Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF108 – luglio 2021
La primavera di papa Francesco
e ancora: Perché la messa, Religione e fede
Lettere alla rivista
1-LA CROCE È GLORIA PERCHÉ È AMORE
Siamo chiamati a farci carico anche del dolore del mondo
Dio ci “tradisce”? A volte, di fronte a certi dolori, a certi lutti, mi chiedo: dov’è Dio, come posso continuare a fidarmi di Lui!
Giacomo
Introduco la mia riflessione sul tema del dolore - come proposto da questa lettera - e del conseguente difficile rapporto con Dio quando ne siamo colpiti o quando lo osserviamo nella vita delle altre persone, con una citazione di Paolo ai cristiani di Roma.
“Se siamo figli - sostiene l’Apostolo - siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui”. (Rom. 8,17)
La prospettiva per riflettere sul tema proposto da Giacomo, non può che assumere, inequivocabilmente, quella della fede.
Il discepolo di Gesù - noi lo siamo proprio in quanto figli - rivive la sorte del Maestro, perché partecipa della sua stessa eredità. E la sua eredità è la condizione umana (la Croce) da assumere totalmente per condividere la Gloria.
L’essere cristiani - figli credenti - non ci immunizza dalla condizione umana, con tutti i limiti, e ci infligge necessariamente delle prove che sono riservate solo ai discepoli. Cioè, fatichiamo, lavoriamo, ci ammaliamo, non ci comprendiamo, andiamo in depressione, conosciamo paura e angoscia come tutti.
Ma è anche vero che il discepolo acquisisce, per il fatto di essere discepolo, una particolare vulnerabilità che lo rende partecipe delle sofferenze di Gesù per partecipare alla sua gloria. Precisamente quella che ci consente di farci carico non solo del nostro dolore ma anche di quello del mondo, di assumerlo come nostro, di condividerlo.
Essere discepoli di Gesù come figli ed eredi, significa farci samaritani dei fratelli e delle sorelle che scendono dalle varie Gerusalemme del mondo a tutte le Gerico del mondo.
Il dubbio umanamente legittimo si trasforma in acquisizione di nuove certezze se non ci fidiamo troppo dei nostri sentimenti, ma poniamo la nostra fiducia nella Sua Parola e ci fidiamo, consapevoli di non riuscire a capire, a giustificare tutto.
Sentiamo di doverci radicare in quel Padre che ci rende figli, eredi di Dio e coeredi di Cristo, “se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui”, come ci ha ricordato Paolo. Ricordiamoci infine che la Gloria non è accanto alla Croce o dopo la Croce ma nella Croce. La Croce è gloria perché amore.
Don Giovanni Villata
Dialogo tra famiglie
2-LA PARTECIPAZIONE “ATTIVA” ALLA MESSA
Una definizione sovente fraintesa
Mi chiedo che cosa si intenda per “partecipazione attiva” alla Messa.
Il sacerdote fa praticamente tutto lui!
Anna Maria
Cara Anna Chiara, forse sei troppo giovane per ricordare quando era normale dire: “andiamo ad ascoltare la Messa”, come si andasse ad ascoltare un concerto…
Quando parliamo di partecipazione ci focalizziamo molto sull’esteriorità, al fatto che chi presiede è visibile e noi no, anche se ad alcuni laici è chiesto il servizio di leggere le letture per i fratelli presenti: in alcuni casi, l’omelia diventa dialogo, è una bella cosa, ma non è la sostanza della partecipazione.
La partecipazione è un fatto interiore. All’inizio della messa chiediamo perdono dei peccati e il celebrante alla fine ci assolve dicendo: “Dio onnipotente perdoni i vostri peccati e vi conduca alla vita eterna”.
Come ci conduce Dio alla vita eterna? Prima con la Parola, che va ascoltata col cuore e con la testa. Poi con il sacrificio: è davvero un rinnovo della Passione, assistiamo ad un’esecuzione capitale! Seguita, per la nostra gioia, con la certezza della Resurrezione e l’invito (non sempre coscientemente accolto) a cibarci del corpo di Gesù.
Quanto siamo consapevoli di tutto questo? Sono la consapevolezza e la concentrazione sul mistero che costituiscono la partecipazione a cui siamo invitati spesso dal Papa!
Prova a guardare il volto di papa Francesco mentre celebra, soprattutto mentre consacra: capisci immediatamente cosa vuol dire partecipazione attiva!
Anna Lazzarini
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In questo numero
3-COLTIVARE LA SPERANZA
Per la Chiesa universale e per il nostro essere “chiesa”
di Franco Rosada
Dopo aver parlato della “Chiesa che manca” (GF106) e della “Chiesa come resto” (GF107) in questo numero ci apriamo alla speranza proponendovi il modello di Chiesa che desidera papa Francesco.
La Chiesa italiana sta perdendo non solo i giovani ma anche le donne, fa fatica a fare i conti sulla sua - in prospettiva - dimensione di “resto”, ma anche con il modello di Chiesa che papa Francesco ha proposto fin dall’inizio del suo pontificato con l’esortazione Evangelii gaudium.
Questo è infatti il primo dei tre temi che affrontiamo in questo numero.
Gli altri due sono quelli che hanno incontrato le maggiori preferenze da parte di voi lettori nell’ultimo sondaggio fatto: “Perché andare a messa?” e “Religione e fede”.
Questa abbondanza di argomenti nello stesso numero è dovuta, da una parte, al desiderio di “chiudere” il discorso sulla Chiesa e, dall’altra, di affrontare comunque i temi proposti dai lettori.
Il risultato è stato un plico di 36 pagine, cifra mai raggiunta da questa rivista.
Un’altra novità che caratterizza questo numero è la modalità di utilizzo delle numerose testimonianze che abbiamo ricevuto.
Di solito, pur sintetizzandole, le abbiamo sempre presentate tutte; questa volta, invece, le abbiamo riassunte in una unica pagina.
Il motivo è semplice e spero che coloro che le hanno inviate ci scuseranno: le testimonianze ci sono servite come spunto per introdurre gli argomenti trattati nel numero, soprattutto i due riguardanti la messa e la fede.
Per quanto riguarda la messa vi invitiamo a fare conoscenza con i culti misterici dell’antichità che a inizio Novecento Odo Casel ha studiato in relazione al culto cristiano e con il manuale di formazione liturgica di Romano Guardini, un autore che papa Francesco apprezza molto.
L’interesse di Francesco nei confronti di questo pensatore si manifesta proprio nell’esortazione Evangelii gaudium e gli ha ispirato i quattro principi su cui riflettiamo nella prima parte della rivista. Qui abbiamo cercato, quando possibile, di calare questi principi nella realtà di coppia.
Tornando ai temi, per quanto riguarda la fede, siamo rimasti particolarmente colpiti da come alcuni hanno risposto alla domanda sui “tradimenti” da parte di Dio: Lui non ci deve “tradire” e, se lo fa, viene meno alla sua stessa Parola.
Così, ci siamo soprattutto soffermati sulla preghiera, su cosa chiedere pregando e sulla Parola di Dio, che a volte ci lascia sconcertati.
Religione e fede sarà un tema comunque da riprendere.
Ci auguriamo che i contenuti di questo numero vi aiutino ad aprirvi alla speranza, verso la Chiesa e verso le vostre piccole chiese domestiche.
Buona lettura!
P.S. La recente decisione di papa Francesco di modificare il cammino sinodale della XVI assemblea dei vescovi, partendo dalle realtà diocesane, è un ulteriore elemento di speranza.
4-COME E PERCHÉ SOSTENERCI
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Sembra un po’ una domanda nello stile di: “è nato prima l’uovo o la gallina?”, ma non è così.
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L’opinione dei lettori
5-LA CHIESA DI PAPA FRANCESCO
a cura della Redazione
Questo è il primo dei tre temi che abbiamo proposto ai lettori. Di seguito presentiamo le risposte che abbiamo ricevuto. Per ragioni di leggibilità e di spazio abbiamo fatto una sintesi delle risposte e quindi, non potendo riportare le loro testimonianze per intero, ringraziamo qui Vittorio, Carla, Monica e Nicolò, Lorenzo, Paola, Domenico e Chiara, Piero, Fiorenzo, Emanuele, Antonio e Fiorenza, Luigi e Lucia, Giuseppe e Monica, Daniela, Morris, Giuseppe, Nicola, Caterina, Agostino, Mauro per il loro contributo.
Che riforme dovrebbe attuare papa Francesco?
Le riforme che i lettori suggeriscono sono in parte quelle presenti nei media: sacerdozio femminile, l’abolizione dell’obbligo del celibato per i sacerdoti, e conferimento dell’Ordine anche a uomini sposati. In generale viene richiesta una presenza maggiore, anche a livello ministeriale, delle donne.
Ma la maggioranza delle risposte pone l’accento su altri tipi di “riforma” come ridurre il coinvolgimento diretto delle Chiesa negli “affari” del mondo, oppure come liberare la Chiesa dalle tante strutture che la rendono ancora una casta.
Due famiglie propongono interessanti “riforme”: la prima riguarda l’attuazione a livello diocesano (vescovi, sacerdoti) di quanto proposto nella Evangelii gaudium, la seconda riguarda l’attuazione e il mantenimento nel tempo delle riforme che papa Francesco sta comunque attuando.
Le riforme, però, non riguardano solo i vertici della Chiesa ma anche le parrocchie: essere una comunità amorevole e non giudicante nei confronti delle tante situazioni difficili oggi presenti come i divorzi, le separazioni, l'omosessualità, le deviazioni, la diseguaglianza economica, la globalizzazione, la povertà, l'ecologia e il rispetto/cura del creato; essere aperti a tutti, capaci di accogliere e valorizzare le diversità; essere testimoni credibili; trasformare un cristianesimo di sagrestia in un cristianesimo di fede vissuta. In quest’ottica viene anche ricordata la centralità costante della pastorale della famiglia, anche senza necessità di Esortazioni in tal senso.
Se venissero attuate come sarebbero accolte nella vostra comunità di credenti?
C’è da parte di molti la fiducia nelle riforme che papa Francesco vorrà fare, per cui queste sarebbero ben accolte, al di là di una iniziale sorpresa. Ma c’è anche chi osserva che la maggior parte dei fedeli direbbero che il papa è diventato un eretico o un protestante.
Si è consapevoli che le riforme potrebbero essere notevolmente ostacolate dalla parte “oltranzista” del mondo cattolico che, sebbene in relativa minoranza, oppone spesso forte resistenza all’azione modernizzatrice di papa Francesco.
E qui si ritorna alla comunità locale, dove si fatica a costruire un diverso modello di chiesa, anche se si è consapevoli della crisi irreversibile di quello basata sul prete. La fatica è ulteriormente accentuata da quello scisma sotterraneo che divide le comunità sul modo di intendere morale, politica, responsabilità sociale.
Resta sempre vero che ogni riforma, per essere accolta, deve essere prima di tutto spiegata (ma il Papa in questo è molto convincente...) e successivamente, pazientemente e perseveratamente attuata con intelligenza e cuore, senza dimenticare che lo Spirito Santo soffia dove vuole.
Il nostro compito è solo quello di accogliere docilmente la sua azione.
Quanto siamo stati coinvolti dall’esortazione Amoris laetitia?
Le posizioni sono molto discordanti. Chi l’ha letta e ci ha riflettuto sopra, l’ha apprezzata molto, ma in molti contesti ne è stata letta solo qualche parte ed è stata poco utilizzata in parrocchia o in gruppo. Una coppia che è stata impegnata a livello diocesano nella fase di preparazione con momenti significativi di riflessione e condivisione, ha segnalato la scarsa ricaduta del documento.
Un’attenzione maggiore si è avuta per quanto riguarda l'apertura a divorziati e risposati e nei confronti dell'omosessualità.
Salvo questi aspetti, a cinque anni di distanza dalla sua pubblicazione, l’esortazione è stata un po’ accantonata e la sua riproposizione, da parte di papa Francesco, ci ricorda che gli tutti gli argomenti trattati nel documento sono più che attuali.
Dovrebbe valere per tutti quello che qualche coppia ha scritto e cioè che il documento è stato una vera ricchezza per le famiglie e che vada letta con devozione, interiorizzata e vissuta.
6-LA PRIMAVERA DI PAPA FRANCESCO
Con lui la Chiesa cattolica si è aperta al mondo contemporaneo
Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.
di Vincenzo Salemi, IMC
Usando la parola “primavera” per intitolare questo articolo non intendo assolutamente insinuare che ci sia stato un inverno prima di papa Francesco.
La Divino Afflante Spiritu (1943) di Pio XII aveva aperto una finestra importante sugli studi biblici in senso moderno e di conseguenza portato la Bibbia in tutte le case (ricordo la Sacra Bibbia a 1000 lire delle Paoline).
Giovanni XXIII aveva aperto porte e finestre della Chiesa, il Concilio Vaticano II è ancora da essere attuato in pienezza. Il Papa Buono ci aveva lasciato la Pacem in Terris (1963) che rimane tuttora la Magna Charta per un discorso universale sulla pace nel mondo. Paolo VI ha coraggiosamente portato avanti il Concilio, ci ha la lasciato La Populorum Progressio (1967), l’Enciclica cui si ispira tutto il Magistero sociale della Chiesa. Giovanni Paolo I, il papa del sorriso, non ha voluto essere incoronato papa, ha incominciato a usare l’”io” invece del “noi” (pluralis maiestatis), ha avuto un contatto umano con tutto il popolo cristiano. Ha “regnato” senza triregno, solo 33 giorni, ma ha lasciato un ricordo indelebile nel desiderio di rinnovare lo stile di fare il papa.
Giovanni Paolo II, primo papa non italiano dopo secoli, è stato il papa di tutto il mondo, che ha visitato in lungo e largo. Ha scritto molte encicliche e attirato l’attenzione del mondo intero sulla Chiesa Cattolica.
Benedetto XVI ci ha lasciato Deus Caritas Est (2005) dove, come papa teologo, ci dà l’unica definizione di Dio: Dio è amore. Le sue dimissioni il 28 febbraio 2013 hanno commosso il mondo e resta tra noi come esempio realistico di umiltà e vita contemplativa come il Benedetto da cui ha preso il nome.
La primavera di Francesco
L’elezione di Bergoglio, il 13 Marzo 2013, apre un nuovo capitolo nella storia della Chiesa con il primo papa che ha preso il nome di Francesco e che viene dalle Americhe.
Il suo primo saluto “buona sera” ci ha fatto capire il suo stile e il suo linguaggio.
Ha poi sempre usato un linguaggio semplice, comprensibile a tutti, ci saluta come ci salutiamo noi, buongiorno, buonasera e buon pranzo. Si presenta come vescovo di Roma, pur consapevole del primato nella carità che Roma ha su tutte le chiese.
Si concede ai giornalisti, telefona ogni tanto all’improvviso a un personaggio o a una persona comune. Ormai la Chiesa cattolica si è aperta al mondo contemporaneo. I tempi sono maturi per un papa che sia “uno di noi”.
La gioia (gaudium, laetitia)
Quello che più mi colpisce nell’insegnamento di Papa Francesco è la parola “Gaudium”.
Dà subito un senso di tranquillità, sentire un Papa che usi la parola gioia così spesso, ma è quello che sta accadendo.
Penso che tutti concordino che l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (La gioia del vangelo) sia il suo programma di pontificato.
Francesco ci dice: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e ci libera dalla tristezza.” E poi cita il Siracide con un’espressione quanto mai nuova nei documenti pontifici: “Figlio mio, per quanto ti è possibile, trattati bene... non privarti di un giorno felice.” (Sir 14, 11.14). Francesco è un Papa che ha a cuore la felicità dei cristiani.
Partendo da un assioma scolastico-tomistico “bonum est sui diffusivum” il Papa ci indica come la gioia del Vangelo è tale in quanto tende a comunicarsi.
Ci sono espressioni che non penso si trovino facilmente nei documenti pontifici precedenti, quando dice: “un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale”.
Parlando della nuova evangelizzazione, Francesco conferma quanto i missionari di tutti i secoli hanno creduto e vissuto: “Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo”, e poi ci fa capire che la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione.
Francesco vede la famiglia come gioia dell’amore (Amoris Laetitia).
Tutta la spiritualità cristiana, la nostra vocazione alla santità è riassunta nel mirabile testo di Gaudete et Exsultate (Gioite ed esultate). Ispirano gioia anche i titoli come Laudato sii, Fratelli tutti e Querida Amazonia.
Persino il documento sulla formazione del clero e l’ordinamento delle università pontificie in tutto il mondo è sotto il titolo di Veritatis Gaudium.
Chiesa in uscita e misericordiosa
Papa Francesco torna molte volte sul tema della Chiesa in uscita.
I titoli delle opere dei Padri della Chiesa da S. Ireneo (II e III secolo) in poi sono Adversus Haereses, Contra Gentiles, … quanti adversus e contra!
Papa Francesco non vuole una Chiesa arroccata a difendersi, ma una Chiesa in uscita che vada verso tutti. È una rottura decisiva col passato e un modo nuovo di essere Chiesa.
La Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia 2015-2016 ha per titolo Misericordiae Vultus e la Lettera Apostolica che lo conclude Misericordia et Misera.
La Chiesa in uscita è decisamente una Chiesa misericordiosa. È un mantra che torna in tante omelie e discorsi di papa Francesco.
Non è la Chiesa del Sant’Uffizio che condanna gli errori, ma una Chiesa che sa accogliere e perdonare perché Dio stesso è misericordia.
I “nemici” di Papa Francesco
La proposta di una Chiesa in uscita e una Chiesa ricca di misericordia ha creato tanti nemici a Papa Francesco. Ci sono ancora tantissimi cattolici e anche alcuni cardinali e vescovi che si sentono più sicuri in una chiesa arroccata nel suo castello di dogmi e divieti, che non vedono bene la misericordia e la Chiesa in uscita. Vorrebbero ancora tanti adversus e contra come nel passato.
Qui bisogna chiarire che mai papa Francesco ha cambiato nome o significato al peccato. Il peccato è peccato e basta, e ogni peccato, soprattutto i peccati capitali, ognuno con il suo nome sono stati spesso oggetto delle sue catechesi. Ha sempre messo in guardia i cristiani dai peccati, ma non può fare a meno di chiederci di essere misericordiosi come è misericordioso il Padre che è nei Cieli (Lc 6,36).
La Chiesa in uscita ha portato Francesco a scrivere un’enciclica sul creato e una sulla fratellanza universale, tutte e due col titolo in italiano nel devoto rispetto alle parole originali di S. Francesco.
Alcuni hanno visto nella Laudato sii un papa che dimentica lo spirito per interessarsi delle cose di questa terra. È una lamentela antica contro tutta la dottrina sociale della Chiesa, guidata da motivazioni politiche più che religiose o cristiane.
La Fratelli Tutti ha fatto gioire tanti e ha creato nuovi nemici per il papa.
La Chiesa si mette sullo stesso piano di altre religioni per dialogare onestamente. Ma non esiste dialogo se non ci si mette allo stesso piano, altrimenti sarebbe un parlare dal pulpito. Il dialogo è fatto anche di ascolto ed apprezzamento dell’altro.
L’accusa generica a Papa Francesco è che si interessa più delle cose di questa terra che non le cose del cielo.
Ma questi neo-farisei hanno mai letto il Vangelo? Che idea hanno delle parole di Gesù? Gesù era interessato al bene materiale delle persone come al bene spirituale.
Di fatto c’è una novità intrinseca.
Sarebbe limitativo ridurre la Laudato sii a un’enciclica sull’ambiente. Senza l’ultimo capitolo non potremmo capire perché un Papa ha scritto un’Enciclica sull’ambiente.
La “spiritualità ecologica” invita a uno stile di vita diverso. I monaci di tutti i tempi hanno suggerito una vita ascetica che comporta rinunce, ma la spiritualità ecologica ci fa capire che tutti gli esseri umani hanno diritto a vivere.
Chi vive nell’abbondanza e nello spreco deve per amore rinunciare a tante cose inutili perché la vita sulla faccia della terra continui. Non abbiamo il diritto a distruggere le risorse che sono per tutti gli esseri umani presenti e futuri.
Fratelli Tutti ha un approccio simile. Si guarda all’umanità intera e alla fratellanza universale. Siamo tutti figli di Dio e basta.
La spiritualità di Papa Francesco
La Gaudete et Exsultate, tra le esortazioni apostoliche di Papa Francesco, è forse la più elaborata.
Ci propone una spiritualità evangelica, basata sulle beatitudini e si sofferma sul discernimento. Qui vediamo come il Papa gesuita, che conosce a fondo il cuore degli uomini, ci invita ad entrare in noi stessi prima di fare le nostre scelte, senza presumere di poter far tutto noi, ma affidandoci alla Grazia di Dio con cuore aperto.
Il linguaggio è talmente semplice e discorsivo che uno non lo immagina come un documento papale. Ma leggendolo io sento il Papa come mio direttore spirituale. Personalmente attribuisco grande valore a questo documento.
Un Papa gesuita, che ha scelto il nome di Francesco, è una sintesi perfetta della storia della spiritualità cattolica.
Grazie Francesco! Ci hai portato una nuova primavera nella Chiesa.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Qual è il testo scritto da papa Francesco che vi piace di più?
• Lo avete letto per intero? Vi avete fatto delle annotazioni? Ci siete ritornati sopra?
• Cosa leggete per la vostra formazione spirituale?
• Che posto occupa il Nuovo Testamento nelle vostre letture?
7-LA VOLUTA SEMPLICITÀ DI PAPA FRANCESCO
di Massimo Borghesi*
Con il conclave del 2013 alla dolcezza mite di Ratzinger subentrava la dolcezza impetuosa di Francesco, il suo parlare semplice, il modo diretto di esprimersi e di andare al cuore della gente.
L'incontro tra il pontificato è la realtà popolare non ha, tuttavia, suscitato ovunque applausi e riconoscimenti. Lo si ritiene lontano dalla cultura, ed in particolare da quella europea.
Invece, al contrario di ciò che comunemente si pensa, più si leggono le sue encicliche, i suoi discorsi o le sue omelie è più si ha l'impressione che Francesco conosca il mondo degli intellettuali e che abbia convinzioni solide sul ruolo della cultura nella società contemporanea.
Opportunamente è stato scritto che quando si intende descrivere Bergoglio come una sorta di don Camillo sudamericano, si compie un'opera involontariamente mistificatoria. Non è un curato di campagna come il personaggio di Giovanni Guareschi, ma un prete urbano, anzi di una mega-city.
E il suo ingaggio semplice deriva da una profondissima conoscenza del territorio e dei suoi abitanti e da una lunga elaborazione anche lessicale, “sul campo”, della sua identità di sacerdote. Il linguaggio di Bergoglio è “semplice” perché vuole essere semplice.
È la semplicità come risultato di riflessione, semplicità evangelica e non limite di espressione.
Dietro vi è un processo di pensiero, ricco e originale, che deriva dalla scuola dei gesuiti, la quale si nutre non solo dei maestri argentini ma, soprattutto, di quelli europei.
Se il lungo pontificato Wojtyla-Ratzinger si è caratterizzato per il magistero della Chiesa sulle questioni morali e sociali, per una decisa enfasi antropologica legata all'idea di “legge di natura”, papa Bergoglio sembra essere animato da una visione più storico-culturale e da una visione più spirituale che teologica del ministero del pontificato romano.
Ciò non fa di Bergoglio un progressista o un liberal ma un “cattolico sociale”, con una visione ambivalente e complessa della modernità.
Questo è il cattolicesimo sociale, in auge negli anni post conciliari e poi dimenticato nell'era della globalizzazione, che urta un certo mondo cattolico impegnato nei valori della vita, non altrettanto in quelli sociali.
In realtà, la critica del papa a una società che esclude, toglie il lavoro, crea nuove divisioni è orientata alla riconciliazione; non una riconciliazione ottimistica, ingenuamente progressista, ma, al contrario, piena di tensione.
Bergoglio propone una sintesi degli opposti che lacerano la realtà storica. La sua non è una sintesi equidistante, ma un tentativo complesso di suggerire un’unità affidata al Mistero che agisce nella Storia.
* Jorge Mario Bergoglio, Una biografia intellettuale. Jaca book, Milano 2017
Sintesi della Redazione
8-IL TEMPO È SUPERIORE ALLO SPAZIO
Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. EG 223
Non è più pensabile, per i membri della comunità cristiana, una fede senza consapevolezza né capacità di rendere ragione della propria speranza (cfr 1Pt 3,15)
di Marko Rupnik*
Il tempo è superiore allo spazio è uno dei quattro principi enunciati da papa Francesco nella Evangelii gaudium (EG 222-225) per tratteggiare l’azione evangelizzatrice della Chiesa. Cosa si intende con questo principio?
«Occupare» o «disertare» gli spazi?
Il modello dell’«occupazione degli spazi» ha accompagnato il cammino quasi bi-millenario della Chiesa, a partire dall’epoca costantiniana (e poi medievale) dello Stato cristiano, per approdare poi, debitamente aggiornato, alla stagione tridentina.
Da Trento in poi, grazie alla posizione di privilegio che ha potuto godere grazie alle monarchie assolute, la Chiesa è riuscita ad egemonizzare molti spazi sociali.
Quando la secolarizzazione atea o agnostica è diventata di massa, la mentalità diffusa e il costume vissuto hanno perso la linfa cristiana che li segnava (cosa sulla quale il modello tridentino aveva invece sempre dato per presupposto), e la Chiesa stessa ha cominciato ad essere guardata dalla gente comune con placida indifferenza, se non con fastidio e avversione.
Di fronte a ciò alcuni cattolici sono tentati di riproporre il modello di Trento, scaricando sul Vaticano II la colpa di tutto quello che non funziona.
È in questo contesto che si inserisce l’invito di papa Francesco ad abbandonare la strategia di «occupazione degli spazi» per ricercare un’altra modalità di presenza della Chiesa nelle dinamiche complesse della post-modernità iper-secolarizzata. Con l’avvertenza che dis-occupare gli spazi non equivale affatto ad abbandonare gli spazi, abdicare dal confronto sociale, civile e politico con il mondo moderno.
Ma cosa significa «avviare processi»?
«Avviare processi»
In termini generali, «avviare processi» richiama l’attitudine pastorale della Chiesa a «discernere, accompagnare e integrare» (cfr. Francesco, Amoris laetitia, cap. VIII) i cammini, spesso accidentati, dell’uomo contemporaneo.
Ma forse è possibile dire qualcosa di più, circa questi «processi da avviare», partendo dalla configurazione attuale e concreta delle nostre comunità cristiane.
La comunità cristiana è in primo luogo formata da tutti coloro che partecipano assiduamente all’eucaristia, che affiancano il parroco nelle varie attività parrocchiali, e che potremmo assimilare ad una «comunità apostolica».
A questa possiamo affiancare i fedeli praticanti, circa il 10-20% della popolazione, e i cosiddetti «cristiani della soglia», coloro che solo sporadicamente entrano in contatto con la comunità cristiana (per es. per l’iniziazione cristiana di un figlio; per la scelta di sposarsi in chiesa; per il funerale di un genitore) e che rappresentano il 70-80% della popolazione.
Poi vi sono tutti gli altri, che possiamo definire come cittadini della polis, indifferenti nei confronti del tema religioso.
Per ciascuna di queste quattro categorie è possibile individuare, per lo meno in abbozzo, alcuni «processi da avviare».
La comunità apostolica
Il primo, importantissimo «processo da avviare» nella «comunità apostolica» riguarda i preti e i laici che sono chiamati a camminare insieme: sia nella formazione (in particolare i cammini formativi degli operatori pastorali), sia nella corresponsabilità della comunità cristiana (consigli pastorali e altri organismi di partecipazione), sia anche nella condivisione dei rispettivi carismi e ministeri.
Questo camminare insieme comporta per i laici una nuova responsabilità: quella di custodire l'autenticità della fede. Tale custodia si realizza anzitutto nel compito della formazione. Si tratta di un'urgenza assoluta, poiché
da una parte il livello di culturale medio si è sensibilmente elevato e, dall’altra, è venuta meno la condivisione del modello etico cristiano.
L’altro processo da avviare, che però è la cartina al tornasole dell’autenticità della comunità, è la qualità delle relazioni, la pratica della fraternità.
La fraternità viene spesso trascurata, seppellita dal fare e dalle sue incombenze, o addirittura minata dai giochi di potere, dai protagonismi, dalle gelosie. E invece è proprio quella caratteristica che manca al mondo moderno, che ha compiuto grandi passi sul terreno della «libertà», e passi importanti verso l'«uguaglianza», ma ha quasi ignorato la «fratellanza».
I fedeli praticanti
Il secondo cerchio della comunità cristiana è rappresentato dai fedeli praticanti. Non sono tanti, sono sempre di meno, eppure continuano a non essere pochi. Soprattutto non sono affatto dei credenti di «seconda serie», solo perché non hanno mansioni particolari.
Per questi fedeli occorre avviare un processo decisivo che ha il nome di discernimento culturale. Sono persone che chiedono nutrimento spirituale per la loro vita, ma questo non può esaurirsi alla sola pratica sacramentale o alla preghiera, per quanto fondamentali. Decisivo, allora, diventa per loro il confronto con la Parola di Dio, l’omelia domenicale. Per essi occorre curare il volto accogliente delle nostre comunità domenicali e investire su dinamiche di coinvolgimento.
I «cristiani della soglia»
Sono coloro che si riaffacciano almeno episodicamente alla comunità cristiana. La famosa espressione «Chiesa in uscita» non allude affatto a strampalati esodi verso non meglio precisate periferie geografiche, ma piuttosto alla capacità della Chiesa di avviare processi di recupero, cammini di ritorno, rinascite esistenziali. Si tratta di un'attitudine spiccatamente misericordiosa e materna, dove la forza della dottrina insegnata sa farsi non solo «faro» – per illuminare i grandi orizzonti dell'esperienza umana – ma anche più modesta «fiaccola.» – per discernere e accompagnare i primi, piccoli e progressivi passi che è possibile compiere.
I cittadini della polis
È soprattutto nei confronti dei cittadini della Polis – i nuovi pagani della città secolare e «post-cristiana» – che si manifesta l'urgenza, per la comunità «piccolo segno di Cristo», di «avviare processi».
Il senso dell’affermazione di Evangelii gaudium, secondo cui «il tempo è superiore allo spazio», è molto evidente proprio nei riguardi della dimensione politica, cioè del governo del bene comune mediante la promulgazione delle leggi e del funzionamento delle istituzioni. Il fatto che la comunità cristiana non sia più in grado di incidere sulla vita politica come un tempo, non significa che debba ritrarsi dalla sfera politica, magari per rifugiarsi nei territori più congeniali del sociale e del caritativo. Il contrario dell'«occupazione degli spazi» non è l'«assenza» dalla Polis, ma la «presenza» come interlocutori e come «segno».
Un primo segno è quello di essere testimoni di una fratellanza senza confini – che deve essere capace di vivere al suo interno – e dell'amicizia civile, un’amicizia che preservi la società politica dallo sprofondare nel calderone del tutti contro tutti.
Un secondo segno è la sfida della carità, che le comunità cristiane sono chiamate oggi non solo a vivere ma anche a ripensare.
Se nel passato la Chiesa era la realtà che si faceva più carico dei bisogni primari dell'uomo e delle sue fragilità più acute, ora molti di questi bisogni sono in carico allo Stato laico.
Oggi il compito della comunità cristiana è quello di agire d'anticipo, profeticamente, rispetto alle strutture spesso lente e macchinose della burocrazia statale.
Oggi non servono grandi opere ma «opere-segno», magari piccole e inadeguate a soddisfare tutti i bisogni, ma comunque in grado di essere al tempo stesso una testimonianza e uno stimolo per l'intera società civile. Le micro accoglienze dei migranti nel tessuto delle parrocchie vanno, ad esempio, in questa direzione.
* Conferenza del 3 settembre 2019 all’assemblea dei preti della diocesi di Como.
Fonte: diocesi di Como
Sintesi e adattamento della Redazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanto riusciamo a praticare in parrocchia la fraternità?
• Quali sono gli ostacoli che incontriamo?
• In quale modo abbiamo provato a coniugare l’invito ad un “Chiesa in uscita”?
• Quali opere “profetiche” si potrebbero avviare per essere “segno”?
9-IL TEMPO E LO SPAZIO
Generare processi nelle relazioni coniugali e familiari
Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. EG 223
di Franco Rosada
L’esortazione EG non ha come riferimento specifico la coppia e la famiglia quanto invece la Chiesa e la società.
Ma la famiglia è “piccola chiesa” e, tra le molte riflessioni che riguardano la Chiesa, qualcuna è adattabile anche alla coppia.
Prendendo spunto da un’ampia riflessione su alcuni punti dell’esortazione trovata nel sito della diocesi di Fermo (1), l’ho rielaborata in funzione della relazione coniugale.
Generare processi
Parlando della superiorità del tempo sullo spazio, papa Francesco ci invita a “iniziare processi più che di possedere spazi”.
La casa dove abitiamo può essere piccola o grande ma c’è sempre qualcuno in famiglia che occupa più spazi di altri. È qualcosa che le mogli sottolineano nei confronti dei mariti quando questi sono a casa, le madri nei confronti degli adolescenti, le cui tracce sono presenti ovunque.
Ma non si tratta solo di spazi fisici, gli spazi che “si occupano” possono anche essere mentali, riguardare l’ambito delle decisioni, delle scelte.
La parola “processi” ci può aiutare a diventare meno “ingombranti”.
Il “pro”
La prima parte di questa parola è costituita dal prefisso “pro”, che significa “a favore di”. I processi che dobbiamo avviare sono quindi volti al futuro. Questo non significa ignorare il passato o sottovalutare il presente ma conferire un primato al futuro.
Il passato è fondamentale, è da lì che nasce la nostra storia, personale, di coppia e di famiglia; senza aver attraversato la vita in un certo modo, senza aver fatto certe esperienze, certi incontri, non saremmo ciò che siamo ora.
Ma questo non ci deve bloccare nella nostalgia (come era bello quando eravamo giovani e innamorati!) o nel risentimento (perché ho sposato proprio te? Perché non abbiamo figli? Perché ho abortito?).
Solo guardando al futuro possiamo assumere con coraggio e speranza anche un presente difficile, perché “finché c’è possibilità di futuro c’è speranza”.
Eppure ogni tentativo di prevedere o pianificare il nostro futuro conosce un inevitabile scacco. Ci ameremo ancora tra 10, 20, 30 anni? Saremo ancora vivi? Avremo ancora un reddito dignitoso?
Viviamo in un’epoca che appiattisce tutto sul presente, non abbiamo più adolescenti o giovani che desiderano diventare adulti per una maggiore autonomia e possibilità di autodeterminarsi, ma adulti che desiderano rimanere adolescenti e giovani perché invidiano le forze, le capacità e le immense possibilità di scelta di questi ultimi.
Per superare questa empasse ci può aiutare un significato particolare della parola “presente”: quello di dono. Infatti, il presente non è solo un tempo misurabile o cronometrabile, ma è un dono che ci fa Dio, è un dono che mi fanno le persone da cui sono amato, pensato, cercato.
Il dono crea un legame, la necessità di ricambiare. Questo impegno va al di là dell’attimo presente e mi apre al futuro.
Dire a qualcuno “ti amo” significa dire: “tu non morirai”, voglio il tuo bene adesso e continuerò a volerlo sempre, ora vivo con te una relazione ma voglio viverla per sempre, ti amo come sei adesso e continuo a concederti infinite possibilità per essere continuamente una persona nuova.
Dire a qualcuno “ti amo” vuol dire aprirsi alla fecondità, ad impegnarci verso le nuove generazioni per dare loro la possibilità di una vita bella.
Allora, il prefisso “pro”, oltre ad indicare una direzione, indica un orientamento relazionale, il vivere a vantaggio di altri.
Generare processi chiede a tutti noi una conversione personale nel nostro modo di vivere il tempo, perché esso diventi un dono che ci facciamo e per poter camminare con coraggio verso il futuro, “lasciando che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù Risorto”.
Cedere
La parola processo fa riferimento anche al verbo cedere, che in latino genericamente significa camminare, ma che ha in sé anche il significato di cedere, concedere, riuscire.
Così, se da una parte siamo chiamati a camminare verso il futuro, dall’altra siamo chiamati, in questo cammino, a concedere fiducia a noi stessi, all’altro, agli altri, a cedere all’amore.
Allora, la domanda che ci dobbiamo fare non è “che cosa cambiare?” o “in che cosa cambiare?”, ma sempre e ogni giorno “per chi cambiare?”.
Per fare ciò, come cristiani, dobbiamo ascoltare la Parola di Dio, affidarci ad essa, e vivere in un autentico ascolto dell’altro, da cui inizia il nostro vero servizio a lui, per partire dalle sue esigenze e dalla sua chiamata al bene e alla felicità.
Un cedimento autentico avviene quando l’io cede di fronte al Tu/tu per concedersi a lui e generare così un noi. Siamo chiamati a cedere allo Spirito che ci annuncerà le cose future e ci guiderà alla verità tutta intera.
Genera processi colui che cede per concedere tempo e spazio agli altri, colui che fa crescere nella comunione e nella condivisione.
Genera processi colui che aiuta gli altri a camminare verso un futuro che lui non potrà vedere, ma che conta per loro: i figli, i nipoti, coloro che si amano.
Generare
Come coppia abbiamo ben presente il valore della parola generare, il valore di generare vita.
Sappiamo che questo generare è fatto anche di carne. C’è una bella differenza tra il desiderare un bambino e tra metterlo al mondo, tra il mondo delle idee e la realtà.
Generare è affermare che “la realtà è superiore all’idea” (EG 233).
Questa realtà, che significa cambiamento, può fare paura. Così ci illudiamo che basti conoscere per cambiare, basti studiare per rinnovarsi (gnosticismo). Oppure che basti volerlo per cambiare, perché volere è potere (pelagianesimo). La volontà conta molto ma perché i cambiamenti siano benefici occorre che siano condivisi.
Sono generativo quando davvero incontro l’altro, quando l’altro non è solo una fisionomia, ma un volto. La fisionomia mi permette di distinguere una persona dall’altra, il volto mi rivela la realtà profonda della persona.
Solo se guardo il volto dell’altro con amore, ne posso cogliere lo splendore. Ammettiamolo: è quello che ci ha fatto innamorare.
Ma generare vita è un processo continuo. Così, se il volto dell’altro ci pare non risplendere più, dobbiamo interrogarci su che “immagine” abbiamo di quel volto. Se è simile a quella che ricaviamo quando scattiamo un’istantanea - un’immagine fissa, bloccata nel tempo - il rischio che corriamo è quello di non riconoscere più l’altro perché è lui cambiato ma noi siamo rimasti legati alla sua foto.
Generare è volgersi continuamente al quel volto, rinnovare ogni giorno la sua immagine per coglierne quella particolare luce che continua ad affascinarci pur nei comprensibili cambiamenti.
Questo vale per nostro marito/nostra moglie, vale per i nostri figli, per coloro che sono nel nostro cuore.
Generare processi è riguardare continuamente al cammino fatto, ai volti delle persone che amiamo, è prendersi cura di loro per modulare il nostro cammino sulla loro vita e per il loro bene.
1 Vedi: diocesi di Fermo
Per il lavoro di coppia
• Quando è stata l’ultima volta che ho guardato negli occhi l’altro/a e gli ho detto “ti amo”?
• Siamo ancora capaci di fare progetti in comune?
• In che modo ci aiutiamo insieme ad amare gli altri, l’Altro?
10-L’UNITÀ PREVALE SUL CONFLITTO
Come facciamo a testimoniare la fratellanza se tra noi siamo divisi?
Attraversare i conflitti significa riconoscere che la comunione ha bisogno di un lungo processo di incarnazione dentro i tradimenti, le rivalità e le differenze.
Enrico Parolari
a cura della Redazione
Il secondo principio enunciato da papa Francesco nella Evangelii gaudium (EG 226-230) è la necessità che l’unità prevalga sui conflitti.
L’inevitabilità del conflitto
Uno degli aspetti che caratterizzano ogni convivenza sociale, religiosa, familiare “è l’incontro e lo scontro fra vedute e progetti differenti, fonte pertanto di ‘conflitti’ fra le persone e le loro vedute”, scrive Gabriele Ferrari (1).
“Che i conflitti siano quasi inevitabili è un dato di fatto da tutti verificabile.
Davanti ai possibili conflitti, il papa offre un criterio di comportamento e afferma anzitutto che «il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato» (EG 226) e affrontato per trovare una soluzione, e non rimanere intrappolati. Bisogna reagire per non perdere il bene dell’unità e della comunione”.
Il modo più efficace affrontare il conflitto, secondo papa Francesco, è quello «di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227).
“La maniera più adeguata per affrontare il conflitto”, spiega Ferrari, “è guardarlo in faccia, accettarlo e cercare insieme, solidalmente, la via della soluzione per ritrovare – al di là delle posizioni divergenti – una comunione che subito non appare (altrimenti non ci sarebbe il conflitto!) ma che si ritroverà magari a poco a poco e che sarà costituita come ‘unità delle differenze riconciliate’”.
Tipologia dei conflitti
Riconosciuta l’inevitabilità del conflitto possiamo tentare di riconoscere, condividere ed elencare quali sono i diversi tipi di conflitto presenti tanto nelle nostre parrocchie quanto, anche se in misura diversa, nelle nostre famiglie.
Per far ciò ci lasciamo guidare dalle riflessioni del professor don Enrico Parolari (2) psicoterapeuta del Seminario arcivescovile di Milano.
Il tipo di conflitto più frequente sono senz’altro quelli relazionali: rivalità per differenti motivi, fatica ad apprezzare e stimare gli altri, invidia verso chi sembra avere qualità, capacità e possibilità migliori, gelosie rispetto alle relazioni significative di altre persone o spesso rispetto alla maggiore vicinanza e amicizia verso a chi ha responsabilità nelle comunità.
Poi ci sono i conflitti di potere. È un conflitto verso e tra i responsabili e i collaboratori delle comunità parrocchiali. Sono conflitti che fanno riferimento ai compiti, ai ruoli, a chi decide che cosa. La stessa cosa può capitare quando in parrocchia un gruppo più forte prevale o tende a imporre il suo stile. Questo ci dice anche che manca ancora una vera corresponsabilità e che le nostre comunità parrocchiali sono troppo incentrate esclusivamente sul prete, non solo nella mentalità dei fedeli, ma anche nel modo concreto di organizzarsi e, addirittura, nel funzionamento istituzionale.
Anche se sovente non emergono e rimangono sotto traccia, vi sono anche conflitti sulle convinzioni di fondo o sui valori. Non è facile metterli in luce ma questi conflitti indeboliscono fortemente la comunità cristiana. Quando si palesano, infatti, creano divisioni e ferite molto profonde.
Infine ci sono conflitti che non emergono, semplicemente perché non hanno voce.
Molte persone se ne sono andate e molte rimangono ai margini delle nostre comunità proprio perché non vengono legittimate, ascoltate e coinvolte.
Una mentalità nuova
Il conflitto non è solo una situazione di scontro, ma è anche una trappola. Se una delle due parti individua una risposta e una soluzione, sovente taglia la strada ad una qualsiasi risoluzione condivisa e costruttiva del conflitto.
Si tratta, allora, di assumere e condividere una mentalità nuova di fronte al conflitto.
Per prima cosa, non bisogna lasciarsi ingannare dal mito dell’armonia della comunità.
L’andare tutti d’accordo tradisce un bisogno di controllo e di dominio e predispone anche ad una facile disillusione e pessimismo.
Bisogna poi ammettere che la nostra percezione del conflitto è sempre parziale, e non è necessariamente buona o cattiva. Per superare questo limite naturale è necessario e provvidenziale integrarla con altri punti di vista emersi nel conflitto.
Non illudiamoci di aver ragione. Se c’è un conflitto è perché ci sono almeno due parti contrapposte e quindi smettiamo di pensare che l’altro ha tutti i torti e noi tutte le ragioni. Così non dobbiamo presumere a priori che l’altro sia in malafede.
Ma non basta. Affrontare un conflitto ha un prezzo. Bisogna far fatica, sopportare, rinunciare a mettersi al centro per affrontare veramente un conflitto. Non è scontato riuscire a far prevalere il bene comune di una comunità cristiana; una comunità in cui spesso si dimenticano, squalificano o cancellano soggetti singoli o gruppi con le relative esigenze perché sono fastidiosi, differenti e problematici.
Infine, una mentalità nuova esige di cambiare la cornice del conflitto.
Alcune domande, come “Quali sono i bisogni e le esigenze reali delle persone? Come vengono vissute le situazioni?” possono permettere di cambiar la prospettiva con cui si affronta il conflitto per trovare una soluzione veramente condivisa.
Imparare a discutere
La prima condizione per una buona discussione è un ascolto aperto e flessibile, la disponibilità di rivedere umilmente di propri schemi. La seconda condizione, diversamente da come verrebbe spontaneo, è quella di una comunicazione aperta e sincera, esprimendosi in modo chiaro, breve e diretto. Una comunicazione “indifesa” non “in difesa”. La terza condizione è quella di individuare gli elementi reali del conflitto, superando la tentazione dell’allusività e dell’insinuazione del sospetto, non facendo di tutta l’erba un fascio. La quarta condizione è la libertà di considerare il punto di vista altrui, esaminando le proposte di soluzione degli altri e valutare possibili compromessi, tenendo lo sguardo su tutto senza difendere o dimostrare le proprie ragioni.
Certamente i conflitti ci mettono alla prova anche al di là delle nostre forze, ma solo se si accetta di sopportare il conflitto, si entra nella possibilità di elaboralo e di trovare in esso quelle aperture che lo Spirito Santo prepara. Proprio nel conflitto accettato si trova la via autentica per una “conversione pastorale” di un gruppo, di una comunità cristiana, di una istituzione ecclesiale. Non ci resta che entrare in gioco con un vero esercizio di comunione nel presbiterio e con i laici che collaborano all’azione pastorale.
1 Fonte: Settimana News
2 Fonte:diocesi di S.Benedetto del Tronto
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come risolviamo i conflitti che nascono nella nostra famiglia, tra marito e moglie, tra genitori e figli?
• Come vengono risolti i conflitti che nascono nella nostra comunità parrocchiale?
• Quali conflitti sotto traccia sono presenti nella nostra comunità parrocchiale?
11-COME ELABORARE UN CONFLITTO
1. Darsi un tempo sufficiente e un moderatore autorevole.
2. Decidere l’obiettivo: che cosa si vuole realisticamente raggiungere?
3. Descrizione del conflitto da parte di tutte le persone coinvolte.
4. Modalità con cui si è affrontato finora il conflitto.
5. Cosa disturba circa il modo di affrontare/vivere il conflitto finora adottato?
6. Quale proposta di risoluzione del conflitto presentano le diverse parti?
7. Quale contributo ciascuno può dare alla risoluzione proposta?
8. Quale il prossimo passo fattibile?
9. Che cosa rimane ancora aperto? Cosa ancora attende di essere chiarito, affrontato, verificato?
10. Quando? Dove? Con chi?
12-I VERBI PER MANEGGIARE CON CURA UN CONFLITTO
* Legittimare *
1. Far conoscere, accogliere e coinvolgere i differenti soggetti personali ed ecclesiali.
2. Far nascere l’interesse e le condizioni di un confronto aperto su esigenze.
* Attrezzare *
1.Dare spazio e tempo all’ascolto e al confronto con metodo anche nei luoghi istituzionali.
2. Utilità e, a volte, necessità di un “terzo” come facilitatore o supervisore.
* Distinguere *
1. Riconoscere che cosa è successo distinguendo ogni elemento della situazione che si è creata.
2. Riconoscere e distinguere la parte di ciascuno nel conflitto con le relative motivazioni ed emozioni.
* Attraversare *
1. Accettare il rischio di mettersi in gioco nella situazione concreta di confronto.
2. Accettare di non manipolare e/o predeterminare i risultati e gli esiti.
* Generare *
1. Accogliere le differenze.
2. Aprirsi a esiti diversi cambiando la cornice.
13-LA REALTÀ È PIÙ IMPORTANTE DELL’IDEA
La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. EG231
È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Papa Francesco
a cura della Redazione
La realtà è più importante dell’idea è forse il più noto tra i quattro princìpi enunciati da papa Francesco nella Evangelii gaudium. Proprio per questo è stato commentato in diversi modi.
Il principio di realtà
“In ogni comunità ci sono i pragmatici e gli idealisti, quelle persone che guardano solo alla realtà e ai dati di fatto concreti e altre che vivono nelle… nuvole, che hanno sempre delle idee nuove”, scrive Gabriele Ferrari (1). “In altre parole, ci sono quelli che hanno, come si dice, i piedi per terra e quelli che vivono nelle loro idee e hanno sempre qualche cosa di nuovo da proporre”.
Papa Francesco, a questo proposito ha affermato che “sognare va bene, ma per andare avanti serve il confronto con la realtà” (2) perché la realtà è, cioè esiste, mentre l’idea è frutto di elaborazione mentale e rischia di generare falsi ragionamenti, distaccandosi dalla realtà fino al punto di voler imporsi su di questa.
La polarità tra realtà e idea
Ferrari prosegue: “Il papa parte dall’esperienza della vita sociale e comunitaria, ma anche nella vita personale e familiare, dove si presentano situazioni e/o posizioni teoriche e pratiche opposte tra loro, dette anche polarità, dove sembra che, scegliendone una, si debba necessariamente escludere l’altra. Per es. missione o sacramentalizzazione? Intervento immediato o paziente attesa? Cura dei dettagli o attenzione allargata?” E ancora: figli o coniuge? Genitori o marito/moglie? Lavoro o famiglia?
“Chi accetta uno dei due poli, perde inevitabilmente l’altro. Francesco opta non per un aut/aut, ma per l’et/et, tenendo presente che i due poli normalmente si richiamano e ciascuno porta in sé un suo valore, per quanto limitato".
“Servono idealità e pensieri alti, ma costruiti a partire dalle esigenze della storia”, scrive Matteo Truffelli (3). Ci sono dei principi immutabili che regolano la convivenza umana ma, in ogni determinato momento storico, va individuato come quegli stessi principi “debbono trovare applicazione fra gli uomini di quell’epoca”.
Il mondo digitale
Un esempio di quanto a volte l’idea sia lontana dalla realtà lo possiamo riscontrare nel mondo di Internet”, scrive Giulio Meazzini (4).
“L’impatto di questo ‘paese dei balocchi virtuale’ è stato talmente improvviso, imprevisto, pervasivo, scintillante, nuovissimo, che non c’è stato tempo di valutarne i pro e i contro. Siamo tutti immersi in un mondo facile (il cervello non fatica a trascorrere ore davanti a immagini multimediali rapidamente mutevoli), fantastico (i nostri sogni a portata di mano), attraente (per la felicità basta lasciarsi andare), alternativo (si evade dal ‘duro’ contatto quotidiano della realtà).
Ma questo mondo creato a tavolino non basta a sé stesso, non si regge da solo per lungo tempo, non ha consistenza, non riempie la vita: prima o poi, se non si vuol cadere in patologie gravi, bisogna tornare al reale, ai rapporti faccia a faccia, guardandosi negli occhi, correndo, lavorando, soprattutto amando, con le mani, i muscoli, la condivisione concreta”.
L’informazione
Se Meazzini constata come sui media ci siano troppe parole, troppa informazione, in cui corriamo il rischio di perderci, corriamo anche il rischio di venire male informati, di ricavare un’idea distorta della realtà.
Papa Francesco ogni anno divulga un suo messaggio in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.
Quest’anno ha scritto (5): “La crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, senza mai uscire per strada, senza più ‘consumare le suole delle scarpe’, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”, disincarnata dal reale.
Ma la realtà non solo può essere ignorata ma può anche essere distorta, alterata “mettendo insieme informazioni non verificate, ripetendo discorsi banali e falsamente persuasivi, colpendo con proclami di odio” (6) (2020).
E nel 2018 ha affrontato il tema delle fake news (7). La loro efficacia “è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione”.
Occorre saper individuare quando dietro una “notizia” non ci sia tanto la realtà ma un’idea, un’ideologia che modifica la realtà in funzione dei propri interessi.
Impariamo da Gesù che “parlava di Dio non con discorsi astratti, ma con le parabole tratte dalla vita di tutti i giorni”, reali, concrete (2020).
La società tecnologica
“L’affermazione che ‘la realtà è più importante dell’idea’”, afferma Marco Cangiotti (8), è facile da comprendere perché tutti capiamo “che un pezzo di pane sfama di più dell’idea di una cena sontuosa”.
Ma oggi siamo così “ubriachi” di tecnologia, affascinati dal suo sviluppo irrinunciabile e meraviglioso, che non siamo più consapevoli di questa verità.
L’uomo è sempre stato un grande realizzatore. Molto di ciò che ci circonda è “artificiale”, frutto della manipolazione dell’uomo sulla natura, sia minerale, sia vegetale, sia animale. Abbiamo dominato la realtà che ci circonda per “piegarla” ai nostri progetti, trasformandola in “cosa”.
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi due secoli ha permesso una forte accelerazione di questo processo di “cosificazione”.
Oggi l’uomo “fa della tecnica la via per realizzare la sua felicità, per affermare sé stesso in una logica di autosufficienza e di libertà senza responsabilità, negando il principio fondamentale che la realtà sia superiore all’idea” continua Cangiotti.
Così, “vengono assolutizzati in modo narcisistico alcuni principi che divengono punto di riferimento per l’agire dell’uomo: il benessere materiale ereditato dalle generazioni passate è acquisito in modo definitivo e non può essere messo in discussione; il progresso tecnologico è aperto ad uno sviluppo indefinito senza porsi il problema della sostenibilità… tutto a scapito della libertà di qualcuno, dei diritti di qualcuno e, in definitiva, della giustizia”.
Ma c’è di più: “Chi minaccia tale presupposti, considerati essenziali per realizzare la felicità, viene considerato un nemico… e questo è il tempo dei tanti nemici: le banche, la casta, i burocrati d’Europa, gli immigrati… tutte entità o persone che mettono in discussione i principi di riferimento narcisistico e che impediscono il raggiungimento del perfezionamento dell’elaborazione ideale che, altrimenti, avrebbe tutte le possibilità per essere realizzato portando alla felicità desiderata”.
Ecco perché è importante, conclude Cangiotti, operare per confutare questa visione “attraverso la via della testimonianza che, per definizione, è radicata nella realtà e conduce al confronto con la realtà nella sua concretezza; assumere la testimonianza, più che l’idea, come regola per una vita buona”.
1 Fonte: Settimana News
2 Radiomessaggio a Scholas occurrentes, 12/5/2018
3 Fonte Azione Cattolica
4 Fonte: Citta Nuova
5 Fonte: Agenzia stampa Vaticana
6 Fonte: Agenzia stampa Vaticana
7 Fonte: Agenzia stampa Vaticana
8 Fonte: Blog di Andrea Turchini
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Siamo realisti o idealisti? Come conciliamo queste due polarità?
• Siamo consapevoli di quante notizie siano false, frutto di ideologie?
• Ci devono essere dei limiti allo sviluppo tecnologico? Quali?
• Siamo coscienti del prezzo che altri pagano per permettere a noi di vivere nel benessere?
14-AMORE IDEALE E AMORE REALE
L’idealità dell’amore non deve prevalere sulla realtà della vita
Di Franco Rosada
Una volta i matrimoni erano combinati. Gli sposi quasi non si conoscevano al momento del matrimonio e dovevano costruire insieme il loro amore. Poi è arrivato l’amore romantico che ha dato ampio spazio all’innamoramento.
Se non sono innamorato, non c’è possibilità di una relazione amorosa. Al di là delle possibili finzioni che caratterizzano da sempre le relazioni, questo è un imperativo valido ancora oggi.
Ma l’amore è cieco, così recita un detto popolare, quando si cade in questa trappola si è portati ad idealizzare l’altro, a vedere il lui/lei solo i lati migliori, volutamente ignorandone i difetti, anche se questi sono così palesi da essere notati da chi sta intorno all’innamorato/a.
Un amore così, di solito non ha un lieto fine. Saranno le realtà della vita, come mettere su casa, cogestire le spese, conciliare i tempi di vita, a fare aprire gli occhi.
Se ciò non accade sarà ancor peggio: la relazione si trascinerà tra delusioni, recriminazioni, e potrà arrivare fino alla violenza morale o fisica.
L’innamoramento è una buona condizione di partenza per una relazione stabile, ma deve essere affiancato dalla consapevolezza che serve ben altro per una vita a due serena e felice.
L’altro non è la mia “dolce metà”, di cui cogliamo solo i lati positivi, ma una persona con il suo carattere, le sue esigenze, i suoi difetti che bisogna imparare ad accogliere.
La dolce metà
Scrive Susanna Fontani (1): “Il desiderio della metà ‘giusta’ da ricercare per trovare la felicità, corrispondente all'idea di evitare la sofferenza nella relazione, è ora più che mai di moda nella cultura occidentale. Quante volte si sente dire: ‘Sto bene con lei/lui!’.
E quando non sarà così perché lo/la scopro diverso/a da me? Come reagirò di fronte a questa delusione? Con che cosa arginerò questo senso di fallimento che la delusione procura?
Siamo spinti a ritenere che la sofferenza nella relazione di coppia sia sintomo di rottura, non di crisi da superare con fiducia e pazienza.
Si è ingenuamente tentati di pensare che se l'amore è autentico ci si capisce al volo, non c'è bisogno di niente; i problemi, eventualmente, possono venire dall'esterno della coppia.
Invece, se qualcosa s'è seriamente ‘guastato’ nel rapporto intimo fra i due, meglio trovare il coraggio di cambiare persona, perché si ha il diritto di essere felici: ’life is now!’.
La delusione di scoprire l'altro diverso, proprio come ‘altro da noi’ conduce alla ricerca di tanti piccoli amori, che danno vita a relazioni immature ed egocentriche in cui ognuno resta isolato, al centro del proprio mondo. Spesso sono relazioni nate per eludere la solitudine, ma che fanno sprofondare in una solitudine ancora più profonda”.
L’uomo dei miei sogni
Questo è purtroppo vero a tutte le età. In un tempo come il nostro in cui molti vivono nella convinzione che esista l’eterna giovinezza, l’innesco può esser dato dalla crisi del nido vuoto. Quando i figli diventano autonomi e abbandonano la casa dei genitori, la coppia si ritrova da sola ma i tempi dell’innamoramento sono molto lontani.
Così, una coppia apparentemente solida, che a messo al mondo e allevato uno o più figli, va in crisi.
La banalità del quotidiano, sempre uguale, ripetitivo, come sempre uguale e ripetitivo appare l’altro/a, fanno desiderare la novità. In un mondo in cui tutto cambia rapidamente, perché non vivere nuove esperienze, nuove avventure, nuovi talami?
Quante sofferenza questa illusione può provocare!
1 Voglio dirti sì per sempre, Gribaudi, Milano 2009. Vedi anche: GF73
Per il lavoro di coppia
• Siamo ancora innamorati di nostro marito/nostra moglie?
• Su che cosa si fonda il nostro amore?
• Quando abbiamo imparato ad accettare l’altro/a così com’è, con i suoi pregi e difetti?
15-IL TUTTO È SUPERIORE ALLA PARTE
Il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. EG 235
A cura della Redazione
Papa Francesco, affermando che, “Il tutto è superiore alla parte” ci invita ad allargare lo sguardo per riconoscere la presenza o la possibilità di scoprire e fare un bene più grande.
Egli invita a prestare attenzione alla dimensione globale delle cose per non cadere nel “localismo”, perché «il tutto è più della parte ed è anche più della loro semplice somma» (EG 235).
Scrive Gabriele Ferrari (1): “C’è un principio della filosofia e della sociologia caro al mondo anglosassone: ‘agisci localmente, pensa globalmente’ che esprime questo quarto principio del Papa: bisogna agire là dove ci si trova, ma tenendo presente l’orizzonte più vasto.
Questo, per es., vale quando si vuol rinnovare la pastorale di una comunità parrocchiale con la costituzione delle ‘unità pastorali’: non ci si può concentrare solo sulle urgenze e le richieste locali, ma si deve considerarle in relazione all’ambiente più vasto che sta attorno e unire le forze per rispondere efficacemente alle urgenze più vaste.
Si noti che questo principio non minimizza l’importanza della ‘parte’ e non la dimentica, chiede solo che essa non rimanga chiusa in se stessa, ma tenga conto dell’altro e dell’orizzonte più vasto.
È interessante notare”, continua Ferrari, “che il Papa invita a tenere insieme i due poli che sono e devono rimanere in tensione tra loro, il globale e il locale.
Ad esempio, la Chiesa locale e la Chiesa universale, la parrocchia e la diocesi, la famiglia e la comunità civile, la persona e il suo ambiente… La valorizzazione della parte o della ‘realtà locale’ non deve far dimenticare il ‘tutto’ o scomparire nel ‘tutto’, ma deve essere posta sull’orizzonte del tutto, vista e curata in relazione al ‘tutto’”.
Come famiglie impegnate nella pastorale non dobbiamo avere come unico orizzonte la parrocchia ma siamo chiamate ad aprirci alla diocesi e ad altre esperienze ecclesiali. Questo non vuol dire ignorare la parrocchia ma, al contrario, portare al suo interno quanto imparato e sperimentato al di fuori di essa.
Come coppie credenti dobbiamo evitare di chiuderci dentro il nostro amore di coppia ma a fare spazio ad altre persone, ad altre coppie, ad avere un amore diffusivo. Dobbiamo soprattutto evitare ed insegnare ad evitare che, in nome di un indefinito “prossimo”, si dimentichi di praticare l’amore per i più prossimi.
Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. EG236.
La sfera ed il poliedro
Con l’immagine del poliedro il Papa ci richiama alla dimensione poliedrica della realtà.
“Dobbiamo riconoscere”, scrive Giacomo Costa (2), “che la nostra cultura, in modo spesso automatico e inconsapevole, ha rappresentato con l’immagine della sfera la realtà e tutti i suoi ambiti, e spesso continua a farlo. Abbiamo enfatizzato il ruolo del centro, che illumina il solido intero, ne è metro e misura, ma tutto il resto diventa inevitabilmente periferico.
L’immagine della sfera è connaturale all’idea di cristianità o cattolicità: il riferimento a Dio, fondante per i credenti, porta a mettere l’istituzione ecclesiale al centro – papa, vescovo, parroco o comunità ecclesiale: è questione di scala –, in una posizione da cui può giudicare la struttura anche sociale e politica, o a collocare al centro dell’orizzonte delle scienze la teologia”.
Papa Francesco, sottolinea Costa, ci invita a superare questa impostazione. “La logica poliedrica punta a rintracciare i legami e i nessi per articolare ciò che è disomogeneo a diversi livelli (dal più locale al più globale) e nei diversi ambiti (dal più materiale al più spirituale)”. Questo non è relativismo. Papa Francesco non “rinuncia ai princìpi, né tanto meno al riferimento teologico e cristologico, ma questi quando si applicano alle singolarità di cui la realtà si compone, ne rispettano l’originalità secondo la logica tridimensionale del poliedro. Ciascuna delle sue facce, infatti, è abitata da un legame unico e peculiare, più o meno esplicito, con il Creatore e la ricchezza del Vangelo”.
Di conseguenza, uno sguardo poliedrico non tratta tutto e tutti allo stesso modo, ma sa riconoscere dove è necessario accordare una priorità o una preferenza, senza farla diventare fonte di esclusione.
1 Fonte: Settimana News
2 Fonte: Aggiornamenti sociali
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanto la nostra comunità parrocchiale è aperta alle suggestioni che provengono da altre esperienze ecclesiali?
• Quanto noi, come coppia e famiglia, siamo aperti nei confronti degli altri, vicini e lontani?
• Che cosa ci suggeriscono le immagini della sfera e del poliedro?
16-IL TUTTO E LE PARTI
Questo principio si potrebbe coniugare in quattro modi. Il primo modo considera le parti nel tutto. In questa espressione, vengono richiamate alcune immagini tanto care ai Padri della Chiesa: la sinfonia, il coro, le corde della cetra, il sole e i suoi raggi, i grani che formano l’unico pane, gli acini che, spremuti, formano l’unico vino.
Il secondo modo vede il tutto nelle parti. Qui è indicato il classico tema del “tutto nel frammento”. Si tratta di una totalità senza uniformità, di una presenza che non annulla la distanza, di un’incarnazione che preserva la singolarità, di un’immanenza che lascia intatta la trascendenza, di un’immedesimazione che custodisce la particolarità.
Il terzo modo dinamizza il rapporto, considerando le parti per il tutto. Viene qui adombrata la dimensione escatologica. La Chiesa è il popolo di Dio pellegrinante nel tempo, in cammino verso la patria celeste. La Chiesa contiene in germe ciò che, attraverso il passaggio degli uomini e del cosmo, raggiungerà la piena e definitiva maturazione nella vita eterna.
Il quarto modo considera il movimento del tutto per le parti. In questa ultima formulazione si sottolinea il primato della Grazia, il fatto che l’iniziativa parte da Cristo. Prima Cristo, poi, sul suo esempio, la Chiesa di Cristo. Essa riconosce che è sempre preceduta dall’azione misteriosa e preveniente di Cristo.
L’abbraccio tra il tutto e le parti non soffoca e non ingloba, ma riscalda e vince ogni paura perché realizza legami di unità e di amore. Infatti, “se davvero l'amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l'unità”.
Su queste basi, può sorgere una spiritualità e un’azione pastorale valida per tutti i membri del popolo di Dio, non più attraversata da individualismo e frammentazione, da protagonismo e clericalismo. Tutti dovranno sentirsi parte del tutto.
Vito Angiuli, vescovo di Ugento
Fonte: Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali
17-Le divisioni tra cattolici
Una delle esperienze pastoralmente più dolorose è vedere le nostre comunità cristiane divise su ciò che dovrebbe rimanere unito, anzi profondamente intrecciato.
Mi colpiva, prima come parroco e ora come vescovo, registrare nel popolo di Dio – e anche in noi ministri – una sorta di frattura verticale tra chi porta avanti i valori della persona e della famiglia, e chi invece i valori della società e dell’ambiente naturale.
È proprio questo “invece” il problema. Se siamo davvero cattolici, non possiamo adottare l’aut-aut ma l’et-et. Finché la Veglia per la pace sarà di sinistra, e rigorosamente frequentata dai soli cattolici “progressisti”, e la Veglia per la vita sarà di destra, e riservata di fatto ai cattolici “tradizionalisti”, la Chiesa sarà divisa.
Finché la Giornata del creato sarà di sinistra e la Giornata della famiglia di destra, continueremo a farci del male a vicenda. Una cosa è la maggiore sensibilità per l’una o l’altra dimensione etica cristiana – sensibilità che dipende dalle storie personali e dalle sfide della storia – un’altra è l’assolutizzazione di una sola dimensione, trasformando inevitabilmente l’appartenenza cattolica in una battaglia “contro” altri cattolici.
Erio Castellucci, Benedetta povertà? Provocazioni su Chiesa e denaro, Editrice Missionaria Italiana, Verona 2020
18-LE TANTE FACCE DEL POLIEDRO-FAMIGLIA
Come accompagnare le coppie prima e dopo la celebrazione del matrimonio
di Maria Antonietta e Sandro Pintore
Per Papa Francesco la realtà della famiglia è più simile a un poliedro che a una sfera. Il poliedro ha diverse facce, non tutti suoi punti sono equidistanti dal centro. Ha anche pareti lisce e spigoli più o meno appuntiti. La sfera è tutta liscia, senza spigoli, con ogni punto equidistante dal centro.
Il poliedro famiglia
Affrontare le tematiche familiari significa più che mai avere a che fare con le tante facce di un poliedro: separati, divorziati, conviventi, unioni civili, coppie di fatto, coppie omosessuali, la debolezza della figura paterna, le violenze e gli abusi su donne e bambini, la tratta dei minori, le droghe, l’alcolismo, la ludopatia, la dipendenza da social network che impedisce il dialogo in famiglia e ruba il tempo libero alle relazioni interpersonali, le varie teorie tra cui quella del gender, la conciliazione tra famiglia e lavoro, il lavoro che non c’è, una grave malattia, la vecchiaia, la morte di una persona cara, le guerre, l’immigrazione.
Fede e famiglia
Tra le sfide più vecchie, con cui la pastorale familiare continua a confrontarsi, c’è l’incidenza della crisi di fede nella vita familiare.
Nel contesto odierno, si riscontra la grande difficoltà nel promuovere la bellezza dell’amore autentico, realmente contrassegnato dalla riscoperta delle piccole cose.
La fluidità dei rapporti, le facili compensazioni, l’immediato accesso, anche per i più giovani, al mondo della sessualità hanno il potere di compromettere, a volte anche in modo permanente, il futuro della coppia stessa.
La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un maggiore impegno e un maggiore coinvolgimento di tutta la comunità cristiana per la preparazione delle coppie al matrimonio, privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie, oltre che di un radicamento della preparazione al matrimonio nel cammino di iniziazione cristiana, sottolineando il nesso del matrimonio con il battesimo e gli altri sacramenti.
Amoris laetitia
Su questo tema, papa Francesco, invita “le comunità cristiane a riconoscere che accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli con troppi argomenti.
Interessa più la qualità che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la vita «con animo grande e liberalità». Si tratta di una sorta di ‘iniziazione’ al sacramento del matrimonio che fornisca loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare” (AL 207).
I gruppi famiglia
Ma come ben sappiamo, c’è anche l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento.
Di fronte alle sfide della società, che tolgono tempo vitale alla relazione di coppia, Francesco chiede che “gli operatori pastorali e i gruppi di famiglie” aiutino “le coppie di sposi giovani a imparare ad incontrarsi in quei momenti, a fermarsi l’uno di fronte all’altro, e anche a condividere momenti di silenzio che li obblighino a sperimentare la presenza del coniuge” (AL 224).
Servono anche i gruppi di sposi, i gruppi famiglia, che “offrono l’opportunità di dare, di vivere l’apertura della coppia agli altri, di condividere la fede, ma al tempo stesso” di “rafforzare i coniugi e farli crescere”. (AL 229).
da L'Ortobene del 16 novembre 2014
Fonte: Diocesi di Nuoro
Sintesi e aggiornamento della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come viene affrontata nella nostra comunità la preparazione remota al matrimonio?
• Cosa proponiamo agli sposi dopo il matrimonio?
• L’esortazione Amoris laetitia viene ancora proposta e letta?
L’opinione dei lettori
19-PERCHÉ ANDARE A MESSA OGGI?
a cura della Redazione
Tra i temi che abbiamo proposto ai lettori, la partecipazione all’eucaristia è quello che ha suscitato maggiore interesse.
Anche in questo caso, per ragioni di leggibilità e di spazio, abbiamo dovuto fare una sintesi delle risposte.
Cosa ci spinge a frequentare la messa domenicale?
Una prima ragione è la dimensione comunitaria dell’eucaristia: sentirsi partecipi di una grande famiglia, prendere parte ad una grande festa, ma anche ritrovarsi con gli amici e animare la liturgia.
Una seconda è l’incontro con il Signore, a cui presentare gioie, speranze, difficoltà, da cui attingere la forza per vivere bene secondo lo spirito del vangelo, per ricaricarsi e vivere meglio la quotidianità, per vivere il mistero pasquale di Gesù.
Una terza è una certa dose di abitudine o anche la necessità di soddisfare un precetto.
Cosa ci piace di più della messa?
Anche per questa domanda abbiamo individuato tre ragioni di fondo.
La prima riguarda l’azione liturgica: piace quando è animata da bei canti accompagnati dalle chitarre, quando ci sono le famiglie con i loro bambini, i giovani, quando i fedeli partecipano con azioni e segni all’eucaristia.
La seconda riguarda la liturgia della Parola, e in particolare l’omelia. L’omelia piace quando tocca il cuore e aiuta a capire la vita.
La terza riguarda la dimensione più personale del rito: l’atto penitenziale, la consacrazione e la comunione. Questi momenti piacciono quando c’è la partecipazione costante, convinta e concentrata delle persone.
Cosa ci piace di meno?
L’omelia è il tema su cui ci sono più perplessità. Se piace “quando tocca il cuore” piace molto di meno quando non ha riferimenti all'oggi che si vive, quando è troppo lunga e complessa, quando è piena di moralismo, quando è poco incisiva, quando non ha riferimenti al vangelo della domenica.
Non piace anche l’eccesso di ritualità, tutto ciò che sa di “routine”, e l’eccessivo protagonismo di alcuni celebranti.
Ma non piacciono neanche certi comportamenti dell’assemblea come la mancata osservanza del silenzio, la superficialità o il disincanto con cui alcuni partecipano.
Cosa manca a nostro avviso?
Nella maggioranza delle risposte quello che sembra mancare di più è la partecipazione attiva dei fedeli. L’attenzione è posta soprattutto sulla preghiera dei fedeli, che dovrebbero essere preparate (bene) dagli stessi fedeli, ma qualcuno si spinge anche ad auspicare il loro coinvolgimento nell’omelia. Qualcun’altro chiede la sperimentazione di "forme" nuove, modi nuovi di celebrare.
Senza spingersi così avanti, alcuni vorrebbero che il celebrante coinvolgesse di più l’assemblea e che non agisse come se fosse il solo protagonista dell’azione liturgica, altri che l’assemblea fosse meno muta, che si lasciasse coinvolgere di più nei canti e nelle preghiere, che i lettori fossero meno improvvisati, che il coro fosse meno autoreferenziale e coinvolgesse tutta l’assemblea.
Una minoranza è sensibile al tema dell’accoglienza nei confronti di tutti coloro che si avvicinano alla comunità, più in generale alla capacità di portare il clima di gioia e di festa anche fuori dalle mura della Chiesa.
Cosa si potrebbe togliere o ridurre?
Non ci sono particolari richieste su questo tema: il rito della messa va benissimo com’è, il nodo è renderlo vivo e adattarlo alle varie situazioni che la comunità vive. Emerge solo il problema della ripetitività: per alcuni il rito deve per sua natura essere ripetitivo e diverso dall’agire quotidiano, per altri la ripetitività fa perdere il senso di quello che si sta facendo.
Cosa si potrebbe aggiungere?
Dalle testimonianze raccolte emergono due istanze contrapposte: una chiede di dare spazio a momenti forti di condivisione, tipo testimonianze, e a gesti di partecipazione in momenti particolari dell'anno liturgico. L’altra chiede che la comunità possa acquisire una maggiore consapevolezza dell’azione liturgica, per poterla vivere pienamente.
Manca qualcosa che faccia venire alle persone la voglia di partecipare, a partire dai più giovani, che, diciamocelo, molto spesso si annoiano, non capiscono tutto, non riescono a seguire...
20-IL “SENSO” PROFONDO DELL’EUCARISTIA
Riscoprire il “Mistero” del Sacramento per rendere la nostra vita “mistero” di salvezza
La consapevolezza che la liturgia sia luogo di vera conoscenza di Dio può rendere la celebrazione pienamente vissuta, partecipata, intimamente fruttuosa e, in ultima analisi, esperienza piena e appagante dell’incontro con il Mistero, sempre più grande di quanto l’uomo possa immaginare.
Tommaso Pedroli
A cura della Redazione
Sappiamo che, diffondendosi nell’ambito ellenistico, il messaggio cristiano fu influenzato dal pensiero filosofico greco, molto meno sappiamo della relazione tra cristianesimo e culti misterici, che sono sconosciuti ai più.
L’enigma e il mistero
Prima di affrontare questo argomento è però necessario fare chiarezza sul termine mistero, che non va confuso con enigma.
L’enigma è qualcosa che va spiegato, che rimanda a qualcosa che, almeno inizialmente, è sconosciuto. Pensiamo agli enigmi della scienza. Più aumentano le scoperte scientifiche più ci troviamo di fronte a nuovi interrogativi. Nell’ultimo secolo abbiamo scoperto molte cose dell’Universo in cui siamo immersi ma la scienza riconosce che il 90% di esso ci è ancora sconosciuto. Abbiamo decodificato il DNA umano ma abbiamo scoperto che solo l'1,5% del DNA si basa su sequenze codificanti. Molto di ciò che definiamo mistero è in realtà un problema al quale non abbiamo ancora trovato risposta.
Ma allora che cosa è il mistero?
Stiamo lentamente uscendo dalla fase acuta della pandemia globale causata dal coronavirus. Molto probabilmente questa epidemia è stata causata dagli abusi che abbiamo inflitto all’habitat naturale e, se non prendiamo rimedi, corriamo il rischio di ritrovarci a breve a vivere un’esperienza analoga. Però nel giro di un anno sono stati messi a punto vaccini, alcuni molto innovativi, che ci dovrebbero rendere immuni. Di fronte ad un grave problema la scienza è riuscita a trovare una risposta che ci auguriamo soddisfacente.
Ma questi argomenti non valgono per chi è stato gravemente colpito da questo virus: “Perché a me? Sono sempre stato prudente, ho evitato ambienti affollati, eppure…”.
In questo caso vengono fuori le domande tipiche del mistero: “Che senso ha la vita se è appesa a fili così sottili?”. “Perché io e non il mio vicino di casa che esce senza mascherina e non rispetta il coprifuoco?”. La testimonianza di coloro che sono finiti in rianimazione e ne sono usciti vivi ce lo conferma.
Il coronavirus può essere un problema che mi angustia a livello d’occupazione, reddito, futuro; l’esserne contagiato non solo mi angustia ma mi tocca nel profondo, coinvolge tutto il mio essere, mi fa toccare con mano il mistero. Dopo questa premessa possiamo parlare di culti misterici.
I culti misterici
Quando si parla di culti misterici di che cosa si sta parlando? Non certo di spiritismo ma di una esperienza religiosa che coinvolge l’uomo nel profondo.
Se avete conosciuto qualcuno che in età adulta si è convertito al cristianesimo potete capire di che cosa si tratta.
Questi culti rispondevano ad una esigenza profonda dell’essere: garantirsi la sopravvivenza dell’anima dopo la morte e la salvezza eterna. In genere, erano accessibili a tutti i ceti sociali, schiavi compresi, e a entrambi i sessi.
Nel caso p.e. dei Misteri orfici, gli adepti “praticavano una disciplina di rinuncia, rifiutando l’uccisione degli animali e i pasti di carne, i sacrifici e ogni forma di violenza, compresa la guerra. Ma anche evitavano le ricchezze, il lusso, il piacere e gli onori” (1).
Partecipare al culto significava coltivare questa rigorosa disciplina e ottenere l’accesso progressivo ai segreti che permettevano all’anima di sopravvivere anche dopo la morte, segreti che non potevano essere rivelati ad estranei.
Il cristianesimo primitivo, scrive Tommaso Pedroli (2), “ha inglobato, superato e portato a compiutezza questi culti, facendo del mistero una realtà assolutamente nuova”. Per usare le parole di Odo Casel, “la liturgia cristiana ha reso utilizzabili la lingua e le forme di questi culti per il servizio di Cristo, ma ha sostituito il loro contenuto inadeguato con il Logos divino e lo Spirito Santo” (3).
Il Mistero cristiano
“Il cristianesimo”, continua Pedroli, “è innanzitutto Mistero di Cristo e la liturgia è la celebrazione dei misteri, nella quale il Mistero primordiale, Gesù Cristo, diviene presente (ri-presente) in quanto portatore di salvezza”. I greco-cristiani del primo secolo tendono così a fare propri termini cultuali del paganesimo, “che sentono a loro più vicini di quelli giudaici, dai quali preferiscono distaccarsi”.
Infatti, anche per cristiani, come per i cultori dei culti misterici, “non era opportuno comunicare certe verità a coloro che non avevano ricevuto il battesimo: non le avrebbero potute capire, perché estranee alla loro esperienza di vita”.
Se il cuore del cristianesimo – l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Cristo – era al centro dell’annuncio missionario, le celebrazioni sacramentali non potevano essere rivelate ai non battezzati. I dettagli sul conferimento del battesimo, della cresima, e soprattutto dell’eucarestia erano i “Misteri” ed erano segreti. “Gli stessi catecumeni, che pure partecipavano alla catechesi biblica, al momento dell’offertorio venivano accompagnati fuori dal luogo della celebrazione”.
C’è però una differenza fondamentale tra il Mistero cristiano e i culti misterici: mentre in questi ultimi è il fedele che con il suo impegno e la sua perseveranza si “conquista” la salvezza, nel cristianesimo è Dio stesso, nella persona del Cristo, che offre al fedele la salvezza, una salvezza immeritata, dono di pura Grazia.
La partecipazione attiva al Mistero
Lo studio delle affinità tra cristianesimo e i culti misterici prende forma in un periodo storico, i primi decenni del secolo scorso, nel quale la pratica liturgica, come scrive ancora Pedroli, era in crisi: “sempre più lontana dal popolo, sempre meno capita non solo dai laici ma anche dai ministri stessi, privi di strumenti adeguati di formazione, quasi soffocata da forme risalenti al Concilio di Trento”.
Il rinnovamento della liturgia è stato uno dei temi affrontati dal Concilio Vaticano II e ha trovato risposta nella Costituzione Sacrosanctum concilium.
Per permettere la “partecipazione attiva” dei fedeli all’eucaristia la Costituzione introduce, per garantire una “piena efficacia pastorale” al rito, l’uso della lingua corrente, un numero maggiore di letture bibliche, la preghiera dei fedeli, ecc.
Dopo più di sessant’anni da quel documento possiamo tranquillamente chiederci se ciò sia bastato per garantire la partecipazione attiva dei fedeli oppure vada riscoperto il valore del Mistero a cui si partecipa.
La dimensione pastorale, e cioè la piena comprensione dei riti e delle preghiere, o serve ai fedeli per poter partecipare al Mistero che celebrano “consapevolmente, piamente e attivamente”, imparando “ad offrire se stessi” in modo che “Dio sia finalmente tutto in tutti” (4), oppure non serve.
Scriveva nel 2014 il cardinale Bagnasco: nell’eucaristia “dobbiamo abbandonarci al Padre ‘in’ Gesù, cioè nel suo ‘io’. O avviene questo passaggio dal nostro io all’io di Gesù – passaggio personale ed ecclesiale – oppure non c’è vera partecipazione. Questo passaggio è nelle mani di ciascuno” (5).
Torna qui in mente una frase famosa di Karl Rahner, uno dei teologi del Vaticano II: “il cristiano del XXI secolo o sarà un ‘mistico’, - cioè una persona che ha ‘fatto esperienza del mistero’ - o non sarà neppure cristiano”. Siamo chiamati a vivere la liturgia, in particolare l’eucaristia, come luogo di vera e profonda conoscenza del Mistero di Dio in Cristo e a trasformarlo in esperienza di vita.
1 Fonte: Studia rapido
2 Tommaso Pedroli, Mistero e misteri fra culto antico e cristianesimo…, Quaderni del Cairoli XXIX (2015)
3 Odo Casel, Liturgia come mistero, citato da Tommaso Pedroli
4 Cfr. Sacrosanctum concilium, n.48
5 Fonte: Chiesa di Genova
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Che cosa è per noi “mistero”? Quando ne abbiamo fatto esperienza?
• Che cosa è per noi l’eucaristia? L’abbiamo mai pensata come mistero?
• Se l’eucaristia è mistero in che cosa dovrebbe consistere la partecipazione attiva?
21-L’EUCARISTIA NELLA STORIA
La messa deve essere comunione con Cristo e non obbedienza ad un precetto o strumento per soddisfare i nostri bisogni
Dall’incontro di intima comunione con Cristo si passa alla visione dell’ostia. La lontananza dalla comunione viene compensata dalla “visione” del Corpo di Cristo.
A cura della Redazione
Il rito dell’eucaristia, come lo conosciamo oggi, è ad un tempo molto simile a quello che praticavano i primi cristiani e, nello stesso tempo, molto diverso.
Le due grandi parti in cui è suddiviso, le due “tavole”: quella della Parola e quella della cena, erano presenti già nel primo secolo. Invece, il rituale è profondamente cambiato come pure l’atteggiamento con cui i fedeli hanno vissuto il culto.
Non è la stessa cosa celebrare in una domus ecclesiae o celebrare in una basilica, appartenere ad una minoranza a volte perseguitata o aderire alla religione di stato, essere chiesa in età romana oppure nei regni romani barbarici, nel rinascimento o nella controriforma.
Risulta troppo impegnativo, sia per la redazione che per la lettura, proporre una storia puntuale del rito. Ci limitiamo a proporre alcune suggestioni.
Gli abiti
Con la fine della patristica in Occidente, l’inizio dei movimenti dei popoli barbari e la mentalità bizantina, la semplicità dei primi secoli viene meno. La liturgia diventa immagine-riproposizione di quella del cielo: papa-vescovi-chierici ricevono onori prima dovuti a imperatori-magistrati. A partire dal VI sec. il rito diventa solenne, con vesti appropriate, con atteggiamenti di corte (genuflessioni al vescovo, bacio della mano e del piede, incenso, candelieri…).
Questa tendenza si è perpetuata nel tempo ed è presente ancora oggi, seppur ridimensionata.
È un segno della distanza progressiva che ben presto si instaura tra alto clero e fedeli.
Lo scopo del rito
Con la fine dell’Impero romano, anche la lingua usata nella liturgia, il latino, risulta sempre più incomprensibile ai fedeli. Così l’attenzione della comunità celebrante si sposta sulle proprie necessità. Nascono le messe votive: celebrazioni dove l’attenzione non è al Mistero ma alla circostanza dolorosa o difficile (carestia, alluvioni, terremoti, siccità, guerre, peste…) che si sta vivendo e l’eucaristia serve, attraverso il sacrificio di Cristo, per risolvere il problema.
La Messa non è più comunione con Cristo, ma strumento per vedere soddisfatti i propri bisogni.
A partire dal X secolo si moltiplicano le messe celebrate in forma “privata”.
La richiesta, mediante un’offerta in denaro ai sacerdoti, della celebrazione di sante messe per ragioni penitenziali, di devozione, impetrazione di grazie o suffragio, porta con sé una visione meno comunitaria e piuttosto individualista del rito.
Le distorsioni
Di fronte a queste nuove esigenze, si cominciano a costruire altri altari lungo le pareti poiché sull’altare principale si poteva celebrare solo una volta al giorno.
La stessa regola valeva per i sacerdoti, salvo alcuni casi particolari. E allora si ricorse ad espedienti come quello della Messa secca, un rito senza consacrazione (una specie di liturgia della parola con comunione) o quello della Messa bi-tri-quatrifacciata (cioè il prete, per ogni offerta, iniziava la messa e si fermava all’offertorio e solo alla fine continuava con la consacrazione, in tal modo prendeva più offerte ma essendoci solo una consacrazione non violava l’obbligo di una sola celebrazione).
In questo modo per la gente la messa era diventata il più potente mezzo esorcistico-liberatorio per raggiungere efficacemente e velocemente il proprio desiderio o praticare la penitenza, per i molti sacerdoti di allora un semplice strumento di sussistenza.
La musica
L’uso e, soprattutto l’abuso della musica, durante l’eucaristia è un tema ricorrente.
La schola cantorum ha avuto per molto tempo un ruolo di primo piano nella celebrazione liturgica.
Infatti, già a partire dall'undicesimo secolo, i fedeli furono estromessi da gran parte dei canti.
È una faccenda che più volte si ripeterà nella storia della musica sacra. Per questo la Chiesa avversò sempre la musica "variata" o troppo ornamentale e questa avversione è da comprendere proprio per la funzionalità essenzialmente liturgica che ha il canto sacro.
La struttura del rito
La distanza progressiva tra il celebrante ed i fedeli si evidenzia attraverso i mutamenti che interessano la preghiera eucaristica.
Se fino all’anno mille era pregata ad alta voce, dopo viene recitata in silenzio.
L’elevazione dell’ostia subito dopo la consacrazione viene resa obbligatoria un secolo dopo, e altrettanto avverrà per il calice. Queste elevazioni fanno perdere d'importanza l'elevazione effettuata alla dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo…”, che con Trento sparirà del tutto e sarà recuperata dal Vaticano II.
L’elevazione viene sottolineata dal suono di campana o campanelli per attirare l’attenzione e un minimo di devozione da parte dei fedeli, che potevano anche essere intenti a fare altro.
D’altra parte, per soddisfare il precetto festivo, era sufficiente essere in chiesa, guardare la celebrazione, arrivare prima dell’offertorio.
I fedeli
La distanza cresce anche tra Cristo e i fedeli. Dall’incontro di intima comunione con Cristo si passa alla visione dell’ostia.
Al momento della comunione i fedeli non possono toccare l’ostia e sono pochi coloro che si accostano al sacramento, sia per il forte sentimento di inadeguatezza personale rispetto alla santità dello stesso, sia per le prescrizioni di purità rituale, la severità della disciplina penitenziale e le norme relative al digiuno richieste.
Così la pietà eucaristica dei fedeli si esprime nell’adorazione dell’ostia: la lontananza dalla comunione viene compensata dalla “visione” del Corpo di Cristo.
In questo modo scompare la natura conviviale dell’eucaristia.
Questa distanza è evidente anche a livello architettonico: l’altare viene spostato in fondo all’abside e rialzato rispetto alla navata; dopo Trento, il tabernacolo diventa il centro architettonico e spirituale della pietà cristiana. A lui si rivolge il celebrante che, in questo modo, volge le spalle al popolo.
Tutto osta, a partire dalla lingua, per una partecipazione attiva dei fedeli.
Bisognerà attendere fino all’Ottocento perché inizino a diffondersi traduzioni del messale in lingua corrente a uso dei fedeli. Bisognerà attendere fino agli inizi del Novecento perché qualcosa si muova anche a livello di Chiesa: si tratta del movimento liturgico.
Il movimento liturgico
L'espressione "movimento liturgico" designa una corrente teologico-pastorale della Chiesa, costituita da sacerdoti e teologi, desiderosi di dare alla liturgia il valore di scienza teologica e, soprattutto, darle il posto che merita nella vita della Chiesa e dei singoli fedeli.
Il fondamento teologico da cui si muove il movimento è visione della Chiesa come Corpo Mistico di Cristo. Da questa visione emerge l’immagine della Chiesa come comunità, in cui viene recuperato il ruolo del laicato.
Un elemento caratteristico del movimento è lo studio attento delle liturgie più antiche.
Il documento magisteriale a cui il movimento fa riferimento è il motu proprio “Tra le sollecitudini” (1903) di San Pio X. L’oggetto principale del documento è la musica sacra. Tuttavia, esso incoraggia anche la “partecipazione attiva” alla liturgia, descrivendola come la più importante e indispensabile fonte di vita della Chiesa.
Anche Pio XI con la bolla Divini cultus (1928) sempre dedicata alla musica sacra, scrive che “è molto importante che, quando il fedele assiste alle sacre cerimonie … non sia soltanto spettatore distaccato e silente”.
Occorre aspettate il suo successore, Pio XII, perché le istanze del movimento liturgico trovino un riscontro magisteriale con la Mediator Dei, la prima enciclica dedicata interamente alla liturgia (1947).
Sempre Pio XII istituisce nel 1946 una commissione per la riforma generale della liturgia, che inizia i propri lavori nel 1948 e che, nel 1959, viene fatta confluire nella commissione preparatoria per la liturgia del Concilio Vaticano II. Il frutto di questo lungo cammino sarà la costituzione sulla liturgia Sacrosanctus concilium del 1963.
Ora, a quasi sessant’anni da quel documento, a che punto è la riforma liturgica?
Citando Andrea Grillo (1) possiamo dire che il movimento liturgico è nato per dare risposta alla questione liturgica individuando nella definizione actuosa participatio (partecipazione attiva/efficace) la formula per una conversione pastorale.
Questa conversione richiedeva una nuova “iniziazione/formazione liturgica” e, contemporaneamente, una “riforma liturgica”.
La riforma doveva essere lo strumento della formazione liturgica ed invece è successo il contrario. Ci siamo dedicati moltissimo alla recezione della riforma e poco o pochissimo alla recezione della formazione/iniziazione.
1 Fonte: Mondo domani
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Con la messa possiamo “comprare” la benevolenza di Dio? Se non è così, perché ci andiamo?
• Quanto il canto è legato alla liturgia e quanto è autoreferenziale?
• Ora, con l’uso della lingua corrente, tutta l’azione liturgica dovrebbe essere chiara. È davvero così?
22-“IMPARARE” LA LITURGIA
Per una nuova iniziazione e formazione liturgica dei credenti
L’interrogativo decisivo al quale è necessario dare al più presto una risposta non è anzitutto come i credenti oggi vivono la liturgia, quanto piuttosto se i credenti vivono della liturgia che celebrano.
Goffredo Boselli
La coscienza dell'io deve ampliarsi in quella dell’“io” comunitario finché nell'animo non ci sia che un grande “noi” come soggetto della preghiera e del sacrificio.
Romano Guardini
di Romano Guardini*
La liturgia non è pura conoscenza ma realtà piena, una realtà che accanto al conoscere comprende anche molto d'altro: un fare, un ordinare, un essere.
Proprio perché è una parte essenziale della vita cattolica è necessario che singolo e comunità siano educati alla vita liturgica.
È un bene che vi sia una più ricca conoscenza delle cose liturgiche, che la partecipazione dei fedeli sia più sentita e critica ma non basta.
Come deve essere l'uomo, come deve essere la comunità, se si vuole avere il giusto comportamento liturgico?
Serve una specifica formazione. È ciò che ci proponiamo con questo articolo (NdR).
L’anima e il corpo
La parte di noi che prega, offre e agisce nella liturgia non è solo la nostra anima, la nostra interiorità bensì tutto noi stessi, nella nostra interezza di uomini.
Bisogna superare l'idea di una religiosità puramente interiore, spirituale, che sente il corporeo come qualcosa di degradante. Ma è necessario anche rifiutare l'idea che corpo e anima siano una sola cosa, indistinta. Questa visione porta al confondersi della vita personale con quella universale, un vibrare all'unisono con i ritmi cosmici.
Il primo modo di pensare ha lacerato l'unità dell'essere, il secondo confonde in una sola realtà ciò che per essenza è distinto.
Invece, l'anima sta al di sopra della natura e nella sua essenza indipendente dal mondo è capace di avere signoria sulle cose. L'anima è in rapporto diretto con Dio, responsabile alla fine solo verso di Lui e, allo stesso tempo, energia che plasma la materia, il corpo.
Il cristiano, infatti, è chiamato ad andare oltre il puro corpo superandone ogni sua prepotenza, rendendosi padrone della sua libertà, per arrivare ad un rapporto immediato con Dio. Questo tuttavia non per opprimere il corpo o per staccarsene, ma per renderlo completamente spirituale, cioè permeato dallo Spirito Santo.
Noi non siamo puri spiriti, né dobbiamo esserlo, ma siamo chiamati ad essere “spirito incarnato”, un corpo permeato totalmente dall'anima: è Dio che ci ha voluti così.
Inoltre, noi speriamo nell'eternità, crediamo che il nostro corpo risorgerà dai morti. Noi saremo pienamente uomini solo nella vita eterna.
Ora, esistono atteggiamenti religiosi nei quali l'accento è più sullo “spirituale” e sull’ “interiorità”: questo avviene nella preghiera silenziosa, durante la quale l'uomo tende a stare davanti a Dio e rimanere in ascolto di Lui.
La liturgia invece, dall'inizio alla fine, pone tutto l'uomo al centro dell'azione liturgica. Quando è perfetta, la liturgia non porta l'uomo che prega fuori dal corpo. Infatti, nell'atto liturgico la sua corporeità si interiorizza sempre di più, si spiritualizza, mentre la sua anima si esprime, si incarna in modo sempre più completo.
Quello tra anima e corpo è il rapporto simbolico per antonomasia. Nel corpo l'anima si traduce nella corporeità, nel suo simbolo vivente.
Oggi la liturgia non coinvolge più, non forma più, è sempre più sentita come opera del giorno festivo, come “cerimonia”. Dobbiamo allora diventare nuovamente capaci di simboli perché senza questa capacità è difficile comprendere la liturgia.
In pratica: cosa significa inginocchiarsi? Significa riconoscere la grandezza di Dio e la nostra piccolezza, e questo vale anche per la genuflessione.
Cosa significa congiungere le mani? Noi parliamo anche con il linguaggio del corpo, mani penzoloni mostrano pigrizia e disattenzione.
Così salire i gradini della chiesa significa avvicinarsi spiritualmente verso Dio e fare il segno della croce significa farsi benedire da Colui che ci ha redento.
Questi sono atteggiamenti e comportamenti da riscoprire e da insegnare ai nostri figli e nipoti (NdR).
L’uomo e le cose
Il simbolo assume più valore se, alle capacità espressive del corpo, si aggiungono le cose del mondo che lo circonda. Per esempio, l'atteggiamento della mano che offre diventa più significativo se regge una coppa.
L’uomo è aperto al mondo ma, di fronte alla sua immensità nel tempo e nello spazio, fa fatica a vivere, se non dispone di un luogo delimitato come base di partenza e sede del ritorno. Questo è innanzitutto uno spazio chiuso, in cui sono presenti le cose che servono per vivere.
Questo spazio diventa per l’uomo un mezzo per manifestare se stesso. Corpo, vestiario, utensili diventano facilmente per l'uomo mezzi di autoespressione. Ognuno di noi “possiede” davvero una casa, una camera, solo quando sente come vivi spazio e pareti, mobili e ornamenti.
Tutto questo vale in modo particolare nel campo religioso. Qui abbiamo l'edificio della casa di Dio, con i tuoi oggetti per il culto, con gli spazio organizzati in funzione del culto, con le azioni sacre cadenzate secondo i tempi liturgici.
Partendo dal rapporto fondamentale tra anima e corpo, la liturgia ha fatto propria tutta la ricchezza delle possibilità espressive delle cose, dello spazio e del tempo. Ciò che avviene nell'anima - la rinascita da Dio in Cristo per opera dello Spirito Santo - la liturgia lo esprime nel corporeo, negli oggetti e nelle forme del culto.
Il contesto a cui l'uomo si trova di fronte, in chiesa, non è indefinito e caotico ma è ben ordinato. La creatività individuale è chiamata a misurarsi con il servizio a Dio, con la sua rivelazione, con la sua legge e verità.
Questa unità di creatività e obbedienza era definita da San Benedetto Opus Dei.
L'uomo è da una parte “signore di tutte le creature” perché ciascuna gli è utile per esprimere il mistero dei misteri: la vita dell'anima cristiana, ma al tempo stesso egli è “servo di tutte le creature” perché non ne non può disporre a piacimento ma deve rispettare il fine al quale Dio le ha ordinate.
È questo l'atteggiamento con cui nel mondo antico si vivevano i culti misterici, atteggiamento che con la modernità abbiamo perso.
Il mondo è diventato sempre più profano e anche la vita quotidiana è diventata sempre meno spirituale. L'uomo ha disimparato a padroneggiare le cose muovendo da Dio e così le cose hanno dominato su di lui.
Nella religione ha prevalso la dimensione etico-morale, l’esortazione al retto agire e la vita liturgica si è sempre più sbiadita, diventando pura “edificazione”, se non “inutile perdita di tempo”.
L'uomo deve tornare a vedere e sentire veramente come sono le cose; non deve far loro violenza, ma al tempo stesso deve inserirle nel rapporto espressivo dell'anima con il corpo. E questo è anche un punto di partenza per il rinnovamento liturgico.
Pensiamo ai sacramenti e al significato che ha l'acqua nella liturgia.
L’acqua, come tutta la natura, ha una connotazione ambigua: in un mare in tempesta, in un forte temporale cogliamo una minaccia, in una fonte fresca e quieta cogliamo ristoro e pace.
Chi non percepisce questo non sa che cosa è la natura. La liturgia invece lo sa, e sa pure che queste medesime forze convivono nell'anima stessa. Se non scegliamo di appartenere Dio cadiamo nelle mani dell’anti Dio.
Anche l’acqua, quindi, prima di venire usata per Dio, deve venire purificata, diventando “molto utile e umile e preziosa e casta”.
Questo vale anche per altre sostanze: fuoco, olio, sale e, cenere, cera.
È qui che si deve innescare la formazione liturgica.
Così, per esempio, l'educatore può rendere il bambino consapevole dell’essenza dell'acqua e della sua ambiguità. Poi gli farà capire che cosa significa benedire l'acqua per cui essa diventa “santa”, donatrice di vita, e gliene farà fare esperienza facendogliela bere fresca durante un viaggio con la calura. Questo porta il bambino a capire come l'acqua diventi espressione del copioso fluire della vita soprannaturale della Grazia.
Lo stesso vale per il fuoco che, da forza distruttrice, con la benedizione si trasforma nell'immagine della luce divina, dell'amore e della verità; e ancora la candela accesa, espressione dell’offerta presentata a Dio per consumarsi nella sua volontà; e così l'incenso, simbolo della preghiera che si eleva.
Il singolo e la comunità
La piena umanità cristiana esiste solo là dove Chiesa e persona vivono in rapporto reciproco.
Le due realtà sono tra loro correlate: la persona è orientata verso la vastità della grande comunità umana, che a sua volta è però composta dai singoli che la sostengono e la completano.
L'uomo arriva alla dimensione collettiva in due modi: o attraverso degli elementi intermedi: famiglia, terra, popolo, oppure ignorandoli. Chi cerca l’umanità in questo modo la concepisce in maniera astratta evitando, nei fatti, di impegnarsi seriamente.
Qualcosa di simile vale anche per la Chiesa. Anche qui c'è un universalismo che guarda sempre soltanto alla Chiesa nella sua totalità e in generale, ma con atteggiamento individualistico. Invece, noi siamo chiamati ad amare e vivere la Chiesa là dove ci viene incontro in modo immediato: nella diocesi, nella comunità parrocchiale.
L'educazione liturgica passa quindi dalla formazione di una coscienza religiosa comunitaria. Il credente deve superare l'isolamento individualistico e porsi totalmente nella grande comunione della Chiesa: della Chiesa, non di una “cerchia” affiatata. E non nella Chiesa in genere, ma nella propria comunità parrocchiale, che può essere anche aspra, a volte rigorosa, quasi fredda.
Non si tratta di “sentire” o meno la comunità ma di educarsi ad essa.
La coscienza dell'io deve ampliarsi in quella dell’“io” comunitario affinché nell'animo non ci sia che un grande “noi” come soggetto della preghiera e del sacrificio.
Il “noi” deve essere realizzato in modo vivo: io e le persone a destra e a sinistra, il vecchio qui davanti a me, là la donna con l'ansia dipinta sul volto, quelli che se ne stanno lì indifferenti, e così via. E poi si estende a tutta la comunità: i malati, coloro che sono impediti a partecipare, quelli che non vogliono venire, le relazioni irregolari, le varie necessità e impegni, fino a coprire l’intera diocesi.
Tutto ciò richiede un lavoro lungo e faticoso, soprattutto per chi è predisposto all'individualismo. Che l'esercizio sia necessario non lo contesterà nessuno che sappia quanto trasandata sia la nostra costituzione spirituale e, come dietro il rifiuto dell'esercizio, spesso vi sia indolenza religiosa, sentimentalismo e indisciplina spirituale.
L'elemento oggettivo
Molti dei tentativi per coinvolgere di più i fedeli nella liturgia hanno sottolineato il suo valore espressivo.
Questa espressività può essere intesa in modo puramente soggettivo, come rivelazione dell'esperienza vissuta, dell'emozione personale.
Questo atteggiamento non solo non può avere la pretesa di valere qualcosa per gli altri ma, portato all’estremo, rende insignificante anche l'oggetto dell'esperienza vissuta. Contano solo le sensazioni provate, ciò che la liturgia ha suscitato. Anche la comunità si trasforma in mezzo per poter sentire più fortemente, per potersi maggiormente imporre.
Non si crea un vero legame con la comunità: infatti tutto finisce non appena svanisce il sentimento che l'ha fatto nascere.
A questo comportamento espressivo ne è contrapposto un altro, in cui il soggetto, anziché porre l'accento sull'esperienza vissuta, lo pone sul suo contenuto; non esprime tanto i sentimenti, gli stati d'animo, ma le verità che ne stanno alla base, ciò che per lui è duraturo, necessario.
Ma anche in questo caso è insito un rischio: quello di far valere le proprie idee, manifestando una volontà di dominio. Non fa comunità chi crea un circolo chiuso che è mera eco del suo essere, bensì chi sta in un tutto oggettivo insieme con gli altri senza la pretesa di trasformarli.
Chi agisce in quest'ultimo modo, opera in termini di servizio, conciliando il suo io e il suo modo di vivere un'esperienza con la realtà oggettiva e le sue leggi.
* Tratto da: Formazione liturgica, Morcelliana, Brescia 2008
Sintesi e adattamento della redazione.
Le parti in corsivo sono redazionali.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Anima e corpo: qual è la parte di noi che è più presente nella liturgia?
• Le cose: in chiesa ci sentiamo a casa o è un luogo estraneo?
• La comunità: solo il gruppo degli amici o l’intera assemblea?
• Le sensazioni: finita messa tutto è finito o c’è ancora da fare?
L’opinione dei lettori
23-RELIGIONE E FEDE
a cura della Redazione
Le domande che abbiamo proposto su religione e fede erano un po’ impegnative e ringraziamo i lettori per le loro risposte. Anche in questo caso, per ragioni di leggibilità e di spazio, abbiamo fatto una sintesi delle risposte.
Che differenza c’è tra religione e fede?
Iniziamo dalla religione. Questa è sentita come la formalizzazione storica delle espressioni di fede di una comunità, qualcosa che ci è stato trasmesso, ma è sentita come un complesso di norme, dottrine, prescrizioni riti, cerimonie, struttura.
La fede è colta come dono di Dio, nostra risposta alla sua chiamata, un camminare incontro a Lui con fiducia. Questo Dio ha il volto di Gesù, il nostro modello ma anche Colui che non ci lascia soli.
Questa relazione con Dio ha anche una dimensione orizzontale: gli altri e qui emerge la necessità di coerenza tra fede e opere.
Sul significato della parola religione vi sono opinioni diverse. Una di queste la interpreta come legare-insieme. Quindi la religione con i suoi riti, le sue norme, i suoi precetti lega, in senso negativo, gli uomini a sé, li costringe in un recinto (cfr Gv 10,16), ma, in senso positivo, crea legami, costituisce comunità di credenti (vedi At 2,42-48).
È più facile la pratica religiosa o la fiducia in Dio?
Non ci sono dubbi: è molto più facile il “praticare” rispetto al credere, ad aver fiducia in Dio.
Viene prima la pratica religiosa o la fede? Per chi fin da bambino frequenta la parrocchia la fede nasce dalla pratica, per chi si è allontanato dalla Chiesa è vero il contrario.
La pratica religiosa non ti coinvolge più di tanto, la fede sì.
La pratica religiosa, nella sua ripetitività, crea abitudine e una sorta di sicurezza, la fede è decisamente più impegnativa perché chiede la disponibilità a mettere in discussione la propria vita ogni giorno, perché è una ricerca continua e, a volte, anche faticosa.
Però, quando le ragioni ultime del credere si eclissano, la pratica religiosa diventa vuota e inutile.
La pratica religiosa può avere, anche in questo caso, un significato negativo: può essere un pretesto per sentirsi giustificati di fronte a Dio (Lc 18,9-14), ma anche uno positivo: rendere grazie a Dio (Rm 6,17-18) del dono di suo Figlio e, a sua immagine, aprirci all’amore fraterno.
Che sentimenti provate se Dio vi “tradisce”?
Questa domanda è stata, in base alle risposte ricevute, un po’ la “prova del nove” della fede praticata.
Per molti Dio non può tradire, il pensarlo è mancare di fiducia nei Suoi confronti. Per altri la non-risposta di Dio alle nostre preghiere rientra nella categoria del Mistero.
Perché Dio a volte sembra “sordo” nei nostri confronti? Dipende da cosa ci aspettiamo da Dio e da che idea abbiamo di Lui.
Così, di fronte a questa evenienza, c’è chi afferma che proverebbe rabbia, forte delusione, al punto di perdere la fiducia in Lui, perché abbiamo bisogno di prove concrete della sua fedeltà.
Sembra emergere, in questi casi, l’immagine di un “Dio bancomat”, che deve dispensare doni come noi li pensiamo e vogliamo.
Ma c’è un’ultima considerazione ancora più forte: “tradendoci” Dio contraddice ciò che Cristo ci ha insegnato: “chiedete ed otterrete”, “se due o più si accordano per chiedere…”.
La Chiesa cattolica, per molti secoli, ha tenuto i fedeli lontano dalle Scritture. I motivi erano svariati e non sempre “onesti”, ma la lettura della Bibbia, senza una guida spirituale, una persona o un buon commento, porta giustamente a formulare queste obiezioni.
Serve quindi riflettere sul ruolo e sullo scopo della preghiera, alla luce della Parola.
Gli ho chiesto la forza,
e Dio mi ha dato difficoltà per rendermi forte.
Gli ho chiesto la saggezza
e Dio mi ha dato problemi da risolvere.
Gli ho chiesto la prosperità
e Dio mi ha dato muscoli e cervello per lavorare.
Gli ho chiesto il coraggio
e Dio mi ha dato pericoli da superare.
Gli ho chiesto l'Amore
e Dio mi ha affidato persone bisognose da aiutare.
Gli ho chiesto favori
e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto nulla
di ciò che volevo ma tutto quello di cui avevo bisogno.
La mia preghiera è stata ascoltata.
Hans Viscardi, americano disabile
Questa preghiera è stata incisa su una tavoletta di bronzo in un istituto di riabilitazione a New-York.
24-LE DIFFERENZE TRA RELIGIONE E FEDE
Farsi valere davanti a Dio o riconoscere il primato di Dio?
Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi (Mc 2,22)
di François Varone*
Prima di parlare della differenza tra religione e fede bisogna fare alcune precisazioni sul significato dei termini.
Il termine «religione» in senso oggettivo indica quell'insieme di testi, riti, organizzazioni sociali e consuetudini attraverso cui il rapporto dell'uomo con Dio si concretizza, si celebra e si irradia nella vita, nella società e nella storia,
Nel senso oggettivo del termine, dunque, la fede implica la religione. Immaginare e voler promuovere una fede «pura», svincolata da qualsiasi incarnazione nel simbolico e nel sociale, sarebbe una negazione della realtà dell'uomo e della società.
A livello oggettivo la religione come istituzione rappresenta per la fede quello che il corpo è per l'anima. Questo fatto porta indubbiamente con sé pesantezze, lacerazioni, a volte contraddizioni. Ma religione e fede sono comunque legate l'una all'altra e hanno bisogno l'una dell'altra per formare una realtà concreta, presente e operante.
Il termine «religione» in senso soggettivo indica il rapporto concreto che l'uomo vive col suo Dio, il volto che gli attribuisce, indipendentemente dalla religione oggettiva.
Religione e fede divergono però tra loro sul piano personale, concreto: a questo livello infatti sono possibili due atteggiamenti profondamente diversi di fronte a Dio. Li descrive molto bene il profeta Michea sette secoli prima di Cristo (Mi 6,3-8).
Dio e l’uomo
Il libro di Michea contiene tre cicli di annunci di giudizio di Dio nei confronti del suo popolo. Li possiamo esemplificare citando alcuni versetti iniziali del sesto capitolo.
Tramite il profeta, il Signore accusa il suo popolo di infedeltà: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi. Forse perché ti ho fatto uscire dall'Egitto, ti ho riscattato dalla casa di schiavitù e ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria? Popolo mio, ricorda… per riconoscere gli ‘atti di giustizia’ del Signore”.
Il pio israelita si chiede allora come può recuperare la benevolenza di Dio: “Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?”.
E il Signore, tramite il profeta, risponde: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio”.
Farsi valere davanti a Dio
La religione che pratica il pio israelita e che il profeta condanna, ha alcune caratteristiche fondamentali. L'uomo coglie una Realtà che sovrasta la sua esistenza e che deve ingraziarsi per poter vivere. La religione diventa così lo strumento con cui l’uomo agisce nei confronti di Dio per ottenere una reazione divina che possibilmente gli sia favorevole e utile.
Ma l'uomo sa di essere debole, peccatore, non all’altezza delle aspettative di Dio e quando il Signore lo accusa egli, ragionando in termini umani, non trova altra soluzione che aumentare il valore dei sacrifici per riuscire a riconquistare il favore di Dio.
Ma questa religione non corrisponde affatto al modo di vedere del profeta e del Signore.
La fede: Dio fa valere l'uomo
Infatti, Michea non voleva provocare paura e rilanciare un certo tipo di religione. Ciò che voleva rilanciare era il ricordo, e con esso la conversione a qualcosa di totalmente diverso. Il popolo deve “ricordare” le cose buone, gli “atti di giustizia” che il Signore ha fatto per farlo vivere.
L'esempio tipico, per l'Antico Testamento, è quello dell'esodo: Dio ha fatto vivere il suo popolo facendolo uscire dall'Egitto e liberandolo “dalla casa di schiavitù”.
Nel Nuovo Testamento, con l'esodo di Gesù che passa attraverso la morte e approda alla risurrezione, la bontà di Dio sarà pienamente rivelata come potenza di vita per l'uomo.
Ciò che Dio si aspetta dall'uomo, è che l'uomo non finisca mai di “riconoscere” il primato dell’azione di Dio verso di lui. È Dio che agisce per primo; l'uomo accoglie e riconosce. Non si tratta più, per l'uomo, di farsi valere davanti a Dio: è Dio che fa valere l'uomo, senza prendere minimamente in considerazione il peccato, i suoi meriti o i suoi demeriti.
La fede: con Dio, l'uomo fa valere l'uomo
La rivelazione della bontà di Dio apre uno spazio nuovo che la religione umana non può concepire. Il popolo a cui si rivolge il profeta non ha colto questa novità. Le sue riflessioni sono dettate dalla religione e dalla paura: «Con che cosa mi prostrerò davanti al Signore?».
Non si tratta di porsi «davanti a», cioè «contro» Dio, per avere la meglio sulle sue esigenze e non lasciare al Potente nessun motivo per schiacciare il debole. Si tratta di essere «con» Dio. La “giustizia” che l'uomo riceve, gli viene affidata perché la estenda agli altri: praticare la giustizia significa agire onestamente, e soprattutto far vivere, liberare, aiutare, dare agli altri la possibilità di realizzarsi pienamente.
Solo così l'uomo può scoprirsi in cammino, umile viandante che cammina con Dio e che è in grado di perseverare in questa collaborazione. Ci vorrà il Risorto, umile viandante in cammino con i discepoli di Emmaus, per rivelare la meta di questo esodo dell'uomo e dell'umanità con Dio.
Tutto ciò che costituisce la religione oggettiva: le verità, i riti, i comandamenti (credere, celebrare, agire), può essere vissuto in un contesto di religione umana oppure può convertirsi al rapporto nuovo della fede. Tutto dipende dallo spirito con cui si vivono queste cose; tutto dipende dalla conoscenza che si ha di Dio. La fede dà un nuovo assetto a ogni cosa!
Infatti, la rivelazione di Dio fa vivere l'uomo che l'accoglie e che l’uomo è chiamato ad estende agli altri. La risposta dell’uomo a Dio allora non sono più sacrifici ma rendimento di grazie, eucaristia.
* Un Dio assente? Religione, ateismo e fede: tre sguardi sul mistero. EDB, Bologna 1995
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come ci possiamo far benvolere da Dio?
• Che cosa vuole da noi Dio: sacrifici, rinunce, penitenze o “pratiche di giustizia”?
• Che cos’è per noi l’eucaristia: sacrificio o rendimento di grazie?
25-LA PREGHIERA
C'è preghiera quando il desiderio di Dio e desiderio dell'uomo si incontrano, quando la Vita si incontra con il desiderio di vita.
Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. (Lc 18,14).
di François Varone*
Il desiderio dell'uomo è una realtà molto misteriosa, molto complessa e profondamente stratificata.
Alla superficie, il desiderio si manifesta in quelli che possiamo chiamare i bisogni: mangiare, bere, avere una casa, degli abiti, un lavoro, possedere un'automobile, un frigorifero, ecc.
Desideri e “desiderio”
Al di là dei bisogni c’è lo strato dei desideri. La soddisfazione di un desiderio può occupare un'intera tappa della vita: desiderio di avere la propria parte di amore e di felicità, desiderio di guarire, di superare un momento difficile, ecc. Nel profondo, infine, c'è “il desiderio”, al singolare: il desiderio di esistere, misterioso, sconfinato.
Questo desiderio l’uomo lo scopre vivendo, e allora non lo confonde più con i bisogni e i desideri. E allora diventa capace di affidare il desiderio a Colui che solo lo può appagare: Dio. Diventa capace di incontrare il desiderio di Dio, di percepire la misteriosa corrispondenza fra questi due desideri e di gioirne: diventa capace di pregare.
Sul piano dei bisogni e dei desideri degli uomini Dio è “assente”: non interviene per soddisfarli, per appagarli. Quella di Dio è una pedagogia della libertà, è l'unica via che può condurre l'uomo alla scoperta del proprio desiderio senza limiti, del proprio desiderio di eternità, del proprio desiderio di Dio.
Religione e fede
Può essere utile un esempio esplicativo. Di fronte ad una grave malattia l’uomo religioso si rivolgerà a Dio onnipotente, lo informerà della propria situazione disperata e chiederà di poter guarire. Tutta la sua preghiera sarà una preghiera di domanda. Metterà Dio con le spalle al muro, gli ingiungerà di rendersi utile.
Se guarirà, renderà grazie a Dio. Ma la sua malattia sarà stata inutile: non avrà imparato nulla. Sarà guarito fisicamente, ma non sarà cresciuto nella fede.
Se vedrà che il suo stato continua a peggiorare, sarà assalito dalla disperazione e o maledirà Dio o non ne parlerà più, aspettando con angoscia crescente la morte, che annullerà il suo vano desiderio di esistere.
Nella stessa situazione, il credente sa che il suo desiderio di esistere è al sicuro presso Dio. Anche in lui il desiderio di guarire minaccia di prendere il sopravvento su tutto il resto. Ma c'è la preghiera a salvaguardarlo o a liberarlo da questo pericolo. Nella preghiera, il credente ritrova la certezza che la realtà dell'uomo va al di là dell'avvenimento che lo aggredisce; ritrova il proprio desiderio e quel Dio che lo appaga.
Se quest'uomo guarirà, uscirà dall'esperienza della malattia più credente, più pervaso dall'amore di Dio. E renderà grazie per tutto ciò.
Se vedrà che il suo stato continua a peggiorare, non si accanirà a pretendere che Dio lo guarisca, ma neppure si abbandonerà alla disperazione. Si affiderà nella preghiera a Colui che attira e accoglie il suo desiderio di vita. L'azione di grazie (eucaristia) allora lo accompagnerà silenziosamente fino al momento in cui proromperà nella gioia della risurrezione.
Desiderare ciò che desidera Dio
Di fronte al desiderio dell'uomo, non si apre soltanto la prospettiva estrema della vita o della morte. Ci sono anche le prospettive quotidiane dei compiti da assolvere, degli impegni da assumere, delle persone da incontrare.
L'ateo non prega: riflette e si concentra. L'uomo religioso prega; in realtà, non fa altro che chiedere e mercanteggiare, sperando di aggiungere agli strumenti naturali di cui dispone per soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri anche lo strumento magico della preghiera.
Il credente prega; se la sua preghiera include ancora un certo numero di domande che esprimono i suoi bisogni e i suoi desideri, ciò dipende dal fatto che non si diventa pienamente credenti in una volta sola e per sempre. Ma la preghiera del credente si concentra su una sola domanda: quella di poter aderire totalmente, con tutto il proprio desiderio, al desiderio di Dio, quella di poter organizzare ogni giorno i propri bisogni e i propri desideri in modo che il proprio agire serva ad esistere veramente e a far esistere gli altri. In poche parole: pregare per diventare collaboratori del desiderio di Dio.
Solo in questa prospettiva la preghiera diventa efficace, diventa capace di cambiare qualcosa nella vita delle persone.
* Un Dio assente? Religione, ateismo e fede: tre sguardi sul mistero. EDB, Bologna 1995
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• È giusto “chiedere” quando preghiamo?
• Cosa chiediamo pregando?
• Come reagiamo se Dio non ci esaudisce?
• Quale tipo di preghiera sarà sicuramente esaudita?
26-SE RIMANETE IN ME E LE MIE PAROLE RIMANGONO IN VOI, CHIEDETE QUEL CHE VOLETE E VI SARÀ DATO (GV 15,7).
Dimorare in Gesù significa che le sue parole dimorano in noi. Non è sufficiente accettare Gesù come persona; bisogna accettare anche il suo messaggio, con tutto ciò che ha detto, senza sconti. Accogliere una persona vuol dire concretamente accettare il suo mondo, sua storia. Dimorare in lui, accettarlo e amarlo, significa avere il suo stesso modo di pensare e di agire.
Non si tratta di moralismo. Un amore che non si traduce in comportamento è falso: si ama con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). L'amore diventa necessariamente impegno morale, modo di valutare e di vivere.
Se dimoriamo in lui e le sue parole dimorano in noi, siamo in sintonia con lui e vogliamo ciò che lui vuole Per questo avviene ciò che vogliamo.
Silvano Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2008
27-PREGARE SECONDO IL VANGELO
“Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,5-13).
di François Varone*
Non tutti hanno la Bibbia sul comodino. Ma tutti, anche i non credenti, conoscono alcune frasi del Nuovo Testamento, che purtroppo costituiscono per molti l'unico riferimento alla fede cristiana.
Se si parla della preghiera, verrà fuori immediatamente il famoso “Chiedete e vi sarà dato”, una parola che lusinga le speranze dell'uomo religioso tanto quanto diverte o irrita l'ateo nella sua critica della religione.
L’amico importuno
Sempre nello stesso capitolo Luca ci propone la parabola dell'uomo che va a importunare un amico, durante la notte, e insiste finché non riesce a farlo alzare dal letto per dargli il pane di cui ha bisogno.
Questa parabola sembra in aperta contraddizione con quello che Gesù afferma a proposito della preghiera dei “pagani”. Secondo Gesù, infatti, è tipico dei “pagani” pensare che a forza di parole, a forza di insistere, a forza di novene si finirà per essere esauditi, si riuscirà a piegare Dio! (Mt 6,7).
La parabola dell'amico importuno parla indubbiamente di insistenza: si infastidisce l'altro, non gli si dà tregua, e così si ottiene ciò che si vuole. Questo è il racconto da cui si parte.
Ma la lezione che Gesù ne ricava a proposito di Dio, è un’altra! Per smuovere un amico umano bisogna insistere molto, solo esercitando una pressione spudorata è possibile ottenere qualcosa. Con Dio, è tutto diverso! Chiedete, e vi darà senza farvi aspettare. Bussate, vi aprirà senza indugio. Cercate, e troverete senza fatica.
La storia dell'amico importuno ha soltanto la funzione di provocare una presa di coscienza: con un amico bisogna insistere, ma si ottiene: con Dio, che è nostro Padre, non c'è bisogno di insistere: basta chiedere, e si riceve!
Gesù insiste: “Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto”. Poi, dopo aver sottolineato l'immediatezza del dono, il testo mette in evidenza la sua bontà: quando un bambino chiede un uovo, suo padre non gli darà certo uno scorpione che lo punge e lo uccide! “Se dunque voi sapete dare cose buone ai vostri figli...”. Al che l'uomo religioso si rallegra: ecco un Dio pronto a fargli avere, a stretto giro di posta, le cose buone di cui ha bisogno! Questa si che è una buona religione!
Il dono dello Spirito
Ma Gesù continua: “…quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono”.
Tutto crolla, tutto si risolve in una desolante delusione: lo Spirito Santo! Per favore, ditemi a che cosa serve! Aspettavamo il pane, chiedevamo la guarigione, l'amore, la fortuna, il potere, e ci viene dato lo Spirito Santo!
Si, lo Spirito Santo: la cosa buona di Dio! Luca precisa il pensiero che era rimasto nel vago in Mt 7,11, che si limitava a parlare di cose buone. Dio colma indistintamente tutti gli uomini, buoni e cattivi, di tutti i doni meravigliosi della creazione: la terra, l'acqua, il sole... Questo mondo è lasciato e affidato a loro: è la loro libertà, la loro fatica quotidiana, la loro lotta e la loro preoccupazione.
Se vogliono andare oltre, se vogliono entrare nell'alleanza con Dio, vivere nel suo regno, immettersi nella sua esistenza di giustizia, allora possono chiedere, nella preghiera, lo Spirito. È l'unica «cosa» buona che Dio da, ed è Egli stesso! È un dono eccellente: non è uno scorpione che uccide, un serpente che morde e uccide anch'esso, ma è la vita e la conoscenza e la realizzazione del desiderio profondo dell’uomo.
Questo dono risponde immediatamente alla richiesta, perché Dio non desidera altro che donare il suo Spirito: l'uomo deve soltanto aprirsi a questo dono, chiedendolo, e lo riceverà, nella misura esistenziale della sua apertura. Se nella memoria della gente si riuscisse a ricollegare la menzione dello Spirito al famoso “Chiedete e vi sarà dato” che tutti conoscono così bene, ci sarebbe più fede.
* Un Dio assente? Religione, ateismo e fede: tre sguardi sul mistero. EDB, Bologna 1995
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quando leggiamo il Vangelo e abbiamo dei dubbi, che strumenti usiamo per risolverli?
• Lo Spirito santo: l’illustre sconosciuto. Eppure tutto l’agire di Gesù è illuminato dallo Spirito. E il nostro?
Uomini e donne nella bibbia
28-IL CIECO NATO (GV 9,1-41)
La realtà è più importante dell’idea
di Sergio Massironi*
Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”.
Fin dalle prime battute di questo episodio raccontato dall’evangelista Giovanni, a farla da padrone sono le idee. I discepoli non sono scossi dalla cecità di quell’uomo ma da un dilemma morale. Il cieco dalla nascita resta ai margini: che sia nel peccato è presupposto e questo è il loro pregiudizio.
Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”.
Il dilemma morale a Gesù non interessa: a Lui interessano i nostri problemi insoluti e la volontà divina di manifestarsi. Dio – annuncia Gesù – si rivela solo nella realtà così com’è. Per Gesù Dio è più reale della realtà. Ma per vederlo all’opera, la realtà va presa di petto, non piegata al sentito dire.
Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Per Giovanni, Gesù non è tanto un guaritore cui basta una sola parola per sanare ma quel Signore che, circondato da domande, giudizi, opinioni, pericoli, opera e chiede di operare. E dopo aver operato, si ritirerà dalla scena, creando lo spazio della prova e della ricerca, che svelerà la libertà o la schiavitù di molti cuori.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?”. Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”.
Dopo il pregiudizio, Giovanni dà spazio alle chiacchiere: un secondo modo di annegare la verità nelle parole. Ciò che conta è partecipare, dire la propria. Importa più l’aver qualcosa da dire piuttosto che ospitare un fatto, capire che cosa sia accaduto.
Egli rispose: «Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va' a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista».
Alla chiacchiera resiste solo la semplicità: il cieco racconta, mette a disposizione dei fatti, così come sono andati, senza alcuna pretesa di tirare le conclusioni.
Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista.
Poi compaiono i farisei, i maestri, quelli cui, ancora una volta, nulla importa della realtà: hanno un mondo di valori da sostenere, ritengono di dovere operare insegnando.
Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c'era dissenso tra di loro.
Se c’è dissenso, anche tra loro, è perché chi insiste su una certezza e chi su un’altra, ma qui la verità è qualcosa che loro hanno già: i fatti, la realtà, non interessa.
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.
Tutto ciò che non è ammesso va conseguentemente rimosso, in prima istanza con una gogna intellettuale e poi sul piano del diritto: “fuori dalla sinagoga!”.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno.
Ritornando all’inizio del brano, Gesù ci ricorda che, in un mondo di realtà stravolte, possiamo operare. Sporcandoci le mani, lavandoci alla sua fonte, accettando di essere tirati da una parte e dall’altra – fedeli a quanto ci è accaduto e a ciò che ci è di fronte – la fede crescerà e vedremo con sempre maggior coscienza le grandi opere di Dio.
“Tu credi nel Figlio dell'uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi.
L’intelligenza del cieco è messa in moto da quello che gli è accaduto e dalle prove che ha affrontato. L’intelligenza non piega, ma illumina la realtà: è capace di ciò che infinitamente la supera, è capace di Dio, a partire dalle umili realtà in cui quotidianamente è disposta a coinvolgersi. Niente di ciò che pure è in partenza disgrazia e sventura – nascere cieco, esser sulla bocca di tutti, venire trascinato in tribunale, trovarsi rinnegato dai genitori ed espulso dalla comunità civile – si è rivelato esclusivamente di ostacolo. Un incontro è avvenuto.
* Fonte: Il blog di don Sergio Massironi
Sintesi della Redazione
29-GLI STATI GENERALI DELLA NATALITÀ
Il cammino del Forum Famiglie dal Family day a oggi
di Franco Rosada
Il 14 maggio si sono tenuti a Roma, presso l'Auditorium della Conciliazione, i primi Stati Generali della Natalità. Hanno portato i loro saluti papa Francesco e il presidente del Consiglio Mario Draghi, ha tenuto la relazione introduttiva il professor Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT, a cui hanno fatto seguito numerose testimonianze da parte di rappresentanti del mondo della finanza, delle imprese, dello spettacolo, moderate da Gigi De Palo, presidente del Forum della Associazioni Familiari.
Occupare spazi...
Seguendo questo evento ho pensato alla distanza non solo temporale ma anche culturale da un altro grande evento sempre organizzato dal Forum. Mi riferisco al primo Family day che, nel maggio del 2007 aveva riempito a Roma la piazza di San Giovanni in Laterano.
Una folla di circa 200 mila tra persone e famiglie giunte da tutta Italia si radunò per protestare contro il disegno di legge del governo Prodi sui diritti e doveri dei conviventi sia etero che omosessuali (DICO). Quella manifestazione costrinse il governo a ritirare la proposta.
Si era voluto, con questa imponente manifestazione, affermare il primato della famiglia legata dal vincolo matrimoniale sulle altre forme di convivenza.
Ma non poteva bastare una “piazza” per fermare un fenomeno sociale da tempo in atto e, alla luce dei fatti, inarrestabile.
Così, meno di dieci anni dopo, nel 2016 il parlamento approvava la legge sulle unioni civili, molto più incisiva dei DICO sul tema delle convivenze.
Nel 2007 i cattolici avevano vinto una battaglia, ma nel 2016 perdettero la guerra.
... o iniziare processi?
Nel 2013 diventa papa Jorge Mario Bergoglio che nello stesso anno pubblica l’esortazione Evangelii gaudium, il testo programmatico del suo pontificato.
In questo documento, non so da quanti letto e, soprattutto, studiato, papa Francesco propone uno sguardo diverso sulla realtà sociale proponendo quattro principi (quelli che abbiamo presentato in questo numero) il primo dei quali afferma che “il tempo è superiore allo spazio”.
Come spiega il Papa, dare priorità al tempo significa occuparsi “di iniziare processi più che di possedere spazi” (EG 223).
Che processi può attivare il Forum? Il tema famiglia è troppo divisivo, non trova più corrispondenze nella società – anche i figli di famiglie praticanti convivono! – eppure i valori che porta con sé sono troppo preziosi per abbandonarli.
Un elemento costitutivo della famiglia sono i figli. Ma oggi il tema figli viene procrastinato nel tempo, oppure viene esasperato con la ricerca della maternità ad ogni costo.
La realtà sociale ci dice che i figli sono un “lusso”, costano non solo economicamente ma incidono anche, e pesantemente, sulla vita professionale delle madri.
La natalità
Il risultato è che in Italia nascono ogni anno sempre meno figli. Nel 2020 abbiamo toccato il minimo storico di nascite dall'unità d'Italia. Meno figli vuol dire invecchiamento medio della popolazione, più problemi di cura degli anziani, meno risorse per la sanità.
Anche solo da un punto di vista utilitaristico, i figli “servono”. Si può essere divisi su che cosa sia oggi la famiglia, ma non sul fatto che il sistema paese ha bisogno delle nuove generazioni per sopravvivere. È questo il processo che con la presidenza di Gigi De Palo, il Forum ha intrapreso a livello sociale e politico e ora, con l’approvazione all’unanimità dell’assegno unico universale per i figli, ha portato ad un primo risultato.
30-COME STANNO I GF?
Oltre trent’anni e sentirsi ancora giovani (dentro)
di Noris e Franco Rosada
Ci ha fatto molto piacere - e spero che questo valga anche per tutte le persone collegate- riavere con noi il prof. Guido Lazzarini - cofondatore con la moglie Anna del Collegamento tra GF - che ci ha presentato una riflessione sulle dinamiche sociali del nostro tempo, con una particolare attenzione alla famiglia.
Rivedendolo e riascoltandolo, pensiamo che ai molti che lo hanno conosciuto sia venuto in mente il modo con cui sovente li apostrofava “ragazzino/a”.
Ci siamo sentiti più giovani di almeno trent’anni, almeno nello spirito.
Coinvolgere i giovani
In questo secondo anno di lavoro come coppia responsabile del Collegamento - il primo anno ce lo ha portato via il Covid - abbiamo sentito via telefono, e incontrato via Zoom, una serie di coppie e di gruppi.
Erano tutte persone di media età, a volte anche più anziane, mai giovani.
Questo è un periodo storico in cui ci sono veri e propri salti culturali tra generazioni.
Come arrivare anche a loro? Questo è l’anno che papa Francesco ha dedicato a Famiglia Amoris Laetitia.
Se nelle vostre comunità vi sono gruppi di giovani coppie perché non proporre loro di commentare, con i loro tempi e i loro metodi, un capitolo dell’esortazione di Francesco sull’amore?
Noi li pubblicheremmo volentieri sulla rivista e potremmo così coinvolgerli nella nostra esperienza. Pensateci e poi fateci sapere.
Il Collegamento
In questo secondo anno non abbiamo lavorato da soli. Alcune coppie ci hanno affiancato nella preparazione degli incontri bimensili di preghiera. Altre si sono rese disponibili a condurre la lectio divina nei gruppi che erano interessati a fare questa esperienza, ecc.
Siamo riusciti a mettere in atto quanto deciso nell’incontro di collegamento di giugno 2019 - in cui eravamo stati eletti coppia responsabile- e di ciò ringraziano tutti.
31-NOTIZIE IN BREVE
Ma non per questo meno importanti!
5x1000 anno 2020
Sappiamo di essere in ritardo, molti di voi hanno già presentato la denuncia dei redditi 2020, ma vi rinnoviamo l’invito a destinare il vostro 5x1000 alla nostra associazione. Come sapete da questa fonte deriva più di un terzo delle nostre entrate. Grazie!
Campi estivi?
Sarebbe stato molto bello, dopo più di un anno di clausura, riproporre i campi estivi. Purtroppo sono attività che si devono iniziare a programmare a partire da gennaio, e l’Italia a gennaio era nel pieno della terza ondata.
Ora la situazione è migliorata ma non al punto di permettere lo svolgimento di un campo senza rischi. Lo constatiamo scorrendo le norme previste dai campi estivi per i ragazzi. Con dispiacere è tutto rinviato al 2022!
Incontri on line o in presenza?
Ci auguriamo tutti che a ottobre sia possibile riprendere gli incontri in presenza. Da parte nostra, causa età e distanze, continueremo a proporre incontri on-line. Purtroppo non possiamo fare diversamente.
Programma 2021-2022
Come conseguenza di quanto sopra scritto, pensiamo di proporre a metà settembre un incontro video in cui presenteremo in modo organico i contenuti degli ultimi tre numeri della rivista e i libri che abbiamo utilizzato per realizzarli.
La facciamo con l’intento di offrire ai gruppi spunti per la definizione delle tematiche da proporre negli incontri del prossimo anno pastorale.
Noris e Franco
32-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Papa Francesco, Evangelii gaudium. Esortazione apostolica, Edizioni San Paolo, Milano 2013
Sulla rivista non abbiamo mai affrontato direttamente questa esortazione di papa Francesco, a causa delle sua complessità. Come comunità credente ci sono giunti solo frammenti del documento: la nuova evangelizzazione, la Chiesa in uscita, la logica dello scarto, la gerarchia delle verità, ecc.
In realtà l’Esortazione si articola in sette punti: la riforma della Chiesa in uscita missionaria, le tentazioni degli agenti pastorali, la Chiesa intesa come totalità del popolo di Dio che evangelizza, l’omelia e la sua preparazione, l’inclusione sociale dei poveri, la pace e il dialogo sociale, le motivazioni spirituali per l’impegno missionario, punti che costituiscono le colonne fondanti della visione di Papa Francesco per la nuova evangelizzazione.
In questo numero abbiamo preso in considerazione solo i quattro principi su cui si deve basare il dialogo sociale, il nostro essere Chiesa nel mondo.
Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio, Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017.
Una delle critiche mosse all’operato di Bergoglio è legata alla sua scarsa “preparazione”, alla mancanza di fondamenta teologiche e filosofiche solide.
Questo libro dimostra esattamente il contrario, presentando tutti i “maestri” che hanno segnato e formato nel corso del tempo il pensiero di papa Francesco. Bergoglio è accusato dai suoi detrattori di essere imbevuto di cultura sudamericana ma questo libro dimostra quanto egli sia, per formazione e letture, profondamente europeo.
In questo numero abbiamo ragionato sui quattro principi su cui si deve basare il nostro essere Chiesa nel mondo. Ebbene, Bergoglio ha ricavato questi principi studiando il pensiero del teologo tedesco Romano Guardini.
Non è un libro di facile lettura - è scritto da un filosofo - ma è utile conoscerne l’esistenza per smentire tutti coloro che criticano Francesco.
Romano Guardini, Formazione liturgica, Editrice Morcelliana, Brescia 20152.
Se l’ultima edizione di questo libro è del 2015 occorre subito dire che la prima edizione risale a quasi cent’anni fa: il 1923 anche se è stata rivista dall’autore durante il Concilio.
Nonostante ciò, questo testo continua ad esser attuale, sia per la notorietà di Guardini, sia sopratutto per il suo contenuto.
Ve lo proponiamo, nonostante richieda un certo impegno nella lettura, perché la riforma liturgica del Concilio non riguarda solo le forme del rito (la lingua, l’altare, i lettori, ecc.) ma soprattutto la formazione necessaria per accoglierlo. Se le forme sono cambiate, è ancora da realizzare la formazione dei credenti, a tutti i livelli.
Infatti, il teologo Inos Biffi, parlando di questo libro, ha scritto che “sarebbe una grazia mirabile e singolare se venisse accolto nei seminari”.
Accogliamo anche noi questa grazia!
Elisabetta Casadei, Tutto (o quasi) sulla Messa, Effatà Editrice, Cantalupa (TO). Vol. 1 2014, Vol. 2 2015.
Il primo volume di questo libro lo avevamo già presentato e utilizzato nel numero dedicato a Eucaristia e famiglia (GF 84) e l’autrice ci aveva anticipato parti del secondo volume.
Ci sembra utile riproporlo, insieme al secondo volume, perché entrambi sono un ottimo strumento per capire i segni, i gesti, le preghiere, i riti dell’eucaristia.
Solo dando il giusto significato a ciò che si vive e si celebra è possibile realizzare quella partecipazione “attiva” - meglio sarebbe dire “efficace” - di cui parla la Sacrosanctum concilium.
François Varone, Un Dio assente? Religione, ateismo e fede: tre sguardi sul mistero, EDB, Bologna 1995.
Questo è un libro che vorremmo proporre ai nostri lettori.
Perché questa proposta? Perché il testo aiuta a dissipare alcune storture mentali che un certo tipo di educazione religiosa può produrre.
Il Dio di cui parla Varone non è “il dio dell’ateismo, troppo assente perché inesistente, né il dio della religione, troppo presente perché protagonista del governo del mondo”.
L’unico segno di Dio nel mondo è Gesù, che è presente nella Chiesa, nella Parola e nei sacramenti. Il credente non confida nella liberazione dalle fatiche e dalle sofferenza di questa vita, ma nella vita eterna, nella vita in Dio.
Per questo abbiamo attinto a questo libro per affrontare il tema “religione e fede”, con particolare attenzione alla preghiera e alla Parola.