Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF111 – luglio 2022
Invecchiare e morire da cristiani
Lettere alla rivista
1-LODARE IL SIGNORE ANCHE NEL DOLORE
Cogliere, oltre la morte, la gioia della resurrezione
Perché si canta l’Alleluia nelle messe funebri? Trovo che strida con il dolore di coloro che vi partecipano.
Gaetano
Sant’Agostino, commentando il significato della parola Alleluia, tra l’altro scrive: ”Alleluia significa lodare il Signore”. Poi aggiunge: ”Vieni, dunque, lodiamo insieme il Signore. Se tu lodi il Signore e io lodo il Signore, perché dovremo essere in discordia? Il canto loda il Signore, la discordia lo bestemmia” (1).
Approfondendo poi la riflessione il santo sostiene che l’Alleluia, questo canto nuovo, si deve cantare in tutta la terra. È da questa prospettiva di fede che l’Alleluia diventa l’inno di lode al Signore per eccellenza.
L’altro termine in questione è la messa funebre nella quale si canta l’Alleluia. Anche in proposito occorre precisare bene il significato della messa funebre. La Messa consiste nel rinnovare sull’altare il sacrificio che Cristo ha compiuto seguito dalla sua risurrezione.
In questo atto – il più alto e significativo della liturgia cristiana – la Chiesa mette, tra l’altro, il ricordo al Signore della vita dei propri defunti. Chiede per loro che il Signore abbia misericordia, perdoni i peccati e li conduca con sé in Paradiso.
Chiarito il significato dato a ciascuno dei due termini principali della questione posta da Gaetano, ora si può indicare una possibile risposta. Intanto credo che occorra precisare che le messe celebrate per i morti – in quanto tali – non sono celebrazioni eucaristiche diverse dalle altre messe, ad esempio quelle domenicali.
È chiaro che le persone che vi partecipano – in particolare i congiunti – sono scossi dal dolore e quindi fortemente coinvolti nel distacco dalla persona cara, sono sopraffatti da altri sentimenti; non certo di gioia.
La Chiesa tuttavia anche in queste celebrazioni canta – prima della lettura del Vangelo – l’Alleluia per lodare il Signore per quanto di bontà ha seminato nella vita quel defunto o quella defunta e prega perché possa ricevere il premio eterno per il bene fatto costruendo nella sua vita la fedeltà alla Parola e combattendo contro ogni discordia e divisione.
Questo è l’impegno del credente.
A sostenere questo impegno c’è la preghiera strettamente integrata con la vita a cui ne offre il senso autentico.
Giovanni Villata
1 S.AGOSTINO, Esposizione sul salmo 149,2.
Dialogo tra famiglie
2-IL DRAMMA DELLA NON AUTOSUFFICIENZA
Come aiutare le famiglie senza essere invadenti
Si parla tanto della Chiesa come comunità dei credenti. Ma dov’è la comunità quando una famiglia deve prendersi cura p.e. di un anziano afflitto da demenza senile?
Enrica
Di fronte alla sofferenza siamo un po’ tutti spiazzati. Se poi si tratta di malattie degenerative ci sentiamo umanamente del tutto impotenti.
Molto spesso siamo frenati dal timore di essere considerati invadenti perché c’è un pudore anche rispetto alla malattia.
Anche se la parrocchia è una comunità viva e solidale, questo tipo di sofferenze esige molta delicatezza.
Serve una conoscenza profonda della famiglia impegnata nell’attività di cura ed è necessario che questa, a sua volta, sentendosi davvero parte della comunità, ne accetti l’aiuto.
Come la comunità parrocchiale si fa carico di coloro che sono nel bisogno materiale e spirituale, sarebbe altrettanto importante che, nella comunità, si parlasse apertamente di queste realtà facendosene carico.
Resta vero che lo svolgimento delle attività di cura necessarie non possono essere affidate in modo improvvisato e che gli ammalati sovente fanno fatica da accettare volti sconosciuti.
L’aiuto, in pratica, alla fine si può ridurre ad offrire alla famiglia interessata qualche momento di sollievo.
Chi non ha il coraggio di offrire concretamente questo delicatissimo servizio credo possa dedicarsi serenamente alla preghiera di intercessione a favore del malato e della sua famiglia, e non è cosa da poco.
Se crediamo, la preghiera d’intercessione è ugualmente preziosa.
Anna Lazzarini
In questo numero
3-MORTE E RESURREZIONE
Qual è il fine della vita?
di Franco Rosada
Mentre in redazione stavamo realizzando questo numero la guerra a bassa intensità tra Russia ed Ucraina, che durava già da otto anni, è esplosa in tutta la sua virulenza.
Mi auguro di cuore che quando leggerete questo articolo sia stato raggiunto almeno un cessate il fuoco tra le parti.
Penso che quanto sta accadendo ha comunque segnato le nostre vite: dopo 77 anni di “pace” la guerra è tornata in Europa.
Credo che ciò meriti una riflessione approfondita su cosa significhi per noi la parola pace, in particolare in un’ottica familiare e cristiana.
Per questo motivo abbiamo, come redazione, deciso di rimandare il tema previsto per il numero di novembre: ”maschile, femminile e *” e trattare invece di: “Pace, vita e libertà”.
Possiamo suddividere il contenuto di questo numero in tre parti.
La prima è dedicata al tema dell’anzianità, che si può riassumere in un titolo: la grande arte di invecchiare, invecchiare in modo fecondo come singoli e come coppia.
La seconda è dedicata ai Novissimi, cioè alle realtà ultime che ci attendono.
Non è un tema molto presente nelle omelie, per questo lo abbiamo voluto approfondire attraverso le riflessioni Anselm Grün.
La terza, infine, è dedicata alla cura, all’accompagnamento dei morenti e ai rituali da adottare.
In questo contesto, abbiamo dedicato tre pagine al tema del suicidio assistito e di come questa deriva culturale possa essere positivamente contrastata attraverso le cure palliative.
Credo che sia molto importante, su questo argomento, avere le idee chiare per non ragionare solo in termini di un Sì/No secco.
Come si è svolto il primo momento del cammino sinodale nella vostra parrocchia, nella vostra diocesi?
Noi, come Collegamento tra Gruppi Famiglia, abbiamo utilizzato due modalità per la consultazione: quattro incontri via Zoom e un questionario on-line.
Trovate una sintesi di quanto è emerso nelle ultime pagine di questo numero.
Ma il cammino non è terminato: ne riparleremo a ottobre, dopo la divulgazione dell’instrumentum laboris.
Ringraziamo di cuore tutti coloro che ci hanno inviato un loro contributo rispondendo al questionario, come ringraziamo coloro che hanno risposto alle tre domande che avevamo fatto circolare in previsione degli argomenti che poi abbiamo trattato in questo numero.
La periodicità della rivista rende molto difficile proporre e scambiarsi pareri e opinioni su temi di stretta attualità.
Per questo motivo da anni abbiamo attivato un blog (gruppifamiglia.wordpress.com) su cui sono stati pubblicati oltre mille post. Vi invito quindi ad iscrivervi e a commentare quanto viene pubblicato.
formazionefamiglia@libero.it
4-COME E PERCHÉ SOSTENERCI
Si paga un abbonamento per ricevere questa rivista o la rivista viene inviata a coloro che sostengono l’associazione Formazione e Famiglia?
Sembra un po’ una domanda nello stile di: “è nato prima l’uovo o la gallina?”, ma non è così.
Non siamo degli editori, il nostro scopo non è raccogliere abbonamenti ma quello di promuovere i Gruppi Famiglia nelle realtà parrocchiali. La rivista è risultata nel tempo - ha già trent’anni - lo strumento più adatto a questo scopo, insieme con i campi estivi per famiglie.
Però, senza i vostri contributi, l’associazione non ha i mezzi economici per stamparla e spedirla.
Quindi, vi invitiamo ad evitare di scrivere sul bollettino di CCP “abbonamento anno XX”, perché sono informazioni che già conosciamo, lasciate l’indicazione prestampata: “contributo liberale”, che è la vera natura del vostro versamento e che vi permette di detrarre quanto versato dalla dichiarazione dei redditi.
5-CAMPI ESTIVI 2022
Ecco il calendario dei campi per famiglie di quest’estate.
Affrettatevi ad iscrivervi!
22-29 luglio Sant’Anna di Vinadio (CN)
Tema: "Perché, credendo, abbiate la vita" (Gv 20,31).
Relatore: Angelo Fracchia, biblista.
Org.: Diocesi di Cuneo.
Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786, tommy.angela@libero.it
7-13 agosto Bessen Haut (TO)
Tema: "Uomini e donne di speranza"
Relatori: Fraternità della Speranza del Sermig di Torino.
Sacerdoti: Don Massimo Lovera e Don Manuel Monti.
Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).
Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431, curra@email.it
7-13 agosto Valle di Cadore (BL)
Tema: “Crediamo ancora nella famiglia!”
Relatori: Andrea e Daniela Pozzobon , Giuseppe e Monica Goisis , Toni e Valeria Piccin.
Sacerdote: Francesco Pellizzer.
Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.
Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718, 375 6066265, antoniobottero@alice.it
6-La Prima Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani
IL MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO
Il mio augurio è che ogni nonno, ogni anziano, ogni nonna, ogni anziana – specialmente chi tra di noi è più solo – riceva la visita di un angelo!
Nei nostri sogni di giustizia, di pace, di solidarietà risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, e si possa insieme costruire il futuro.
Cari nonni, care nonne!
“Io sono con te tutti i giorni” (cfr Mt 28,20) è la promessa che il Signore ha fatto ai discepoli prima di ascendere al cielo e che oggi ripete anche a te, caro nonno e cara nonna. A te.
“Io sono con te tutti i giorni” sono anche le parole che da Vescovo di Roma e da anziano come te vorrei rivolgerti in occasione di questa prima Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani: tutta la Chiesa ti è vicina – diciamo meglio, ci è vicina –, si preoccupa di te, ti vuole bene e non vuole lasciarti solo!
I nostri angeli
So bene che questo messaggio ti raggiunge in un tempo difficile: la pandemia è stata una tempesta inaspettata e furiosa, una dura prova che si è abbattuta sulla vita di ciascuno, ma che a noi anziani ha riservato un trattamento speciale, un trattamento più duro.
Il Signore è accanto a quanti vivono l’esperienza dolorosa di essere messi da parte; la nostra solitudine non gli è indifferente. Una tradizione narra che anche San Gioacchino, il nonno di Gesù, fu allontanato dalla sua comunità perché non aveva figli; la sua vita – come quella della sua sposa Anna – era considerata inutile. Ma il Signore gli mandò un angelo per consolarlo. Mentre egli, rattristato, rimaneva fuori dalle porte della città, gli apparve un inviato del Signore per dirgli: “Gioacchino, Gioacchino! Il Signore ha esaudito la tua insistente preghiera”.
Anche quando tutto sembra buio, come in questi mesi di pandemia, il Signore continua ad inviare angeli a consolare la nostra solitudine e a ripeterci: “Io sono con te tutti i giorni”.
Il mio augurio è che ogni nonno, ogni anziano, ogni nonna, ogni anziana – specialmente chi tra di noi è più solo – riceva la visita di un angelo!
Alcune volte essi avranno il volto dei nostri nipoti, altre dei familiari, degli amici di sempre o di quelli che abbiamo conosciuto proprio in questo momento difficile.
La vocazione degli anziani
Il Signore, però, ci invia i suoi messaggeri anche attraverso la Parola di Dio, che Egli mai fa mancare alla nostra vita. Leggiamo ogni giorno una pagina del Vangelo. La Scrittura ci aiuterà anche a comprendere quello che il Signore chiede alla nostra vita oggi. Egli, infatti, manda gli operai nella sua vigna ad ogni ora del giorno (cfr Mt 20,1-16), in ogni stagione della vita.
Io stesso posso testimoniare di aver ricevuto la chiamata a diventare Vescovo di Roma quando avevo raggiunto, per così dire, l’età della pensione e già immaginavo di non poter più fare molto di nuovo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice agli Apostoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (28,19-20).
Qual è la vocazione nostra oggi, alla nostra età? Custodire le radici, trasmettere la fede ai giovani e prendersi cura dei piccoli.
Non importa quanti anni hai, se lavori ancora oppure no, se sei rimasto solo o hai una famiglia, se sei diventato nonna o nonno da giovane o più in là con gli anni, se sei ancora autonomo o se hai bisogno di essere assistito, perché non esiste un’età per andare in pensione dal compito di annunciare il Vangelo, dal compito di trasmettere le tradizioni ai nipoti.
Ti chiederai: ma come è possibile? Le mie energie vanno esaurendosi e non credo di poter fare molto. Come posso incominciare a comportarmi in maniera differente quando l’abitudine è divenuta la regola della mia esistenza? Come posso dedicarmi a chi è più povero quando ho già tanti pensieri per la mia famiglia? Come posso allargare il mio sguardo se non mi è nemmeno consentito uscire dalla residenza in cui vivo?
Ciò può avvenire, risponde il Signore, aprendo il proprio cuore all’opera dello Spirito Santo che soffia dove vuole. In questa prospettiva, vorrei dirti che c’è bisogno di te per costruire, nella fraternità e nell’amicizia sociale, il mondo di domani.
Sogni, memoria e preghiera
Tra i diversi pilastri che dovranno sorreggere questa nuova costruzione ce ne sono tre che tu, meglio di altri, puoi aiutare a collocare: i sogni, la memoria e la preghiera.
La vicinanza del Signore donerà la forza per intraprendere un nuovo cammino anche ai più fragili tra di noi, per le strade del sogno, della memoria e della preghiera.
Il profeta Gioele pronunciò una volta questa promessa: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). Il futuro del mondo è in questa alleanza tra i giovani e gli anziani.
Chi, se non i giovani, può prendere i sogni degli anziani e portarli avanti? Ma per questo è necessario continuare a sognare: nei nostri sogni di giustizia, di pace, di solidarietà risiede la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, e si possa insieme costruire il futuro.
I sogni sono, per questo, intrecciati con la memoria.
Penso a quanto è preziosa quella dolorosa della guerra e a quanto da essa le nuove generazioni possono imparare sul valore della pace. E sei tu a trasmettere questo, che hai vissuto il dolore delle guerre.
Penso anche ai miei nonni e a quanti di voi hanno dovuto emigrare e sanno quanto è faticoso lasciare la propria casa, come fanno ancora oggi in tanti alla ricerca di un futuro. Alcuni di loro, forse, li abbiamo accanto e si prendono cura di noi.
Questa memoria può aiutare a costruire un mondo più umano, più accogliente. Ma senza la memoria non si può costruire; senza delle fondamenta tu mai costruirai una casa. Mai. E le fondamenta della vita sono la memoria.
Infine la preghiera. Come ha detto una volta il mio predecessore, Papa Benedetto: «La preghiera degli anziani può proteggere il mondo, aiutandolo forse in modo più incisivo che l’affannarsi di tanti». La tua preghiera è una risorsa preziosissima: è un polmone di cui la Chiesa e il mondo non possono privarsi.
Chiedo al Signore che, anche grazie al suo esempio, ciascuno di noi allarghi il suo cuore e lo renda sensibile alle sofferenze degli ultimi e capace di intercedere per loro.
Papa Francesco, 31 maggio 2021
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Leggiamo ogni giorno, come ci invita papa Francesco, una pagina di Vangelo?
• Quali valori trasmettiamo ai nostri figli, ai nostri nipoti? Tra questi c’è anche la fede?
• Sogni, memoria, preghiera. Quali di queste dimensioni dello spirito ci viene più facile coltivare?
7-LA GRANDE ARTE DI INVECCHIARE
Molti anziani non accettano di invecchiare, vorrebbero continuare a occupare il centro della scena e suscitare l'interesse generale.
I giovani devono esprimere tutta la loro fiducia verso gli anziani ma aiutandoli a prendere gradualmente coscienza dello stato reale delle cose.
di Anselm Grün*
Oggi è forte la tendenza a isolare le persone anziane, escludendole dalla comunità dei giovani. Nel dibattito pubblico sentiamo levarsi voci che considerano i “troppi vecchi” come un peso per la società e un serio ostacolo all'avanzare delle nuove generazioni.
Nel passato i vecchi erano solamente apprezzati, rappresentavano la vera ricchezza di un popolo. In gran parte delle società moderne, invece, è la giovinezza a presentarsi come ideale preminente.
La nostra società ha invece bisogno di sviluppare una nuova sensibilità verso la saggezza e il significato della vecchiaia, rivalutata come un bene prezioso.
Di conseguenza, la valorizzazione della vecchiaia aiuterà a guardare positivamente anche al processo del proprio invecchiamento.
L'uomo invecchia spontaneamente, per legge di natura, ma il “modo” dipende da ogni singolo individuo. È davvero una grande arte quella di invecchiare nella maniera migliore.
Il cammino verso questa arte di invecchiare ognuno deve alla fine scoprirlo da sé.
L'arte di invecchiare ci pone nella condizione di riprodurre in noi le cadenze dell'autunno e dell'inverno, vivendo stagioni fruttifere e pacificate, segnate dalla preziosità e dal calore dell'amore. Senza escludere, ovviamente, la possibilità di situazioni negative e dolorose, che tuttavia non devono soffocare la speranza - o la certezza - che alla fine, ancora una volta toccherà alla “vera vita” celebrare il proprio trionfo.
La prospettiva della vecchiaia mi aiuta ad approfondire il significato della mia vita, spingendomi a considerare che io possa - nell'attuale condizione di esistenza e di età - accrescere la consapevolezza delle mie scelte di vita.
Accettare se stessi
Accettare se stessi e apprezzarsi è sicuramente il modo migliore per gustare la propria vita. Molti anziani, purtroppo, si abbandonano al lamento e alla recriminazione: hanno avuto poco dalla vita, troppe disgrazie li hanno visitati, adesso si sentono trascurati e tenuti scarsamente in conto.
Non accettano di invecchiare, vorrebbero continuare a occupare il centro della scena e smuovere l'interessamento generale.
Nella vecchiaia si palesa senza ambiguità se una persona abbia o no saputo vivere pienamente riconciliata con se stessa. Purtroppo non sono pochi i vecchi che guardano volentieri alla loro vita con occhiali scuri.
Preferiscono fissarsi su ciò che non hanno potuto ottenere, oppure su ciò che ora non stanno più ottenendo.
Molti anziani guardano con angoscia al futuro. Temono che al momento del bisogno nessuno si prenda cura di loro; potranno forse essere allontanati dalla famiglia; la morte del coniuge potrebbe farli piombare in una solitudine ancora più insopportabile, e così via.
Nonostante tutto quello che possiamo aver realizzato nella vita, alla fine dovremmo acconsentire alle parole di Gesù: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare”.
Diventare vecchi può essere una gran bella esperienza, a condizione che non si disimpari cosa vuol dire ricominciare.
Pertanto, chi volesse farsi accompagnatore in questo itinerario di rinnovamento, non dovrà semplicemente applicare qualche pezza consolatoria sul disagio di una persona anziana disorientata dalle sfide della sua nuova condizione di vita.
Il primo passo consiste nel comprendere e accogliere, con delicata attenzione, il suo dolore, la sua delusione. Il passato non può più essere richiamato indietro. Ma invece che ostinarsi nel rimpianto di ciò che si è perduto, occorre volgere lo sguardo riconoscente a quanto di bello e prezioso la vita ha in ogni caso fatto dono.
Qui di seguito esaminiamo tre aspetti particolari della riconciliazione necessaria per una vecchiaia serena e feconda.
Riconciliarsi con il passato
Ci sono anziani che affermano che dalla vita hanno ricevuto solo dispiaceri.
Diventa sommamente importante aiutare queste persone a capire che, poiché il passato resta immodificabile, è il loro atteggiamento nei suoi confronti che deve cambiare. Infatti, un anziano non troverà pace fin quando non deciderà di riconciliarsi con la propria storia.
Che cosa può essere effettivamente d'aiuto per riconciliarsi col nostro passato? Il dolore non va negato, ma nemmeno deve essere rimuginato all'infinito. Questo vale anche in relazione a certe persone che possono averci recato offesa.
Le persone devote trasformano spesso l’insoddisfazione per la loro vita in rimproveri verso Dio.
Ci vuole un rinnovato coraggio per rimettersi nuovamente nelle mani di un Dio diventato tutto a un tratto misterioso, inafferrabile.
Ma è proprio questa inafferrabilità che alla fine si rivela come pienezza d'amore.
Ripercorrendo il loro passato, non di rado i vecchi patiscono qualche senso di colpa. A questo punto giunge salutare il messaggio del perdono. Se Dio perdona - e possiamo ben crederlo - anche noi dobbiamo perdonarci.
Accettare i propri limiti
Non è certamente agevole rassegnarsi agli impedimenti e alle limitazioni imposte dall'età e dalle condizioni fisiche e mentali ormai compromesse.
L'umiltà e la saggezza nel riconoscere i crescenti limiti conseguenti alla situazione anagrafica, non escludono tuttavia l'applicazione a varie forme di attività ancora utili e salutare (sportive, lavorative, artistiche), praticate secondo precisi criteri di moderazione, sulla base di una vigile e corretta percezione delle reali possibilità.
Ho però anche conosciuto dei figli che non osano riconoscere i limiti dei loro vecchi, e quindi agire di conseguenza. Essi non sono di vero aiuto ai genitori anziani quando soddisfano tutti i loro desideri. I giovani devono continuare a esprimere tutta la loro fiducia verso gli anziani ma senza esimersi dall’aiutarli a prendere gradualmente coscienza dello stato reale delle cose.
Convivere con la solitudine
Alla vecchiaia appartiene anche la solitudine. Ci sono modi diversi di “essere soli”. Uno sta bene da solo e gusta la solitudine quando volutamente si apparta per gustare una buona lettura, riflettere o meditare. C’è invece una solitudine che ci piomba addosso con tutta la sua pesantezza, facendoci sentire esclusi dai contatti umani, trascurato da tutti, lasciati soli col nostro disagio.
Un buon rapporto con la solitudine va dunque costruito già nel corso della vita.
Assillati dallo spettro della solitudine, molti anziani si lamentano del fatto che i figli (o i nipoti) non li visitano frequentemente. Si sentono vivi solo quando qualcuno gira intorno a loro.
Un mezzo efficace per rendere più lieve la solitudine consiste sicuramente nell'aprirsi con simpatia e dedizione all'ambiente e alle persone che ci circondano, invece che sempre e solo attendersi tutto da loro.
Proviamo invece a trasformare questa solitudine in un’esperienza positiva.
Una prima occasione di serenità è rappresentata dalla natura, nella misura in cui sappiamo rivolgere ad essa la nostra attenzione.
Un secondo elemento di aiuto viene da una visione di fede: il sentirsi immersi in Dio, sorretti dalla sua amorevole provvidenza.
Quando nella solitudine discendiamo nella profondità del nostro spirito, lì troviamo Dio. In lui il nostro cuore inquieto si pacifica.
* Tratto da: La grande arte di invecchiare, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Non c’è solo l’arte di amare ma anche quella di invecchiare. Che strumenti usiamo per coltivarla?
• Come anziani, quanto siamo portati al lamento e alla recriminazione? Come accompagnatori riusciamo ad aiutarli?
• Un suggerimento: doniamo ai nostri anziani il libro da cui abbiamo tratto queste riflessioni e leggiamolo a nostra volta.
8-INVECCHIARE INSIEME
Felice compito invecchiare insieme, quando ciò è possibile.
Ma ancora di più continuare ad essere “fecondi”, per esempio come nonni e nonne.
Per accudire una persona anziana è necessario saper accettare serenamente il nostro diventare vecchi.
di Anselm Grün*
Invecchiare insieme è un felice compito per i coniugi, sempre che se ne dia la possibilità. Conosciamo magnifici esempi di anziane coppie che dopo tanti anni di vita in comune ancora si capiscono e teneramente si amano.
Non di rado, quando scocca l'ora del pensionamento, si assiste all'insorgenza di una situazione di crisi tra due persone che per lunghi anni, pur vivendo fianco a fianco, hanno comunque avuto personalissimi ritmi di vita.
Diventa allora più che opportuno un rinnovato accordo di convivenza, affinché non si debba giungere a farsi guerra, ma sia possibile una compresenza in piena serenità.
I genitori anziani devono imparare a parlare non soltanto dei loro figli (o dei nipoti), ma anche di se stessi, onde facilitare la reciproca comprensione e quindi l'accettazione. Occorre una buona dose di pazienza per accogliere la persona che ci vive accanto tale qual è, esattamente come la vita l’ha forgiata.
Quando due anziani coniugi ruotano unicamente intorno a se stessi, tanti elementi di conflitto a lungo rimossi possono tornare a galla, rendendo la vita a due ancora più gravosa.
Essere fecondi
Anche da vecchi si può essere fecondi.
Sono due le condizioni richieste per la fecondità: la giustizia ed essere piantati nella casa del Signore.
Giusto è l'uomo che conduce con rettitudine la propria esistenza e rende giustizia alle necessità degli altri.
Molti anziani si rivelano estremamente narcisisti e tra questi soprattutto coloro che nella vita hanno assaporato qualche successo.
Essere “piantati nella casa del Signore” è la seconda condizione della fecondità.
Occorre mettere radici in Dio, se vogliamo che il nostro albero continui a dare buoni frutti anche nella vecchiaia.
Infatti, arriva un tempo nella vita in cui è necessario liberarsi dagli eccessivi affanni, lasciando che la nostra esistenza scorra secondo ritmi più pacati e sereni. Solo a questa condizione è possibile esprimere gioia e fecondità di servizio anche durante la vecchiaia.
Un altro modo per vivacizzare la propria vecchiaia consiste nel dedicarsi a qualche passatempo (hobby) opportunamente indicato per questa fase della vita.
Uno svago che rechi gratificazione è un ottimo antidoto contro la solitudine, utile anche a prevenire momenti di risentimento e tristezza.
Non di rado, proprio nella vecchiaia si vengono a scoprire possibilità mai sospettate: attitudini musicali o pittoriche, abilità manuali di vario genere, viaggi o escursioni, interessi culturali.
Vi sono amministratori pubblici che si battono con convinzione perché sia data la possibilità ad “anziani esperti” di trasmettere ad altri, soprattutto ai giovani, qualcosa delle ricche conoscenze accumulate nel corso della vita e delle loro attività professionali.
E tuttavia, tanto nell’impegnarsi a favore degli altri quanto nel praticare qualche hobby, è necessario imporsi una giusta misura.
Affinché nella vecchiaia le possibili forme di attività raggiungano il loro scopo salutare e benefico, occorre che siano realizzate con passione e sereno entusiasmo; bisogna metterci il cuore, farci scorrere dentro l'amore.
Per Karl Rahner un compito fondamentale della vecchiaia è quello di servire da ponte tra le generazioni, mediando tra il passato e il presente.
Oggi, ad esempio vediamo come vecchi siano particolarmente desiderati dai bambini: nonni e nonne hanno tempo per loro, li ascoltano e rispondono alle loro domande, non li giudicano troppo severamente. Possono anche svolgere una prudente e utile mediazione tra figli (soprattutto adolescenti) e genitori.
Il rapporto genitori-figli
Invecchiare bene insieme comporta anche un sereno rapporto fra genitori e figli, tra giovani e anziani. Nelle famiglie “allargate” del passato, gli anziani occupavano un posto ben definito.
Questa tipologia di famiglia è oggigiorno quasi del tutto scomparsa. I genitori anziani dispongono solitamente di una propria abitazione, e quando l'età avanzata e la salute richiedono cure più assidue, i figli si trovano di fronte al dilemma se accoglierli in casa propria oppure affidarli a un istituto assistenziale.
Non poche volte sono le donne - figlie o nuore - a farsi personalmente carico dell'assistenza a genitori o suoceri non più autosufficienti, giungendo persino a pretendere fin troppo da sé stesse nell'adempimento di un compito tanto impegnativo.
Rimane comunque questione delicata e ardua quella di decidere fino a che punto la famiglia possa prendersi direttamente cura dei propri anziani oppure si renda necessario l'intervento di persone esterne o addirittura s’imponga il ricovero in una struttura apposita.
È importante che i vecchi, invece di considerarsi semplicemente un peso per la società e in particolare per i loro familiari, siano aiutati a scoprire un senso anche nella malattia, e questo soprattutto a motivo delle preghiere - di lode e di supplica - che possono elevare a Dio. In tal modo diventano una benedizione per il mondo che li circonda.
Se abbiamo a che fare con dei vecchi, ma soprattutto se desideriamo accompagnarli in questo particolare percorso della loro esistenza, dobbiamo per prima cosa prendere coscienza del nostro stesso “io” invecchiante e fin d'ora serenamente accettarlo. Solo a questa condizione potremmo comportarci nei loro confronti da persone rispettose e servizievoli.
In occasione delle mie conferenze, sovente sono interpellato su come sia possibile offrire sostegno a quegli anziani che non hanno più voglia di vivere, sono amareggiati, protestano per avere avuto dalla vita soltanto tribolazioni, E persino si sentono abbandonati da Dio.
Non esistono ricette garantite. La prima cosa da fare e sapersi mettere in ascolto dimostrando interesse anche per certi racconti già sentiti altre volte, evitando di esprimere giudizi affrettati.
Chi si sente preso sul serio e fatto oggetto di attenzione, impercettibilmente si ammorbidisce e apre il suo cuore all'ottimismo.
La percezione della solitudine e dell'abbandono - anche nei casi in cui la famiglia rimanga discretamente presente - è comunque la prova più dura con la quale ogni persona anziana deve fare i conti.
La famiglia deve tener viva la coscienza di quanto sia debitrice verso i suoi vecchi, anche quando sembrano diventati inutili e superflue. Da questo clima di rispetto traggono indubbio beneficio anche, e soprattutto, le giovani generazioni.
* Tratto da: La grande arte di invecchiare, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quali accorgimenti per la vita di coppia abbiamo adottato o pensiamo di adottare di fronte al pensionamento?
• Essere nonni è meglio che essere genitori? Quanto pesano gli acciacchi della vecchiaia nella cura dei nipoti?
• Quali difficoltà incontriamo nel prenderci cura dei nostri anziani?
9-IL NONNO E IL TAVOLINO
In una famiglia con tanti bambini, il nonno si sporcava la faccia a tavola quando erano tutti riuniti a mangiare la zuppa. Il padre, infastidito, decise di comprare un piccolo tavolo per isolare il genitore e non farlo più desinare col resto della famiglia. Un giorno, il padre, rincasando, trovò il figlio intento a giocare col legno. «Cosa fai?», gli chiese. «Un tavolino per te, papà, per quando tu diventerai vecchio come il nonno».
10-ESERCITARSI A “BEN MORIRE”
Dire “sì” alla morte significa trasformarla in un atto d'amore, un'offerta a Dio e agli uomini
Tutto ciò su abbiamo fondato la nostra speranza, di fronte alla morte, è solo una grande illusione?
La morte non è la “fine di tutto” ma un nuovo inizio. Ci attende la vita eterna.
di Anselm Grün*
Più passano gli anni e più si acquista la consapevolezza dell’avvicinarsi della morte.
Tommaso d’Aquino negli ultimi mesi della sua vita improvvisamente tace e lui, che era abituato a dettare contemporaneamente a più segretari, non detterà più nulla.
A un suo amanuense che gli chiedeva ragione di tanto silenzio, rispose: “Non posso più continuare. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia”.
La via del silenzio
Come per Tommaso d‘Aquino, anche per molti anziani si rafforza l’attitudine al silenzio. Il silenzio è un riflettere su “ciò che è stato” e su “ciò che è”. Attraverso il passato si scruta il mistero della vita e della morte.
Le persone anziane possono starsene per ore alla finestra a contemplare la natura, la bellezza degli alberi e dei fiori, i profumi e le armonie delle stagioni.
Chi nella vecchiaia non sa tacere, non diffonde pace intorno a sé. I vecchi silenziosi, invece gettano come una “luce vespertina” su tutto ciò che accade intorno a loro.
Chi da vecchio ha imparato a tacere, non si lamenta della solitudine, non ne sente il peso. È pienamente pacificato, si sente come un tutt'uno con le cose che ha vissuto, con le persone che ha incontrato, molte delle quali ora le immagina nell'eternità di Dio.
I buoni ricordi generano speranza e fiducia riguardo al futuro, sono tra le cose migliori che possiamo scambiarci gli uni gli altri.
Nel tempo della vecchiaia, un altro prezioso contributo fornito dal silenzio consiste nel favorire una serena preparazione alla morte. Davvero qui non servono più tante parole.
Per chi pensa la propria morte, resta davvero ben poco da dire, viene meno ogni bisogno di comunicare.
D'altro lato, però, è proprio dal silenzio che talvolta provengono parole capaci di recare un po' di luce nella vita di qualcun altro.
Succede spesso, infatti, che poche parole pronunciate da un anziano divengano come un lume per il nostro cammino, come un improvviso illuminarsi dell'aldilà.
C'è, infine, il silenzio di fronte a Dio. Si tratta dell'ascolto silenzioso della flebile voce di Dio per diventare, nel silenzio, “uno” con Dio, e in Lui realizzare l'armonia con se stesso e con la propria vita.
Quando l'anziano ripercorre silenziosamente, nei ricordi, la storia della propria vita davanti a Dio, giunge ad assaporare una profondissima pace.
Nella prospettiva della morte, anche i modi con cui ci siamo solitamente immaginato Dio, cercando di entrare in contatto con lui, possono subire un notevole ridimensionamento. Si coglie l'insussistenza di tanti ragionamenti e discorsi sull' Essere divino; si percepisce la relatività dei nostri percorsi spirituali.
E così diventiamo silenziosi anche davanti a Dio e al suo inesauribile mistero.
Ripensare la fede
Tra gli aspetti che caratterizzano la vecchiaia c’è anche l'esigenza del “trascendersi”, rinunciando al paralizzante attaccamento al mio ego, per orientarmi verso Qualcosa che è ben più grande di me.
A questo riguardo occorre tuttavia procedere con particolare cautela. Si è constatato che i vecchi non sempre diventano dei credenti più convinti.
Nella vecchiaia anche la religiosità è destinata a subire dei mutamenti.
Un anziano può ritrovarsi come costretto a pensare diversamente riguardo a certe verità; giunge il momento in cui, dietro e oltre le consuete immagini di Dio, bisogna imparare a intravedere il mistero inesauribile della sua vera essenza.
Molti credenti vedono entrare in crisi la loro fede proprio durante la vecchiaia. Li assale il dubbio che tutto ciò su cui hanno fondato la loro speranza si risolva, alla resa dei conti, in una grande illusione.
Ma c'è anche chi, pur nell'oscurità della prova, vuole trovare una motivazione ancora più solida alla propria fede.
In questa prospettiva, le formule dogmatiche della fede sono dei tentativi linguistici, espedienti espressivi per orientare la mente e il cuore verso quel Dio che per definizione è al di là di ogni possibile raffigurazione.
A dispetto di ogni possibile dubbio siamo chiamati a deciderci per la fede e per la vita.
Una fede che fino alla morte resterà forse combattuta, e tuttavia una fede che mi sostiene, una fede che mi aiuta anche a capire tutti coloro che si trovano nelle stesse difficoltà.
Per molti anziani i “rituali” - impegni quotidiani, riti e preghiere a cui solitamente si mantengono fedelissimi - costituiscono una quota importante della loro spiritualità, scandiscono le loro giornate e settimane, li fanno sentire vivi e in certa misura attivi.
Sono tanti i cammini che conducono a Dio, ma è Lui l'unica e insostituibile guida spirituale.
Sia che si perseveri nelle ingenue devozioni apprese durante l'infanzia oppure che si venga all'essenzialità di un profondo e silenzioso immergersi nel mistero di Dio, sempre si tratta di rinnovarsi in quella fiducia semplice che ci animava da bambini alla presenza del “divino”.
Esercitarsi a “ben morire”
L'ultima ed estrema sfida spirituale che la persona anziana è chiamata ad affrontare consiste nel prendere confidenza con l'idea della morte.
È soprattutto l'esperienza della malattia - con il senso di abbandono che la accompagna - a rendere presente la morte. Esercitarsi nel “bel morire” si compie, secondo Rahner, mediante l'accettazione della Croce.
L'amore della croce è la chiave che mi consente di trasformare il mio quotidiano morire in offerta a Dio. Dire “sì” alla morte non significa venire passivamente a patti con essa, bensì trasformarla in un atto d'amore.
L'arte di vivere può solo consistere nel trasformare la morte, da accadimento subìto, in una scelta di libertà: non necessariamente come un atto di eroismo, ma come un atto d'amore, come un'offerta a Dio e agli uomini.
Giovanni dice riguardo alla morte di Gesù: “Avendo Egli amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.
Solo chi vede nella morte una significativa meta che dà compimento alla sua vita, e la fa rifiorire sotto nuova forma, può accettare la vecchiaia con tranquilla riconoscenza.
Chi è vissuto bene, può anche morire serenamente; sazio di giorni, non ha bisogno di rincorrere brandelli di vita non vissuti.
Il medioevo ha sviluppato una propria “arte del morire”. Occorre prepararsi e pregare al fine di ottenere la grazia di una buona morte.
Pregare per una “buona morte” comporta che si viva consapevolmente soprattutto l'ultima fase della vita. Si tratta di guardare alla meta con animo sereno, con fiducia attendere il “premio della vittoria”: la gloria della vita eterna.
La morte non è l'evento minaccioso che incombe su di noi come la “fine di tutto”. Sarà un nuovo inizio. Ci attende la vita eterna. Diventa allora possibile, in questa luce, andare incontro alla morte sentendoci in comunione con le persone che amiamo, accettandola anche per loro.
È esattamente questo il messaggio del Vangelo riguardo la morte di Gesù: egli è morto per tutti.
Esattamente in questo consiste l'arte del morire: non morire per noi soli, ma per gli altri.
Il nostro morire, dunque, non sia soltanto una lotta solitaria contro la morte, ma diventi - a imitazione della morte di Gesù Cristo - un atto di oblazione.
L'evangelista Luca indica anche un'altra via: la morte rende possibile il compimento del nostro desiderio più profondo, quello che i greci indicavano come anelito alla visione di Dio. In effetti, il morire è l'unica possibilità per giungere a contemplare Dio così come veramente è. Come avvenne con la morte di Gesù in croce, così la nostra morte ci aprirà la porta alla visione della maestà divina.
Bisogna pregare con Gesù: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”.
La sua morte ci ha aperto la possibilità di fare della nostra morte un passaggio verso l'unità e la comunione. È questa la svolta radicale resa possibile dalla nostra fede.
La morte diventa compimento estremo e perfetto di un amore che si dona agli altri.
* Tratto da: La grande arte di invecchiare, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quanto spazio dedichiamo, nella nostra vita, al silenzio?
• Pensiamo alla morte? Come ci prepariamo a questo passaggio?
• La croce di Gesù ci spaventa o ci dà consolazione?
• Preghiamo perché il Signore ci conceda una “buona morte”?
Testimonianze
11-COME SARÀ IL PARADISO?
Per me il Paradiso è un giardino bellissimo dove tutti ci dedichiamo alla sua cura.
Alessio
Quando ero bambina pensavo al Paradiso come un grande giardino, pieno di violette e di bambini, con gli Angeli che ci facevano compagnia nei giochi.
Ora che sono “antica”, continuo a pensare al giardino, ma in compagnia di tutti i nostri cari che ci hanno preceduto nella vita, e con il Signore che ci guarda con la tenerezza che, credo, di avere sentito quando ero provata dalla fatica o dalle prove che sempre accompagnano la vita.
Franca
Finalmente la gioia di vivere in pienezza; il mare e il cielo, le persone amate con me, un abbraccio infinito con l’universo.
Erica
Penso che se il Signore ha creato questo meraviglioso universo, con questa terra stupenda dove l’uomo potesse albergare, tanto più sarà la dimora eterna che ha preparato per ciascuno di noi. In questo luogo, forse per la prima volta, capiremo in profondità cosa significa vivere la vita bella del Vangelo. Così credo che il paradiso sia una meta da conquistare.
Orazio
In questo ultimo anno facendo assistenza a mio padre, ho avuto modo di pensare spesso se oltre la morte c’è un'altra vita. Pensando ad alcuni episodi della mia vita, mi sento di rispondere che qualcosa c’è.
Penso che il paradiso sia un luogo di benessere profondo, di vera pace beata, di purezza e dove incontreremo le persone che abbiamo amato nel nostro percorso terrestre.
Daniela M.
In Paradiso penso di incontrare e rincontrare tante persone della mia vita e di avere risolti tutti i problemi. Con tanta luce.
Paola
Immagino il Paradiso come un luogo dove ritroverò per sempre le persone a cui ho voluto bene, quelle che mi hanno voluto bene e quelle di tutti i tempi che hanno voluto bene all’umanità. Non esisterà traccia né ricordo di tutti i malvagi, come non fossero mai esistiti.
Rivivrò tutta la mia vita con la conoscenza dello scopo, del risultato buono delle vicissitudini accadute, soprattutto di quelle dolorose. Vedrò il frutto dei miei talenti e come si sono realizzati.
Allo stesso modo vedrò chiudersi i cerchi delle vicissitudini degli altri, del mondo e della Storia in un esito di Bene assoluto.
Luigi
Il Paradiso: non lo immagino in nessun modo. Penso semplicemente che tornerò da dove sono venuta. E questo "dove" è un grande cosmico mistero, o il cuore di Dio.
Maria Teresa
Non mi piace la definizione classica di Paradiso come luogo in cui “si gode Dio per tutta l’eternità e si cantano le sue lodi”. L’impressione che mi dà è quella di una Messa che però dura tutta l’eternità, non proprio attraente.
Invece, immagino il paradiso come uno stato d’animo di uno che ha tutto, è al massimo della sua personale realizzazione, perciò non ha null’altro da desiderare, è contento di quel che ha, loda e ringrazia perché ha tutto dentro di sé; detto in altre parole, ha Dio, vive in Dio, Dio è il suo tutto.
Credo che questo atteggiamento nella ‘quarta età’ che sto vivendo favorisca in me una frequente sensazione di pienezza, imparo a godere tutto il bello che Dio mi dà anche adesso, insieme ad una serenità verso la morte, senza ansie, paure…
Piero
Immagino una situazione contemplativa di Dio, come quando Pietro uscì con l'esclamazione: "È bello per noi stare qui".
Fiorenzo
Immagino il Paradiso come un luogo sospeso in una dimensione che non è né temporale né spaziale. Tutto ciò che è presente non ha consistenza materiale, perché è fatto di luce. Di luce bianca; un bianco ancora più splendente e candido di quello di cui parla l’evangelista Marco nell’episodio della Trasfigurazione. Questa luce viene da Gesù, dal Padre e dallo Spirito Santo, e si diffonde avvolgendo tutto.
Di fronte a Loro, come assiepate, le anime buone. Di ciò che sono state in vita, conservano solo il volto, il loro corpo è luce. Sono in una condizione di gioia e abbandono profondo, perché non solo possono godere appieno dell’amore di Dio ma perché esse stesse sono in grado di un amore “perfetto” verso Dio.
Daniela F.
La prima parola che mi viene in mente è felicità.
Giorgia
Lo immaginiamo come luogo di Luce, di incontro di anime, di amore reciproco, di contemplazione dello splendore del volto di Dio, di relazioni tra anime che si scoprono nella loro bellezza.
Giorgio e Laura
Ora che sto incamminandomi verso quel che mi resta della vita, qualche volta provo a pensarci. Se Dio è Amore assoluto dovrei incontrare tutti quelli che ho amato in vita, e anche quelli che non sono riuscita ad amare, perché se tutto è amore non ci deve più essere il male.
Chiara
Dovrebbe essere un luogo di delizie, ma questa è un’idea umana, mentre l'aldilà non credo sia immaginabile dalla mente umana. Mi basta credere che esista.
Carlo Maria
Per noi il Paradiso è un luogo di pace, lontano dagli affanni quotidiani, un luogo luminoso, pieno di gioia ma che permette, comunque, una visione, uno sguardo sul mondo sottostante, il mondo dei “viventi”.
Annamaria e Franco
Non so bene come può essere il paradiso e se sarà per tutti, certo sarà un luogo di pace e senza peccato.
C’è però una cosa non comprendo quando immagino il paradiso: come potremo vivere per sempre in una realtà diversa senza tempo, né spazio, né corpo fisico.
Loredana
I vangeli sono piuttosto parchi di indicazioni, per cui subentra l’immaginazione. Nella mia vita, ci sono due periodi distinti: fino a una certa età, ho immaginato il Paradiso come un luogo, anche stimolato dalle prime letture dantesche. Poi è subentrata una specie di maturazione, e ho concepito il Paradiso come un abbraccio col Divino, in un clima di pace e gioia senza tempo, come una pienezza definitiva, un compimento.
Giuseppe
Ci sono momenti della vita (pochi) in cui si è invasi da un profondo desiderio di pienezza. Ecco, questo per me è come sarà il paradiso.
Francesco
Talvolta, la morte
è il coperchio d’oro
che racchiude una vita
diventata ormai faticosa,
rendendola preziosa,
agli occhi stessi di Dio.
Franco Quarta
12-SORELLA MORTE
Laudato sii mio Signore, per sora nostra morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scampare:
guai a quelli che morranno nei peccati mortali;
beati quelli che troverà nelle tue santissime volontà,
ché la morte seconda non farà loro alcun male.
San Francesco d'Assisi
“Gesù è morto a vantaggio di tutti gli uomini”. Questa è un'affermazione straordinaria, che non ci fa gridare di gioia solo perché non la prendiamo abbastanza sul serio.
Di Raniero Cantalamessa*
Vi sono due modi di considerare la morte: un modo sapienziale che la Bibbia ha in comune con altre realtà, come la filosofia, le religioni, la poesia, e un modo misterico o pasquale che è proprio ed esclusivo del Cristianesimo.
Come la grazia suppone la natura e la trascende senza negarla, così la considerazione misterica o pasquale della morte illumina e supera quella naturale senza però renderla inutile. Le due prospettive stanno anche tra loro come L'Antico e il Nuovo Testamento. L'Antico Testamento ci offre una visione sapienziale della morte; il Nuovo Testamento una visione misterica, cristologica e pasquale.
L'Antico Testamento
L'Antico Testamento parla direttamente della morte solo nei libri sapienziali: Giobbe, i Salmi, il Qohelet, il Siracide e La Sapienza.
Il Qohelet apre il suo capitolo sulla morte con le parole: “C'è un tempo per nascere e un tempo per morire”, e lo chiude con la sentenza: “Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna in polvere”. “Vanità di vanità e tutto è vanità”, è la sua ultima parola.
Il Siracide inizia la sua trattazione sulla morte con queste parole: “O morte, com’è amaro il tuo pensiero”.
Soltanto nel Libro della Sapienza, che è il più recente dei libri sapienziali, la morte comincia a essere rischiarata dall'idea di una retribuzione ultraterrena.
Le risposte della sapienza biblica non differiscono essenzialmente da quelle delle altre sapienze profane.
In questa linea, Sant'Agostino anticipa la riflessione filosofica moderna sulla morte: “La morte è la malattia mortale che si contrae nascendo”; scrive nelle Confessioni. La nostra è “una morte vitale”, un vivere morendo.
Questo pensiero è stato ripreso in chiave secolarizzata da Heidegger che ha fatto entrare la morte a pieno titolo nell'oggetto della filosofia.
Vivere per la morte significa che la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita. Si nasce per morire, non per altro. È il più radicale rovesciamento della visione cristiana, secondo cui l'uomo è un essere per l'eternità.
La caratteristica di tutta questa sapienza umana circa la morte è che non consola, non dissolve la paura.
Il Nuovo Testamento
Se anche nel Nuovo Testamento troviamo parole sapienziali sulla morte, è solo quando Cristo muore per noi sulla croce che le cose cambiano radicalmente e la stessa morte diviene una cosa nuova.
La morte - dicevano i Padri della Chiesa - si è attaccata Cristo, lo ha divorato, come era abituata a fare con tutti gli uomini, ma non ha potuto “digerirlo” perché in lui c'era Dio e così ne è rimasta uccisa.
Così, la morte non è più la stessa di prima. Un fatto decisivo è intervenuto. Nella fede si coglie l'incredibile novità che solo la venuta di un Dio in terra poteva provocare. Essa ha perso il suo pungiglione come un serpente il cui veleno ormai è capace solo di addormentare la vittima per qualche ora, ma non può più ucciderla.
La morte non è più un muro davanti al quale tutto si infrange, ma è diventata una porta, un passaggio, cioè alla lettera, una Pasqua, un “Mar rosso” grazie al quale si entra nella Terra promessa. Infatti Gesù non è morto solo per sé, ma “ha provato la morte a vantaggio di tutti”.
Questa è un'affermazione straordinaria, che non ci fa gridare di gioia solo perché non la prendiamo abbastanza sul serio e abbastanza alla lettera come merita.
La morte non è più solo una terribile pedagoga che insegna a vivere, ma è diventata una morte mistagogica, una via per penetrare nel cuore del mistero cristiano. Il cristiano che muore può dire con tutta verità: “compio nella mia carne ciò che manca alla morte di Cristo”, e: “non sono più io che muoio, Cristo muore in me”.
I cristiani di fronte alla morte
Ora lasciamo i principi e passiamo a considerare le realizzazioni pratiche.
La morte si impara a conoscere dal vivo come la lingua materna, sentendo come se ne parla, cosa provoca, come si atteggiano le persone a sentir pronunciare il suo nome.
Di questo sentimento religioso popolare intorno alla morte mi restano tanti ricordi positivi e pieni di poesia come il rintocco mesto delle campane, il parlare sottovoce della gente, l'improvviso vestirsi a lutto delle donne, le note gregoriane del “Dies irae”.
In questo contesto la morte rivestiva una sua solennità e una certa quale maestà. Più tardi però ho capito anche cosa mancava in questa visione della morte, dal punto di vista propriamente cristiano, e perché essa è entrata così rapidamente in crisi.
La visione dominante della morte non era quella misterica, ma quella sapienziale. La morte era vista essenzialmente come una maestra di vita, un deterrente dai vizi, una pedagoga severa.
Quasi tutti noi abbiamo assistito di persona alla crisi e al rapido scomparire di questo tipo di religiosità sulla morte.
È constatazione comune: non si parla più dei Novissimi.
La cultura secolare laica, per conto suo, ha scelto la via della rimozione del pensiero della morte. Ne ha fatto un tabù. Siamo arrivati al punto che, di fronte alla morte, vi sono cristiani che si sono ridotti a non avere altra difesa e altra risposta che… toccar ferro.
Come sempre, anche questa volta, la crisi del valore cristiano ha una duplice causa: una esterna, proveniente dall’assalto della cultura secolare, e una interna, dovuta all’offuscamento nel modo di vivere e di annunciare quel valore.
La ripresa e il rinnovamento di un'autentica predicazione cristiana sui Novissimi, e in particolare sulla morte, va inserita in un nuovo contesto, rispondente alla coscienza della Chiesa di oggi. Il nuovo rituale delle esequie porta un’introduzione che comincia così: “La liturgia cristiana dei funerali è una celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore”.
A queste direttive sono seguiti in alcuni casi anche frutti meravigliosi. È sempre meno rara, in ambienti e comunità di fede vissuta, di esperienze di funerali che si trasformano, via via, in autentiche liturgie pasquali, con tutti i segni distintivi: il canto dell'alleluia, la serenità, la festa. Assistendo ad essi sembra di vedere realizzata la parola di San Paolo: “La morte è stata trasformata in vittoria”.
Credere in Cristo, morto e risorto
Tuttavia non possiamo ritenerci soddisfatti. Queste che ho ricordato sono ancora eccezioni. Mancano oggi quei gesti, quei segni e quelle parole che da sole veicolavano un tempo tutta una visione e la imprimevano in modo indelebile nella mente.
Ora siamo assediati di parole, di musiche e di immagini. Nessuna più resiste a lungo nella mente. Di fronte a questa nuova cultura il mezzo che abbiamo a disposizione è ancora una volta l'annuncio, il ministero della Parola.
Che cosa dobbiamo annunciare a noi stessi e agli altri? “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua Risurrezione, in attesa della tua venuta” proclamiamo nella messa subito dopo la consacrazione.
Quando si tratta della morte la cosa più importante nel cristianesimo non è il fatto che dobbiamo morire, ma il fatto che Gesù Cristo è morto.
Gli uomini non hanno mai cessato, da che mondo è mondo, di cercare rimedi contro la morte. In realtà, esiste un solo, vero rimedio alla morte: Gesù Cristo, e guai a noi cristiani se non lo proclamiamo al mondo.
Esiste una sola forza al mondo capace di tenere testa alla morte, di starle alla pari e anzi di vincerla: “forte come la morte è l'amore”. Ciò è vero dell'amore umano, ma tanto più dell'amore Divino. “Io so - dice Paolo - che né morte né vita potranno separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore”. Anche di fronte alla prospettiva della morte si può stravincere in virtù dell'amore di Dio.
L'unione dell'anima con il Signore, cioè con il proprio capo, è diventata più forte dell'unione con il proprio corpo.
* Tratto da: Sorella morte, Editrice Àncora, Milano 1992.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quando è stata l’ultima volta in cui abbiamo sentito parlare dei Novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso)?
• Crediamo che Gesù è morto e risorto e noi risorgeremo in Lui?
• Abbiamo mai partecipato ad un funerale in cui abbiamo fatto esperienza di “resurrezione”?
13-LA MORTE COME MISTERO
Noi crediamo nella resurrezione della carne e nella vita eterna
Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti
di Anselm Grün*
Da sempre i filosofi e i teologi hanno riflettuto sul mistero della morte. La morte era la questione base per la verifica di ogni pensiero filosofico.
Negli ultimi decenni ci si è piuttosto sottratti a questa domanda. Questo ha però indotto molti cristiani a cercare spiegazioni più realistiche sulla morte in altre religioni o filosofie, ad esempio secondo il modello della reincarnazione.
Per questo desidero tentare di esporre le mie riflessioni sulla morte e sulla vita dalla morte, la vita della Resurrezione, pienamente conscio della relatività delle nostre affermazioni.
La morte come riepilogo della vita
Nella sua opera sulla teologia della morte Karl Rahner ha provato a descrivere la dipendenza tra morte e vita.
Da qui si è sviluppata l'idea secondo cui l'amore e la morte si appartengono a vicenda, e l'amore è possibile solo nel donarsi e nel dissolvere noi stessi in esso.
Il mio amore e la mia gioia, la mia speranza e la mia nostalgia non sono mai pienamente soddisfatti quaggiù sulla terra e possono trovare pienezza solo con la morte. La speranza rimanda oltre, alla prospettiva di una vita ultraterrena, l'amore racchiude in sé già qualcosa che va oltre la morte e sa di eterno.
La morte non è solo una tragedia che ci colpisce, ma anche il compimento della nostra vita. Nella morte incontreremo Dio e suo figlio Gesù Cristo, senza veli.
La morte è il momento in cui, di fronte alla manifestazione di Dio e della nostra vita, potremmo e dovremmo deciderci ancora e definitivamente per Gesù Cristo.
La morte come incontro con Dio
Nella morte ogni persona incontrerà Dio e se stessa nella propria manifesta verità. Ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per gli uomini e le donne di tutte le religioni. Essi conosceranno nella morte quel Dio che hanno cercato nelle loro religioni e nella loro fede.
Il Dio che noi incontriamo nella morte non è il giudice o il contabile, ma sempre il Dio che ci ama, che ci si mostra come luce calda che attrae.
Quando ci lasciamo attrarre dalla luce di Dio, quando ci decidiamo per questo amore, allora siamo in paradiso. Qui non c'è alcuna bilancia sulla quale tutto debba venire pesato, né alcun libro in cui venga registrato tutto ciò che abbiamo compiuto. Importante è abbandonarsi in Dio con tutto il nostro vissuto, e anche con il carico di tutte le nostre colpe.
Abbiamo bisogno soltanto di porgere le nostre mani vuote a Dio, che riempirà. Ma dobbiamo già esercitarsi a offrire noi stessi a Dio e ad abbandonarci in Lui durante la nostra vita.
Nella morte noi incontreremo la verità di Dio, conosceremo come in tutte le nostre buone opere ci fosse anche una porzione di egoismo, come nonostante la nostra devozione abbiamo girato solo intorno a noi stessi.
Purgatorio, inferno e paradiso
Ciò che la teologia in passato ha spiegato attraverso l'immagine del Purgatorio è questo dolore dell'incontro.
La persona che si presenta davanti a Dio misericordioso, che ammette di essere infinitamente distante da questo amore incondizionato di Dio, passa dal Purgatorio della propria verità al Paradiso dell'amore di Dio.
Non è Dio che getta nell'inferno, e l'uomo che si decide per l'inferno quando rifiuta Dio e si trincera in se stesso. Può accadere che una persona si ostini nella disperazione, che non si apra alla conversione e non speri nel perdono, Anche se questo perdono le viene offerto.
Perciò dobbiamo fare i conti con la possibilità dell'inferno. Allo stesso tempo, però, usiamo sperare che l'inferno sia vuoto. Confidiamo che l'amore di Dio sia più forte dell'odio e dell'autoesclusione degli uomini.
Il cristianesimo non parla dell'inferno per seminare la paura nella gente, ma per mettere meglio in luce il valore della vita. L'insegnamento della Chiesa sull’inferno vuole richiamare la nostra attenzione sull'unicità e l’importanza assoluta della nostra vita.
Nella morte incontreremo la nostra stessa verità. Questo è il tribunale di cui parla la tradizione. Ma non sarà Dio, dall'esterno, a giudicare l'uomo. Anzi l'uomo sarà giudice di se stesso, confrontandosi con la realtà della sua vita.
L'uomo verrà nuovamente orientato verso Dio. Questo può fare molto male.
Per esempio, gli assassini incontreranno la crudeltà del loro stesso cuore, e dovranno leggerla al cospetto di Dio.
La rappresentazione cristiana del Purgatorio colloca nella morte lo spazio legittimo per la riparazione e la purificazione dell'uomo. Non dovremmo avere del Purgatorio l'idea di un luogo nel quale le persone per qualche tempo devono scontare la loro pena, ma piuttosto come il processo dell’incontro doloroso che sarà tanto più doloroso quanto più uno avrà continuato a mancare alla propria verità.
Risorgere in corpo e anima
Nella festa dell'assunzione di Maria celebriamo l'assunzione di Maria in cielo con il suo corpo. Di Maria celebriamo qualcosa che riguarderà anche noi. Questa festa vuole dimostrarci quel che professiamo nel Credo, cioè che crediamo nella resurrezione della carne e nella vita eterna.
Non abbiamo solo un'anima immortale. Anzi verremo assunti in cielo in corpo e anima. Il problema è come possiamo comprenderlo.
La maggior parte dei teologi ritiene che la resurrezione delle persone avvenga immediatamente dopo la morte. L'ultimo giorno, alla fine dei tempi, mostra con chiarezza soltanto ciò che accade ai singoli nella morte.
Nella morte di ogni persona avviene perciò il Giudizio finale. Qui il tempo si fa nuovo, rinnovato da Dio. E la morte di ogni persona è la fine del nostro tempo, qui un pezzo di storia giunge a termine.
Con le numerose immagini cosmiche sull'ultimo giorno, la Bibbia raffigura con chiarezza ciò che già ora accade ad ognuno nella morte. Per questo le immagini cosmiche mostrano che la vita eterna ha a che fare con l’intera creazione.
Risorgere nella carne vuol proprio dire che c'è anche una speranza per le piante e gli animali, una speranza per l'intera natura. Andare a Dio in anima e corpo vuol dire portare a lui anche i nostri rapporti con il creato.
Come possiamo comprendere che verremo assunti in cielo con anima e corpo?
Nel corpo sperimentiamo tristezza e gioia, dolore e piacere. Il corpo è la porta verso gli altri. Se vogliamo entrare in relazione con le altre persone, dobbiamo passare attraverso questa porta. Andare in cielo in anima e corpo vuol dire che tutte le nostre esperienze compiute durante la vita terrena verranno assunte in Dio e salvate per l'eternità.
Assunti in Dio
Nella morte l'anima non si separa dal corpo per essere eternamente con Dio, ma la persona tutta intera sarà assunta in Dio.
Per questo la tradizione parla di comunione dei Santi. Il cielo non è la visione beatifica di Dio, ma è la festa degli uomini e delle donne che lodano insieme Dio e celebrano insieme il banchetto nuziale.
Andare in cielo in anima e corpo non significa che il corpo nel quale adesso viviamo continuerà a vivere eternamente. Il corpo che portiamo attorno con noi vedrà la corruzione del sepolcro.
Il corpo con il quale saremo in cielo sarà un corpo celeste, come dice san Paolo, un corpo trasformato. Paolo parla di corpo spirituale, del corpo che è completamente compenetrato e trasformato dallo Spirito. È impossibile per noi farsene un'idea esatta.
La resurrezione in anima e corpo dice anche di più. La morte non ci introdurrà in uno spazio puramente spirituale.
Il corpo sta a significare che anche dopo la morte manterremo un rapporto con questo mondo, non solo un rapporto di comunione con le persone ma un rapporto di comunione con il mondo, con la creazione, con la natura e con gli uomini e le donne che continuano a vivere.
Come dobbiamo intendere questo rapporto con il mondo, è difficile spiegare. Ma in tutte le religioni se ne parla. La tradizione ha sviluppato nella venerazione dei Santi un buon rapporto con i defunti. Crediamo che i santi ci assistano, se li preghiamo.
Ciò che noi crediamo dei santi, cioè che ci aiutino e ci siano vicini, possiamo sperarlo di tutti i morti. Ciò significa anche che il nostro essere in questo mondo e per le persone che amiamo, con la morte non cessa affatto, ma soltanto opera e si sperimenta in modo nuovo.
* Tratto da: Nella morte la vita, Editrice Queriniana, Brescia 2008.
Sintesi della redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
Bisognerebbe porsi le domande che seguono sia prima della lettura dell’articolo sia dopo averlo letto per verificarne l’utilità.
• Su cosa verterà il giudizio di Dio nei nostri confronti?
• Come immaginiamo il Purgatorio?
• Come possiamo risorgere in corpo e anima?
14-PREGARE [PER] I DEFUNTI
di Anselm Grün*
È bene essere sempre preparati alla morte, ma noi osiamo confidare nel fatto che coloro che vengono improvvisamente strappati nel mezzo della vita incontrino Dio che li ama e in questo incontro decidano per lui.
Quanto a noi, li possiamo accompagnare in questa decisione con preghiere di suffragio.
È cosa buona e sensata pregare per i defunti. Ho però qualche perplessità quando incontro qualcuno che dopo vent’anni prega ancora perché il suo padre defunto possa passare dal Purgatorio al Paradiso.
Una preghiera che si trasforma
La preghiera per i defunti ha naturalmente sempre un suo significato. Ma si trasforma.
All'inizio è preghiera di intercessione, affinché il defunto si decida per Dio e scelga il suo amore. Poi diventa una preghiera che mi unisce al defunto, che mi apre al suo mistero. E diventa poi anche spesso un colloquio con il defunto e una preghiera a lui rivolta perché mi accompagni e mi preservi dal fallimento della mia vita, e mi conduca al mistero del mio vivere.
In ogni celebrazione eucaristica preghiamo per i morti. Per me non è tanto un’intercessione quanto un ricordo. Ciò significa che l'Eucaristia non la celebriamo da soli, ma che siamo in comunione con tutti coloro che abbiamo conosciuto e che ora sono presso Dio.
A questo proposito, Karl Rahner sostiene che le nostre preghiere per i defunti si trasformano in intercessione dei defunti per noi.
Il rapporto con i morti
La morte è sempre anche un evento di relazione. Succede a molti di avere sensi di colpa quando muore qualcuno che hanno amato e verso il quale sono rimasti in debito.
Naturalmente è necessario il processo del lutto per prendere commiato dal defunto. Dovremmo però anche pensare che gli si trova ora nella pace di Dio e non soffre più per le ferite che le abbiamo inferto. Piuttosto, il defunto è ora pienamente se stesso.
Dei santi la Chiesa dice che sono nella beatitudine di Dio. Questo lo crediamo anche dei defunti che abbiamo conosciuto personalmente. Essi sono per noi degli esempi e degli intercessori.
Per superare il lutto dobbiamo instaurare un rapporto con la persona, quale essa è diventata attraverso la morte e la resurrezione. Qual è il suo messaggio nella mia situazione concreta?
Oggi molti rimuovono il dolore per la perdita di una persona cara. Si gettano negli affari per sfuggire al dolore del lutto. Ma il dolore non accettato ci blocca. Solo passando attraverso quel dolore ci è possibile costruire un nuovo rapporto con le persone che ci hanno lasciato.
* Tratto da: Nella morte la vita, Editrice Queriniana, Brescia 2008.
Sintesi della redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Come siamo riusciti a superare il dolore per la morte di una persona cara?
• Abbiamo pregato per lui/lei? Come?
• Cosa chiediamo ai nostri cari defunti?
• In quale misura la preghiera dell’Eterno riposo corrisponde alla nostra idea di Paradiso?
15-ESEMPI DI PREGHIERA
Preghiera per un defunto
In paradiso ti accolgano gli angeli,
al tuo arrivo ti accolgano i martiri,
e ti conducano nella santa Gerusalemme.
Ti accolga il coro degli angeli,
e con Lazzaro povero in terra,
tu possa godere il riposo eterno del cielo.
Si spalanchino le porte dei cieli,
gli angeli gioiscano con lui [lei],
l'accolga l'apostolo Pietro,
che ricevette il potere di aprire...
Si incontri con i peccatori,
perdonati dell'amore di Dio,
ritrovi chi ha conosciuto,
l'abbraccino come un fratello
[una sorella]. Dopo questa vita
e la morte, lo [la] ritrovi Gesù
buon pastore, e gli [le] dica:
C'è un posto per te nella gioia.
Dalla liturgia
Preghiera ai defunti
Anime sante del cielo, ricordatevi di noi per aiutarci, perché è vero che per voi stesse non potete far nulla, ma per gli altri potete moltissimo.
Le vostre preghiere sono molto potenti e giungono presto al trono di Dio.
Otteneteci la liberazione da tutte le disgrazie, le miserie, le malattie, le angosce e i travagli.
Otteneteci la pace dello spirito, assisteteci in tutte le azioni, soccorreteci prontamente nei nostri bisogni spirituali e temporali, consolateci e difendeteci nei pericoli.
Fonte: www.ioamogesu.com
Testimonianze
16-I DEFUNTI NELLA PREGHIERA
Nella realtà della comunione dei santi i nostri morti sono vivi in Deo e li raggiungiamo nella fede che si esprime nella preghiera ascendente e discendente (Andata e Ritorno!).
Romeo
Prego tutti i giorni per i nostri defunti e li ricordo con delle Messe. Prego sempre i nostri defunti, parenti e amici, e chiedo il loro aiuto per i problemi quotidiani.
Penso che questo sia importante perché concretizza la Comunione tra viventi e spiriti defunti (la Chiesa visibile e invisibile, della terra e del cielo).
Luigi
Prego per i miei defunti, anche per coloro di cui conosco solo il nome, credo che, se ancora non sono riusciti ad ottenere la grazia del Paradiso, una piccola preghiera anche dai pronipoti mai conosciuti, li possa aiutare. Chiedo loro piccole cose terrene legate alla storia della mia famiglia.
Alessio
Sinceramente non prego per loro (li penso in pace) né li prego (sento che ci sono ma senza contatto diretto).
Li penso ricordando quanto da loro ricevuto quando erano in vita.
Paola
Non prego per i morti. Cerco di tenerli vivi nei miei pensieri, il mio rapporto con quelli più vicini continua e si evolve, a volte si chiarisce. Succede anche che mi lasci andare a chiedere a chi mi è stato molto caro di aiutarmi nei momenti difficili.
Maria Teresa
Sono tante le circostanze in cui possiamo pregare per i nostri defunti: perché il Signore sia misericordioso e conceda loro l’eterno riposo, la pace eterna nonostante le fragilità, i peccati commessi in questa vita terrena.
Penso alle visite in cimitero dove davanti alla loro tomba, con la loro immagine, ripenso al tempo trascorso con loro in questa vita terrena e al fatto che ora essi possono vivere quella vita di cui il Signore ci ha parlato.
Prego loro perché dal cielo possano intercedere per noi affinché anche noi possiamo un giorno raggiungerli, ma ancor più prego loro per i nipoti che con difficoltà vivono e sperimentano la vita in Cristo.
Orazio
Prego per i defunti tutte le volte che la liturgia lo propone e ogni qual volta entro in cimitero o vi passo accanto.
Prego soprattutto i nonni delle mie figlie perché le proteggano e le accompagnino nel camino della loro vita.
Daniela M.
È una consolazione andare al cimitero e pregare per i defunti: non si può fare niente per loro se non pregare, lo facciamo passando tra le tombe, riconoscendo i meriti... qualche volta ricordando aneddoti su di loro, e sono sempre nelle nostre preghiere serali. Non chiediamo a loro qualcosa di preciso, se non di proteggere i nostri ragazzi, aiutati dal loro Angelo custode a cui sono affidati.
Forse dovremmo chiedere di più…
Franca
Sono loro che pregano per noi.
Erica
Non ho sempre presenti i miei cari defunti ma c’è un momento in cui faccio memoria di loro e vedo i loro volti, a uno a uno, attraversare la mia mente: durante la messa. Quando nella celebrazione dell’Eucaristia viene fatta memoria dei «fratelli addormentati nella speranza della resurrezione e di tutti i defunti che si affidano alla misericordia di Dio», mi concentro a ricordare i miei cari che non ci sono più.
In quel momento sull’altare sono presenti il Corpo e il Sangue di Cristo, segno del suo amore infinito ed illimitato. E questo amore io lo vivo e lo tocco nel segno dell’ostia, e mi piace pregare perché loro possano viverlo ed esserne toccati in maniera diretta o pensare che questo sia già realtà.
Daniela F.
Chiedo loro di intercedere per ricevere la forza necessaria per una vita cristiana autentica e per superare eventuali crisi e tentazioni.
Fiorenzo
Non prego di solito i miei defunti ma negli ultimi tempi ho chiesto con insistenza a Gesù di fare in modo che Giovanni, il figlio di mia cugina suicidatosi all’età di 23 anni, andasse da lei in sogno per consolarla e farle sapere che il suo gesto, avvenuto in un momento di buio totale, non toglie nulla alla bellezza della sua maternità, alla sua decisione di metterlo al mondo, al suo amore di madre. Di farle sapere che lui, che non ha trovato una gioia per continuare a vivere, adesso vive nella gioia vera. La mia preghiera si rivolge, naturalmente, anche a Giovanni.
Daniela F.
Preghiamo soprattutto i nostri cari. Chiediamo loro di aiutarci e sostenerci nelle difficoltà e di essere i nostri angeli custodi.
Giorgia e Renato
Preghiamo i nostri morti tutti i giorni con la recita dell’”eterno riposo”; a volte chiediamo a Maria la pace per loro, o chiediamo loro di intervenire in aiuto nostro o di persone che hanno bisogno (soprattutto familiari).
Giorgio e Laura
Mia sorella e suo marito sono morti lasciando due figli giovani. Al pensiero a volte mi arrabbio e chiedo loro che si impegnino a vegliare su di loro.
Chiara
Ogni giorno prego per i ns. cari defunti e chiedo a loro di pregare per noi. Mi sono sentita sorretta da loro quando ho avuto l’aborto spontaneo del nostro secondo figlio e in questo periodo in cui ci misuriamo con l’anzianità dei nostri genitori e l’adolescenza esplosiva di nostro figlio.
Loredana
Preghiamo per i nostri defunti, in particolare i nostri genitori, i parenti e gli amici più cari, che ci hanno preceduto nell’abbraccio con il Padre. A loro chiediamo di starci vicino e di pregare a loro volta per noi.
Annamaria e Franco
Tutte le sere la preghiera è davanti alle immagini dei miei genitori che affiancano quelle sacre sopra al mio comodino. Non mi stanco mai di pregare per loro e al contempo continuo insistentemente di chiedere loro di guidarmi, assistermi e proteggermi.
Carlo Maria
In un primo periodo, si prega per i nostri cari perché raggiungano la pace eterna, attraverso una sorta di purificazione; poi diventano una specie di intercessori, e li preghiamo perché aiutino e confortino chi è rimasto su questa terra e soffre. Questa preghiera, di solito, dona una grande serenità, ci si sente tutti assieme e tutti legati da un’autentica compresenza universale.
Giuseppe
Io comincio la liturgia funebre, specialmente quando in chiesa ci sono cristiani poco preparati, sostituendo l’antifona d’ingresso con queste parole: «Accogli Signore nella tua casa il nostro fratello… Donagli la gioia eterna, perché possa godere con te nella felicità che dura sempre».
Pietro
17-COME VIVERE NELLA FEDE LA MALATTIA
Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me. Salmo 23
Nella malattia possiamo pregare chiedendo la guarigione, chiedendo ad altri la loro preghiera, trasformando la malattia in preghiera, affidando la malattia e poi noi stessi a Dio.
Lasciamoci condurre dal dolore nello spazio interiore del silenzio, che è al di là di ogni patimento.
Questo non toglie il dolore, ma lo relativizza.
di Anselm Grün*
Come cristiani dobbiamo confidare nel fatto che Gesù guarirà anche le nostre malattie e, con i malati nella Bibbia, dobbiamo andargli incontro con la nostra malattia.
Rapportarsi in modo spirituale alla malattia
Rapportarsi in modo spirituale alla malattia vuol dire che accetto la mia malattia come una sfida spirituale.
Posso superare la malattia in modo spirituale soltanto se nella mia vita colloco Dio al primo posto, se nella mia impotenza mi affido a Lui e mi lascio pervadere dal suo Spirito.
Spesso la malattia genera in noi emozioni negative. Cresce in noi la paura che la malattia possa persino portarci alla morte. Accusiamo Dio, ci ribelliamo alla malattia, e spesso diventiamo aggressivi nella nostra malattia.
Rapportarsi in modo spirituale alla malattia significa tenere in considerazione tutte queste emozioni negative ed entrare in dialogo con esse.
Se credo realmente alle parole del salmo 23: “Il Signore è il mio pastore. Non manco di nulla” come vedo la mia malattia? Come parlo con la mia paura.
Ma nel momento in cui parlo con la mia paura, essa mi conduce ad avere una nuova fiducia. Mi consegno con la mia paura nelle buone mani di Dio.
Devo allora trasformare l'aggressività che la malattia scatena in me in un sano spirito combattivo. Posso combattere contro la mia malattia. Con l'aiuto di Dio posso lottare per tornare in salute. Mobiliterò tutte le mie forze interiori per poter fronteggiare la malattia.
Il modo propriamente spirituale di rapportarsi alla malattia è la preghiera. Voglio illustrare cinque differenti modalità di preghiera che ci aiutano a reagire bene alla malattia e a portarla davanti a Dio.
Come pregare nella malattia
La prima modalità di preghiera è la mia personale richiesta di guarigione.
Dio non ha bisogno della nostra preghiera per guarirci. Siamo noi, però, che abbiamo bisogno di pregare: nella preghiera Infatti non ci sentiamo lasciati soli con la nostra malattia e possiamo rivolgerci a Dio. Inoltre, è nella preghiera che si esprime la mia volontà.
La preghiera è una sorta di lotta con Dio per la mia guarigione. In ultima analisi, però, in questa lotta si tratta di arrendersi alla volontà di Dio; per questo al termine di ogni implorazione, si prega dicendo: “sia fatta la tua volontà!”.
La seconda modalità di preghiera è l'intercessione: chiedo ad altri di pregare per la mia guarigione; se invece sono altre persone ad essere malate, prometto di pregare per loro. La preghiera di intercessione dà al malato sostegno e sicurezza, e già solo questo può contribuire al processo di guarigione.
Non ci sono prove scientifiche dell'efficacia della preghiera di intercessione ma è anche vero che non è irragionevole credere nel suo effetto benefico.
Fondamentalmente, confidiamo nel fatto che ciò eserciti un'azione benefica sul malato, ma in che modo si manifesti poi concretamente questo effetto sanante va oltre la nostra conoscenza.
La terza modalità di preghiera è la malattia stessa che si fa preghiera. Molti malati mi confidano che non riescono più a pregare, non riescono più a concentrarsi.
Allora il compito consiste nel far sì che la malattia stessa diventi preghiera.
Non prego più contro, bensì con la mia malattia, in essa e attraverso essa. La malattia diventa dunque la strada che mi conduce a Dio.
La quarta modalità di preghiera consiste nell'affidare la malattia a Dio, affinché il suo amore penetri nelle mie ferite. Qui la preghiera si manifesta come incontro.
Alcuni cristiani utilizzano Gesù come un mago che per incanto riesce a cacciare rapidamente la malattia, senza che loro debbano far niente per trasformare se stessi. Eppure, nella Bibbia la guarigione avviene sempre nel l'incontro con Gesù che sfida sempre i malati a incontrare se stessi.
Quando prego, dunque, devo affidarmi a Dio con la mia malattia e immaginarmi che il suo amore penetri in tutte le mie piaghe e le pervada di calore e di luce.
In questo modo, forse, non guarirò, ma di certo vivrò in maniera diversa la malattia, affidandola costantemente all'amore tenero di Dio.
Nella terapia oncologica, gli psicologi lavorano con tecniche di immaginazione: ci si immagina che la luce penetri nelle cellule cancerose e le distrugga. Allo stesso modo possiamo immaginarci che la forza benefica di Dio, il suo Spirito Santo, penetri nelle cellule cancerogene, distrugga le cellule malate e rafforzi quelle sane.
Pregare significa darsi a Dio. La quinta modalità della malattia come preghiera consiste pertanto nel trasformare la malattia è che mi sopraggiunge dall'esterno in un atto di dedizione. È quanto ci è stato dimostrato da Gesù: sa che morirà di morte violenta ma trasforma la morte, che gli sopraggiunge dall'esterno, in un atto di dedizione e di amore.
Conosco persone malate che hanno la sensazione dell'inutilità: “nessuno ha bisogno di me. Non posso più fare niente. Anzi, sono di peso agli altri”. Al malato dà pertanto anche una certa dignità sapere di poter fare ancora qualcosa, poter essere una benedizione per gli altri. La malattia diventa il mio compito: se la trasformo in dedizione posso diventare una benedizione per gli altri e da me può emanare un carisma amorevole su coloro che incontro e che mi fanno visita.
Il rapporto spirituale con il dolore
Nel rapporto spirituale con la malattia rientra anche un rapporto spirituale con il dolore.
Innanzitutto, Il dolore mi rammenta la mia condizione umana. All'essere umano appartengono i dolori. Essi mi ricordano in sostanza che sono finito, vulnerabile. Chi vede i dolori cronici come un invito a riconciliarsi con la propria umanità e fragilità, riesce ad affrontarli più tranquillamente.
Un'altra modalità si manifesta quando il dolore sembra pervadere tutto il corpo. In ottica spirituale, si tratta allora di entrare in questa dimensione di dolore, di sentirsi in esso, per poi passarci attraverso e scoprire che in me, al di sotto del dolore, c'è lo spazio del silenzio, lo spazio del quale i mistici dicono che è Dio stesso ad abitare in me.
Si tratta di immaginarsi che, al di sotto della sofferenza, c'è un luogo che il dolore non abita e a cui non ha accesso. Questo non toglie il dolore, ma lo relativizza.
E soprattutto così smetto di combattere contro il dolore: lascio piuttosto che mi conduca nello spazio interiore del silenzio, che è al di là di ogni patimento.
La tradizione cristiana propone ancora altre modalità per rapportarsi al dolore, a cominciare dalla mistica della passione. Mistica della passione non vuol dire girare in maniera masochistica intorno al dolore, significa piuttosto prendere il dolore come invito a solidarizzare in maniera più profonda con Gesù Cristo, a entrare più profondamente nel mistero della sua esistenza e nel dolore sperimentare l'unione con lui.
Nello stesso tempo il dolore ci ricorda che noi partecipiamo non soltanto la passione di Gesù, ma anche alla sua resurrezione.
Altre possibilità di affrontare il dolore si trovano nelle pratiche di devozione popolare. Vi è ad esempio la pratica della Via Crucis: la si percorre seguendo le sue 14 stazioni e ci si riconosce nelle 14 tipiche situazioni dolorose.
Un altro approccio al dolore è rappresentato dalla festa dei sette dolori di Maria. Se la via Crucis è la modalità maschile di reagire al dolore, la festa dei sette dolori di Maria ci mostra la modalità femminile di rapportarsi al dolore.
Il dolore di Maria per il figlio viene trasformato nell'anelito verso un amore che è più forte della morte.
* Tratto da: Abbi fiducia, Editrice Queriniana, Brescia 2018.
Sintesi della redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• “Sia fatta la tua volontà”. Quando siamo nella prova riusciamo ad abbandonarci in Dio?
• Preghiamo e chiediamo preghiere per i malati gravi che conosciamo?
• Nella malattia riesco ad affidarmi a Dio? A vedere la sua Grazia agire in me come una luce benefica?
18-ACCOMPAGNARE I MALATI E I MORENTI
Quando ti abbiamo visto ammalato e siamo venuti a visitarti? In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Mt 25,39-40
Non dobbiamo avere paura chiedere al malato di pregare insieme per lui.
di Anselm Grün*
L'accompagnamento delle persone malate è, da una parte, compito di chi si occupa dell'assistenza spirituale negli ospedali; dall'altra, tutti noi siamo chiamati a fare visita e ad accompagnare i malati.
Un malato avverte chiaramente se l'altra persona si pone davvero di fronte alla sua malattia e si prende personalmente a cuore la sua situazione, oppure se si costruisce una sua teoria e pone quest'ultima tra sé e il malato.
Dire la verità al malato
Non possiamo però lasciare la cura dei malati soltanto agli assistenti spirituali negli ospedali. È compito di noi tutti, in primo luogo dei familiari.
Molti familiari non sanno se è il caso di dire al malato la verità circa la gravità della sua malattia, oppure se sia preferibile limitarsi a incoraggiarlo a combatterla pieno di speranza.
Non possiamo mai togliere la speranza al malato, ma è senz'altro un bene se gli offriamo uno spazio in cui possa parlare lui stesso della sua malattia. Il malato infatti presagisce già da sé come stanno le cose: vorrebbe avere dei chiarimenti, ricevere una spiegazione del medico sulla sua malattia. Vorrebbe, Insomma, conoscere la verità.
Spesso i parenti proibiscono ai dottori di dire con chiarezza ai malati come stanno le cose. Ma i malati avvertono quale sia la loro effettiva situazione.
Così sono costretti a reggere il gioco dei parenti e fare come se potessero rimettersi presto in salute.
Si tratta di dire la verità al malato, ma insieme alla verità trasmettergli speranza.
Speranza è qualcosa di diverso dall'aspettativa. Aspettativa vuol dire: vedrai che la settimana prossima sarai guarito. Speranza significa: è sempre possibile sperare in un miracolo di guarigione; noi non sappiamo mai esattamente quanto a lungo vivrà ancora una persona.
Talvolta, però, i malati non vogliono conoscere la verità, presagiscono quanto potrebbe essere grave la loro malattia, ma preferirebbero non saperlo. È quindi compito dell'accompagnatore spirituale parlare col malato della sua paura, la quale ha certamente diritto di esistere.
Far visita ai malati
Possiamo accompagnare in maniera adeguata le persone malate solamente se ci siamo fatti carico del nostro stesso essere soggetti alla malattia e se abbiamo trovato un modo per affrontarla spiritualmente.
In greco e in latino nella parola “fare visita” l'accento è posto sul vedere, sul guardare.
Molti di coloro che fanno visita, però, non vogliono vedere come sta davvero l'altro: hanno paura di leggergli la verità negli occhi, perché allora sarebbero costretti a guardare anche la loro propria verità.
Così si impongono di dire al malato parole quanto più possibile di conforto.
Invece, quando si va a trovare un malato bisogna dargli la possibilità di parlare della sua malattia, delle sue paure e delle sue speranze.
Comunque, non dobbiamo cercare di mostrargli, dall'esterno, un senso alla sua malattia. Infatti, in ogni malattia è racchiuso un mistero. Questo conferisce al malato una dignità particolare. La camera del malato è un luogo consacrato.
L'assistenza ai familiari malati
Quando ad ammalarsi gravemente è il papà o la mamma, in noi affiora la paura che possano lasciarci.
Inoltre, la malattia dei miei genitori mi fa presente il compito di esaminare la mia storia insieme a loro e, qualora ci fossero ancora delle vecchie ferite o delle incomprensioni, di riconciliarmi con loro.
Un altro modo di rapportarsi con la malattia è l'assistenza ai familiari che non sono più in grado di cavarsela da soli.
È soprattutto l'assistenza a parenti affetti da demenza a rappresentare una grande sfida per la famiglia. Nell'assistenza di persone affette da demenza c'è bisogno anche di un buon lavoro su di sé. Infatti, non devono riferire direttamente a se stessi, in modo personale, il comportamento talvolta difficile dei malati o le parole che possono ferire.
Serve assumere una maggiore distanza interiore ed esteriore. Ma se lo stress risulta eccessivo allora occorre anche un cambiamento sul piano organizzativo.
L'accompagnamento del morente
Quando è possibile è bene che i familiari possano restare vicino al morente, a parlare con lui o a tendergli la mano.
Ma non basta solamente resistere, pieni di compassione, vicino al morente e non lasciarlo solo al momento del trapasso: occorre anche una particolare sensibilità per quello che accade alle persone al momento della morte.
Limitarsi a rassicurare il morente che non sta accadendo nulla di grave non è d’alcun aiuto.
L'accompagnatore è semplicemente lì, ascolta quello che morente gli dice e si lascia coinvolgere. Deve essere libero dalla pressione di dover preparare il morente alle domande fondamentali.
Quando giungerà il momento, sarà lui stesso a far capire, attraverso dei segnali che sa di essere prossimo alla fine.
L'accompagnamento attraverso rituali
Un'importante forma di accompagnamento sono i rituali. Al termine del colloquio io chiedo al malato se posso pregare per lui o se possiamo pregare insieme.
Non gli posso imporre la preghiera, ma molti si mostrano riconoscenti se proponiamo di pregare per loro e con loro.
Oppure chiedo al malato se posso benedirlo: allora gli impongo le mani e prego per lui in silenzio o con parole personali.
Al termine della visita posso consegnare al malato un angioletto, che può tenere in mano per ricordarsi che l'angelo è con lui, oppure dargli una croce: nel prenderla in mano, sentirà di non essere solo con il suo dolore, ma che Cristo è con lui.
Nella chiesa cattolica abbiamo l'Unzione degli infermi come sacramento e rituale atto ad esprimere nella maniera più intensa l'accompagnamento spirituale del malato.
Il sacramento dell'estrema unzione risale alla lettera di Giacomo, là dove scrive: “Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della chiesa ed essi pregheranno su di lui, ungendolo con l'olio nel nome del Signore. è la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà” (Gc 5,14s). Nell'Unzione degli infermi Cristo si fa incontro al malato per donargli di aver parte al mistero della sua vita. Questo trasforma la paura del malato e gli dà la sensazione di avvertire, pur nella sua condizione, una particolare vicinanza a Cristo e di essere sostenuto e amato da lui.
* Tratto da: Abbi fiducia, Editrice Queriniana, Brescia 2018.
Sintesi della redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Parlare al malato, distrarlo, oppure ascoltarlo, o stare in silenzio con lui. Quale approccio adottiamo?
• Fino a che punto è doveroso sacrificarsi prendendosi cura di un malato cronico?
• Cosa ne pensiamo dell’Unzione degli infermi? Questo rito riduce o accresce la paura della fine? Noi gradiremmo riceverlo?
19-PREGARE CON E PER IL MORENTE
È possibile celebrare l'unzione degli Infermi insieme ai familiari.
Riporto un esempio significativo. Una signora che conoscevo aveva un tumore e sapeva che sarebbe morta di lì a poco. Mi pregò di darle l’unzione degli infermi a casa sua, dove furono presenti i suoi tre figli, suo marito e un paio di amici. Iniziamo il rituale e invitai tutti a posare la mano sul capo o sulla spalla della donna e a pregare in silenzio per lei.
In quel momento la donna senti l'amore della sua famiglia e dei suoi amici: diventò, in quell'istante, il centro stesso della famiglia.
In questo rituale è importante pregare in silenzio: infatti parole troppo pietose possono ferire i malati nella loro delicata situazione, e spesso eludono la malattia.
Dopo la preghiera di intercessione lessi un brano biblico e lo commentai. Infine unsi le mani della malata con l'olio e pronunciai queste parole: “Con quest'olio l'amore di Dio possa ristorarti nella tua malattia. L'amore di Dio possa sfiorarti delicatamente come questo olio profumato”. La donna tese poi le mani unte davanti a sé, ed io chiesi ai familiari di segnare su quelle stesse mani una croce con il pollice e di esprimere un augurio di benedizione.
In quel momento si venne a creare un nuovo rapporto tra madre e figli, i quali riuscirono a dirle parole che altrimenti mai avrebbero detto nella vita. Il rituale è pertanto un luogo nel quale possiamo esprimere in modo nuovo i nostri sentimenti: si viene così a creare una profonda relazione intima tra il malato e i familiari che vi partecipano.
Anselm Grün
20-DALL’EUTANASIA AL SUICIDIO ASSISTITO
L’assassinio per pietà è pur sempre un omicidio, ma il “suicidio assistito”, pur essendo sempre un omicidio, pone molto più l’accento sulla libera scelta dell’individuo.
di Ignacio Carrasco de Paula*
Il termine eutanasia significa etimologicamente buona morte. Concretamente, con questa parola si deve intendere l'atto di uccidere deliberatamente un malato inguaribile per porre fine alle sue sofferenze, cioè per motivi di pietà.
Si pretende cioè di legittimare l'omicidio con la presenza di sentimenti di pietà. Tuttavia si tratta di una pietà singolare dal momento che porta l'uccisione della persona sofferente con o senza il suo preventivo consenso.
L'attuale contesto culturale
In una cultura in cui la domanda sul senso della vita è messa fra parentesi e la consapevolezza di essere mortali viene sistematicamente rimossa, l'esperienza del morire acquista un duplice opposto significato: essa sembra un paradosso inaccettabile, soprattutto quando stronca inaspettatamente un'esistenza aperta a un futuro pieno di promesse, oppure appare come una liberazione da un'esistenza senza senso, forse irreversibilmente sommersa dall'angoscia e dalla sofferenza.
Smarrendo il senso del dolore non resta che la disperazione, da cui nasce la tentazione di porre fine, possibilmente con dolcezza, all'amarezza del vivere.
Morire per scelta?
In questi anni la controversia sull'eutanasia si è venuta esprimendo soprattutto come una scelta (death by choice) pretendendo di essere riconosciuta come un’esigenza di rispetto della volontà e dell'autonomia di chi preferisce la morte alla vita.
Questa prospettiva rende il dibattito più concreto, e induce le parti pro e contro a dare preferenza a discorsi che possano essere capiti dalla gente.
Per capirci, l'argomentazione dell'esercizio della libertà individuale ha avuto un buon successo per la legalizzazione dell'aborto.
Ma, mentre risulta relativamente agevole pronunciarsi in favore della scelta della donna contro un minuscolo embrione che non può difendere i propri diritti, si coglie molto meno il fatto che la volontà di morte di un paziente debba prevalere sulla professionalità del medico che dispone di un efficace strumento qual è la medicina palliativa.
Per questo motivo, i fautori dell'eutanasia si sono resi conto che bisognava ridimensionare il ruolo del medico, in modo che non fosse lui ma il paziente a porre l'azione letale. Si sono avvicinati così alla nozione di suicidio. In questo modo, il tradizionale ma ambiguo concetto di “assassinio per pietà” sta cedendo il passo a quello più razionale e insidioso di “suicidio assistito”.
Il suicidio assistito
Il concetto di suicidio assistito si colloca a metà strada fra il suicidio e l'eutanasia volontaria, che presuppongono tutti e due la chiara volontà di morire da parte del soggetto.
Per la sensibilità moderna, il suicidio assistito offre un triplice vantaggio sull'eutanasia tradizionale, vale a dire: a) l’azione letale appare come una scelta libera del paziente; b) la presenza del medico garantisce le adeguate garanzie di un'assistenza professionale, ma c) soprattutto il porre fine alla vita viene spostato su un piano eticamente meno impegnativo, simile a quello della rinuncia ai trattamenti futili.
Il concetto di suicidio assistito lascia molti interrogativi aperti. Come e chi può distinguere tra un'autentica volontà di morte dalla depressione, dallo sconforto, dall'abbattimento, ecc.? Come e chi è in grado di verificare la reale volontà del malato incompetente? Quale dovrebbe essere il comportamento del medico quando il paziente non è in grado di ingerire la sostanza letale o l'azione risulta parzialmente inefficace?
E ancora, se l’eutanasia diventasse un'alternativa terapeutica per il malato terminale, per quale motivo un medico non dovrebbe considerarsi autorizzato ad adoperarla in casi estremi, anche prescindendo dalla volontà del paziente?
La posizione cattolica
Contro la cultura pro eutanasia il cristianesimo denuncia le contraddizioni e le debolezze di un’ideologia che non sa rendersi conto del dramma di chi, malato e forse emarginato da tutti, non riesce più a sopportare la vita. Il desiderio di morire non di rado è risultato di una situazione disumana e ingiusta, o di una situazione patologica che è stata trascurata o persino ignorata.
Non si può misconoscere che il dolore prolungato e insopportabile può oscurare la mente fino a indurre qualcuno a ritenere di poter lecitamente chiedere la morte, e farlo pure in buona fede.
Tuttavia uccidere un povero malato è inammissibile. La Chiesa insiste su questo punto, quando ricorda che le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intesi come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto.
Oltre le cure mediche, ciò di cui il malato ha bisogno è l'amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.
Inoltre, per lo stesso interessato la richiesta di morire difficilmente è il risultato di una vera scelta. Chi si trova in tali circostanze ha solo l'esperienza della disperazione o della solitudine presente, ma non ha alcuna esperienza della morte. La morte si può solo immaginare: ma non si può misurare né tantomeno raccontare.
Paradossalmente, non c'è un momento nella vita in cui sia così fondamentale ravvivare la speranza come quando uno si trova nella vicinanza della morte: essa è l'istante in cui la storia finora vissuta raggiunge un senso pieno solo se rimane aperta la possibilità di un futuro.
* Tratto da: Pontificio Consiglio per la Famiglia (a cura di), Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Edizioni Dehoniane, Bologna 2003.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Abbiamo conosciuto persone afflitte da mali inguaribili che chiedevano la morte? Come abbiamo reagito?
• Siamo in grado di argomentare contro il suicidio assistito?
• Conosciamo le cure palliative? Siamo interessati a saperne qualcosa in più?
21-L’ITER DEL SUICIDIO ASSISTITO
Tra Referendum, Corte Costituzionale e Parlamento
A cura della Redazione
Il 10 marzo u.s. è stato approvato dalla Camera di Deputati il disegno di legge (ddl) 3101 dal titolo “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, in pratica il suicidio assistito.
Questo risultato è stato salutato da alcuni come una vittoria nella lotta di liberazione dai vecchi pregiudizi, per altri come la prossima condanna a morte per malati soli e abbandonati (1).
L’iter legislativo
È l’inizio del 2016 quando, grazie alla campagna “Eutanasia Legale” promossa dall’Associazione Luca Coscioni (2), prende il via nel Parlamento italiano il dibattito sulle “Norme in materia di eutanasia”. La legislazione terminerà senza aver prodotto alcuna votazione.
Nel gennaio 2019 il Parlamento riprende il dibattito sotto la spinta della Corte costituzionale, ma senza portare a un testo base.
È stata necessaria la sentenza 242\2019 della Corte Costituzionale (3) che ha dichiarato incostituzionale il divieto di aiuto al suicidio nei soli casi in cui l’aiuto è fornito ad una persona malata in determinate condizioni accertate da una struttura pubblica previo parere del comitato etico, per avviare l’iter parlamentare che ha portato ad una prima approvazione della legge.
I limiti della legge
Se il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio (4), ha visto nella legge un “razionale e laico punto di incontro tra visioni diverse” altri commentatori, come Alberto Gambino (5), presidente dell’Associazione Scienza & Vita, hanno evidenziato il fatto che “il ddl abbia travisato, tra l’altro, il richiamo della Corte Costituzionale alla pre-condizione dell’effettiva fruizione di un programma adeguato di medicina palliativa” (ordinanza n. 207 del 2018).
“Nel ddl”, continua Gambino, “tale condizione pregiudiziale si realizza in una mera certificazione (“rapporto”) redatta da un sanitario con la sommaria indicazione che la persona è genericamente a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative, in contraddizione anche con l’inquadramento legislativo della medicina palliativa” che è considerata una “risorsa ordinaria da affiancarsi a qualsiasi trattamento terapeutico in condizioni di sofferenza”.
Le cure palliative
Lo scopo di questo tipo di cure “non è quello di accelerare né di ritardare la morte, ma di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine” (6). Queste cure sono un diritto del malato e sono gratuite.
Il problema è costituito dalla reale disponibilità delle stesse.
Questa criticità è nota anche alla Corte Costituzionale che, nella sentenza di cui sopra, ha scritto: “la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore oggi sconta molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” mentre “dovrebbe rappresentare una priorità assoluta per le politiche della sanità” (7).
I numeri in Italia
L’organizzazione di volontariato VIDAS (8) ha recentemente commissionato alla Bocconi (9) la ricerca su Le cure palliative in Italia da cui emerge che ogni anno oltre 543 mila persone adulte necessitano di cure palliative (CP).
Nel nostro Paese però si stima che l’offerta complessiva – che tiene conto dei pazienti assistiti a domicilio (79.648) e in hospice (42.572) – sia di sole 122.220 unità e delinea un tasso di copertura del bisogno pari al 23%. Si tratta di un dato che, ormai a 10 anni dalla Legge n. 38 che sancisce il diritto per tutti i cittadini di accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, è ancora troppo basso, soprattutto se paragonato a quello di Germania e Regno Unito che raggiungono rispettivamente il 64% e il 78%.
Secondo le stime più accreditate, per calcolare il bisogno di CP si considera una percentuale che oscilla tra il 69% e l’84% del numero dei decessi annui (vedi grafico in questa pagina).
Per concludere
La legge sul suicidio assistito, se non verrà opportunamente emendata dal Senato, renderà - nelle situazioni estreme - più desiderabile accedere al suicidio assistito che accedere alle cure palliative, visto che la stragrande maggioranza dei pazienti che ne ha diritto incontra notevoli difficoltà ad ottenere queste cure.
Infatti, il suicidio assistito così come proposto, scrive Enrico Larghero (10), responsabile del Master Universitario di Bioetica a Torino, “è un sistema per sfuggire all’approccio delle cure palliative, che richiedono mezzi economici, personale specializzato, tempo e formazione adeguata”.
È quello che a suo tempo è accaduto per la legge 194 (legge sull’aborto) che prevedeva l’istituzione di servizi socio-sanitari e di altre iniziative per evitare che lo aborto fosse usato ai fini della limitazione delle nascite (11).
Sappiamo come è andata a finire!
1 Fonte: https://www.provitaefamiglia.it/blog/eutanasia-e-fine-vita
2 Fonte: https://www.associazionelucacoscioni.it/cosa-facciamo/fine-vita-e-eutanasia/eutanasia
4 Fonte: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-direttore-risponde-io-malato-di-sla-tra-vita-e-morte
7 Citazione del parere del 18 luglio 2019 del Comitato nazionale per la bioetica
8 Vedi: https://www.sicp.it/wp-content/uploads/2020/12/Cure-palliative-in-Italia_Bocconi_211119.pdf
9 Fonte: https://www.politicamentecorretto.com/2020/11/10/nella-giornata-nazionale-delle-cure-palliative/
10 Fonte: La Voce e il tempo, Domenica, 13 Febbraio 2022
11 Fonte: https://www.documentazione.info/il-testo-della-legge-194-sullaborto-0
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Il tema del suicidio assistito, se approvato, susciterà un forte dibattito. Riusciremo ad evitare uno scontro solo se arriveremo preparati ed informati. Ci vogliamo impegnare?
• Ci sono temi politici, come tutto ciò che riguarda la salute, che ci interpellano direttamente. Perché siamo così “assenti”?
Testimonianze
22-EUTANASIA E CURE PALLIATIVE
La vita è sacra e deve essere aiutata perché sia vissuta con dignità fino al suo termine naturale (la vita è il valore non disponibile) con la dovuta assistenza e con le cure palliative che sono necessarie.
Romeo
Sono fermamente contrario all'eutanasia, la vita deve essere sempre difesa: dal concepimento alla morte naturale. Sul significato della sofferenza c'è un preconcetto negativo su cui, a mio modesto parere, dovremmo interrogarci. Credo che l'eliminazione della sofferenza vada nella direzione dell'eliminazione di tutto ciò che non è perfetto, della esaltazione di quel mondo effimero in cui siamo tutti bellissimi e ricchissimi a cui tendere per non arrivare mai alla meta. Solo in Dio c'è la felicità, ogni creatura è sua immagine anche se malata e imperfetta. Non possiamo permetterci di distruggere una vita.
Il mio parroco, Dio l'accolga in Paradiso, mi diceva che la Parola "soffrire" assomiglia molto a "s’offrire" (con l'apostrofo) ovvero offrire se stessi. Gesù in croce offre se stesso e soffre per l'umanità intera.
Alessio
Trovo importantissime le cure palliative, ma se ci sono delle condizioni ormai conclamate dal punto di vista clinico di malattia irreversibile, di sofferenza indicibile, vedrei giusto un accompagnamento alla morte. Confesso però che lasciare questa decisione al medico tramite una dichiarazione di volontà anticipata mi riesce molto difficile.
Fiorenzo
L’eutanasia è tema lacerante. In sostanza, penso che la sofferenza di chi sta morendo debba essere alleviata in tutti i modi. Quindi, sì, assolutamente, alle cure palliative anche se sono ancora troppo poco praticate.
Per quanto riguarda il cosiddetto "omicidio col consenso dell'assistito" faccio fatica ad accettarlo. Ne temo le derive. Preferisco pensare alle cure palliative. Ma non posso escludere che in alcuni rari casi una decisione del genere possa trovare delle ragioni.
Maria Teresa
È un tema davvero complesso e non riesco a sintetizzare in breve. Diciamo che sono contro l’accanimento terapeutico, in senso molto lato.
Paola
Sono del tutto favorevole sia alle cure palliative che all’eutanasia e sono contraria all’accanimento terapeutico.
Erica
Sicuramente l’eutanasia è un tema scottante che merita tutta la delicatezza e sensibilità nell’espletare delle dovute considerazioni.
Penso al corso di teologia al quale ho avuto modo di partecipare: un sacerdote conferenziere, impegnato nell’ospedale di Conegliano, diceva così: “Se arriva un paziente giovane grave per malattia o incidente, si faccia a lui tutto il possibile, cioè tutto quello che la scienza conosce per salvargli la vita, perché in lui c’è una speranza di futuro. Diversamente, se arriva una persona anziana con diverse gravi patologie, perché allungargli questa agonia con sondino o altro solo per prolungargli la vita di qualche mese?”. Bisogna riflettere.
Di recente abbiamo avuto il suocero che per gravi patologie negli ultimi mesi di vita era completamente allettato. La famiglia, dopo un consulto medico, ha scelto un accompagnamento naturale con supporto specialistico.
Orazio
Sacra quanto la vita è la morte! C’è un inizio e una fine per ogni cosa. Anche per la nostra esistenza.
Non dobbiamo essere egoisti e voler trattenere con noi le persone che amiamo. Se è giunta la loro ora è giusto lasciarli andare perché altrimenti qui soffrirebbero solo.
Quando il medico ci chiese di decidere per una alimentazione forzata per mio padre, noi fratelli siamo stati tutti concordi a rifiutarla.
Volevamo che potesse godere di cure palliative ma ogni volta che ne parlavo con il medico di base mi veniva risposto che era troppo presto per attivarle.
Solo dopo la sua morte, a mente fredda, ho capito che le varie patologie da cui era afflitto mio padre non rendevano possibile un simile approccio.
Daniela M.
L’eutanasia è una forzatura, un estremismo ideologico, applicato ad un problema reale (vita troppo dolorosa e, forse, anche troppo lunga).
Conosco le cure palliative e so che possono ridurre moltissimo il dolore, rendendo accettabile il fine vita.
Penso che la Medicina moderna, espressione di una società che rifiuta la morte, esageri nel tenere in vita ad oltranza le persone, invece che accettarne la fine naturale.
Luigi
Frequentando i malati, conosciamo le cure palliative, alcuni di loro hanno dovuto usarle e sono state utili per accompagnarli fino alla fine in modo da non sentire male.
Ma mi nasce sempre una domanda: dove comincia l’accanimento terapeutico? Ho assistito una malata anziana il cui figlio, quando non riusciva più a mangiare ha chiesto a un medico di mettere sondino per nutrirla… è durata qualche settimana in più… Il medico di base si era rifiutato e lui ha pagato un privato per farlo. Non siamo per eutanasia, ma nemmeno per accanimento terapeutico. Esiste la via del buon senso, dell’amore e del rispetto per ogni persona, senza esagerare.
Franca
Ormai, il mistero della vita e della morte, che sono facce di una stessa realtà, non appartiene alla mentalità di questo mondo. Riesco a toccare la sofferenza di chi chiede di porre fine alla sua vita; riesco anche a comprendere questa scelta in una vita che è chiusa al Trascendente, in una vita chiusa ad un Amore più grande; riesco anche a capire perché si è arrivati a questo punto: l’uomo si è allontanato da Dio e ha perso le ragioni profonde della vita, della malattia e della morte.
Non riesco, però, a tollerare la superficialità con la quale il tema è spesso trattato. È un tema importante sul quale riflettere profondamente e, forse, per chi crede è anche un’occasione per domandarsi perché noi cristiani non riusciamo ad essere portatori di speranza.
Non nascondo di provare ancora confusione e smarrimento rispetto alla possibilità di individuare un limite tra ciò che è accanimento terapeutico e ciò che non lo è, fra ciò che è vita e ciò che è una vita artificiale. Sento che la mia coscienza a riguardo è ancora in formazione.
Daniela F.
È un tema molto delicato, sul quale la mia opinione potrebbe anche cambiare nel momento in cui mi trovassi in quella situazione.
Conosco un po' le cure palliative.
Giorgia
Consideriamo l’eutanasia un principio nefasto e rischioso per la sopravvivenza stessa dell’umanità, qualunque ne sia la motivazione! La nostra posizione non è legata a motivi religiosi ma è profondamente razionale e umana. Una legge in tal senso darebbe all’uomo un potere che, prima o poi, potrebbe essere usato a scapito degli ammalati o dei sofferenti.
Abbiamo invece molta fiducia nelle cure palliative che dovrebbero essere meglio conosciute, implementate e applicate con sempre maggiore precisione per lenire ogni tipo di sofferenza.
Occorre acculturarsi e fare cultura su questo tema affinché ognuno di noi abbia modo di riconciliarsi con la morte e di morire nella pace.
Giorgio e Laura
Per prima cosa rifiuto l’accanimento terapeutico. Quando sarà l’ora mi lascino andare senza torturarmi per un giorno in più. Non rifiuto le cure ma non sono d’accordo con metodi artificiali che servono per tenermi in vita ma non per guarirmi.
Per quanto riguarda l’eutanasia non so cosa farei se mi trovassi con persone care che soffrono tanto e che chiedono di morire. È dura vederli soffrire e non poter fare niente.
Chiara
Siamo personalmente contrari all’eutanasia e ne contestiamo lo stesso nome: non può essere “buona” una morte autoimposta. Conosciamo le cure palliative e le consideriamo molto utili per alleviare il dolore ed evitare inutili sofferenze. Siamo però contrari all’accadimento terapeutico. Su questo tema ripensiamo alle parole di Giovanni Paolo II: “Lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Questo vuol dire soltanto: lasciate che la vita faccia il suo corso.
Annamaria e Franco
Non so nulla di medicina ma considero le cure palliative cosa ben diversa dall'accanimento terapeutico. Le prime ritengo siano frutto di carità cristiana per alleviare il dolore; il secondo un mal riposto desiderio di immortalità.
Carlo Maria
Come cristiana penso che la scelta di voler morire e non più vivere non sia comprensibile e rispettosa del dono della vita, credo però che in certe situazioni drammatiche non si possa giudicare la scelta né della persona interessata né dei familiari che sono vicini. Io sto vivendo personalmente da anni la depressione cronica di mio papà che ora ha 80 anni: nei momenti in cui ci dice che sarebbe meglio se non ci fosse più per non farci più tribolare, io non ho nessuna risposta. Non so cosa sarebbe meglio per lui e per mia mamma che da anni lo segue.
Loredana
Sono questioni che ci piacerebbe approfondire, anche nell’ambito parrocchiale o diocesano, anche perché si avvicinano soluzioni politiche che non paiono in linea con l’insegnamento della Chiesa. Le cure palliative potrebbero offrire un lenimento del dolore, ma non le conosciamo e molti aggiungono che sono costose e per questo si preferisce, talora, non dispensarle. Se è davvero così, non ci sembra giusto perché la salute e le cure ci sembrano una necessità inderogabile, da collocare al primo posto.
Giuseppe
Come Chiesa e come cristiani, non possiamo che indicare come fondamentale il valore della vita.
Credo però che non possiamo farlo in modo rigido e dogmatico, senza farci prossimi e senza ascoltare (proprio noi!) chi si trova ad affrontare concretamente certe situazioni, o ignorando i cambiamenti in corso nella medicina e nella società.
Siamo chiamati ad indicare vie "umane" di gestione del fine vita, ma usando misericordia e non giudizio per chi proprio non ce la fa.
Elda
Uomini e donne nella bibbia
23-PREGHIERA DI UN VECCHIO
Un commento al salmo 71 (70)
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.
Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio,
dal pugno dell’uomo violento e perverso.
Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno:
a te la mia lode senza fine...
Della tua lode è piena la mia bocca:
tutto il giorno canto il tuo splendore.
Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia,
non abbandonarmi quando declinano le mie forze.
Contro di me parlano i miei nemici,
coloro che mi spiano congiurano insieme
e dicono: «Dio lo ha abbandonato,
inseguitelo, prendetelo: nessuno lo libera!».
O Dio, da me non stare lontano:
Dio mio, vieni presto in mio aiuto...
La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza,
che io non so misurare...
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.
Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi,
o Dio, non abbandonarmi,
fino a che io annunci la tua potenza,
a tutte le generazioni le tue imprese...
Dal salmo 71 (70)
Il solo progetto di Dio sull’uomo è un uomo «risuscitato».
di Noël Quesson*
Il Salmo 71 è la preghiera di un uomo anziano che chiede aiuto per se stesso e giudizio per i suoi nemici.
Questo salmo, come tutti i salmi, si può leggere da diversi punti di vista: quello di Israele, quello di Gesù e quello attuale.
Prima lettura: con Israele
La prima osservazione è che l'«io» del salmo rappresenta in realtà Israele.
Questa preghiera in apparenza molto personale, fin quasi ad essere individualista nel suo tono intimistico, è di fatto un midrash, una sorta di «parabola», un « rivestimento»: il popolo d'Israele è presentato come un vecchio, che è stato scelto fin prima della sua nascita (l'amore di Dio viene sempre per primo), che ha cercato di rimanere fedele fino agli anni della sua «canizie»... Un vecchio ormai privo di forze e circondato da nemici che ne vogliono la rovina, il quale osa chiedere a Dio non il prolungamento di una vita ormai povera e minorata, bensì una nuova vitalità, una giovinezza ritrovata, una vera e propria risurrezione: allora sì che Israele «canterà» senza fine la lode e la gioia!
Osserviamo, sul piano letterario, lo stupendo movimento «a spirale», che mescola incessantemente la «supplica» con la «lode»: il credente grida e geme sotto la prova, tuttavia non è mai nella disperazione; alla domanda supplicante, mescola costantemente l'azione di grazie.
Seconda lettura: con Gesù
Gesù nella sua passione chiede di essere liberato dai nemici: «Dio lo ha abbandonato… Aspettate, vediamo se Elia viene a liberarlo» «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Ma ecco, proprio in questa condizione estrema, la certezza della risurrezione: «nuovamente mi concederai di vivere, mi trarrai fuori dagli abissi della terra ... Gioia sulle mie labbra che cantano per te, e nella mia anima che tu hai riscattata». Sì, questo salmo bisogna ripeterlo con Gesù.
Terza lettura: con il nostro tempo
Si può dire con tutta sicurezza che mai come nel nostro tempo la vecchiaia ha rappresentato una prova tanto temibile. Più l'uomo moderno diventa capace di guarire le malattie, più avverte il fallimento di fronte all'impossibilità di guarire dalla morte. Bisogna sicuramente provare il terribile sentimento dell'abbandono, che è l'impressione drammatica di avere ormai fatto il proprio tempo, come un vecchio strumento ormai fuori uso.
Bisogna sicuramente affrontare con grande lucidità questa crudele evidenza: «una» certa vita è finita, «questo» tempo è irreversibile, ed entrare in comunione con la speranza del salmista. Per il credente degno di questo nome le leggi biologiche e psicologiche dell'invecchiamento non hanno alcuna presa perché egli attende la comunicazione della vita divina.
La nostra nuova giovinezza è davanti a noi, in Dio! Là è la gioia!
Ma in questo salmo, oltre al tema della vecchiaia, ne è presente anche un altro: il desiderio di vivere.
I giovani parlano di «furore di vivere». Questo slancio verso la vita lo ha infuso Dio in noi. Tutt’intero questo salmo è una protesta contro la devitalizzazione, contro la mortificazione della vita, in nome della stessa eternità dell'amore.
Se è vero che Dio ci ha creati «perché ci ama» (fin dal ventre di nostra madre!), come potrebbe abbandonarci? La risurrezione dei morti, la risurrezione di Gesù Cristo, è prevista fin dall'eternità e fa parte del «progetto iniziale» del Creatore.
Non accusiamo mai Dio di aver fatto un uomo «mortale»! Il suo solo progetto è un uomo «risuscitato»! Ed è questa fede che pervade da cima a fondo il salmo 71.
Tratto da: Il messaggio dei Salmi (vol. 1), Borla, Roma 1980.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Quale rapporto abbiamo con i Salmi? Sono per noi uno strumento di preghiera? In caso contrario, perché non lo sono?
• Nella liturgia delle ore troviamo molti salmi. Abbiamo mai sperimentato questa preghiera?
24-PER APPROFONDIRE IL TEMA
I libri usati per realizzare questo numero
Anselm Grün, La grande arte di invecchiare, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009
Come sappiamo per esperienza, diventare vecchi non significa automaticamente diventare saggi, anzi, il contrario.
Per questo il libro di Grün è un utile manuale per tutti coloro che, consapevoli dei loro difetti, desiderano emendarli per vivere meglio l’ultima età della vita.
Il cammino della vita ci chiama ad una continua revisione del nostro modo di essere, e questo vale anche per la vecchiaia.
L’anziano è chiamato a coltivare l’arte del distacco: dalla professione, dal proprio potere, dai propri averi e, in prospettiva, anche dal nostro stesso “io”.
Allo stesso tempo è chiamato a coltivare alcune specifiche virtù come la pazienza, la mitezza, la riconoscenza.
In conclusione: un libro da leggere!
Anselm Grün, Nella morte la vita, Queriniana, Brescia 2008
Scrive l’autore: “Con questo breve libro vorrei aiutare molti a vincere la paura della morte”.
Ci hanno insegnato che la vita non finisce con la morte, che questa è solo un passaggio, che ci aspetta l’incontro luminoso con Dio Padre ma poi, in pratica, di tutto ciò se ne parla poco.
In una società che ha rimosso la morte, l’ha ospedalizzata, anche per i cristiani può essere difficile affrontarla senza troppa paura.
Il libro di Grün riesce, con le sue riflessioni, a conciliare il giudizio finale con il giudizio particolare, l’immortalità dell’anima con la resurrezione dei morti, e a dare un senso al concetto di Purgatorio.
Come leggere dunque la morte? “Come invito a vivere intensamente ogni attimo”, conclude l’autore, “ad abbandonare l’attaccamento a noi stessi per affidarci completamente a Dio”.
Raniero Cantalamessa, Sorella morte, Editrice Ancora, Milano 1991
Ci sono due modi per affrontare il tema della morte: quello sapienziale e quello misterico o pasquale.
La prima modalità è quella più diffusa: la morte è una realtà che tocca tutti gli uomini, nessuno escluso. La seconda è propria solo del Cristianesimo e trae forza dall’evento pasquale ma sovente i cristiani se ne sono dimenticano e la vivono come coloro che non hanno fede.
È proprio la riproposta del valore misterico della morte il cuore del libro di padre Cantalamessa.
Scrive l’autore: “Tra noi e Dio si ergevano tre muri di separazione: quello della natura, quello del peccato e quello della morte. Il primo è stato abbattuto nell’incarnazione, quando natura umana e natura divina si sono unite nella persona di Cristo; il secondo sulla croce; il terzo nella resurrezione”.
Anselm Grün, Abbi fiducia. Parole di speranza nel tempo della malattia, Queriniana, Brescia 2018
Perché proprio a me? Questo è l’interrogativo che molte delle persone che sono colpite da una malattia grave, invalidante o con poche speranze di guarigione si pongono. Ed è a questo interrogativo che Grün prova a dare una risposta in questo suo libro, libro utile non solo ai malati ma anche ai loro accompagnatori.
Può la preghiera aiutarci nel tempo della malattia? La risposta dell’autore è positiva, soprattutto quando diventa preghiera di affidamento. Scrive Grün: “Forse, non guarirò, ma di certo vivrò in maniera diversa la malattia, affidandola costantemente all'amore tenero di Dio”.
Possiamo “superare” il dolore? Sì, se scopriamo che, al di sotto del dolore, c'è lo spazio del silenzio, in cui Dio stesso abita in noi.
Molto interessanti, in appendice, le schede di benedizione dei malati e le proposte di rituali.
AA.VV., Morte e resurrezione, Collegamento Gruppi Famiglia n. 80, giugno 2013
Il tema che trattiamo in questo numero è stato già affrontato su questa rivista alcuni anni fa. Scorrendola, si possono notare i punti di contatto e le differenze. In questo numero abbiamo dato spazio a come invecchiare bene, nel precedente avevamo privilegiato l’esperienza del lutto nelle varie forme con cui si manifesta (morte di un figlio, di un coniuge, di un genitore) e alle strategie per viverlo ed elaborare la perdita.
Un punto in comune ad entrambi i numeri è il tema delle cure palliative, che ora si manifesta con rinnovata urgenza a causa della possibile regolamentazione del suicidio assistito.
Se pensate di usare quanto abbiamo trattato in queste pagine per gli incontri di gruppo, non dimenticate di consultare anche il numero 90 della rivista che potete scaricare facilmente dal sito www.gruppifamiglia.it alla voce Pubblicazioni.
25-GLI INCONTRI SINODALI DEI GF
Se in una comunità non c’è capacità di accoglienza la liturgia non è sufficiente per creare una comunità di credenti.
Il modo migliore per dialogare è quello di fare qualcosa insieme: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.
papa Francesco
a cura della Redazione
Il Collegamento tra Gruppi Famiglia ha scelto come traccia del proprio cammino sinodale le quattro proposte che don Duilio Albarello ha, a suo tempo, formulato a conclusione dell’Assemblea generale della diocesi di Torino (vedi GF109).
Di seguito la sintesi di quanto emerso nei quattro incontri on-line che si sono tenuti tra ottobre e aprile.
1. Dalla sola sacramentalizzazione alla evangelizzazione integrale
“Con il Covid la comunità dei fedeli ha perso quella che ad fino ad oggi rimane la sua modalità principale di espressione, quella liturgica”.
Attualmente la celebrazione dei sacramenti, in primo luogo l’eucaristia, risulta lo strumento più usato per evangelizzare i fedeli.
In realtà, tramontata di fatto la pratica del sacramento della Riconciliazione e dell’accompagnamento spirituale, lo spazio di evangelizzazione che rimane al sacerdote sovente si riduce alla breve omelia domenicale.
Per quanto riguarda gli altri sacramenti (battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio) vengono ancora richiesti da diverse persone, anche poco praticanti, ma senza sapere bene perché li richiedono.
Servirebbe invece un serio cammino di preparazione. Purtroppo come Chiesa da decenni parliamo di formazione permanente ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Progressivamente la riflessione si viene focalizzando sull’Eucaristia.
Già nelle testimonianze raccolte per il numero 109 di questa rivista era emersa una frattura tra chi si lamentava della poca verticalità della celebrazione (poco raccoglimento) e chi della poca orizzontalità (poco coinvolgimento dell’assemblea) e anche in quest’occasione il tema si è riproposto.
È difficile conciliare questi due aspetti nei 50 minuti in cui dura una messa.
Servirebbe una “regia” che sappia scandire i tempi, come avviene nelle celebrazioni organizzate da alcuni movimenti ecclesiali (ma anche nei nostri campi estivi!), però difficili da applicare in un’assemblea eterogenea come quella presente nella maggioranza delle parrocchie.
Se prima del Covid era la liturgia a “creare” la comunità, la pandemia ha reso evidente che la liturgia non fa la comunità.
Non la fanno i sacerdoti troppo frettolosi, non la fanno i fedeli che non sanno trasmettere un senso di accoglienza alle persone che partecipano alla messa, anche quelle che ci vengono di rado.
La liturgia ha senso quando c’è una comunità che ha bisogno di quella liturgia per festeggiare, per dire le cose importanti. Se non c’è comunità la liturgia serve a ben poco.
2. Dalla supplenza clericale alla corresponsabilità testimoniale
“L’istanza comunitaria richiede un graduale superamento della struttura piramidale della Chiesa”.
La corresponsabilità dei laici all’interno della Chiesa è materia rara. O il laico fa il vice prete, il chierichetto, il braccio esecutivo del sacerdote o ha vita dura.
I laici sono tanto lodati, tanto apprezzati a parole, quanto poco consultati o consultati solo per cose di poco conto.
Ci sono sacerdoti che non gradiscono ciò che i laici propongono, ci sono altri sacerdoti che lasciano i laici liberi di auto organizzarsi, ma senza dare loro quel sostegno (biblico, culturale, liturgico) di cui avrebbero bisogno.
Ma è anche vero che tocca ai laici sapersi “attrezzare” culturalmente per acquisire competenze ed autonomia. Vi sono laici che provano ad organizzare autonomamente p.e. momenti di catechesi per adulti. Purtroppo sovente vengono visti come “carbonari”, ignorati dalla parrocchia. Lo stesso accade per chi si impegna a livello sociale e politico.
Tornando ai sacerdoti, molti sono poco disponibili ad aprirsi, a misurarsi con la società, preferendo attendere che le persone vadano in chiesa.
Tocca ai laici – e questo suggerimento arriva dalla gerarchia – “violentare” dolcemente i propri sacerdoti, “evangelizzarli”. Ma di solito non ci si riesce.
Così il laico, quando opera nella società, il più delle volte si trova ad agire in solitudine.
Basta assumere qualche posizione contro corrente per sentirsi dare del prete, senza poter contare su alcun conforto da parte della comunità cristiana.
Ma questo è vero anche per i sacerdoti, anche se appartengono ad un ordine religioso. Manca, nella Chiesa, la dimensione comunitaria. Questa si riduce, per i più, al momento della messa domenicale.
3. Dall’attivismo pastorale alla formazione teologica
“Nella Chiesa sono duri a morire due pregiudizi davvero dannosi: una concezione intellettualistica della teologia e una visione attivistica della pastorale”.
Da una ricognizione su quali strumenti offrono le nostre diocesi per una formazione non solo in campo metodologico ma anche in campo teologico, è risultato che le proposte non mancano: corsi di formazione per catechiste e per altri ministeri, scuole di formazione teologica, istituti di Scienze religiose, fino ad arrivare alla laurea in teologia.
Nell’esperienza pratica, sono emersi alcuni limiti legati allo studio della teologia. Questa tratta argomenti molto belli, ma che sovente hanno poche ricadute nella pratica di fede. Da sola non basta, va integrata con lo studio e la pratica della Parola di Dio, con un cammino che faccia anche crescere a livello spirituale.
L’esperienza che i laici acquisiscono attraverso i vari cammini formativi non ha poi una grande ricaduta sulla vita della comunità.
Un laico che conduce una serata riscuote molto meno interesse rispetto a quando questa è condotta da un sacerdote; un laico che opera negli uffici diocesani deve stare attento a non interferire con il ruolo dei sacerdoti, ecc.
I campi in cui i laici trovano spazio è quello catechistico, sia quello dei bambini/ragazzi, sia quello delle coppie (battesimi, fidanzati, ecc.), sia quello dell’insegnamento della religione nelle scuole.
Su tutto ciò pesa la difficoltà di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio comprensibile al mondo contemporaneo secolarizzato.
Come Chiesa, purtroppo, siamo stati poco fedeli all’insegnamento più profondo del Vaticano II e l’attuale catechismo della Chiesa cattolica è una “fotocopia” aggiornata dell’Adversus haereses di sant’Ireneo, scritto tra il II e il III sec. DC.
Per esempio, comunicare la buona notizia cristiana in termini sacrificali oggi è inadeguato, perché non corrisponde alla sensibilità dei più e può erigere un muro. La chiave del dono dice l’essenziale del mistero cristiano ma attraverso un termine che la mente contemporanea riesce a decifrare meglio.
4. Dall’autoreferenzialità ecclesiale al dialogo socio-culturale
“Il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di fare progetti insieme”.
La sacrestia non è certo l’ambiente più indicato per dialogare con il mondo. Ci viene da noi ha una pregiudiziale favorevole nei nostri confronti. Ma anche in parrocchia vi sono ambienti meno confessionali, come p.e. l’oratorio, ancor meglio se questo, come capita sovente in Lombardia, è dotato di un bar.
Il luogo d’incontro privilegiato, perché tocca quasi tutti, è l’ambiente di lavoro pur con tutti i suoi limiti, giudizi e pregiudizi. La condizione necessaria per un dialogo è comunque quella di avere come interlocutori delle persone aperte, disponibili al confronto.
Un altro contesto favorevole al dialogo è l’ambiente del volontariato, molto presente in Italia, dove le persone si impegnano a fare qualcosa insieme per gli altri, al di là del credo religioso.
Ma, per essere considerati, bisogna essere testimoni credibili, non parlare solo di fede ma di vita. E non basta essere persone istruite ma anche persone spirituali, persone in cui si possa cogliere l’abbraccio con l’amore di Dio, persone non tanto capaci di dire la “verità” quanto di metterla in pratica, di farla.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Qual è la qualità delle nostre comunità parrocchiali?
• Qual è lo spazio dei laici nella nostra parrocchia?
• Studiare serve, ma quanto aiuta a testimoniare il Regno?
• Pratichiamo attività di volontariato anche al di fuori dell’ambito ecclesiale?
26-LAICI E SINODO
Il valore della spiritualità dei laici è stato citato più volte negli incontri sinodali on line dei GF. Giunge quindi a proposito quest’ultima fatica letteraria di don Giovanni Villata, che da alcuni anni cura la rubrica delle “Lettere alla rivista” su questo foglio.
Lo sguardo dell’autore è molto ampio: partendo da un bisogno sotterraneo - ma non per questo meno vivo - presente negli uomini di questa “età dell’incertezza”, si focalizza sempre di più fino ad arrivare alla spiritualità del laico impegnato in parrocchia.
E qui, proprio in riferimento con un argomento di questo numero, la morte, segnala come il cristiano si gioca su questo tema tutta la propria credibilità.
Pur nella consapevolezza dei propri limiti e dei propri peccati, il credente è chiamato a manifestare la Speranza che è in lui.
Ovviamente, il libro va ben al di là di questi pochi accenni ed è attraversato, tra l’altro, dalla metafora del ponte.
Il cristiano è chiamato ad essere ponte tra l’oggi e il futuro, la comunità parrocchiale ponte tra sacro e profano, il parroco ponte tra Gesù e il mondo.
Il libro termina presentando due santi contemporanei, che hanno saputo coniugare una forte spiritualità con la vicinanza agli ultimi: frère Charles de Foucauld e madre Teresa di Calcutta
F.R.
Giovanni Villata, La spiritualità dei laici nella parrocchia sinodale, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2022.
27-IL SINODO ON-LINE
Una sintesi delle risposte al nostro questionario
a cura della Redazione
Il questionario on-line, che abbiamo lanciato sul numero di marzo della rivista e promosso via mail, ha raccolto 59 adesioni. Coloro che hanno risposto hanno più di 45 anni, per i due terzi sono donne, e oltre il 60% svolge un’attività pastorale.
Interessante è stata anche la distribuzione territoriale, in cui hanno prevalso le risposte provenienti dalla Toscana (!), seguita da Veneto e Piemonte. Ma non sono mancate risposte da Liguria, Lombardia, Lazio, Campania, Puglia e Calabria.
Le prime domande
Alla prima domanda: “Cosa apprezzi della chiesa oggi?” (erano ammesse più risposte) il 68% ha affermato che la Chiesa aiuta a incontrare Gesù e a conoscere il suo messaggio. Una percentuale notevole, il 61%, apprezza papa Francesco. Poco sotto il 50% coloro che apprezzano la Chiesa per la sua vicinanza ai poveri e per l’operato di alcuni sacerdoti.
Di fronte alla seconda domanda: “Cosa ti allontana o potrebbe allontanarti dalla chiesa?” il tema della pedofilia preoccupa il 40%, l’imposizione di norme morali il 29% mentre il 21% la scarsa accoglienza (essere trattato male). Quasi il 40% ha indicato altri motivi.
La terza domanda: “Cosa ritieni importante per essere credente in Cristo?” era più articolata e, infatti, abbiamo sintetizzato le risposte anche graficamente a bordo pagina.
Come essere credente in Cristo
La cosa ritenuta più importante è l’esercizio della carità, sia come atteggiamento del cuore - voler bene a tutti - sia come aiuto verso chi si trova nel bisogno (per il 95% sommando coloro che la ritengono molto o abbastanza importante).
Segue la conoscenza e la condivisione della Parola (88%) e la frequenza alla messa domenicale (83%).
L’aspetto meno importante è essere d’accordo con il papa e i sacerdoti. Solo il 12% la ritiene molto importante mentre, per la maggioranza (47%), è solo abbastanza importante.
Nelle risposte libere viene ribadito il primato della carità e citato il valore della preghiera e della vicinanza a Gesù.
La maggioranza di coloro che hanno risposto, pur essendo tutti cattolici e in gran parte impegnati, tende a dare meno spazio al rito e all’opinione del clero. Sono persone che si stanno orientando verso una Chiesa più sinodale che pone al suo centro la Parola, è più preparata culturalmente e ha meno bisogno di intermediazioni culturali.
Le altre domande
Alla quarta domanda: “Cosa ti aspetti dai sacerdoti?” la stragrande maggioranza (88%) ha risposto che aiutino ad incontrare Cristo e che siamo aperti all’ascolto in modo non giudicante (72%).
Quasi il 30% ha indicato altri motivi.
Di fronte alla quinta domanda: “Che cosa vorresti oggi dalla tua parrocchia?” le risposte si sono concentrate su quattro punti: l’offerta di occasioni di crescita spirituale (68%) e l’incontro con persone con cui fare un cammino di fede (49%), manifestando il desiderio di una comunità credente. Segue la richiesta di liturgie più coinvolgenti (35%) e più servizi pastorali e ricreativi a favore dei figli (30%).
Per descrivere la propria appartenenza alla Chiesa (sesta domanda) la maggioranza ha citato la frequenza alla messa domenicale (83%) e la partecipazione ad un gruppo parrocchiale o ad una associazione (83%).
Le domande ulteriori prevedevano una risposta libera e ne abbiamo riportato una sintesi nella pagina successiva.
Se meno della metà hanno citato dei motivi per cui è in conflitto con la Chiesa, più dell’80% ha risposto alle altre due domande: “Cosa vorresti dire alla chiesa?” e “Cosa pensi che la chiesa possa fare per la famiglia?”.
Vi è stato infine un 20% che ha formulato ulteriori considerazioni.
Potete trovare l’intero questionario con le relative risposte sulla home page del sito gruppifamiglia.it.
28-IL SINODO ON-LINE
Le considerazioni più significative
a cura della Redazione
La consultazione on-line ha previsto una serie di domande con risposte predefinite ed altre in cui era anche possibile esprimere un’opinione personale.
Di seguito vi proponiamo le risposte che ci sono parse più significative in questa seconda categoria di domande.
Cosa ritieni importante per essere credente in Cristo?
Vedere nella nostra vita, nella realtà e nelle persone che incontriamo la presenza di Gesù Cristo.
Una quotidiana e seria preghiera personale e comunitaria.
Ascoltare e mettere in pratica il Vangelo, sentire Gesù vicino nella vita di tutti i giorni.
Rispettare tutti da qualsiasi parte provengano o credano, non creare divisioni o partigianerie.
L'impegno per chi è nel bisogno, per gli ultimi.
Sono in conflitto con la Chiesa per...
La voglia di far politica da parte delle gerarchie della Chiesa che fa allontanare molta gente.
L'atteggiamento ipocrita e ambiguo di alcune persone che sono "di casa" nell'ambito ecclesiale e per questo si sentono autorizzate a giudicare.
Sono in conflitto con i pastori, soprattutto quando ignorano i messaggi e gli insegnamenti di papa Francesco.
Troppi "credenti" si ergono giudici e sono accoglienti a parole, non con i fatti.
Le chiusure, le esclusioni.
Contenuti e linguaggio premoderni, incapaci di parlare ai giovani.
Aver insistito troppo sul tema della sessualità e castità prematrimoniale e sull’esclusione dei divorziati dai sacramenti.
Cosa vorresti dire alla Chiesa?
Alleggerire il fardello dei contenuti in cui "credere" e puntare all'essenziale: imparare dal Vangelo.
Ascoltare e dare il buon esempio
Più fiducia e più coinvolgimento dei laici.
Che sia in sintonia con Papa Francesco
Un’apertura sia fisica che mentale – che si esca dal proprio orticello – e più accoglienza.
Stare sempre dalla parte degli ultimi, anche nelle manifestazioni esteriori (meno sfarzo).
Stare sempre più accanto agli ultimi, aprendo le porte delle parrocchie e delle chiese; di verificare meglio le vocazioni dei sacerdoti; di essere pronta e propositiva nell'ascolto di chi, in cammino spirituale, cerca delle risposte.
Stare un po’ meno attenti alla celebrazione dei vari sacramenti e parlare più con la gente.
Tornare al Vangelo e rifuggire la ricerca di potere, denaro e apparenza.
Che si fidi più di Dio e meno delle proprie idee e dei propri progetti.
Cosa pensi che la Chiesa possa fare per la famiglia?
Insegnare senza voler imporre il modello della famiglia perfetta, facendo capire che la famiglia è il posto più bello che esiste se formata da una donna e da un uomo.
Pregare di più per Lei, custodirla, considerarla generatrice di vocazioni.
Essere meno giudicante, specialmente verso la genitorialità, anzi fare da supporto ad essa.
Creare gruppi famiglia dove incontrarsi e poter scambiare idee, aiuto reciproco, sostegno nei momenti di difficoltà.
Ascoltarla e capire le dinamiche tipiche della vita familiare per poi accompagnarla in un cammino di discernimento e crescita cristiana.
Cambiare il modo di fare il catechismo. Dovrebbe far fare ai ragazzi l'esperienza del Signore attraverso attività che li coinvolgano anche emotivamente come, per esempio, calando il Vangelo in atti concreti di solidarietà e carità.
Dedicare più attenzione alle famiglie e ai problemi reali che deve affrontare ogni giorno.
Promuovere e sostenere sportelli di aiuto psicologico qualificato per sposi e famiglie.
Preparare con cura al matrimonio, sostenere la dignità di sposi e famiglie,
insegnare alle famiglie l’aiuto vicendevole.
Organizzare cammini di crescita e occasioni di incontro e formazione.
Ripensare a come far partecipare i ragazzi e i bimbi in modo diverso all'Eucaristia.
Altre osservazioni
Non precludere ai preti più esuberanti di poter amministrare i sacramenti senza troppo rispettare le norme perché facendo così spesso riescono ad avvicinare anche i più lontani.
Aiutare i sacerdoti nel loro percorso di discernimento, sostenendoli con la nostra vicinanza per prevenire deviazioni pericolose.
Dare maggiore rilevanza decisionale ai laici e soprattutto trattare un modo paritario le donne, ammettendole al Diaconato.
Omelie brevi e incisive, fatte col cuore, e che rendano attuale il Vangelo.
Auspico che il parroco ritorni a suonare il campanello delle abitazioni.
Nel cammino sinodale fare in modo che le osservazioni fatte non vengano troppo filtrate e mediate.
29-LIBRI RICEVUTI
Domiciliarità o residenzialità?
Un tema non particolarmente trattato in questo numero ma che interessa senz’altro le persone anziane e coloro che sono loro vicine riguarda le situazioni di non autosufficienza.
Quando ciò accade vi sono due possibilità: il ricovero presso una residenza per anziani o l’assistenza a domicilio con l’aiuto di badanti o altro personale.
In entrambi i casi il problema dei costi pesa in modo significativo sulla famiglia dell’anziano.
Nel primo caso, è possibile usufruire dell’aiuto economico della Regione che copre le spese infermieristiche. In questo modo a carico della famiglia restano le spese alberghiere.
Anche nel secondo caso è possibile usufruire dell’aiuto economico della Regione, ma è molto inferiore a quello del caso precedente.
Questa ricerca, curata dall’associazione culturale InCreaSe, fondata dal prof. Guido Lazzarini, sostiene la necessità, ben argomentata, di arrivare ad una parità del trattamento economico nei due casi.
Per l’anziano è infatti molto meglio evitare di essere sradicato dal suo contesto di vita abituale, come la sua casa, i suoi vicini, la prossimità delle persone care. Ma ciò comporta da parte della famiglia un impegno molto gravoso, non solo sul piano economico ma anche su quello mentale e fisico.
D’altro canto, se è vero che il ricovero presso una residenza protetta riduce quest’impegno, può però aumentare i sensi di colpa dei familiari nei confronti dell’anziano perché questi, molte volte, va incontro ad un crollo molto rapido delle sue condizioni fisiche e mentali.
Su questo tema la ricerca di InCreaSe propone una rivisitazione del funzionamento delle residenze.
Serve una maggior apertura delle stesse verso il mondo esterno.
Questo può avvenire con la creazione di un centro diurno nella residenza per ospitare solo di giorno anziani soli e per abituarli ad un successivo inserimento.
Altro strumento può essere l’aumento delle aree comuni, come ad es. biblioteca, bar, sala musica e l’apertura delle stesse alla comunità cittadina, in modo da ridurre il senso di reclusione e isolamento degli ospiti. Infine serve un potenziamento dei sevizi sanitari offerti.
Tutto questo sembra tratto da un libro dei sogni, soprattutto se confrontato con la realtà della Regione Piemonte, in cui vi sono più di 5.000 anziani in lista d’attesa per i ricoveri in residenza e 11.000 per l’assistenza domiciliare.
Però, solo progettando per il futuro è possibile avere strumenti anche per migliorare il presente. Ed è questo lo scopo della ricerca.
Associazione Culturale InCreaSe /a cura di), Domiciliarità e/o residenzialità per il benessere degli anziani non autosufficienti, Marcianum Press, Venezia 2022
I nonni, custodi della vita
In questo numero abbiamo trattato ampiamente della prospettiva della “fine” e del “fine” che attende le persone e le coppie anziane ma abbiamo appena accennato alle gioie che comunque anche l’anzianità porta con sé.
A questo limite pone rimedio l’ultimo libro di don Pino Pellegrino, che da sempre ci segue e di cui abbiamo apprezzato nel tempo sia gli interventi nei nostri gruppi sia gli scritti.
I bambini di oggi hanno “tutto” ma desidererebbero da parte dei genitori un’attenzione e una vicinanza che questi non sempre riescono a dar loro. Ed ecco che i nonni possono sopperire a questa involontaria assenza.
Ma per far questo servono nonni “patentati”, non appiccicosi, non invadenti, non indulgenti, ma capaci di stimolare al gioco, affettuosi, fonte di serenità, ecc.
Servono soprattutto nonni capaci di raccontar fiabe, perché le fiabe sono una simpatica scuola, una medicina, e coltivano i sentimenti.
Ma servono anche nonni un po’ addentro alle nuove tecnologie digitali.
In pratica, come si tratta di apprendere l’arte di invecchiare (vedi pag. 6-7) così c’è anche da apprendere l’arte della “nonnità”.
Questo piccolo libro di don Pino prova ad insegnarcela con allegria e semplicità!
Pino Pellegrino, I nonni, custodi della vita, Edizioni Sanpino, Pecetto Torinese (TO) 2021