Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF102 – giugno 2019
IL PADRE NOSTRO
LA PREGHIERA CRISTIANA PER ECCELLENZA
Lettere alla rivista
1-CONOSCIAMO DAVVERO DIO?
“Vedere” Dio per quello che è e non come vorremmo che fosse
Come si può chiamare Padre un dio che, quando sei nella prova, non risponde alle tue invocazioni? È un "dio falso" come si bestemmiava una volta!
Carlo.
Un assioma della filosofia scolastica recitava: “Ciò che viene ricevuto in un soggetto, è ricevuto secondo la capacità della natura del ricevente”; ed è una massima carica di una grande saggezza.
Oggi possiamo interpretare tale assioma così: un discepolo potrebbe anche essere affidato alle cure sollecite del migliore maestro che esista al mondo ma non imparerà un bel nulla, se egli non è pienamente disponibile ad imparare e se il suo sviluppo e la sua personale motivazione sono troppo al di sotto di ciò che gli verrà insegnato.
Purtroppo viviamo in un tempo in cui il rapporto con la trascendenza è diventato sempre più privato, vissuto al di fuori di ogni confronto con dei contenuti oggettivi o con l’istituzione deputata a trasmetterli. Le conseguenze sono evidenti: ognuno si fa di Dio - per rimanere nel tema sollecitato da Carlo - l’idea che più in quel preciso momento lo emoziona sia in senso positivo sia in senso negativo.
Si costruisce un’immagine di divinità a “propria” immagine e somiglianza. Un’immagine - per usare una espressione tipica di Zigmut Bauman, sociologo polacco contemporaneo - “liquida”, cioè che si adatta ad ogni “contenitore”.
Che poi, una persona possa essere arrabbiata con Dio Padre - vedi, ad esempio, il lamento di Giobbe (16,12-14) - non è un problema; fa parte della relazione fra persone.
Non fa neanche problema che ci si faccia un’immagine di Dio: ogni essere umano, in quanto tale, ha la necessità di costruirsi, a ragion veduta, le proprie immagini della realtà.
La grande questione sta nel modo con cui si costruiscono tali immagini; cioè se la mentalità messa in campo è adeguata all’opera: senza veli e senza inganni. Soprattutto nel rapporto con il Dio di Gesù Cristo occorre voler dotare la propria mens delle capacità di vedere.
Per fare qualche cosa di bello e di lodevole, bisogna prima avere il coraggio di saperlo guardare, sino in fondo, per quello che effettivamente è; non per quello che vorremmo che fosse o per quello che dovrebbe essere.
Se e una motivazione personale non è stata elaborata, niente e nessuno potranno forzare quel particolare soggetto a discernere.
L’amore di Dio Padre c’è ed è del tutto gratuito, anche se i figli non se ne accorgono (Lc 15,11-32).
don Giovanni Villata
Dialogo tra famiglie
2-PER DIO NON CI SONO FIGLI E FIGLIASTRI
Leggere tutta la nostra vita all’interno della storia della salvezza
Diciamo che Dio è padre di tutti ma, nella mia esperienza di vita, mi sembra che tratti alcuni come figli ed altri come figliastri.
Non mi piace un padre così!
Clara
Cara Clara, la tua domanda è molto densa e importante. Proviamo ad affrontarla insieme, partendo dalla considerazione che il Dio rivelatoci dalle Scritture e poi da Gesù Cristo, ha affidato agli esseri umani il compito di coltivare il giardino, cioè ha messo nelle nostre mani la terra e, così facendo, ha messo anche ciascuno di noi nelle mani degli altri. Ci ha quindi affidato il compito di curare il creato e, in particolare con Gesù, di prenderci cura dei fratelli: allora laddove l’uomo viene meno nel suo compito di co-creatore e custode, vengono meno le condizioni per una vita sana, buona, felice per tutti.
Quindi se è vero che siamo nelle mani di Dio, dobbiamo dire però che Dio con l’Incarnazione si è messo nelle mani degli uomini e ci ha resi responsabili in quanto fratelli gli uni degli altri: questa è la grandezza del Dio rivelato da Gesù Cristo.
La fiducia del Padre nei suoi figli lo porta a rischiare tutto su di noi. Fino a vedere il suo Figlio in croce.
È difficile riuscire a pensare a un Dio si lasci mediare dagli uomini, ma questa è la nostra fede, perché in Cristo, se viviamo il suo Vangelo, impariamo a essere fratelli (e padri e madri) con “lo stile di Dio”. Ciò che ci capita, compresi i fatti drammatici, è sempre possibile leggerlo all’interno della storia della salvezza, nel cammino del Redentore che “porta tutto” al Padre, ed è sempre occasione di conversione e di svelamento.
Anna Lazzarini
EDITORIALE
3-IL PADRE NOSTRO
Tutta la vita pubblica di Gesù, dal battesimo nel Giordano alla sua morte in croce, è un’unica testimonianza del Padre
di Franco Rosada
Il Padre nostro è una delle prime preghiere che ci hanno insegnato ed è di solito presente nelle nostre orazioni quotidiane. Questa sua diffusa presenza nella vita di preghiera non significa automaticamente che ne abbiamo ben chiari i contenuti.
Con questo numero, interamente dedicato al Padre nostro, spero che questa preghiera, già così familiare, possa essere colta in tutta la sua profondità e d’ora in poi recitata con una maggiore consapevolezza.
L’idea di dedicare un numero al Padre nostro mi è venuta vedendo, a fine 2017 su TV2000, il programma in cui papa Francesco conversava con Marco Pozza, sacerdote e cappellano del carcere di Padova, proprio su questa preghiera.
Il Padre nostro è senz’altro un tema caro a papa Francesco che ha iniziato a dedicare, a partire dal dicembre scorso, le riflessioni dell’udienza generale del mercoledì proprio a questa preghiera.
Nel numero che avete tra le mani ho cercato di toccare i diversi aspetti del Pater, passando in rassegna le petizioni che lo compongono secondo la versione che ci ha tramandato l’evangelista Matteo.
Prima ho voluto inserire un articolo sulla preghiera in generale e ho fatto seguire il tutto da una riflessione sull’uso del Pater nella Chiesa dalle sue origini fino ad oggi.
La rubrica biblica, infine, illustra come Matteo e Luca collochino le pericopi che presentano il Padre nostro all’interno dei loro Vangeli.
Il Collegamento
Nel mese di giugno ci sarà un incontro straordinario del Collegamento tra Gruppi Famiglia perché abbiamo alcuni importanti nodi da affrontare.
È in scadenza il mandato della coppia responsabile, Antonella e Renato Durante, ed è importante eleggere una nuova coppia.
Il bilancio preventivo, pubblicato a febbraio, è risultato troppo ottimista sul fronte delle entrate perché dati relativi al 5x1000 per il 2017, pubblicati dall’Agenzia delle Entrate a fine marzo, sono risultati decisamente inferiori rispetto alle aspettative (vedi pag. 27).
Riusciremo a chiudere il 2019 mantenendo fede a tutti gli impegni?
Infine, dopo trent’anni di cammino, è giusto chiedersi se il carisma che ha ispirato la nascita del Collegamento abbia esaurito o no la sua spinta e capire cosa è più utile, nell’oggi, per le coppie e le famiglie.
Vi terremo aggiornati!
4-Il Padre nostro e la spiritualità ebraica
Matteo non solo ha posto il Padre nostro nel cuore del Discorso della montagna, ma anche al centro della sua esposizione esortativa sulle tre forme della devozione ebraica: l'elemosina, la preghiera e il digiuno.
Gesù riprende queste tre manifestazioni della spiritualità ebraica e ne rivela l'intimo nesso.
La preghiera è legata all'elemosina. A mio parere ciò significa che preghiamo come vuole Gesù soltanto se rispettiamo la dimensione sociale del nostro essere cristiani.
La preghiera non sostituisce l'elemosina. Anzi, spesso ci apre, rendendoci pronti ad aiutare gli altri anche con le opere.
E la preghiera ha a che fare con il digiuno. Non è fatta solo di brevi pensieri non vincolanti, bensì di un impegno per gli altri che si avverte fisicamente nel digiuno. Digiunare è pregare con l'intero corpo.
Al tempo stesso, però, Gesù interiorizza elemosina, preghiera e digiuno. A lui non importa ostentare la sua devozione. La preghiera deve avvenire in segreto, nella camera del proprio cuore.
Là, in quel luogo segreto, possiamo incontrare il Dio nascosto che ci si manifesta, ma poi ci sfugge di nuovo, si nasconde, come pensa la tradizione ebraica.
Eppure Dio, che vede ciò che è nascosto in noi, vuol far penetrare la sua luce in tutti gli abissi della nostra anima, come pure nel nei recessi del nostro cuore. In questo modo avviene la guarigione e la trasformazione.
Il Padre nostro deve risuonare nel segreto del nostro cuore per condurci sempre più a fondo nella nostra anima, là dove Dio ha preso dimora.
Anselm Grün
5-PERCHÉ E COME PREGARE
Anche se preghiamo da tanti anni, non abbiamo mai finito di imparare
A cura della Redazione
Prima di addentrarci ad approfondire le sette domande del Padre nostro, è senz’altro utile collocare questa preghiera all’interno della nostra esperienza di fede.
Benedetto XVI, a questo proposito, ci ricorda che “se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l’ascoltare Dio. Per questo Gesù ci insegna come dobbiamo pregare”.
Cosa non è la preghiera
“Come troviamo scritto nel Vangelo di Matteo”, continua il Papa emerito, “la preghiera non deve essere un'esibizione davanti agli uomini”. Al contrario, “esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore”.
“L'altra forma errata di preghiera è il chiacchiericcio. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove”.
Sotto questo aspetto, “il Padre Nostro è una preghiera ammirevole per la sua sobrietà: non c’è una parola di troppo né aggettivi ingombranti”, aggiunge Bruno Maggioni. E continua: “Già il saggio Qohelet diceva che la preghiera deve essere di poche parole. Poche, ma vere. Le parole inutili stancano Dio e gli uomini. E difatti Gesù ha insegnato il Padre Nostro proprio per contrapporsi alle interminabili preghiere dei pagani, ‘i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno, ancor prima che gliele chiediate’ (Mt 6,7-8)”.
Cosa è la preghiera
“La preghiera è uno spazio protetto e appartato nel quale possiamo trovare riparo dal frastuono del mondo e dalle aspettative degli uomini”, scrive Anselm Grün. “Come Gesù, anche noi dobbiamo godere della preghiera come di un luogo nel quale siamo soli con Dio. La preghiera ci libera dalla pressione di essere sempre efficienti e attivi. Se non preghiamo, corriamo il rischio di dare fondo a tutte le nostre energie.
La preghiera ci mette in grado di prendere le decisioni giuste. Prima di situazioni, colloqui o decisioni importanti la preghiera ci potrebbe aiutare a trovare la calma e a vederci più chiaro. Nella preghiera vediamo le decisioni in un contesto più ampio”.
“Questa discrezione nella preghiera”, riprende Benedetto XVI, “non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre Nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del ‘noi’ dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarsi fino a Dio”. Nell'atto del pregare, quindi, “l'aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi”.
Come pregare
“Il primo passo per pregare è l’umiltà, andare dal Padre e dire: ‘Guardami, sono peccatore, sono debole, sono cattivo’, ognuno di noi sa cosa dire”, annota papa Francesco (1). Se si parte con l’umiltà “il Signore ascolta”.
Un secondo passo è la dimensione dialogica. “La preghiera, secondo la Sacra Scrittura, è anzitutto incontro e comunione”, scrive Antonio Lanfranchi (2). “Non è solo un dire a noi stessi, ma è un dialogare con il Signore, che è un 'altro', è il 'tu' della nostra vita”.
Il terzo passo è non aver paura di chiedere al Signore ciò di cui abbiamo bisogno.
Infatti, “il Padre Nostro è una preghiera di domande, non di lode, né di ringraziamenti”, annota Maggioni. “Si pensa - a volte - che la preghiera di domanda sia la più interessata delle preghiere, in un certo senso persino indegna dell’uomo maturo”. Invece “è la preghiera più vera, quella che fotografa l’uomo nelle sue dimensioni più reali: il pericolo, l’impotenza, la paura e il bisogno”.
Proprio per questo “il Padre Nostro è la preghiera dell’uomo, però dell’uomo autentico, che chiede le cose necessarie, non cose inutili e ingombranti, non le cose di troppo: il Regno di Dio, il pane di ogni giorno, il perdono, la vittoria sul male”.
E papa Francesco (3) aggiunge: “Gesù ci insegna che la preghiera non inizia nell’esistenza umana dopo che lo stomaco è pieno: piuttosto si annida dovunque c’è un uomo, un qualsiasi uomo che ha fame, che piange, che lotta, che soffre e si domanda ‘perché?’. La nostra prima preghiera, in un certo senso, è stato il vagito che ha accompagnato il primo respiro. In quel pianto di neonato si annunciava il destino di tutta la nostra vita: la nostra continua fame, la nostra continua sete, la nostra ricerca di felicità”.
Per pregare meglio
“Raggiungiamo il massimo grado di attenzione” nella preghiera “quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per il bene ricevuto”, scrive ancora Benedetto XVI. “La cosa più importante - al di là di tali situazioni momentanee - è però che la nostra relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tenere sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio.
Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di capire gli altri, di aprirci a loro e di sopportare il dolore”.
Di fronte al dolore, la preghiera diventa “una lotta dolorosa per accettare la volontà di Dio”, sottolinea Grün. Ci sembra “che le nostre suppliche cadano nel vuoto,siano vane. Dio sembra nascondersi, in silenzio, dietro uno spesso muro”.
In questo caso non possiamo fare altro che guardare a Gesù, che ha pregato il Padre “dall'inizio del suo operato fino alla sua morte in croce. Anche la nostra preghiera culmina alla fine con l'abbandono nelle mani amorevoli di Dio. Ogni sera ci lasciamo cadere nelle sue mani buone, esercitandoci a morire. Nella morte non finiamo in una terribile oscurità, bensì andiamo tra le braccia amorevoli di Dio”.
Essere esauditi
“Pregare significa rivolgersi a Dio come ad un amico”, continua Grün. “Possiamo supplicarlo spudoratamente come faremmo con un amico. E Dio non ci rifiuterà nulla perché l'amicizia tra Lui e noi è ancora più salda che tra gli uomini. Nel Vangelo secondo Luca Gesù spiega la fiducia incondizionata che possiamo nutrire nei confronti di Dio con le parole: ‘chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto’ (Lc 11,9). Con queste poche parole incisive Gesù ci invita a chiedere anche nelle situazioni disperate, a cercare e a bussare presso Dio. Talvolta il dono di Dio sarà diverso da come ce l'eravamo immaginato, ma nessuna preghiera è vana perché rafforza il rapporto con Dio come nostro amico. E Dio, alla fine, ci darà sempre ciò che nel profondo del nostro cuore ci serve per vivere.
Dio è il nostro buon Padre. Sa che cosa ci fa bene. Non ci deluderà né ci darà niente che possa nuocerci.
Un buon padre non dà al figlio la pietra della durezza e del rifiuto anziché il pane nell'amore. Crede nel figlio e non lo ferisce con una serpe. Gli dona la speranza e non lo avvelena con lo scorpione dell’amarezza o dei sensi di colpa (cfr Lc 11,11-13).
Dio è il buon padre che ci regala la cosa migliore che ha: lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ci dona se stesso e ci è vicino. Lo Spirito Santo sana le ferite inferteci da un padre che ci ha effettivamente dato una pietra, una serpe o uno scorpione, ferendoci profondamente”.
“Possiamo essere certi che Dio risponderà”, conferma papa Francesco (4).
“L’unica incertezza è dovuta ai tempi, ma non dubitiamo che Lui risponderà. Magari ci toccherà insistere per tutta la vita, ma Lui risponderà.
Pregare è fin da ora la vittoria sulla solitudine e sulla disperazione. La preghiera cambia la realtà, non dimentichiamolo. O cambia le cose o cambia il nostro cuore, ma sempre cambia. Pregare è fin da ora la vittoria sulla solitudine e sulla disperazione”.
E conclude: “Alla fine della preghiera, alla fine di un tempo in cui stiamo pregando, alla fine della vita: cosa c’è? C’è un Padre che aspetta tutti con le braccia spalancate”.
1 Udienza generale del 5 dicembre 2018
2 Fonte: webdiocesi.chiesacattolica.it
3 Udienza generale del 12 dicembre 2018
4 Udienza generale del 9 gennaio 2019
Per la bibliografia vedi pag. 25
Vedi anche GF50: Pregare: come?
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Cosa chiediamo a Dio quando preghiamo?
• Quando e come Dio è presente nella nostra vita?
• Dio esaudisce sempre la nostra preghiera donandoci lo Spirito Santo: ne siamo convinti?
6-PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI
Dire padre è più bel complimento di moto da luogo: prima che io fossi, già ero nel pensiero di qualcuno. Si arriva dal proprio padre-madre come si arriva da un paese: sono di mio padre come sono di casa mia. E per evitare che nessuno fosse ingordo, aggiunse l'aggettivo più largo della grammatica: nostro.
Marco Pozza
a cura della Redazione
“Intuire che Dio è per noi come un padre può anche essere facile”, scrive Carlo Dallari, “ma arrivare a cogliere la verità che Dio è Padre, secondo quanto Cristo rivela, può essere difficile”.
Padre?
Da dove provengono queste difficoltà? Dallari le individua p.e. dalla cultura entro cui viviamo che ha ideato, diffuso e imposto una visione dell'uomo quale individuo, impegnato a realizzare se stesso e principio della propria libertà. “L'immagine di Dio che ne corrisponde è quella di un Dio padre-padrone, antagonista e rivale dell'uomo, dotato di una potenza infinita, ma infinitamente distante dal nostro dolore”.
A questo si accompagnano le immagini distorte di Dio che ci vengono propinate fin dall'infanzia, che vanno da un “Dio” da temere ad un “Dio” da usare.
Nel primo caso si è sommersi dai sensi di colpa, si preferisce “parlare a Dio” anziché al Padre e ci “si affida agli intercessori, a Maria, agli angeli, ai santi… La persona si comprende come servo che tenta di addomesticare il suo padrone e si aspetta che Dio lo tratti da servo.
Nel secondo caso si sente in dovere di informare Dio sulla sua situazione, su quel che vuole, su ciò che Dio stesso deve fare… Si sente come un padrone che dà ordini ad un servo. Il rapporto che emerge comunque è sempre e solo quello di servitù”.
Infine, le difficoltà derivano dalle possibili esperienze negative dell'essere padre o madre e in particolare dalla relazione conflittuale con il nostro padre biologico.
“Non sentiamo Dio come Padre”, scrive Gabriele Milani, “perché non sappiamo essere padri: e tutti dobbiamo esserlo in un modo o nell’altro, perché si nasce figli, ma si muore padri. La paura della paternità misura, in ultima analisi, la nostra ‘disperazione’: non sapremmo rendere al figlio ragione della speranza che gli avremmo dato mettendolo al mondo; non saremmo in grado di dischiudere ragioni sufficienti di vita, insegnandogli che il senso del vivere consiste nell’avere qualcuno a cui farne dono”.
Padre!
“Nella parola Padre è racchiusa l'intera storia della redenzione”, scrive Benedetto XVI. “Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre. Il Padre nostro non proietta un'immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo - da Gesù - ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini”.
Noi diciamo “Padre nostro”, aggiunge papa Francesco (1), “ma con il cuore siamo invitati a dire ‘Papà’, ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà. E per questo che, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo”. Infatti, “Dio ci cerca, anche se noi non lo cerchiamo. Dio ci ama, anche se noi ci siamo dimenticati di Lui”.
Nostro
La paternità di Dio si esprime al plurale: Padre Nostro. “Il suo amore per tutti” scrive Bruno Maggioni, “invita gli uomini a fare altrettanto. Il Padre è insofferente delle discriminazioni: fa sorgere il sole sopra i buoni e sopra i cattivi (Mt 5,44-45). Si noti l’uso del plurale anche nella domanda del pane, del perdono e della prova. In ogni richiesta il discepolo deve pensare all’umanità”.
“L’amore di Dio discende”, continua Maggioni, “ma la nostra risposta non deve anzitutto preoccuparsi di risalire verso di Lui, bensì di estendersi agli altri. La nostra risposta al Padre è inclusa nel comportamento fraterno che sappiamo assumere nei confronti di tutti. L’amore del Padre - come sempre l’amore di un vero padre - non è circolare, ma espansivo. È guidato dalla gratuità, non dalla reciprocità”.
“Padre nostro significa che Dio non appartiene a me soltanto, ma è il Dio di tutti gli uomini, anche di quelli che non mi sono tanto simpatici”, commenta Anselm Grün. “Pronunciare il Padre nostro nello spirito di Gesù implica essere solidali soprattutto con i poveri e gli emarginati”.
Pregando il Padre nostro, scrive Flemming Fleinert-Jensen, “anche se prego da solo nella mia camera, dopo aver serrata la porta, Io non sono solo. Altri la pregano assieme a me, come altri lo hanno fatto prima di me. Ciò mi dà un profondo senso di appartenenza alla Chiesa invisibile, a quella comunione dei santi, di cui parla il Credo e che trascende il tempo e lo spazio”.
“Il Padre nostro è, per eccellenza, la preghiera dei figli e dei fratelli”, conclude Dallari, “è la preghiera che crea comunione ed edifica la famiglia dei figli di Dio. Da esso scaturisce la Chiesa”.
Che sei nei Cieli
“La parola tedesca che si usa per indicare il cielo deriva dalla parola camicia, e significa ciò che offre un riparo, copre e protegge”, scrive Anselm Grün. “Dio in cielo è il Dio che ci protegge nel nostro cammino, avvolgendoci con la sua amorevole presenza. E la parola cielo ci dice che non possiamo abbassare Dio al livello del pensiero umano. Dio è sceso fino a noi in Gesù. Ha sanato la frattura tra cielo e terra. Talvolta però corriamo il rischio, con i nostri schemi mentali, di concepire un Dio troppo terreno. Il Padre nostro ci invita a levare lo sguardo. Dio è essenzialmente il Dio trascendente, che supera ciò che è terreno”.
Mentre “la terra è spazio condiviso tra uomo e Dio, il cielo è la proprietà privata di Dio. Proposta, però, all'uomo”, aggiunge Marco Pozza. “Il Cielo è la sorgente, la terra è il fiume: nessuna sorgente è più a valle del fiume. Non per questo la sorgente si disinteressa del fiume: è lei a tenere aperti i rubinetti. Alla sorgente, poi, l'acqua è sempre più fresca, non inquinata: il Cielo è spazio in cui Dio non è infangato, lo sguardo è puro, l'aria ossigenata. Da lassù verso quaggiù è la traiettoria della salvezza: da quaggiù verso lassù è l'orgoglio di Babele. Gesù di Nazareth è postino tra il cielo è la terra: porta in terra, all'uomo, il riverbero di Dio, a Dio riporta la risposta dell'uomo”.
L’amore del Padre celeste
“Da qualunque parte lo si guardi, Dio è grande”. Non si può dire lo stesso dell’uomo, annota Maggioni. “Se lo confronti con l’immensità dei cieli (ma noi potremmo dire: se lo misuri col tempo, con la morte, con il susseguirsi delle generazioni, con il numero sterminato degli uomini che nascono, che vivono un’esistenza che pare insignificante, che muoiono) ti viene da pensare: cosa conta un uomo? Eppure Dio, esclama il salmista (Sal 8), si ricorda di lui e l’ha fatto di poco inferiore a se stesso.
La Bibbia non è giunta ad affermare la grandezza dell’uomo, di ogni uomo, osservando concretamente l’uomo” e la sua superiorità su ciò che lo circonda. “La partenza biblica è teologica: ha accolto la grandezza dell’uomo riflettendo sul comportamento di Dio, sul suo amore, sulla sua alleanza. L’uomo biblico è convinto che la sua dignità non sta nella propria bellezza, o nella forza, o nell’intelligenza. È l’amore di Dio che dà dignità all’uomo. L’esperienza più profonda dell’uomo biblico è lo stupore di essere amato da Dio”.
E, su questo tema, papa Francesco (2) afferma: “Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Però, esiste un altro amore, quello del Padre ‘che è nei cieli’. Dio ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante”.
L’espressione ‘nei cieli’, conclude Francesco, “non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano”.
1 Udienza generale del 16 gennaio 2019
2 Udienza generale del 13 febbraio 2019
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Dio per noi è padre o papà? Severo o amorevole?
• Come coniughiamo nella nostra vita l’amore per Dio e l’amore per il prossimo?
• Che padri e madri siamo? Rispecchiamo la paternità di Dio?
7-Dio è padre o madre?
“L'uomo di oggi”, scrive Benedetto XVI, “non avverte immediatamente la grande consolazione della parola ‘padre’, poiché l'esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall'insufficienza dei padri”.
“Il termine padre” precisa il Gruppo di Dombes, “può inviare a quanto c'è più di rassicurante: fedeltà, fiducia, protezione, responsabilità, ma può anche essere associato a ciò che c'è di più triste: conflitto, violenza, instabilità, assenza”. Molte donne poi, sottolinea Anselm Grün, “avvertono la mancanza, nel Padre nostro, dell'aspetto femminile di Dio”.
Si arriva al paradosso, racconta Flemming Fleinert-Jensen che in alcune “Chiese cristiane - dove Maria ha un ruolo modesto oppure dove l'idea della Chiesa come madre non è presente - può capitare di sentire questa invocazione: ‘Padre nostro e Madre che sei nei cieli’ ”. “Tuttavia”, riprende Grün, “con Abbà si intende sempre il Dio paterno e materno. Non è un Dio severo, bensì amorevole. Dio è padre e madre al contempo”. Questo è ben evidente nella parabola del figliol prodigo. Qui il padre, come ci ricorda papa Francesco, “ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre”.
“Naturalmente le ferite inferteci dai nostri genitori segnano anche il nostro rapporto con Dio”, conclude Grün. “L'esperienza di Dio come padre e madre, però, può guarire queste ferite. Questo desiderio di un padre buono ed una madre affettuosa fa sì che nella preghiera o nella meditazione è possibile fare con Lui quell’esperienza che è mancata con i propri genitori”.
8-SIA SANTIFICATO IL TUO NOME
Donaci di poter dirigere tutta la nostra vita, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, in modo che il tuo nome, per causa nostra, non sia bestemmiato, ma piuttosto onorato e glorificato.
Catechismo di Heidelberg
A cura della Redazione
“Questa domanda”, scrive Flemming Fleinert-Jensen, trae ispirazione “dall’antichissima preghiera ebraica - il Qaddish - recitata durante il culto nella Sinagoga e alle esequie: ‘Sia innalzato e glorificato il tuo grande nome nel mondo che hai creato secondo la tua volontà’ ”.
“In questa domanda”, osserva papa Francesco (1), “ si sente tutta l’ammirazione di Gesù per la bellezza e la grandezza del Padre, e il desiderio che tutti lo riconoscano e lo amino per quello che veramente è. E nello stesso tempo c’è la supplica che il suo nome sia santificato in noi, nella nostra famiglia, nella nostra comunità, nel mondo intero”.
Il nome
“Nelle religioni dei popoli antichi contemporanei ad Israele, si supplicava l'apparizione o l'intervento del dio mediante l'invocazione del suo nome”, scrive Carlo Dallari. “L'intento era di influire su di lui per piegarlo ai propri desideri e i propri fini, ad esempio per appropriarsi della sua forza o per scongiurare il pericolo della sua ira.
Nella rivelazione biblica vi è il capovolgimento della mentalità pagana: è Dio a dire il proprio nome ad Israele”, anche se questo nome - YHWH - è impronunciabile.
“Con Gesù”, riprende Dallari, “Dio entra di persona nella storia e manifesta il proprio nome. Gesù ce lo ha rivelato come ‘il Padre’. Con il suo insegnamento dà inizio a un modo diverso di stare davanti a Dio. Ora noi possiamo invocarlo col suo nome, senza paura di morire e senza paura di trasgredire il suo comandamento”.
Santificato
“Per i greci”, scrive Anselm Grün, “santo è ciò che si sottrae al mondo e ciò su cui il mondo non ha potere. Ma al tempo stesso credono che soltanto ciò che è santo possa guarire l'uomo. Che nome di Dio sia santificato significa quindi, da una parte, che non possiamo impossessarsi di Dio. Dall'altra, che la santificazione del nome di Dio avviene anche attraverso la nostra vita. Quando noi ci sottraiamo alle leggi del mondo e facciamo trasparire la santità di Dio nella nostra libertà e nel nostro amore, il nome di Dio è santificato”.
“Il verbo ‘sia santificato’ può essere interpretato come un ‘passivo teologico’ ”, scrive Gabriele Milani. “Questa modalità è usata spesso nell’Antico Testamento per evitare di pronunciare il nome di Dio. La prima domanda del Pater si potrebbe tradurre quindi così: ‘Padre, sia santificato da te il tuo nome’ (cfr Gv 12,28). Continua a manifestarti per quello che sei; ossia come Papà, come alleato, come condiscendente, tu che proprio così ti sei rivelato in modo insuperabile in Gesù. Di conseguenza, donaci di accoglierti come Padre vivendo da figli tuoi e perciò da fratelli tra noi. L’essere fratelli del tuo Cristo è dono tuo, sempre e comunque grazia”.
Da santificare
“L’altra interpretazione”, continua Milani, “sottintende il complemento d’agente ‘da noi’. Sia santificato - cioè rispettato, riconosciuto, celebrato e testimoniato (Lc 1,49) - da noi il tuo nome, Padre”.
“È Dio che santifica, che ci trasforma con il suo amore”, afferma papa Francesco, “ma nello stesso tempo siamo anche noi che, con la nostra testimonianza, manifestiamo la santità di Dio nel mondo, rendendo presente il suo nome. Dio è santo, ma se noi, se la nostra vita non è santa, c’è una grande incoerenza! La santità di Dio deve rispecchiarsi nelle nostre azioni, nella nostra vita”.
Nella prima traduzione in greco dell’Antico Testamento - cosiddetta dei LXX - il verbo “santificare” è la traduzione di una parola ebraica “che significa ‘separare’: separazione che viene attuata con lo scopo di mettere in risalto un particolare valore”, annota Alberto Maggi (2). “Consci di essere stati separati ‘a caro prezzo’ dalla sfera del peccato e immersi in quella di Dio, i primi cristiani non esitarono a denominarsi ‘santi’, appellativo che non aveva l'accezione presa in seguito di virtù straordinariamente esercitate da pochi, ma semplicemente rifletteva l'esperienza ordinaria dell'adesione a Gesù Messia”.
“Con questa invocazione del Padre Nostro”, aggiunge Carlo Dallari, “esprimiamo il desiderio che il Padre risplenda davanti a tutti gli uomini per chi egli è in realtà: il Padre di tutti, colui che è ‘tutto in tutti’. E noi, perché ciò avvenga, gli offriamo disponibilità e collaborazione. Un passo certamente utile, in questa collaborazione, è quello di purificare la concezione, le idee, le immagini che ci siamo fatti di Lui, affinché la conoscenza che abbiamo di Lui ‘si faccia luminosa’ e noi non siamo di impedimento alla manifestazione della sua gloria. Ma il passo più importante è quello di divenire sempre più figli suoi mediante la santità della vita. Santifichiamo il nome del Padre mediante la nostra santità”.
Da testimoniare
Su questa scia Milani annota: “Noi, Padre, ti santifichiamo credendo in te e parlando di te: facendo sì che una generazione narri all’altra le tue meraviglie: ‘Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai loro figli; diremo alla generazione futura le lodi del Signore, la sua potenza e le meraviglie che egli ha compiuto’ (Sal 77,3-4).
Santifichiamo il tuo nome quando non soltanto diciamo ‘Signore, Signore’, ma soprattutto facciamo la tua volontà (Mt 7,21-27). Santifichiamo il tuo nome nominandoti non con superficialità e disinvoltura, ma con quella fine discrezione, con quel delicato pudore tipico degli innamorati”. Ma quando questo pudore manca?
Da non bestemmiare
“È del tutto ovvio che il compito di santificare il nome del Padre escluda la bestemmia”, scrive Gabriele Milani. Ma nel Nuovo Testamento questo peccato non è particolarmente sottolineato. “Viceversa, il Nuovo Testamento evidenzia il fatto che, attraverso una condotta incoerente, i cristiani - individualmente e comunitariamente - creino le premesse oggettive perché gli altri bestemmino.
Al riguardo c’è un testo molto chiaro: ‘Va osservato soprattutto che Dio non vuole essere pregato soltanto a parole, ma con la vita e le opere. È infatti inammissibile che il cristiano invochi la santificazione del nome di Dio e con le azioni poi lo macchi e lo deturpi, così da farlo spesso maledire’ (dal Catechismo romano)”.
Ma c’è di peggio, come scrive Marco Pozza: è possibile che, “a forza di profanare il nome di Dio, potremmo anche perdere il coraggio di dire ancora il suo nome. Eppure non pronunciarlo sarebbe cosa ancora peggiore del profanarlo: far dimenticare il suo nome è l'ambizione intelligentissima di Satana. In nostro potere c'è un'ultima possibilità: raccogliere di nuovo i frammenti del nome imbrattato e cercare di purificarli”.
Per fare questo la Chiesa, sia a livello locale sia a livello globale, è chiamata a rendersi trasparente al suo amore, “permettendo in tal modo al mondo intero di scorgere in lei stessa - nella sua vita, nei suoi rapporti, nella sua organizzazione - il volto del vero Dio” (Bruno Maggioni).
1 Udienza generale del 27 febbraio 2019
2 Fonte: studibiblici.it
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come usiamo il nome di Dio: per aprirci agli altri o per difenderci da chi non la pensa come noi?
• Rendiamo testimonianza alla santità di Dio o lo bestemmiamo con la nostra incoerenza?
9-Dio ci ruba la vita?
L’idea che santificare il nome di Dio, facendo la sua volontà, sia sottrarre all’uomo qualcosa di vitale, si è diffusa in Occidente a partire dall’Ottocento attraverso i “maestri del sospetto”: Nietzsche, Marx e Freud.
Dio, attraverso le sue Chiese, impedisce all’uomo di essere libero: per Nietzsche imponendogli una morale dolorifica che lo mortifica, per Marx lasciandosi “usare” dalle classi e delle strutture dominanti, per Freud nascondendogli i suoi limiti inconsci.
Queste idee hanno minato la fede e la fiducia in Dio e sono state alla base dell’attuale decristianizzazione della società.
Davvero santificare il suo nome significa umiliare l’uomo?
Il Dio di Gesù vuole l’uomo libero, libero di amarlo o di voltargli le spalle, perché Dio ama l’uomo comunque, vuole la sua felicità, al punto di sacrificare il Figlio.
Il Dio di Gesù vuole una Chiesa a servizio dell’uomo, che non nasconda il Suo volto dietro riti e strutture di potere.
Il Dio di Gesù vuole l’uomo capace di amare e di amarLo, e non lesina in misericordia perché conosce bene i limiti della Sua creatura.
Allo stesso tempo l’uomo non può pretendere di trovare da sé la salvezza e la felicità, perché trova solo perdizione e disperazione.
L’uomo non può pretendere di possedere Dio, perché Dio è sempre “Altro” rispetto alla creatura.
L’uomo non può pretendere di essere “dio”, perché è “finito”, limitato, la sua vita dipende dagli altri.
Franco Rosada
10-VENGA IL TUO REGNO
Là dove Dio regna in noi, giungiamo al nostro vero essere. Là entriamo in contatto con l'immagine incontaminata e originaria che Dio si è fatto di noi. Là siamo tutt'uno con Dio. Dove Dio, il mistero, dimora in noi, possiamo sentirci a casa noi stessi.
Anselm Grün
a cura della Redazione
Venga il tuo regno. “L'intenzionale centralità della petizione” all’interno del Padre nostro, scrive Alberto Maggi (1), “indica che nella manifestazione del ‘regno’ si realizza la ‘santificazione’ del nome, il compimento della ‘volontà’ divina e il conseguente riconoscimento della paternità di Dio”.
Cosa non è
“Il pio israelita”, scrive Carlo Dallari, “se lo rappresentava quasi come un paese di Bengodi o come un regno politico, dove le promesse fatte da Dio agli antichi padri erano pienamente realizzati.
Su questa linea erano anche i discepoli di Gesù, i quali si aspettavano che Cristo dimostrasse di avere la potenza di Dio dalla propria parte per schiacciare i nemici di Israele ed eliminare il male dal mondo. Gesù con le opere di guarigione e altri miracoli sembra confermare le aspettative dei suoi, mentre con l’insegnamento le contraddice apertamente”.
Nella storia della Chiesa, continua l’autore, “c'è stato un tempo in cui nella concezione comune si identificava il regno di Dio con il regno e la potenza della Chiesa; il trionfo delle armi dei Principi cristiani (crociate contro gli infedeli, spedizioni contro eretici…) era il trionfo di Dio; la magnificenza delle chiese e gli sfarzi dei palazzi erano prova dell'appartenenza a questo regno”. In tempi più recenti, scrive Gabriele Milani, si è provato ad identificarlo con il Paradiso, o con una condizione socio-politica singolarmente felice o anche “con stadi e piazze pieni di trionfi ecclesiastici”.
Cosa è
Per capire cos’è il “Regno di Dio” “occorre riferirsi a tutta la predicazione di Gesù e a tutta la sua vita”, scrive Bruno Maggioni. “L’evangelista Marco introduce la missione pubblica di Gesù con una frase riassuntiva: ‘Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo’ (1,14).
In questa affermazione sintetica e certamente missionaria, il Vangelo e il Regno sembrano quasi sovrapporsi. Dio è qui e agisce, ecco la lieta notizia del Regno, dalla quale scaturisce per il credente un duplice stupore: che Dio ami l’uomo fino a quel punto e che l’uomo conti fino a quel punto. La lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il volto di Dio e dell’uomo, ed è al tempo stesso teologica e antropologica”.
Quindi, aggiunge Milani, “il Regno è essenzialmente la persona e la storia di Gesù, la cui presenza salvifica agisce fin d’ora attendendo di realizzarsi alla fine del tempo in tutte le proprie potenzialità.
Potremmo dire che esso è, nella sua manifestazione massima, la gloria di Dio e la felicità piena dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”.
I suoi sudditi
“Il ‘regno dei cieli’, inaugurato da Gesù, non diventa realtà storica unicamente per un intervento divino calato dall'alto, ma esige ed è condizionato dalla ‘conversione’ di quanti decideranno di farvi parte”, scrive Maggi. “La richiesta della ‘conversione” quale indispensabile condizione dell'avvento del regno non riguarda un radicale cambiamento valido una volta per sempre, nella vita dell'individuo, ma un'esigenza dinamica continua”.
“Al regno appartengono”, aggiunge Milani, “coloro che, fattisi discepoli del Cristo, divenuti attraverso il battesimo e la conversione spiritualmente bambini, perseverano nonostante le prove in questa infanzia spirituale, e tutti gli uomini che, pur senza conoscere il Cristo, cercano il Padre con cuore sincero”.
“Quando il Padre regna in noi”, conclude Dallari, “noi viviamo nella fede, in quella presenza d'amore che è tutt'altra cosa dalla credenza, cioè quell’osservanza esteriore di norme, precetti, usanze, tradizioni e convenienze, che ci fa vivere più da servi che da figli di Dio. Viviamo anche nella speranza, assumendo le nostre responsabilità verso il miglioramento del mondo, pronti a valorizzare il bene che c'è in ciascun uomo. Viviamo, infine, nella carità, attuando il suo amore nei gesti della misericordia, della compassione, del perdono, della riconciliazione, della pace. Più che realizzare il paradiso in terra, questo Regno orienta a vivere con i piedi per terra, guardando un po' più al paradiso”.
In divenire
“Questo regno”, scrive Maggi, “iniziato per l'azione congiunta del Padre e di Gesù, non deve ancora venire, ma crescere e diffondersi, e saranno gli uomini a decidere se appartenervi o no”.
“Il regno” annota Carlo Maria Martini, citato da Milani, “viene nella vicenda umana così come si è già manifestato in Gesù, cioè nella dedizione, nell’umiltà, nel servizio. Per questo la domanda ‘venga il tuo regno’ non deve farci pensare a un capovolgimento clamoroso della storia. Davvero il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione (Lc 17,21)”.
Di conseguenza, a volte ci domandiamo come mai questo Regno si realizzi così lentamente.
A questa domanda papa Francesco (2) risponde: “Dio non è come noi, Dio ha pazienza. Non è con la violenza che si instaura il Regno nel mondo: il suo stile di propagazione è la mitezza (cfr Mt 13,24-30).
Il Regno di Dio è certamente una grande forza, la più grande che ci sia, ma non secondo i criteri del mondo; per questo sembra non avere mai la maggioranza assoluta.
In questo ‘destino’ del Regno di Dio si può intuire la trama della vita di Gesù: anche Lui è stato per i suoi contemporanei un segno esile, un evento pressoché sconosciuto agli storici ufficiali del tempo. Un ‘chicco di grano’ si è definito Lui stesso, che muore nella terra ma solo così può dare ‘molto frutto’ (cfr Gv 12,24). Un seme che germoglia è più opera di Dio che dell’uomo che l’ha seminato (cfr Mc 4,27). Dio ci precede sempre, Dio sorprende sempre. Grazie a Lui dopo la notte del Venerdì santo c’è un’alba di Risurrezione capace di illuminare di speranza il mondo intero”.
Desiderarlo
“Il desiderio che venga il regno del Padre”, scrive Milani, a causa degli elementi “di presente e futuro in esso presenti, è in qualche modo paradossale. Da un lato l’invocazione ci aiuta a stare coi piedi in terra; dall’altro ci sollecita ad avere il cuore rivolto al futuro. Da una parte genera gioia, pace, tranquillità; dall’altra scatena intelligente intraprendenza. Sotto un certo profilo ci fa appassionare alla terra; sotto un altro ci fa intensamente desiderare il cielo. Si tratta, insomma, di salvaguardare sia l’infinità sia la storicità dei nostri desideri”.
“Domandare la venuta del Regno”, aggiunge la Comunità di Dombes, “mi decentra da me stesso e dai miei desideri immediati, egocentrici; domandare il Regno vuol dire rivolgersi verso un'alterità, quella di Dio e della sua volontà, e anche accettare che questo regno di Dio sconvolga completamente i miei valori, trasformi le mie attese e superi le mie speranze”.
Desiderare il regno è “ammissione di nostalgia: il sospetto di una grande mancanza”, riflette Marco Pozza.
Quando questo desiderio “si assopirà, Dio vorrà risvegliarla, perché l'uomo si accorga che ciò di cui è in attesa si sta già rivelando sotto gli occhi: ‘ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’ (Is 43,19)”.
Dio è, infatti, desideroso di essere desiderato da chiunque lo cerchi.
Coltivarlo nella fraternità
Così, “quando rinunciamo ad essere noi al centro dell'universo, scopriamo una realtà altrimenti nascosta: che il Padre celeste ama essere circondato dai figli, amati tutti, singolarmente e concretamente, in modo infinito”, scrive Dallari. E continua: “Abbracciati da questo amore, sperimentiamo una nuova comunione e un nuovo modo di essere uomini, sperimentiamo la fraternità.
La fraternità si presenta come la realizzazione di una convivenza che ha per base il rapporto di reciprocità tra persone, tra uomini e donne che si considerano fratelli e sorelle gli uni per gli altri. Traduce in struttura quel profondo sentimento e quel valore che sono impliciti nel concetto evangelico di fratello.
Quando il cristiano prega ‘venga il tuo Regno’, si impegna di fronte al Padre a trovare tempi e modi per portare il suo contributo alla costruzione di una società veramente libera di crescere nella libertà dei propri valori umani, non asservita a ideologie che la sviliscono, aperta alla speranza e capace di costruire realmente la pace, perché fondata sulla fraternità dei figli di Dio”.
1 Fonte: studibiblici.it
2 Udienza generale di mercoledì 6 marzo 2019
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Nella nostra esperienza personale, quando abbiamo trovato tracce del Regno di Dio?
• Maranatha, vieni Signore Gesù, fa parte delle nostre preghiere?
• Dio ama tutti i suoi figli: e noi?
11-SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSÌ IN TERRA
Sia fatta la tua volontà affinché ti amiamo con tutto il cuore e amiamo i nostri prossimi come noi stessi, attirando tutti secondo le nostre forze al tuo amore.
San Francesco d’Assisi
A cura della Redazione
“Le Scritture partono dal presupposto che l'uomo nel suo intimo sappia della volontà di Dio” perché questa è “profondamente inscritta in noi”, nella nostra coscienza, scrive Benedetto XVI. “Ma le Scritture sanno anche che questa comunione troppo spesso rischia di essere soffocata sotto la cenere di tutti i pregiudizi immessi in noi”.
La nostra volontà
“ ‘Sia fatta la tua volontà’ è un invocazione che talvolta pronunciamo sommessamente, quasi desiderando segretamente che il Padre non ascolti, percorsi da un'inquietudine sottile e dal timore di dover rinunciare alla nostra volontà”, scrive Carlo Dallari.
“La convinzione che Dio faccia ciò che vuole, anche a scapito del bene dei propri figli, e che voglia piegare il nostro volere a ciò che Egli vuole è radicata nella nostra mentalità ben più di quanto siamo disposti ad ammettere”.
Allora, “è bene comprendere che cosa si intende per volontà di Dio”, sottolinea Anselm Grün. Abbiamo diversi livelli di volontà: la prima è una volontà superficiale “che si adegua al nostro piacere e non si chiede che cosa Dio voglia da noi o che cosa sia davvero bene per noi”. E poi c’è una volontà profonda, che troviamo solo se “giungiamo al silenzio in fondo alla nostra anima” in cui riconosciamo ciò che davvero ci fa bene. “In questa profondità la volontà di Dio e la nostra coincidono”.
Ma, conclude l’autore, “per progredire verso questa volontà del nostro io interiore, e quindi verso la volontà di Dio, spesso è necessario lottare”.
La volontà di Dio
“La ‘volontà’ della quale si chiede il compimento nella petizione del Pater non indica un volere generico di un Dio onnipotente che ‘può fare ciò che vuole’ (Qo 8,3), ma la realizzazione del suo progetto di salvezza sull’umanità”, scrive Alberto Maggi1. “Il compimento di questa volontà si concretizza nell'estensione del suo ‘regno’”.
“Dio vuole che ‘tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità’ (1Tm 2,4) e che ‘non si perda neanche uno solo dei piccoli’ (Mt 18, 14)”, precisa Gabriele Milani. In altre parole che tutti noi diventiamo santi.
Per cui, continua l’autore, “nel Padre nostro chiediamo a Dio di continuare a salvarci e che la sua volontà si realizzi in noi e nei nostri fratelli che ancora vivono nelle difficoltà di questa vita, dove ‘tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano’ (Mt 6, 19)”.
La Tua volontà
Con questa invocazione “non siamo invitati a piegare servilmente la testa, come se fossimo schiavi”, spiega papa Francesco2. È vero il contrario!
“Dio ci vuole liberi: è l’amore di Lui che ci libera. Il ‘Padre nostro’, infatti, è la preghiera dei figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole, alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che non riusciamo a cambiare”.
“Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo”.
“Il ‘Padre nostro’ è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore” conclude il papa.
“Il cristiano non crede in un ‘fato’ ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con il bene. A questo Dio ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della prova più dura”.
Dio e la sofferenza
Anche se la sofferenza non va identificata con la volontà di Dio, pregando “che sia fatta la sua volontà, mi dichiaro pronto a chiedermi quale essa sia anche di fronte agli eventi inspiegabili della mia vita”, riprende Grün.
“La preghiera perché sia fatta la volontà di Dio è quindi una lotta con il Padre affinché io non voglia più imporre le mie idee, bensì si realizzi in me l'immagine che Dio si è fatto di me e del mio vero essere. Pregando il Padre nostro, meditiamo sulla dedizione di Gesù fino alla morte e partecipiamo alla sua lotta con il Padre e alla sua resa alla volontà di Dio. Avvertiamo lo spirito di Gesù e il suo amore. Preghiamo di poter cedere alla volontà di Dio come lui ha fatto”.
“Nel Getsemani Gesù è nell’angoscia e la sua preghiera la esprime”, annota Bruno Maggioni. “Non si tratta dell’angoscia del dubbio, ma quella dell’obbedienza dolorosa”.
Gesù non è sfiorato dal “pensiero che l’uomo possa fare la propria volontà anziché quella di Dio. Nell’imminenza della passione, però, chiede che la volontà di Dio sia, se possibile, diversa. L’angoscia non mette in crisi la fede di Gesù. Anche in questa circostanza Egli non cessa di rivolgersi a Dio con l’appellativo ‘Padre’”.
Pregando il padre nostro capiamo “che da soli non abbiamo la forza di amare i nemici come Gesù e di credere nella bontà dell'uomo”, conclude Grün. La preghiera del Pater “ci vuole colmare sempre più dello spirito di Gesù, così da portare la sua luce nel mondo con il nostro comportamento”.
Dio e la gioia
“Il Padre vuole che siamo nella gioia. È quindi ora di cambiare mentalità e di cominciare a credere che obbedire al Padre è solo questione d'amore, non di piegare il capo. Se lo amiamo, desideriamo farlo felice”, scrive Dallari.
“La felicità di Dio è piena quando può riversare in noi l'amore che egli stesso riversa nel Figlio. Egli non ci ha creati per caso o per capriccio perciò non gli è indifferente qualsiasi cosa ci capiti o qualsiasi cosa noi facciamo. Egli nutre delle attese verso di noi e ha cura di noi come fanno i genitori con i figli; è accanto a noi, gioisce e soffre con noi e per noi, trepida se ci vede compiere passi audaci, ci guida per gli incerti sentieri della vita, affinché possiamo veramente divenire figli responsabili e amorosi”.
“Chi fa questa esperienza”, prosegue l’autore, “riesce anche a trovare il modo di parlare del Padre in maniera gioiosa. La nostra società ha bisogno che i figli di Dio ‘vengano alla luce’ e sappiano comunicare la loro gioia. Tutti la cercano, tutti la promettono ma in realtà sono pochi coloro che hanno fatto la scoperta. Noi credenti siamo interpellati a compiere un grande atto di carità: offrire ai fratelli quanto noi stessi abbiamo ricevuto, affinché anch'essi scoprano di essere amati”. E conclude: “la testimonianza di un volto sereno è segno che una gioia canta nel profondo”.
1 Fonte: studibiblici.it
2 Udienza generale di mercoledì 20 marzo 2019
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come ci comportiamo in quelle situazioni in cui la volontà di Dio sembra così lontana dalla nostra?
• Sappiamo coltivare la gioia sapendo di essere amati dal Padre?
• Quante volte, durante la settimana, pensiamo al “cielo”?
12-Come in cielo così in terra
“L'espressione ‘come in cielo così in terra’ si può riferire a tutte tre le petizioni e non solo alla richiesta ‘si compia la tua volontà’ ”, scrive Alberto Maggi (1).
“Più che di tre petizioni si tratta di una sola domanda formulata in termini differenti. Per questo è importante non separare queste richieste, ma porre ognuna in stretta relazione con le altre”.
Questa espressione “può significare semplicemente ‘dappertutto’ ”, aggiunge Bruno Maggioni, “e in questo caso viene sottolineata l’universalità delle prime tre domande: si prega perché Dio sia dovunque santificato, il suo Regno venga esteso a tutto il mondo e la sua volontà sia fatta in ogni angolo della terra. Una preghiera, dunque, di grande respiro. Soprattutto una preghiera missionaria.
Può però avere anche un senso più pregnante: come in cielo il nome di Dio è santificato, il suo Regno perfettamente compiuto e la sua volontà obbedita, così avvenga sulla terra. Il discepolo chiede al Padre che la terra diventi il risvolto del cielo.
È questo un pensiero ricco di prospettive. Significa, ad esempio, che il cristiano deve guardare verso il mondo di Dio, se vuole veramente comprendere se stesso e la propria attuale esistenza”.
Con questa espressione, annota Benedetto XVI, “Noi chiediamo che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra diventi cielo”.
1 Fonte: studibiblici.it
13-DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
In un tempo in cui si moltiplica l’ingiustizia per quanti non hanno la possibilità di sfamarsi, il “nostro pane quotidiano”, la richiesta più umile fra le domande del Padre Nostro, diventa pegno e dovere di solidarietà, perché la carità non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza.
Bruno Maggioni
a cura della Redazione
“La richiesta del pane è la più umile delle domande del Padre Nostro, ma si trova al centro (è infatti la quarta delle sette domande), e questo ne dice l’importanza”, scrive Bruno Maggioni.
Il pane che chiediamo può essere quello materiale, oppure l’eucaristia, o il pane della Parola, o altro ancora. “In linea di principio”, precisa Gabriele Milani, “tutte queste interpretazioni sono possibili e anche suggestive. Ma, di fatto, la più attendibile resta ancora la più immediata e ovvia: ciò che chiediamo ogni giorno è quel necessario e sufficiente sostentamento da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza”.
Giustamente papa Francesco1 sottolinea come “la preghiera del ‘Padre nostro’ affonda le sue radici nella realtà concreta dell’uomo”. Facendoci chiedere “il pane quotidiano, richiesta semplice ma essenziale”, ci ricorda che “la fede non è una questione ‘decorativa’, staccata dalla vita, che interviene quando sono stati soddisfatti tutti gli altri bisogni”, ma comincia con la vita stessa.
Il pane di oggi e di domani
“Luca formula diversamente l'invocazione del pane: ‘Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano’ (Lc 11,3), una frase che si potrebbe anche tradurre con: ‘dacci giorno per giorno il pane di cui abbiamo bisogno’ ”, scrive Anselm Grün. “Questa formulazione di Luca si può interpretare così: gli uomini che pregano con questa invocazione non guardano soltanto all’oggi, e neanche al domani, ma chiedono a Dio pure la sicurezza per il futuro. Così non pregano più solo i poveri e gli affamati, ma anche famiglie con dimora stabile, padri e madri di famiglia, gente che ha la responsabilità per gli altri e che quindi pensa anche al futuro”.
Già Lutero era ampiamente su questa linea quando si domandava, nel Piccolo Catechismo: “Cosa bisogna intendere per pane quotidiano?”. E, come ci ricorda Flemming Fleinert-Jensen, dava questa saporita risposta: “Tutto ciò che è necessario al mantenimento del corpo e della vita, Il nutrimento e i vestiti, la dimora, i campi, il bestiame, il denaro e tutti i beni, un buon sposo, dei buoni figli, degli impiegati fedeli, dei superiori giusti, un buon governo, delle stagioni favorevoli, la pace, la salute, l'ordine, l’onore, dei buoni amici, dei vicini benevoli”.
Il pane come dono
“Nessuna domanda è così semplice e naturale come quella che riguarda il nostro pane. In realtà nasconde una domanda fondamentale: noi creature vogliamo vivere! Donaci la vita!”, scrive il Gruppo di Dombes. “Chi chiede a Dio il pane quotidiano prende coscienza della propria dipendenza: l'essere umano dipende dalla cosa più rudimentale, il pane. E, se noi domandiamo, Dio dona. Dio dona, ha già donato, ha sempre donato e la nostra vita ne è la prova”. È il dono più grande che abbiamo ricevuto. “Forse il pane è proprio il pane affinché il dono sia dono: dono che Dio ci fa di se stesso, cui corrisponde il dono di noi stessi”.
Il pane e il lavoro
Il pane deve essere guadagnato con il lavoro, come ci ricorda san Paolo “chi non vuol lavorare neppure mangi” (2Ts 3,10b). “Il lavoro è ad un tempo necessità vitale, affermazione di libertà, segno di dipendenza dal creato e di trascendenza rispetto ad esso” scrive ancora Milani.
Però possiamo cadere nella tentazione di presumere che il pane sia “nostro”, inteso solo come frutto del nostro lavoro, dimenticandoci che tutto ciò che siamo e abbiamo è un dono del Padre.
“La Bibbia si è accorta da sempre che l’orgoglio dell’uomo di fronte ai frutti del proprio lavoro”, scrive Maggioni, “non raramente conduce alla violenza e all’ingiustizia, e ancora più frequentemente alla dimenticanza di Dio, come avviene quando l’uomo attribuisce a se stesso - soltanto a se stesso - ciò che invece è dono”.
E il Catechismo della Chiesa Cattolica, citato da Milani, ci ricorda che “dopo aver eseguito il nostro lavoro, il cibo resta un dono del Padre nostro; è giusto chiederglielo rendendogli grazie. Questo è il senso della benedizione della mensa in una famiglia cristiana” (n. 2834). Preghiamo quindi “come se tutto dipendesse da Dio, e agiamo come se tutto dipendesse da noi” (sant’Ignazio di Loyola).
Il pane da condividere
“Il cristiano che recita il Padre Nostro”, osserva Maggioni, “prega al plurale, chiede il pane comune, il pane per tutti, non soltanto per se stesso. Questo tratto rinvia all’esempio della prima comunità di Gerusalemme, di cui parla Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Due volte Luca precisa che ‘avevano tutto in comune’ e che ‘vendevano le loro proprietà’ (2,44; 4,32). Non si tratta di un’abolizione della proprietà, ma del desiderio di condividere fra tutti le proprie sostanze”, perché “l’ideale perseguito non era quello della povertà volontaria, ma quello di una carità che non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza”.
È vero che “la vita è più del pane, ma in nessun momento può fare a meno del pane”, scrive Milani citando Leonardo Boff. In termini teologici, i beni materiali indispensabili alla sopravvivenza sono così importanti, “che Dio ha legato la salvezza e la perdizione al fatto di averli distribuiti in modo giusto e fraterno… Nel pane, nell’acqua, nelle vesti, nella solidarietà si gioca, alla fine, il destino eterno dell’uomo” (Cfr Mt 25,31-46).
Insieme alla pratica della fraternità Carlo Dallari, ci invita a coltivare la sobrietà. “Ma in una società sciupona come la nostra è ancora possibile essere sobri? Se andare controcorrente rispetto alla mentalità dominante è certamente difficile, tuttavia è possibile, a condizione che si maturi la convinzione che la sobrietà non è fine a se stessa, ma mezzo per essere noi un segno concreto, visibile per la società, che tutto appartiene a Cristo, come egli appartiene al Padre”.
Il pane da celebrare
Scrive Marco Pozza: “Nelle comunità fondate dall'Abbé Pierre ancora oggi prima del pranzo si recita questa preghiera: ‘Signore, aiutaci a cercare il pane per coloro che hanno fame, a cercare la fame per coloro che hanno il pane’. È tutto chiaro: il pane senza la fame è spreco, la fame senza il pane è dannazione.
E la villaneria non è fare richiesta quotidiana di pane, ma rifiutare questa abbondanza di pane tutta a disposizione che il Signore, nell'eucaristia, ci mette a disposizione ogni giorno”.
San Cipriano, citato da Milani, scriveva a suo tempo: “Come diciamo Padre nostro, perché Egli è il padre di quelli che lo conoscono e credono in Lui, così chiamiamo Cristo pane nostro, perché Egli è il pane di coloro che gustano il suo corpo. Chiediamo di avere ogni giorno questo pane per non separarci dal corpo di Cristo”.
Infine sant’Agostino, rivolgendosi ai suoi lettori, scriveva: “Pane quotidiano è anche la Parola di Dio, che ogni giorno vi viene offerta e spezzata. Come i corpi hanno fame del pane materiale, così gli spiriti di questo pane spirituale. Chiedendo il pane quotidiano, intendiamo chiedere anche questo pane: in una parola, tutto quanto è necessario al nostro corpo e al nostro spirito”.
Solo attingendo alla mensa della Parola e a quella del Pane possiamo vivere secondo la volontà del Padre.
1 Catechesi del 12 dicembre 2018
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Ringraziamo il Padre perché ogni giorno ci dà ciò di cui abbiamo bisogno?
• Quanto pratichiamo le opere di misericordia materiali e spirituali?
• Sappiamo nutrirci ogni giorno del pane della Parola?
14-Il pane quotidiano
I discepoli di Simone, figlio di Giocai (150 a.C.), gli domandarono perché la manna non fosse scesa dal cielo una volta per tutte, di anno in anno. Il rabbì rispose con la seguente parabola: Un re aveva un figlio, cui egli dava tutto il necessario una volta sola per tutto l’anno e il figlio baciava il volto del padre una volta l’anno. Il padre decise allora di fornirgli il cibo giorno per giorno e il figlio baciò il viso del padre ogni giorno.
François M. Braun
15-Cercare il regno di Dio
È una cosa talmente ovvia chiedere il pane quotidiano per cui c’è da chiedersi il perché di questa invocazione.
“La risposta sembra una sola: a pregare così sono i mendicanti che vivono alla giornata”, meglio, “quei mendicanti che, avendo lasciato tutto per seguire Gesù e annunciare il regno (Mt 19,27-30; Mc 10,28-31; Lc 18,28-30), non possono trovare il tempo per provvedere con il lavoro al proprio sostentamento. Costoro, chiedendo al Padre di provvedere egli stesso al loro sostentamento, implorano simultaneamente, anche se in modo implicito, la possibilità di continuare a predicare il Vangelo del regno”.
Questo valeva per i Dodici e per coloro che facevano parte di quella singolare comunità di vita che si era costituita intorno alla persona di Gesù. “Ma possono e debbono pregare con queste parole anche coloro che, dopo i Dodici e fino alla fine del tempo, si convertono a Gesù e annunciano il Vangelo con la stessa radicalità o almeno – pur vivendo nell’ordinaria quotidianità – cercano “prima il Regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33; Lc 12,31).
Perciò, Padre, donaci tutto e solo quanto è necessario alla nostra vita di discepoli del tuo Cristo. Noi abbiamo bisogno del pane materiale e del pane simbolico”.
Gabriele Milani
16-RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI
Nessuna scusa ti rimarrà nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo il criterio che tu stesso hai usato con gli altri e ciò che avrai fatto agli altri lo riceverai a tua volta.
San Cipriano vescovo
A cura della Redazione
“Dopo il pane”, scrive Marco Pozza, “viene la richiesta di grazia: ‘rimetti a noi i nostri debiti’. Abbiamo tutti urgenza che qualcuno ci guardi nonostante i nostri disastri.
Matteo, pubblicano, parla di debito (Mt 6,12), Luca, narratore appassionato di pittura, preferisce il termine peccato (Lc 11,4)”.
Debito o peccato?
“Entrambi i significati di debito e peccato”, precisa Alberto Maggi (1), “si rifanno a un'immagine di Dio che nel giudaismo veniva concepito come un pignolo contabile che registrava accuratamente nel suo ‘Libro dei debiti’ ogni azione degli uomini.
Invece, l'amore di Gesù, manifestatosi nel lavare i piedi ai suoi, precede e rende capaci i discepoli di uno scambievole servizio, come nel Pater il condono del Padre precede e rende possibile quello dei credenti”.
“La gratuità del Dio di Gesù nell'offrire il perdono può apparire scandalosa, poiché urta il senso della giustizia”, commenta Flemming Fleinert-Jensen. “Essa contraddice la logica secondo cui bisogna pagare per i propri errori, espiare le proprie colpe. Nessuna società può sussistere senza questa logica”. Ma è proprio per questo che è fondamentale ricordarsi che, oltre gli uomini e le loro leggi, possiamo sempre contare sulla misericordia di Dio. “Purtroppo corriamo il rischio che la possibilità del perdono non ci stupisca più perché abbiamo perso il senso della meraviglia”.
Pensieri, parole… e omissioni
“Confrontandosi con la Parola di Dio si avverte che il debito - anzi i debiti, al plurale - non è soltanto questione di precise trasgressioni della legge, che pure ci sono: e le molte omissioni?”, si chiede Bruno Maggioni. “Il padrone della parabola dei talenti esige più di quanto ha dato: condanna il servo perché pigro e dimissionario, non perché particolarmente cattivo - non ha sperperato -, semplicemente non ha trafficato”. Non è sufficiente non fare il male, è importante anche lo slancio verso Dio (“con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze”) e, di riflesso, verso gli altri.
“Queste parole del Pater”, precisa Anselm Grun, “ci ricordano inoltre che in questo mondo continuiamo ad essere colpevoli anche con il nostro modo di vivere con cui sosteniamo le strutture peccaminose di questo mondo: l'ingiusto sfruttamento dei poveri e del creato, l'inquinamento, l'avidità capitalistica di guadagnare sempre di più, anche a scapito degli altri”.
Dio perdona
“Sant'Ambrogio”, ricorda Carlo Dallari, “ripensando alla creazione dell'uomo, diceva che Dio ha creato l'uomo e poi si è riposato, avendo uno cui potesse perdonare i peccati, uno su cui riversare la misericordia. Dio è se stesso quando perdona, E noi siamo noi stessi quando, riconoscendoci radicalmente incapaci di liberarci da soli dal peccato, ci apriamo fiduciosamente al suo perdono.
A volte, sul peccato alimentiamo concezioni approssimative, che si aggirano di preferenza su significati quali: limite, errore, inosservanza di comandamenti o norme. Sicuramente, il peccato è anche colpa morale, ma non può essere ridotto solo a questa. Rischieremmo di rimanere catturati dai sensi di colpa, i quali, non coincidenti con il senso del peccato, ci impedirebbero di riconoscerlo.
Se la richiesta del Padre nostro facesse riferimento al peccato inteso solo come debito da restituire oppure offesa da riparare, una volta assolto il nostro dovere, saremmo a posto con Dio, con la sua giustizia e con la nostra coscienza. Ma non è così. Occorre ricercare in un'altra direzione, recuperare la comprensione biblica del peccato.
Col peccato rovesciamo una verità fondamentale: mettiamo noi stessi al posto di Dio e ci impossessiamo di qualcosa che non ci appartiene”. Tradiamo “l'amore col quale Dio ci ama: ci rinchiudiamo in noi stessi; c’impossessiamo di noi come fossimo l'origine e il fine del nostro esistere. Non vediamo più Dio come Padre, ma come un estraneo, un padrone, un rivale, e lo rifiutiamo; facciamo di noi degli individui autosufficienti, quasi dio di noi stessi”.
Come noi perdoniamo…
“Come tradurre quel come? Non certo con accenti mercantili: perdonami, così io perdonerò”, scrive ancora Marco Pozza. “ ‘Mio padre era un arameo errante. Gridammo al signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce’ (cfr Dt 26,1-11). Fu così che Israele venne graziato. Risollevatosi dalla schiavitù, scoprì l'altra faccia della grazia: salvati per andare a salvare, perdonati per perdonare, guariti per guarire. Un uomo che perdona è una scintilla che rimanda al perdono di Dio”.
Di fronte alla difficoltà di perdonare, aggiunge il Gruppo di Dombes, “dobbiamo anzitutto riconoscere che un perdono ci è già stato offerto: ‘mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi’ (Rm 5,8).
Da parte nostra, il perdono non può essere un gesto volontaristico e soprattutto non deve essere inteso come la condizione da cui far dipendere il perdono di Dio. In realtà nasce dal perdono di cui noi stessi siamo beneficiari: se Dio ci ha riconciliato con sé quando noi ci eravamo allontanati da Lui, allora solo Lui può darci la forza di offrire a nostra volta il perdono”.
“Il pensiero che Dio per il perdono della colpa, per la guarigione degli uomini dal di dentro, abbia pagato il prezzo della morte del suo Figlio, ci è diventato oggi assai estraneo, non riusciamo più a capacitarci”, sottolinea Benedetto XVI.
“Può essere utile”, continua il Papa emerito, “un pensiero del Cardinale John Henry Newman, il quale disse una volta che Dio fu sì capace di creare il mondo intero dal nulla con una parola, ma la colpa e la sofferenza degli uomini poté superarle solo mettendosi egli stesso in gioco, divenendo nel suo Figlio egli stesso un sofferente che ha portato questo peso e lo ha superato per mezzo del dono di se stesso”.
Come perdonare?
“Molti sono riluttanti a perdonare chi li ha feriti profondamente”, scrive Anselm Grün. “Avvertono ancora il dolore e non sono capaci di perdonare chi gliel'ha inferto. Non dobbiamo assolutamente costringerci a perdonare. Spesso ci vuole molto tempo per riuscire a perdonare con tutto il cuore.
Il perdono è innanzitutto un atto liberatorio. Io mi libero dell'energia negativa generata in me dall'offesa. E mi svincolo dall'altro. Se non perdono, rimango legato a chi mi ha ferito. E in tal modo gli do potere su di me. Nel perdono, invece, mi libero del suo potere.
Il Padre Nostro esercita questo effetto positivo anche in famiglia. Se la famiglia lo prega insieme, l'atmosfera si rasserena e le offese rimaste nei cuori si possono dissolvere. Si può instaurare un rapporto nuovo. Non è necessario elaborare e discutere ogni cosa. Talvolta già l'invocazione pronunciata ad alta voce contribuisce a farci prendere le distanze dalle ferite che ci siamo inferti a vicenda”.
“È possibile perdonare qualcuno che mi ha ferito, senza che mi abbia chiesto perdono, senza un gesto di pentimento? È concepibile il perdono unilaterale?” si chiede Flemming Fleinert-Jensen. “Il perdono unilaterale è una pacificazione del cuore, una riconciliazione tra me stesso e la mia memoria, affinché questa non diventi un peso che mi trascino dietro. Poiché la costante presenza del rancore mi renderà la vita pesante. Sarò tormentato nel profondo della mia prigione interiore (cfr. la fine della parabola del servo spietato, Mt 18,34), invece di essere liberato dal peso di un ricordo che dilania il mio essere”.
1 Fonte: studibiblici.it
Per la bibliografia vedi pag. 25
Sul tema del perdono vedi anche: GF95, Perdono e riconciliazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Confessiamo i nostri peccati. Ci ricordiamo di confessare anche le nostre omissioni?
• Il perdono di Dio è pieno, senza ripensamenti. E il nostro?
• Siamo consapevoli che perdonare ci libera dal potere che chi ci ha offeso esercita su di noi?
17-Come noi li rimettiamo...
Questo ‘come’, è una clausola preziosa, rischiosa, e sotto alcuni aspetti, ‘sovversiva’.
Preziosa, perché ci aiuta a prendere coscienza della grandezza e della verità del perdono che il Padre è disposto a concederci. Il suo perdono, infatti, è pieno, senza ripensamenti. Non ‘copre’ con un velo pietoso la nostra miseria, ma è tale da raggiungere la profondità del nostro essere per guarirci, per farci cambiare modo di vivere.
Rischiosa, perché afferma un'esigenza con la quale dobbiamo fare i conti: siamo perdonati e, allo stesso tempo, vincolati a perdonare. Con il perdono, infatti, Dio non vuol mettere una pietra sul nostro passato, ma guarirci. Consapevoli di questo, corriamo il pericolo di non accogliere il perdono di Dio per non essere concretamente disposti a fare altrettanto.
Sovversiva, perché in questo ‘come’ è contenuto un principio capace di sconvolgere la logica, troppo umana, nel pensare solo a se stessi, dell’imporre al prossimo le dure leggi di una giustizia freddamente distributiva o addirittura la legge del taglione. Esso, infatti, esige che il perdono vada condiviso allo stesso modo del pane quotidiano.
Sovversiva, ancora, perché fa nascere in noi l'esigenza interiore di capovolgere la tendenza a comportarci da padroni (si può essere padroni dei beni materiali come di quelli morali e spirituali), riconoscendo nel Padre l'unico Signore di tutto.
Carlo Dallari
“Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7)
18-NON CI INDURRE IN TENTAZIONE
Che si tratti dei figli d'Israele che attraversano il deserto, luogo desolato per eccellenza, in un'epoca immemorabile, oppure dell'uomo occidentale di oggi, che attraversa altri deserti ugualmente senza punti di riferimento, la tentazione è quella di rispondere no a questa domanda.
Flemming Fleinert-Jensen
a cura della Redazione
Dalla prima domenica di Avvento cambierà, a livello liturgico, la sesta domanda del Padre Nostro. Anziché “non ci indurre in tentazione” pregheremo “non abbandonarci alla tentazione”.
In realtà le possibili traduzioni sono molte. Per esempio, Origene traduce così l'ultima invocazione del Padre Nostro: “fa che non cediamo alla tentazione” e Tertulliano spiega la domanda così: “non permettere che noi siamo sedotti dalla tentazione”.
Normalmente questa domanda solleva gravi difficoltà perché sembra presupporre, scrive il Gruppo di Dombes, “che Dio potrebbe indurci lui stesso in tentazione. È bene ricordare che alcune prove possono effettivamente distruggerci, ma ciò non significa che tali prove vengano da Dio: non è Dio che le manda, Dio è piuttosto Colui che dà la forza di attraversarle e di rialzarsi”.
“Per comprendere l’invocazione”, scrive Gabriele Milani, “è necessario rilevare che la mentalità semitica, a volte, attribuisce a Dio eventi non direttamente dipendenti da lui. Quindi, il termine ‘tentare’ è equivoco: può significare ‘spingere a peccare’, e Dio non può farlo; oppure ‘mettere alla prova’, essenzialmente per saggiare la fede”.
La prova
Iniziamo da questo secondo aspetto della tentazione.
“La vita è tutta una prova”, scrive Bruno Maggioni. “Ci sono le prove eccezionali e ci sono le prove quotidiane.
Nella spiegazione della parabola del seminatore, Luca dice: ‘Quelli sulla roccia, sono coloro che, dopo averla ascoltata, accolgono la Parola con gioia: costoro non hanno radici e per un certo tempo credono e nel tempo della prova crollano’. Luca non parla qui di prove eccezionali. Egli sa che per spiegare i cedimenti di molti cristiani non è necessario riferirsi p.e. alla persecuzione. Bastano le prove comuni, la monotonia della vita, il logorio del quotidiano. Per spegnere gli entusiasmi, anche i più genuini, a volte basta il tempo che passa.
Il pericolo di questa prova è grande, perché frequente, perché subdola. Si cede senza rendersi conto, si viene meno e non lo si sa. Occorre, allora, vigilare e pregare per non trovarsi a terra senza accorgersi di essere caduti, per non lasciarsi, cioè scivolare piano piano quasi inavvertitamente verso la perdita della fede”.
Come distinguere la prova dalla tentazione? Risponde Carlo Dallari: “Esiste un criterio essenziale: è una prova se induce a passare attraverso la porta stretta della croce di Cristo. È invece una tentazione se allontana da Lui, proponendo la via spaziosa e attraente delle comodità e dell'egoismo.
Tutto è grazia, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (cfr Rm 8,28). Anche le prove sono grazia”.
La tentazione
Una sintesi di quelle che sono le tentazioni le troviamo nei tre Vangeli sinottici riferiti alla persona di Gesù.
“La prima tentazione”, scrive Anselm Grun, “è quella di trasformare i sassi in pane. È la tentazione di rendere tutto utilizzabile e consumabile. Ciò non si riferisce soltanto al cibo, ma anche ai nostri rapporti interpersonali: anche questi spesso ci devono ‘fruttare qualcosa’. E si riferisce pure al nostro rapporto con Dio: vorremmo utilizzarlo a nostro vantaggio. Ci aspettiamo che ci faccia stare bene. È Dio a servire noi, anziché il contrario.
La seconda volta il diavolo tenta di indurre Gesù a gettarsi dal pinnacolo del tempio. Gesù deve abusare della promessa di Dio per dimostrare la sua capacità di fare miracoli. È la tentazione di percorrere il cammino spirituale per rendersi interessanti e sentirsi superiori agli altri.
La terza tentazione è la tentazione del potere e del possesso. Il diavolo è pronto a dare a Gesù tutta la ricchezza del mondo purché lui lo adori.
Questo motivo del patto con il diavolo ricorre in molte fiabe. La condizione però è che lo adoriamo: che scacciamo Dio dalla nostra vita e ci prostriamo davanti a un idolo. Quelle fiabe però non sono a lieto fine. Il prezzo è troppo alto: è il prezzo dell'amore.
Forse pensiamo di essere molto lontani dallo stringere un patto con il diavolo. Ma quanto subiamo anche noi il fascino del potere e del denaro? Un fascino che ci può indurre a prescindere dai nostri impulsi interiori, così che ne vogliamo sempre di più, fino a perdere la nostra umanità”.
La tentazione di Satana
“L'uomo subisce le tentazioni, non le crea”. Osserva Flemming Fleinert-Jensen. E continua: “Chi tenta, allora, l'uomo? È Dio oppure il diavolo? L'alternativa può apparire un po' semplicistica, ma si spiega con il fatto che nel Nuovo Testamento la tentazione si inscrive fondamentalmente nell'alternativa: Dio o l'avversario di Dio.
Per semplificare, la tentazione più forte non consiste nel desiderio di mangiare o di bere troppo, nella possibilità di imbrogliare con i propri conti per pagare meno imposte, nell’attrazione che si prova per dei fantasmi più o meno confessabili. Ugualmente, essa non ha nulla a che vedere con le prove e le sofferenze provocate dai rischi della vita. Essa riguarda la perdita di fiducia nella ‘parola di Cristo’, allo stesso tempo definita e limitata, che consente di pronunciare correttamente la parola Dio.
Nel Piccolo e nel Grande Catechismo, Lutero parla di una triplice tentazione: quella della carne, quella del mondo e quella del diavolo. La carne rappresenta ciò che risveglia i cattivi desideri con i quali rechiamo danno al prossimo. Il mondo incarna ciò che ci incita all'aggressività, all’impazienza, alla vanità attraverso gli eccessi di gloria e di potenza. Il diavolo opera nel campo della coscienza e delle cose spirituali e ci spinge a disprezzare sia la Parola sia le opere di Dio; egli vuole sradicarci dalla fede, dalla speranza e dalla carità e ci spinge verso la superstizione, la tracotanza e la durezza oppure, viceversa, verso la disperazione, il rinnegamento e la bestemmia di Dio”.
Affrontare la tentazione
Quali sono i suggerimenti per affrontare la tentazione? Carlo Dallari prova ad indicarne alcuni.
“Il primo passo sarà sempre quello di coltivare in noi un’umile pazienza”, imparare a “non essere presuntuosi, ma ‘prudenti come i serpenti e semplici come colombe’ (Mt 10,16), cioè sufficientemente saggi da sapere tenersi a distanza e non mettere alla prova Dio con la nostra avventatezza. Se ci manteniamo a distanza, saremo anche nella prospettiva migliore per un giudizio veritiero sulla tentazione.
Così ci accorgeremo che essa vada a colpire di preferenza il nostro punto debole, costituito perlopiù da difetti (nostri e altrui) che ci danno fastidio, da sofferenze (morali o fisiche), da malattie, da desideri impossibili… E ci accorgeremo che persino una buona cura della nostra salute, un deciso controllo dei nostri istinti, un digiuno che riequilibri nostro essere sono altrettanto sicuri mezzi per sottrarre possibili appigli al tentatore, alacre nei suoi sforzi di invadere il nostro spirito.
Tenersi a distanza ha un risvolto interessante: fa diventare più sobri nei confronti delle tentazioni stesse, nel senso che aiuta a valutarle con realismo, senza dar loro troppa importanza.
Se talvolta la miglior difesa è la fuga, lasciare il vuoto in se stessi può essere molto pericoloso. Per riempire il vuoto interiore non basta dedicarsi a cose belle, interessanti, utili e buone... occorre prima di tutto accogliere il Padre.
Infine, come la lunga esperienza cristiana insegna, occorre essere pronti a rompere - attraverso il sacramento della Riconciliazione - con quella catena che tende a legarci sempre più pesantemente: il silenzio sui nostri peccati, frutto di vergogna o di falso pudore, col quale diventiamo conniventi con il male che ci ha colpito”.
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Nella nostra esperienza, in che modo Dio a volte sembra che ci tenti?
• Quanto subiamo il fascino del potere e del denaro?
• Siamo disposti a passare per quella “porta stretta” che è la croce di Cristo?
19-Tentatori e tentati
• Noi siamo tentati dal Padre. Perché? Evidentemente Lui che, solo, “conosce il cuore di tutti i figli degli uomini” (1 Re 8,39) non ha bisogno di “sapere”. Viceversa, a noi che non ci conosciamo la prova è utile o addirittura necessaria.
• Noi tentiamo il Padre. Gli esempi adducibili, per sofferta esperienza personale di ciascuno, sarebbero infiniti. Tutte sono riconducibili alla tentazione contro la logica della croce, nel senso che dubitiamo che Dio ci sia Padre.
• Noi tentiamo gli altri. Cioè siamo occasione o causa di scandalo. Qui bastino le parole del Maestro, tra le più spietate: “Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare” (Mt 18,6).
• Noi siamo tentati dal demonio. E fin dalle origini: vedi Gen 3. Paradossalmente, la tentazione più forte consiste nel... non essere tentati.
• L’urgenza imperiosa della domanda è giustificata dalla paura che il peccato, da atto - sempre e comunque in sé negativo - diventi abitudine che possa perderci definitivamente. La tentazione più forte è in ultima analisi quella di essere abbandonato a me stesso, perché io stesso ho deciso così, e perciò punirmi, perdermi, di-sperarmi: il che risulta in opposizione diametrale alla fede, la quale è rispettivamente abbandonarmi a un Altro, fidarmi di un Altro, non autoledermi, ritrovarmi e sperare.
Gabriele Milani
20-MA LIBERACI DAL MALE
Questa è la più alta tra le forme di umile sottomissione. È ammettere che solo Dio potrà ancora salvarci dai tormenti di Satana: “chi penserebbe a Dio se non ci fosse il male nel mondo?”
Simon Weil
A cura della Redazione
“La parola del testo originale greco, che traduciamo con male, indica sia il male in senso generico, sia il Maligno nel senso personale del termine. Entrambi i significati sono veri”, scrive Carlo Dallari.
“In effetti, con questa invocazione chiediamo certamente di essere liberati dall'insieme dei mali fisici e morali che segnano la nostra vita; ma anche, e soprattutto, chiediamo di essere liberati da quel male che è, nei nostri confronti, il Maligno”.
Il problema del male
“Seguendo Cristo”, continua Dallari, “accettiamo di pregare il Padre che ci liberi dal male e, allo stesso tempo, ci diamo da fare per essere solidali con coloro che sono stati percossi dalla cattiveria umana, anche se in noi urlano gli stessi interrogativi che salgono dalla loro angoscia: perché tanto male, se Dio è buono e onnipotente?
Ti annunciano onnisciente, non sapevi della nostra fragilità? Ti proclamiamo onnipotente, perché lasci che il male e il dolore dilaghino come una marea inarrestabile lungo la storia dell'uomo, sino a travolgere ogni tua creatura?
Tutti questi interrogativi ci rendono difficile parlare di misericordia di Dio di fronte alla pena della creatura. Non sarebbe meglio tacere?
È un problema che oltrepassa la capacità di comprensione, non perché non possediamo i mezzi per sondarlo, ma perché, in se stesso, è un enigma nel quale dominano oscurità e silenzio.
La Bibbia conosce il problema del male. Giobbe lo affronta, ma non lo risolve. Gesù stesso non lo spiega”.
I tentativi di risposta, sempre parziali, sono molteplici.
Per la teologia della liberazione il male è nelle strutture di questo mondo. “Le strutture ingiuste consolidano il male”, scrive Anselm Grün. “Esistono quindi strutture del male che dominano e condizionano il singolo”.
È il drago di cui parla l’Apocalisse, che, per l’evangelista Giovanni, celava il volto dell'impero romano e della sua cultura.
Ma “anche oggi ci sono, da un lato, le potenze del mercato, del traffico di armi, di droghe e di uomini - potenze che gravano sul mondo e trascinano l'umanità in vincoli ai quali non ci si può sottrarre”, annota Benedetto XVI. “Anche oggi c'è, dall'altro lato, l'ideologia del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere”
Sotto un’altra ottica, quella psicologica, riprende Grün, “il male spesso è una forza che condiziona i nostri pensieri. Sovente il male si fonda sulle ferite ricevute nell'infanzia: poiché non troviamo il modo di elaborarle e sanarle, agiamo spinti da esse, ferendo così gli altri. Trasmettiamo ad altri la violenza che abbiamo sperimentato”.
Alla fine, siamo sempre al punto di partenza.
“Per comprendere qualcosa del mistero del male”, suggerisce Dallari, occorre “contemplare quel Dio che, in Cristo, si è consegnato nelle nostre mani per amor nostro.
Sulla croce l’onnipotenza di Dio appare per quel che veramente è: l’onnipotenza dell'amore che si dona e non può essere annullato; un amore che ci mostra chi è Dio per noi e chi siamo noi per Lui; un amore che ci trasforma da individui in figli capaci di ricevere il perdono che libera; un amore che immette in noi il germe della resurrezione e della vita eterna”.
Il Maligno
“Dio Padre è, per sua stessa definizione, ‘colui che è’ ed è bene e amore infinito”, continua Dallari. “Se è vero, come logica insegna, che essere e bene sono un'unica realtà, ne segue che essere e male non possono coincidere. Il male è dunque privazione dell’essere e negazione del bene”. Quindi “esiste una potenza malefica che sta oltre l'apparire come forza negativa indefinita o come male morale o sofferenza fisica di o distruzione del creato, una potenza che, avendo una necessaria componente di intenzione e di volontà, è in qualche modo in senso generico ‘personale’. Costui odia l'uomo, trama per ingannarlo e per portarlo alla rovina.
Il suo obiettivo immediato è semplicissimo: arrivare a fare dell'uomo un essere che per realizzare il proprio ‘bene’ sia totalmente dedito a se stesso, fortemente animato dalla voglia di una piena autosufficienza per non dipendere da nessuno. In altri termini, un essere che sia dio di se stesso”.
Chiedere a Dio di liberarci dal male “è riconoscere di essere stati accaparrati da forze tanto potenti da non poterci liberare con i nostri mezzi”, scrive Flemming Fleinert-Jensen. “Ciò non vuol dire che noi siamo delle vittime che subiscono un destino inesorabile. Il nostro destino non è inesorabile, proprio perché possiamo rivolgerci altrove, a Dio, per essere soccorsi”.
Superare il male
“La croce di Cristo introduce un cambiamento nella nostra esistenza. Genera una situazione nuova che ci chiede un cambiamento di mentalità, di spirito e di comportamento” osserva Dallari.
“Cambiare mentalità vuol dire essere disposti a restituire al nostro Dio e Padre la sua buona fama, smettendo di pensare e proclamare che la sofferenza che regna in questo mondo viene da Lui, quale punizione per la nostra disobbedienza nei suoi confronti. Dio è Padre che ama perdonare, non un castigamatti.
Cambiare spirito significa, specialmente di fronte alla violenza del male, nutrire sempre e ad ogni costo una fiducia totale nei confronti di Dio nostro Padre. Non possiamo però essere fiduciosi se non siamo umili.
Nell'umiltà diamo fiducia al Padre, sempre pronto a spalancare le braccia per accoglierci e per restituirci a quella dignità dalla quale ci eravamo allontanati per la nostra avventatezza.
Cambiare comportamento significa radicarsi nella fede e farsi sostenere dalla speranza. Così possiamo combattere il male e ogni sua manifestazione, pronti ad estendere con la carità la consolazione di Dio nostro Padre sui suoi figli.
Dove c'è fede il male non può mettere radici. Dove c'è speranza il male non può avere il sopravvento, perché essa si fonda sulla fiducia nella parola del Signore e si esprime nella letizia e nell'ottimismo, di cui attende la piena realizzazione nella vita eterna.
Dove c'è la carità si diventa sensibili a portare consolazione ai cuori feriti, a sollevare coloro che sono stati schiacciati dalla sofferenza, dalla delusione, dalla disperazione”.
Per la bibliografia vedi pag. 25
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Il male. Che risposte diamo a questo enigma?
• Quanto siamo complici, con la nostra acquiescenza, al male del mondo?
• Crediamo a Satana o pensiamo che sia una favoletta per bambini?
21-Grano e zizzania
Il bene è chiamato a convivere con il male. Chiedere a Dio di cancellarne anche uno solo e chiedergli di portare via all'uomo il sogno stesso per cui l'ha fatta nascere al mondo: la libertà d’esistere libero di fronte a Dio.
Che Dio accetti il male è storia che rabbuia gli amici quasi a destare sospetti sull'impotenza di Dio. Che Dio lo sopporti, invece, è materia che consola: “perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano” (Mt 13, 24-30). Sopportare non significa amare: l’amare, però, certuni giorni rende possibile il sopportare.
Marco Pozza
22-Umiltà e vigilanza
È utile chiarire alcuni atteggiamenti che il cristiano deve assumere di fronte al male. Se questi atteggiamenti mancassero, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: non più una invocazione sincera, ma stereotipata, abitudinaria.
II primo atteggiamento è l’umiltà di riconoscersi peccatori.
L’uomo ha la tendenza a scusarsi: il male fa parte della natura dell’uomo, si sente dire. Il male è inevitabile, è necessario. Non colpa, ma limite. Il Vangelo non ragiona così. Il male è nostro. Non va combattuto fuori, nelle cose, negli altri, ma in noi stessi.
Accanto all’umiltà serve un atteggiamento di vigilanza: perché il nostro cammino non può mai dirsi definitivamente confermato in una direzione. Deviare è sempre possibile. Qualsiasi uomo, dovunque si trovi, qualsiasi cosa abbia fatto, può sempre correre il pericolo di tornare indietro.
È anche questione di prendere coscienza della propria debolezza: il male è forte, conserva sempre il fascino. Per questo si chiede a Dio: liberaci dal male. Nessuno vince il male da solo. Occorre l’aiuto di Dio. Del resto il verbo “liberaci” è forse troppo debole. Il senso letterale del verbo greco è “strappar via”, come se noi fossimo attaccati al male, incollati, incapaci di scrollarcelo di dosso. Il male è qualcosa che si accumula, ci appesantisce, ci tira sempre più giù.
Bruno Maggioni
23-LA PREGHIERA DEL PATER NELLA STORIA DELLA CHIESA
Dalla Chiesa dei primi secoli all’Ecumenismo
di Franco Rosada
Dopo aver passato in rassegna tutte le domande dal Padre nostro, esaminiamo ora l’uso che, nella storia della Chiesa, è stato fatto di questa preghiera fondamentale.
Nella Chiesa dei primi secoli
La Catechesi mistagogica di san Cirillo di Gerusalemme (morto nel 387) afferma che il Padre Nostro veniva recitato, durante la liturgia eucaristica, immediatamente prima della comunione. Attesta inoltre che era spiegato parola per parola ai catecumeni, i quali lo imparavano a memoria e lo recitavano per la prima volta nell’Eucaristia che seguiva il rito battesimale. Per questo era denominato “preghiera dei fedeli”. Notiamo che questo termine ora è stato attribuito, forse con una certa leggerezza, alla preghiera universale che conclude la liturgia della Parola.
Il Padre Nostro doveva essere recitato anche individualmente (cfr. Mt 6,5-6), fuori della liturgia sacramentale. La Didachè (50-70 d.C.) scritta per gli ebrei cristiani, abituati a ripetere tre volte al giorno le 18 benedizioni, precisa: “Tre volte al giorno dovete pregare così”. L’uso di pregare tre volte al giorno era stato introdotto nel periodo postesilico: il mattino e alle tre del pomeriggio, come segno di partecipazione al sacrificio offerto nel tempio; la sera, per ricordare il momento della chiusura delle porte del tempio. Al posto della preghiera ebraica, i cristiani devono ora pronunciare il Padre nostro, che diventa così un segno che “distingue”.
Quanto al modo di recitarlo, il Padre Nostro veniva e viene detto (almeno nelle celebrazioni liturgiche) stando in piedi e con le braccia allargate. Lo stare in piedi è la posizione dei “morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù” (Rom 6,11) e di chi è pronto a partire per la missione ricevuta. Le braccia allargate sono l’atteggiamento di chi vuole consegnarsi, abbandonarsi come Gesù al Padre (cfr. 1Tim 2,8).
Tertulliano, il primo dei Padri che lo ha commentato, afferma che il Padre nostro è il compendio di tutto il Vangelo. Egli scrive: “In queste pochissime parole sono compendiati tutti gli insegnamenti dei profeti, dei Vangeli, degli apostoli; i discorsi, le parabole, gli esempi e i precetti del Signore... Solo Dio poteva insegnarci come vuole essere pregato”.
Agostino si muove sulla stessa linea: “Se passi in rassegna tutte le sante invocazioni contenute nella Scrittura, non troverai nulla - a mio parere - che non sia contenuto o compreso nell’orazione del Signore”.
Inoltre, nel commento al Discorso del Signore sulla montagna, Agostino rileva che le sette domande del Padre Nostro hanno un'analogia nelle Beatitudini e nei doni dello Spirito santo: questa analogia avrà grande fortuna nel medioevo.
Nella Chiesa medioevale
Nel medioevo, sotto l'influsso di Gregorio magno, il Pater assume una prima funzione come partecipazione alla preghiera di Cristo, preghiera eucaristica e consacratoria, che lo ha preceduto, e una seconda funzione come preparazione alla comunione.
A differenza della prassi liturgica greca in cui il Padre nostro veniva recitato da tutta l’assemblea, per secoli (fino al 1958) nella liturgia romana il Padre nostro era detto ad alta voce dal solo presidente, e “in silenzio” da ogni partecipante, fino a “et ne nos inducas in tentationem”, cui tutti ad alta voce rispondevano “sed libera nos a malo”.
Questa frase finale serve da appoggio al celebrante per uno sviluppo detto “embolismo” (liberaci, o Signore, da tutti i mali…), seguito da una dossologia ripresa da tutto il popolo (tuo è il regno...). La preghiera del Signore è così vissuta in forma dialogata; questo contribuisce anche a strutturare l'assemblea come corpo di Cristo nella sua relazione con chi la presiede.
Nelle diverse occasioni in cui commenta il Pater, Tommaso D'Aquino fa spesso riferimento al commento di Agostino sul Discorso del Signore sulla montagna che mette in rapporto le domande dell’orazione domenicale coi doni dello Spirito Santo e con le beatitudini. Alcuni commentatori di Tommaso aggiungeranno a questa duplice corrispondenza una terza, collegando ciascuna domanda del Pater anche alle tre virtù teologali e alle quattro virtù cardinali.
Per secoli, nel medioevo, i concili regionali ricordano che spetta ai genitori insegnare ai figli il Padre nostro; un certo numero di esempi ci conferma che effettivamente questa iniziazione ha luogo in seno alla famiglia: Giovanna D'Arco per esempio l'ha appreso sulle ginocchia della mamma. Ma, alla fine del medioevo, il Padre nostro è anche oggetto della predicazione.
Verso la fine del Medioevo si diffonde l'abitudine, ereditata dal monachesimo, di recitarlo a ripetizione: per sostenere la meditazione personale sulla vita di Cristo, per tenersi vigili nell'attesa del suo ritorno, ma anche per il riposo delle anime dei defunti.
Alcuni, in tutti gli strati della società, lo recitano ogni giorno centinaia di volte. In Francia, il “patenôtre”, antenato del Rosario ma destinato a sgranare dei Pater, si trova nelle tasche di molta gente, anche modesta.
Nella Chiesa del XVI secolo
Questo secolo è segnato dalla Riforma protestante e dalla Controriforma cattolica.
Per Lutero, affermare che Dio e Padre - cioè che questa è l’essenza del suo essere - implica che non lo diventa per mezzo dell’assoluzione dopo che si è recitata la preghiera del Pater per penitenza. Egli è e rimane Padre per tutti i suoi figli in tutte le circostanze e la giustizia del Padre non equivale a quella di un giudice severo. È quanto dimostra il Figlio che rivela l'essere del Padre e che si fa fratello degli uomini. La paternità e allora un'espressione analoga al concetto di grazia.
Se il Padre Nostro costituisce la migliore lettera di indulgenza, per di più gratuita, non è per mezzo della Chiesa, ma perché Dio dona la vera penitenza che è l'accettazione del suo perdono.
Qui troviamo l’elemento caratterizzante la Riforma: la messa in discussione del ruolo intercessore e mediatore della Chiesa.
La Riforma introduce l'uso del catechismo e favorisce la diffusione di manuali a scopo catechetico. Il catechismo deve aiutare a diffondere alla dottrina in tutti gli strati della popolazione, sia attraverso la forma letteraria (domande-risposte) sia mediante il contenuto, che includeva il Padre nostro.
Il successo dei catechismi è così ampio che oltrepassa le frontiere confessionali e si impone a sua volta nella Chiesa cattolica. Da parte cattolica il Padre nostro è riconosciuto come la preghiera fondamentale del cristiano. Recitato o cantato durante la messa dal sacerdote, esso conclude le preghiere quotidiane dei fedeli e ritma la recita del rosario.
Dalle guerre di religione all’ecumenismo
Nel contesto delle controversie e delle guerre di religione che caratterizzano per circa cent’anni la scena europea, la preghiera del Pater viene utilizzata come strumento di lotta tra riformati e cattolici.
Nei periodi più duri, la separazione delle chiese è giunta ad usare versioni modificate del Padre nostro come arma contro gli altri cristiani malgrado che i grandi riformatori avessero indicato la portata dell'espressione Padre nostro nel favorire la comunione reciproca.
Solo nella prima metà del novecento, nel quadro del Movimento ecumenico si individuerà, come preghiera per l'unità, il Padre nostro.
La Chiesa Cattolica ha permesso i suoi fedeli di dire questa preghiera assieme ai membri di altre confessioni nel 1949. Con questa nuova possibilità, emergono le differenze tra le traduzioni del testo in lingua corrente da parte delle diverse confessioni.
Diveniva dunque importante che il Padre nostro non fosse il testo di alcuna confessione in particolare.
La traduzione ecumenica del Padre Nostro in lingua francese (gennaio 1966), adottata dalla maggioranza delle comunità cristiane, ha costituito una tappa decisiva in quanto dà ormai la possibilità di recitare il Padre nostro in comune.
A questo si è affiancata l’adozione di pratiche liturgiche concrete, e questo è avvenuto in maniera identica da parte Cattolica e Riformata. Infatti, mentre fino allora il Padre nostro era recitato solo dai sacerdoti e dai pastori riformati, questa preghiera è detta d'ora innanzi da tutta l'assemblea ad alta voce.
Da allora, non è più possibile pronunciare il Padre nostro senza che ognuno auspichi che diventi un segno della stessa fede condivisa in Cristo.
Non è stato possibile, per la pluralità delle fonti, indicarle in modo puntuale.
Gran parte del materiale è stato comunque tratto dal libro della Comunità di Dombes: Voi dunque pregate così, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Abbiamo mai provato a meditare le singole petizioni del Padre nostro?
• Lo insegniamo ai nostri figli e nipoti?
• Abbiamo esperienza di pratiche ecumeniche?
Uomini e donne nella bibbia
24-IL PATER NEI VANGELI
Questa preghiera nasce da una precisa richiesta dei discepoli che, dopo aver visto Gesù pregare, gli chiedono: “Signore, insegnaci a pregare!”
di Gabriele Milani
Tra il 75 e l’85 sorgono due versioni-formulazioni del Padre Nostro: Lc 11,2-4 e Mt 6,9-13. Ovviamente esse presuppongono un diverso “contesto vitale”.
Il Pater nel Vangelo di Luca
Luca si rivolge ai cristiani convertiti dal paganesimo, che non sanno ancora pregare da discepoli di Cristo e che, in ogni caso, difettano di una profonda esperienza di preghiera.
Bisogna dunque insegnar loro a pregare.
L’introduzione lucana al Pater è istruttiva: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘Quando pregate, dite...’ (Lc 11,1-2a)”. Gesù viene presentato dall’evangelista come modello di preghiera; e la sua esortazione più pressante è a non demordere da essa anche se non viene subito esaudita (11,5-10), tanto più che il Padre dona sempre lo Spirito santo alla persona che non demorde (11,11-13).
Il testo di Luca è strutturato in un’invocazione introduttiva seguita da cinque richieste: cinque come le dita della mano, come il Pentateuco, come le cinque parti del Salterio.
Il Pater nel Vangelo di Matteo
Matteo si rivolge ai giudeo-cristiani i quali, sapendo pregare fin dalla fanciullezza, corrono il rischio della routine, cioè di una preghiera che poco o niente ha di specificamente cristiano.
In particolare, incombono due gravi pericoli. Il primo è la logorrea, un fiume di parole inutili: “Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8). Il Pater è precisamente un esempio di preghiera breve, sintetica (cfr. Sir 7,14).
L’altro pericolo è costituito dall’esibizionismo - la preghiera è cosa troppo seria per essere ostentata - e dall’incoerenza tra preghiera e vita, in particolare dalla non disponibilità a perdonare: “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (6,5-6).
Il testo di Matteo comprende un’invocazione introduttiva e sette richieste.
Sette è un numero che corrisponde alla sensibilità ebraica: come i sette giorni della settimana, i sette doni dello Spirito (Is 11), i sette spiriti (Ap 4,5; 5,6), il candelabro a sette braccia. Il numero sette è biblicamente segno della perfezione: il Pater sintetizza quindi in modo perfetto quanto nella preghiera possiamo desiderare o domandare.
Le due versioni a confronto
Delle due versioni-formulazioni l’originale è quella di Luca, benché sia Matteo sia Luca desumano da una tradizione comune, probabilmente la fonte “Q”.
Questo si deduce dal fatto che il testo originale è breve e solo successivamente viene esplicitato, ampliato, elaborato. In Matteo ad essere ampliate sono le conclusioni: proprio come succede quasi sempre per i testi liturgici. L’affermazione “Padre” è più antica di “Padre nostro che sei nei cieli”; solitamente il testo più ampio conosce una maggiore diffusione, com’è di fatto accaduto.
Per concludere, Luca conserva la forma del Pater più antica quanto al linguaggio; Matteo, la più antica relativamente al tenore della preghiera. Il testo di Luca è stato da Matteo adattato a scopi liturgici.
Tratto da: Il Padre di Gesù e nostro, Editrice In Dialogo, Milano 1998.
Adattamento della Redazione.
25-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Bruno Maggioni, Padre nostro, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1998.
Anselm Grün, Il Padre nostro, Edizioni Paoline, Milano 2010.
Entrambi i libri sono due buoni commenti del Padre nostro. Più datato quello di Maggioni, più recente quello di Grün.
Maggioni si pone come obiettivo, scrivendo, di contrastare il rischio che il Pater diventi una formula priva di contenuto.
Grün dà un taglio più psicologico alla sua riflessione, segnalando il rischio di incappare nella privatizzazione della spiritualità, che rischia di essere improduttiva, di non generare alcuna ricaduta sulla società in cui si vive.
Carlo Dallari, Nel cuore del padre, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006.
L’autore è un frate minore e la sua riflessione segue le orme di Francesco d’Assisi.
Si tratta di un testo molto ricco, che approfondisce molto bene ogni singola locuzione del Pater.
Una caratteristica di Dallari è quello di prestare molta attenzione al “noi”: Dio è padre di tutti e se ignoriamo questo aspetto rischiamo di fraintendere profondamente il Pater.
“Quando rinunciamo ad essere noi al centro dell'universo”, scrive l’autore, “scopriamo una realtà altrimenti nascosta: che il Padre celeste ama essere circondato dai figli, amati tutti, singolarmente e concretamente, in modo infinito. Abbracciati da questo amore, sperimentiamo una nuova comunione e un nuovo modo di essere uomini, sperimentiamo la fraternità”.
A questo libro abbiamo attinto con abbondanza per la realizzazione di questo numero.
Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007.
Marco Pozza, Il contrario di mio, Edizioni San Saolo, Cinisello balsamo (MI) 2018.
Si tratta di due testi molto diversi tra loro e anche con gli altri libri presentati in questa pagina.
Il libro di Benedetto XVI narra la vicenda di Gesù dall’inizio della sua vita pubblica all’ingresso a Gerusalemme. In questo contesto, un ampio capitolo è dedicato al Padre nostro.
Marco Pozza ci offre, com’è nel suo stile, una serie di riflessioni a “ruota libera” sul Pater.
Questo approccio può piacere o non piacere, ma va riconosciuto che quanto l’autore scrive non è mai banale.
Un libro da regalare.
Gabriele Milani, Il Padre di Gesù e nostro, Editrice In Dialogo, Milano 1998.
L’autore è un sacerdote della diocesi di Milano che ha sistematizzato, nel libro, quanto presentato ai corsi estivi di formazione tenuti agli adulti dell’Azione Cattolica diocesana.
Il testo risente di questa origine che rende, a volte, non tanto scorrevole la lettura.
In compenso, si tratta di un testo molto ricco, che approfondisce molto bene ogni singola locuzione del Pater, con un’ampia serie di richiami biblici.
Le petizioni della preghiera sono precedute da due capitoli, che sinteticamente collocano il testo nella riflessione della prima Chiesa e sottolineano le differenze tra la versione di Matteo e quella di Luca.
A questo libro, grazie alla ricchezza delle riflessioni, abbiamo attinto con abbondanza per la realizzazione di questo numero.
Il libro, ad oggi, è purtroppo fuori commercio.
Flemming Fleinert-Jensen, La preghiera fondamentale, Edizioni Dehoniane, Bologna 2015.
Gruppo di Dombes, Voi dunque pregate così, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011.
Si tratta di due testi che ci presentano una lettura interconfessionale del Padre nostro.
Il primo, di un autore protestante, è scritto in forma di dialogo e presenta bene le riflessioni della Riforma su questa preghiera.
Il secondo, anche se non approfondisce molto il significato delle diverse petizioni del Pater, fornisce molte informazioni sull’uso di questa preghiera nel corso della storia del cristianesimo: i primi secoli della Chiesa, il Medioevo, la Riforma e la Controriforma fino ad oggi.
26-CHE IDEA DI CHIESA ABBIAMO?
A cura della Redazione
Ci fa piacere presentare questo volume, appena pubblicato, di don Giovanni Villata, da poco nostro collaboratore.
Prendendo le mosse dalla diffusa convinzione che si può essere cristiani, senza appartenere alla Chiesa, l’autore - sacerdote, parroco e teologo pastoralista della diocesi di Torino - indaga per cercare le cause che inducono questa convinzione.
Alla luce della sua esperienza oltre cinquantennale di pastore, nel confronto serrato con la teologia e il magistero della Chiesa, Villata cerca di individuare quali cambiamenti pastorali si possono attuare oggi per fare in modo che i giovani, le famiglie soprattutto, possano fare esperienze di appartenenza ecclesiale, cioè vivere da cristiani nella Chiesa di Gesù.
L’itinerario sviluppato dal libro si articola in tre momenti: l’analisi della realtà sociale, culturale ed ecclesiale odierna (I parte); l’individuazione di criteri teologici che indichino il necessario cammino di conversione pastorale e di rinnovamento da percorrere (II parte); l’indicazione di scelte concrete per una Chiesa più fedele all’identità affidatale da Gesù e alla vita quotidiana dell’uomo della post-modernità (III parte).
Ci ispireremo anche a questo testo per la realizzazione del numero di dicembre della rivista che avrà come tema: I cristiani in rapporto con gli ultimi.
Giovanni Villata, Che idea di Chiesa abbiamo?, Elledici, Leumann (TO) 2019.
27-NOTIZIE DAL
COLLEGAMENTO NAZIONALE
Dopo l’incontro del 24 marzo a Ronco Briantino
di Antonella e Renato Durante
Il ritrovarsi a Ronco Briantino per il Collegamento Nazionale ha avuto un sapore nuovo, con il ricordo ben vivo di Gianprimo. La sua comunità ci ha accolto con generosità e passione, la stessa che anima i gruppi famiglia che qui molto devono a Gianprimo e ad Ernesta.
In questa stagione della Chiesa e della nostra realtà italiana registriamo una fatica a coinvolgere le famiglie, a cominciare da quelle giovani.
Le esperienze consolidate nelle realtà parrocchiali e diocesane continuano con qualche difficoltà anche perché la disponibilità di tempo delle persone si riduce a causa di nuove necessità di organizzazione della vita o del lavoro.
Crediamo che la realtà del Collegamento dei Gruppi Famiglia abbia ancora la sua attualità e la sua forza nell’idea di proporre il gruppo come piccola comunità aperta, esperienza di Chiesa radicata nel mondo sempre più complesso, e il valore del Collegamento fra i gruppi stessi.
Tale scelta va contro l’isolamento dell’individuo e della famiglia, si radica nel valore della Comunità che nasce principalmente dalla condivisione della fede e delle esperienze che attraversano le vite di ciascuno di noi.
Per poter resistere nei momenti difficili, vivere la vicinanza e la solidarietà fra famiglie e fra coppie, crediamo ancora che il gruppo, caratterizzato dall’amicizia fraterna, possa essere esperienza vitale e quindi ecclesiale.
Ma se il gruppo non si apre al confronto con altre realtà, altri gruppi, rischia l’asfissia.
Per questo noi crediamo caparbiamente nella realtà del Collegamento che vuole mettere in relazione le varie realtà per metterle in grado di condividere ciò che di bello sperimentano nel loro cammino. Famiglie che condividono i valori del Vangelo e non li vogliono tenere per sé, ma tentano di contagiare altre famiglie, per condividere la gioia e il valore della condivisione.
Il Collegamento si esprime anche attraverso questa rivista, il sito, la disponibilità di alcune coppie ad avviare nuovi gruppi e a sostenere quelli esistenti.
A ciò di aggiungono le esperienze delle settimane estive (vedi pag. a fianco), tempo prolungato per vivere la bellezza delle relazioni fra famiglie, momento rigenerante per credere ancora in relazioni autentiche, gratuite e solidali, capace di generare nei figli la dimensione dell’amicizia, di mostrare la gioia che porta con sé il vivere il Vangelo.
Ma il Collegamento è ancora colto come servizio dai gruppi?
Su questo tema attendiamo i vostri pareri e le vostre proposte.
28-DIAMOCI IL CINQUE!
Una firma per il 5x1000 alla nostra associazione
Carissimi,
Anche quest'anno la legge finanziaria consente di destinare la quota del 5x1000 della vostra imposta sul reddito delle persone fisiche relativa all'anno 2018 (CUD, modello 730 o Unico), ad una serie di realtà fra cui le ONLUS (associazioni non lucrative di utilità sociale).
L'attività del Collegamento tra Gruppi Famiglia - e quindi dell’associazione Formazione e Famiglia che ne è l’espressione legale - rientra fra queste e con la vostra firma potrete sostenere la pubblicazione del Foglio di Collegamento, promuovere le settimane estive per famiglie e le altre iniziative formative (convegni, incontri e attività).
Questa è una scelta che non costa nulla, perché si tratta di una quota delle tasse a cui lo Stato rinuncia.
È un gesto che chiediamo a tutti voi e, tramite voi, a tutti quelli che ritenete interessati alle nostre iniziative.
Per destinare il 5x1000 al Collegamento dei Gruppi Famiglia è sufficiente scrivere sulla denuncia dei redditi (Unico, 730 e CUD) nello spazio dedicato al sostegno del volontariato il nostro codice fiscale 97571710017.
Dopo diversi anni di crescita, probabilmente grazie al contributo di qualche commercialista, nell’anno fiscale 2107 le firme sono tornate ai livelli del 2012, anche se con importi superiori.
Per poter continuare ad operare al meglio, serve un maggiore impegno di tutti nel sostegno economico alla rivista.
Confidiamo su di voi e sulla vostra generosità.
Antonella e Renato
29-PER CONCLUDERE
Non dire Padre
se ogni giorno non ti comporti da figlio.
Non dire Nostro
se vivi isolato nel tuo egoismo.
Non dire Che sei nei cieli
se pensi solo alle cose terrene.
Non dire Sia santificato il tuo nome
se non lo onori.
Non dire Venga il tuo regno
se pensi solo al successo materiale.
Non dire Sia fatta la Tua volontà
se non l'accetti quando è dolorosa.
Non dire Dacci oggi il nostro pane quotidiano
se non ti preoccupi di chi ha fame.
Non dire Perdona i nostri debiti
se conservi un rancore verso tuo fratello.
Non dire Non esporci alla tentazione
se hai intenzione di continuare a peccare.
Non dire Liberaci dal male
Se non prendi posizione contro il male.
Non dire Amen
se non prendi sul serio le parole del Padre Nostro.