, nello stesso tempo, circoscrivano adeguatamente lo spazio della sua autonomia” (n.349).
E aggiunge: “Un'economia finanziaria fine a se stessa è destinata a contraddire le sue finalità, poiché si priva delle proprie radici e della propria ragione costitutiva, ossia del suo ruolo originario ed essenziale di servizio all'economia reale e, in definitiva, di sviluppo delle persone e delle comunità umane” (n.369).
Educazione
L’articolo “Educare alla cittadinanza” (p. 14-15) integra quanto già detto nel numero 96 della rivista, dedicato all’educazione.
Benedetto XVI, in una sua lettera di inizio 2008 alla diocesi di Roma, invitava gli educatori a: “trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà”.
Famiglia
Come l’articolo precedente e quelli che seguono, l’articolo sul “patto coniugale” (p. 16-17) ci riporta nell’alveo più consueto dei temi trattati dalla rivista.
Dalla Familiaris consortio di Giovanni Paolo II traiamo uno spunto legato alla dimensione politica della famiglia. Vi leggiamo infatti: “Le famiglie, lungi dall'essere solo oggetto dell'azione politica, possono e devono diventare soggetto di tale attività, adoperandosi ‘affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie devono crescere nella coscienza di essere ‘protagoniste’ della cosiddetta ‘politica familiare’ e assumersi la responsabilità di trasformare la società” (n.44)
Figli
Anche nell’ambito genitori-figli vi è un reciprocità di diritti e doveri, come riportato nell’articolo “Il patto generazionale” (p. 18-19). Uno di questi è senz’altro educazione ai valori. Così scrivevano i Padri conciliari: “La famiglia anzitutto è come la madre e la nutrice” di una educazione ad una cultura integrale. “In essa i figli, vivendo in una atmosfera d'amore, apprendono più facilmente la gerarchia dei valori, mentre collaudate forme culturali vengono quasi naturalmente trasfuse nell'animo dell'adolescente, man mano che si sviluppa” (Gaudium et spes, n.61).
Chiesa
Infine, anche in ambito ecclesiale, i credenti sono legati tra di loro da diritti e doveri, come abbiamo sintetizzato nel’articolo “Il patto ecclesiale” (p. 20-21).
Uno di questi doveri è la formazione all’impegno sociale. Scrive il Compendio: “Tale formazione deve tener conto dell’impegno dei laici nella vita civile: spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture delle loro comunità di vita”. Questo impegno può arrivare fino all’impegno politico diretto (n.531).
Uomini e donne nella bibbia
15-La torre di Babele
Dove l’unica lingua è quella del più forte, del più violento, di chi ha potere e ricchezza per sopraffare gli altri
Nell’episodio della torre di Babele (Gn 11, 1-9) l’autore biblico affronta il problema dell’agire politico tra gli uomini. Dio scende a vanificare il progetto umano, confondendo le lingue dei costruttori.
La tradizione ebraica si è a lungo soffermata sul perché di questo agire paradossale di Dio, giungendo a esprimere una prima risposta in un suggestivo midrash.
“La torre divenne così alta che per salire fino alla cima occorreva un anno intero. Agli occhi dei costruttori un mattone divenne allora più prezioso di un essere umano; se un uomo precipitava e moriva nessuno vi badava, ma se cadeva un mattone tutti piangevano perché per sostituirlo sarebbe occorso un anno. Passò allora di là il Signore e vide che gli uomini che cadevano dalle impalcature non erano pianti, ma il mattone cotto trovava grande pianto. Allora li maledisse e li disperse su tutta la terra”.
Possiamo ampliare ulteriormente questo racconto rabbinico per comprenderlo meglio.
Giunge un giorno in cui la torre è divenuta così alta che occorre un anno per salire sulla sua sommità a posarvi un mattone, e quando dopo un altro anno si scende in basso non ci si riconosce più e si diviene incapaci di parlare la medesima lingua, perché si è persa quella prossimità familiare che è come il terreno fecondo per il germogliare di ogni relazione. Un intero mondo umano si è mosso ed è mutato, ma non c’è stato tempo di prestarvi attenzione, perché tutto è stato fagocitato dalla costruzione della torre.
In tal modo, lentamente ma inesorabilmente, un mattone diviene più importante della vita di un uomo, mentre il progetto politico della torre si sostituisce e oscura quelle relazioni che pure intendeva inizialmente onorare e servire.
A questo punto Dio scende a confondere le lingue, ma il suo giudizio, anziché un castigo, è la rivelazione del male già presente nell’agire degli uomini, ormai incapaci di comprendersi reciprocamente.
Parlano infatti il linguaggio artificiosamente univoco della torre e del loro progetto, non più quello molteplice e vario dell’esistenza di ciascuno.
Quando gli uomini rinunciano a parlare le lingue molteplici e varie delle diverse esistenze personali, allora, inevitabilmente, l’unica lingua diventa la lingua del più forte, del più potente, del più violento, di chi ha potere e ricchezza per sopraffare gli altri, oppure può fare a meno di loro, e perde la consapevolezza dell’altro diventando un idolo a se stesso.
Nel progetto di Babele si nasconde una tentazione radicale e rischiosa perché rimane una tentazione religiosa: quella di pretendere di innalzarsi sino a Dio progettando la nostra relazione con lui senza prestare attenzione a quella vicinanza di Dio promessa in ogni volto umano.
Questo va detto senza dimenticare la differenza che sussiste tra le relazioni interpersonali, e la carità più immediata che può essere vissuta a questo livello (dare un bicchiere d’acqua, ad esempio), e le relazioni che si instaurano a livello dei rapporti sociali più complessivi (dove la responsabilità non è più quella di dare il bicchiere d’acqua, ma di affrontare e risolvere il problema della sete o della fame del mondo).
I rapporti sociali hanno una loro caratteristica obiettiva, che è quella di essere sempre rapporti socialmente mediati, che si attuano cioè attraverso molte mediazioni (ruoli, funzioni, istituzioni, norme, leggi, strumenti politici …).
Occorre allora distinguere questi due ambiti di servizio, nel rispetto delle differenti logiche che obiettivamente li costituiscono, perché c’è un servizio che si colloca a livello del rapporto immediato, ed è differente da quello che si colloca a livello di rapporti socialmente o politicamente mediati.
Una testimonianza evangelica in questo ambito deve quindi preoccuparsi della qualità delle relazioni, del riconoscimento del volto dell’altro, anche là dove non è evidente e non emerge il carattere personale del rapporto.
Fratel Luca, monaco benedettino
16-Per approfondire il tema
I libri usati per realizzare questo numero
Giorgio Campanini, Democrazia e valori, Editrice AVE, Roma 2007.
Marcello Flores, Storia dei diritti umani, Società editrice il Mulino, Bologna 2008.
L’agile libro di Campanini presenta, sinteticamente ma organicamente, i quattro concetti base che caratterizzano l’istituto democratico: potere, comunità politica, bene comune, pluralismo, il tutto in una prospettiva cattolica.
Il volume di Flores affronta, in modo molto ampio, l’articolarsi nella Storia del tema dei diritti.
È un testo molto interessante, aperto a tutto il mondo e non solo all’Occidente e sensibile ai diritti delle donne. Per poterlo apprezzare a fondo serve un minimo di competenza in storia e filosofia.
Vittorio Possenti, Diritti umani. L’età delle pretese, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2017.
Si tratta di un libro da leggere perché è interessante e allo stesso tempo accessibile, scritto da una persona competente. L’autore, infatti, è stato professore ordinario di filosofia politica.
“Si tratta oggi”, scrive l’autore, “di gestire in maniera coerente con la custodia dell’umano le nuove e travolgenti possibilità aperte dall’impatto della tecnologia sulle persone”. La strada che Possenti propone è quella del personalismo cristiano, che comporta “l'apertura all'altro, la capacità di decentrarsi e si radica in una società politica sentita come comunità di destino, formata da persone umane, non da individui isolati che regolano contrattualmente i loro rapporti”.
Un minimo di ripetitività, dovuto al fatto che il volume è in parte costituito da materiale inedito e in parte frutto di rielaborazioni di testi già pubblicati, aiuta a prendere confidenza con i temi trattati.
Luciano Violante, Il dovere di avere doveri, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014.
Stefano Fontana, Per una politica dei doveri, Edizioni Cantagalli, Siena 2006.
Due autori molto lontani culturalmente si misurano sullo stesso argomento: l’importanza dei doveri in una società di “diritti”.
Violante, con un trascorso da magistrato e politico, sottolinea, con molti esempi, la deriva che accompagna l’acquisizione dei nuovi “diritti”: ottenere per via giudiziaria quello che non si riesce ad ottenere per via politica.
Fontana radica la sua riflessione nel pensiero cattolico dimostrando, prima, l’asimmetricità tra doveri e diritti e poi la priorità del dovere sul diritto e la sua natura vocazionale.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice vaticana, Città del Vaticano 2004.
Si tratta di un volume piuttosto corposo che raccoglie la dottrina sociale della Chiesa esposta in maniera sintetica, ma esauriente.
Si tratta di una “elaborazione sistematica che interpreta tutto il percorso compiuto dal Magistero sociale ed è offerta a tutti gli uomini per aiutarli ad orientarsi nella complessità del vivere”.
Il libro, infatti, “non è dedicato solo ai credenti in Cristo ma anche a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo che si impegnano a servire il bene comune”.
Unico limite dell’opera, del 2004, è legata all’assenza delle riflessioni dei due papi che sono succeduti a Giovanni Paolo II.
Il libro è soprattutto utile come strumento di consultazione. Infatti, un terzo del volume è dedicato agli indici analitici.
Anna Sarfatti, Chiama il diritto, risponde il dovere, Mondadori Editore, Milano 2009.
Giovanni Maria Flick, LanostraCostituzione.it, Edizioni Paoline, Milano 2017.
Si tratta di due testi rivolti a giovani lettori, ma di fasce d’età diverse. Il libro della Sarfatti è adatto a ragazzi delle elementari, è ben illustrato e contiene concetti molti semplici e immediati.
Il libro di Flick è adatto a ragazzi delle scuole secondarie, è molto interattivo con il giovane lettore, anche attraverso l’uso dello smartphone per accedere agli approfondimenti.
Questo testo rientra nell’ambito di un progetto più ampio dell’editore, volto a favorire nei giovani la consapevolezza e lo sviluppo di una cittadinanza attiva e responsabile.
17-Il Vangelo della famiglia, gioia del mondo
IX Incontro mondiale della famiglie, Dublino 21-26 agosto
Nel prossimo mese di agosto si svolgerà a Dublino il nono incontro mondiale delle famiglie dal titolo “Il Vangelo della famiglia, gioia del mondo”.
Tali appuntamenti nacquero da un’intuizione di Papa Giovanni Paolo II che nel 1994 decise di costituire un’occasione internazionale di preghiera, catechesi e festa che attirasse partecipanti da tutto il mondo con l’obiettivo di rafforzare i legami tra le famiglie e testimoniare l’importanza fondamentale del matrimonio e della famiglia per tutta la società.
Il nostro ricordo non può non andare al Family 2012 di Milano, dove decine di famiglie dei Gruppi Famiglia di tutta Italia parteciparono a questo evento, sperimentando l’ospitalità e l’accoglienza degli amici del decanato di Vimercate, in uno scambio di esperienze e di vita vissuta che ci portiamo ancora nel cuore.
L’incontro di Dublino sarà il primo dopo la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, documento che non è stato un semplice aggiornamento della pastorale familiare, bensì un modo nuovo di vivere la Chiesa e di realizzare l’amore di Dio Padre con gioia e speranza in famiglia e nella collettività.
Papa Francesco chiede ad ognuno di noi: il Vangelo continua ad essere gioia per il mondo?
E ancora: la famiglia continua ad essere buona notizia per il mondo di oggi?
Con una visione realistica possiamo guardare alle nostre piccole chiese domestiche, alle nostre comunità, alle nostre parrocchie e comprendere meglio se questo Vangelo è al centro della nostra vita, se lo leggiamo insieme per far sì che possa rigenerarci, aiutarci ad essere suoi testimoni fedeli. Possiamo dirci con onestà che non sempre “vi riconosceranno da come vi amerete” (Gv 13), ma siamo in cammino, crediamo a questa buona notizia e cerchiamo di testimoniarla.
Papa Francesco così risponde: “La famiglia è il ‘sì’ del Dio Amore. Solo a partire dall’amore la famiglia può manifestare, diffondere e ri-generare l’amore di Dio nel mondo. Senza l’amore non si può vivere come figli di Dio, come coniugi, genitori e fratelli”.
Quanto siamo consapevoli, allora, che la nostra piccola o grande famiglia è colma dell’amore di Dio?
Il papa continua: “Desidero sottolineare quanto sia importante che le famiglie si chiedano spesso se vivono a partire dall’amore, per l’amore e nell’amore. Ciò, concretamente, significa darsi, perdonarsi, non spazientirsi, anticipare l’altro, rispettarsi. Come sarebbe migliore la vita familiare se ogni giorno si vivessero le tre semplici parole ‘permesso’, ‘grazie’, ‘scusa’. Ogni giorno facciamo esperienza di fragilità e debolezza e per questo tutti noi, famiglie e pastori, abbiamo bisogno di una rinnovata umiltà che plasmi il desiderio di formarci, di educarci ed essere educati, di aiutare ed essere aiutati, di accompagnare, discernere e integrare tutti gli uomini di buona volontà. Sogno una Chiesa in uscita, non autoreferenziale, una Chiesa che non passi distante dalle ferite dell’uomo, una Chiesa misericordiosa che annunci il cuore della rivelazione di Dio Amore che è la Misericordia”.
Tutti noi condividiamo questo sogno di una Chiesa misericordiosa, vicino a chi soffre, a chi è debole e stanco, ed è perciò che, nella nostra quotidianità, siamo chiamati ad edificare mattoncini di questa Chiesa, aiutandoci vicendevolmente a percorrere la strada con speranza e fiducia nello Spirito Santo che ci guida ed indirizza verso il bene comune.
Nei nostri Gruppi Famiglia, attraverso la lectio divina, la revisione di vita ed i campi estivi, possiamo ricaricarci di questo amore grande e misericordioso che deve continuare a sconvolgere le nostre vite e contagiare chi incrociamo ogni giorno.
Nicoletta e Corrado Demarchi
18-Campi estivi 2018
Il calendario definitivo
27 luglio – 2 agosto San Giacomo di Entraque (CN)
Tema da definire.
Relatore: Angelo Fracchia, biblista.
Org.: Diocesi di Cuneo.
Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786,
5-12 agosto Bettona (PG)
Relatori di alcune comunità umbre.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Antonella e Renato Durante, 348 5558619,
12-19 agosto Bessen Haut (TO)
Tema: Vi riconosceranno da come vi amerete.
Relatori: Maria Poetto e coniugi Chiara e Marco Mattio.
Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).
Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431,
15-19 agosto Chiappera (CN)
Tema: Il Vangelo della famiglia: gioia per il mondo.
Relatori: Nicoletta e Davide Oreglia.
Org.: Diocesi di Mondovì (CN).
Info: Daniela e G.Paolo Basso, 339 1541258,
18-25 agosto Valle di Cadore (BL)
Tema: Cittadini del mondo. Leggendo il libro di Rut.
Relatore: Gabriella Del Signore.
Sacerdote: don Daniele Vettor.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595, segninuovi@alice.it
19-26 agosto Voltago Agordino (BL)
Tema: Valori dimenticati. Un materialismo che trascura l'essenziale.
Relatore: suor Rita Barbato.
Sacerdote: padre Francesco Pellizzer.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718,
Il calendario, aggiornato in tempo reale, è consultabile sul sito: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le notizie in evidenza.
19-Diamoci il cinque!
Una firma per il 5x1000 alla nostra associazione
Carissimi,
Anche quest'anno la legge finanziaria consente di destinare la quota del 5x1000 della vostra imposta sul reddito delle persone fisiche relativa all'anno 2017 (CUD, modello 730 o Unico), ad una serie di realtà fra cui le ONLUS (associazioni non lucrative di utilità sociale).
L'attività del Collegamento tra Gruppi Famiglia - e quindi dell’associazione Formazione e Famiglia che ne è l’espressione legale - rientra fra queste e con la vostra firma potrete sostenere la pubblicazione del Foglio di Collegamento, promuovere le settimane estive per famiglie e le altre iniziative formative (convegni, incontri e attività).
Il contributo che riceviamo viene da noi usato per pagare le spese vive, essendo tutti noi volontari.
Questa è una scelta che non costa nulla, perché si tratta di una quota delle tasse a cui lo Stato rinuncia.
È un gesto che chiediamo a tutti voi e, tramite voi, a tutti quelli che ritenete interessati alle nostre iniziative.
Per destinare il 5x1000 al Collegamento dei Gruppi Famiglia è sufficiente scrivere sulla denuncia dei redditi (Unico, 730 e CUD) nello spazio dedicato al sostegno del volontariato il nostro codice fiscale 97571710017.
In questi ultimi anni, come potete vedere dalla tabella qui sotto, le vostre firme sono progressivamente aumentate, registrando numeri che per noi sono molto importanti.
Di tutto ciò non possiamo che ringraziarvi molto.
Antonella e Renato
20-Per concludere
Un giorno tutto questo
Che senso ha ragionare su un futuro di cui non ci sentiamo parte in causa? Il nuovo secolo - difficile negarlo - è iniziato nel segno di una sottrazione di sovranità a danno di quasi tutti noi, sottrazione in termini economici, politici, sociali, col conseguente indebolimento di quella partecipazione che ci eravamo abituati a credere determinante per il gioco democratico. Ci sentiamo marginali, tagliati fuori dalle decisioni importanti, in certi casi perfino da quelle legate alla nostra vita privata, anch'essa (questa l'insidiosa sensazione) messa a servizio di un'operazione condotta a vantaggio di qualcun altro. Ma è davvero così?
In un mondo che rischia di tornare a innamorarsi dello stato di natura (l'estensione del dominio della lotta non è altro) il futuro sembra sorridere ai violenti, alle canaglie, ai privilegiati. Ma il futuro sorride in modo sempre assai enigmatico. Il futuro non è scritto, non lo è mai stato. Il futuro è di chi riesce a immaginarlo, e poi si mette all'opera per realizzare ciò che sul piano di realtà accadrà in maniera diversa da ciò che perfino i più capaci e i meglio intenzionati si erano prefigurati: il mondo è abbastanza complesso da rendere possibile ogni volta il cambiamento, ma sufficientemente folle da assumere forme imprevedibili per chiunque.
Nicola Lagioia
direttore del Salone intenzionale del Libro di Torino