Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia

GF115 – novrmbre 2023

MALATTIA MENTALE E FAMIGLIA

 

Lettere alla rivista

1-LA MALATTIA NON È SOLO UNA “DISGRAZIA”

La “grazia” di saper essere vicini a chi è in questo tipo di prova

 

Troppo spesso anche nella Chiesa i malati mentali sono emarginati o giudicati insignificanti, o tutt’al più curati come oggetti di carità. Mentre essere vicini a loro è una grazia e una benedizione.

 

Ho un figlio che soffre di una grave forma di autismo: non parla, non riesce a far niente. Che cosa abbiamo fatto per meritarci una simile disgrazia?

Daniele

 

Caro Daniele, non è facile dire qualsiasi cosa se non si sperimenta la stessa sofferenza. Eppure mi viene immediato di risponderti: non avete fatto niente di male per meritarvi una simile disgrazia. Anzi mi chiedo: è “disgrazia” o “grazia”?

Certo voi amate vostro figlio autistico e vi prodigate perché stia bene il più possibile. Questa è la grazia che vi è concessa.

Certamente l’avete fatto battezzare per inserirlo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Questo non è solo volergli bene, ma far sì che anche gli altri gli vogliano bene.

Non so se ha fratelli o sorelle, tutti impareranno a volergli bene e questa è l’unica cosa importante che ogni cristiano vive.

Son sicuro che a modo suo apprezzerà il bene che gli si vuole. La carità, l’amore è l’unica cosa che conta, il resto è tutto in aggiunta.

Se tutto questo richiederà uno sforzo maggiore, allora è il caso di chiedere allo Spirito Santo di trasformare in “grazia” quello che al primo momento avete considerato una “disgrazia”.

Leggo sui giornali la disperazione dei genitori che si accorgono di avere un figlio criminale, magari minorenne, che ha stuprato, violentato, ferito o ucciso.

Vi assicuro che è meglio avere un figlio, magari disabile, ma che è completamente innocente. Anzi la sua innocenza è una ricchezza per tutta la famiglia.

Quello che vi meritate è rispetto e solidarietà. Certamente qualcuno nella vostra parrocchia vi ha già indirizzato ad associazioni di genitori che condividono la stessa sfida.

Non potete farcela da soli, dovete condividere la vostra fatica con chi vive la vostra stessa esperienza, appoggiandovi con i servizi per i più fragili che sono presenti in parrocchia e nella vostra città.

Da parte mia vi assicuro la mia preghiera, veramente lo dico sinceramente, per tutti voi. La preghiera può veramente fare molto.

p. Vincenzo Salemi, IMC

 

Dialogo tra famiglie

2-IL DRAMMA DI ESSERE FUORI “FORMA”

Il rifiuto del cibo come espressione del disagio adolescenziale

 

Mia figlia, anche se un po’ rotondetta, è una bella ragazza. Ma adesso ha deciso di dimagrire e temo che diventi anoressica. Come farle cambiare idea?

Marina

 

In 45 anni di professione medica mi sono sentita rivolgere la domanda di Marina molte volte. Non c’è una risposta immediata.

Bisogna distinguere il disagio adolescenziale del rapportarsi ad un corpo che cambia, da una vera e propria situazione di anoressia.

Prima o poi capita a tutti di avvertire la paura di vedere e non poter fare nulla nei confronti di un/a figlio/a che improvvisamente rifiutano qualsiasi cibo. Quindi occorre contattare immediatamente un nutrizionista o nei casi più gravi un centro anti-anoressia.

In tutto ciò c’è una persona che soffre per qualcosa che non sa identificare o per qualche commento velenoso di troppo.

Gli adolescenti sono spesso insicuri e prede facili di un ambiente che ricerca e sostiene solo chi è degno di sfilare su di una passerella.

C’è una forte discrepanza tra ciò che vediamo noi genitori e quello che vedono i loro occhi.

Soprattutto se qualche “amico/a” ha insinuato il dubbio di non corrispondere ai canoni della bellezza comune. Occorre farli sentire amati e cercare con loro la via d’uscita.

Maria Rosa Tonda in Fauda

 

In questo numero

3-LE MALATTIE MENTALI

Un peso per tutta la famiglia

 

di Franco Rosada

Se qualcuno ci definisse normo nevrotici probabilmente non lo prenderemmo come un complimento: “nevrotico a me?”.

Eppure se non reagissimo adeguatamente – senza eccessi e senza carenze – agli stimoli che riceviamo avremmo problemi mentali.

Questo ci ricorda quanto sia sottile il confine che separa l’essere sano dall’essere malato.

La fragilità della nostra mente, che è specchio della nostra fragilità creaturale, ci dovrebbe far riflettere sullo stato di coloro che malati di mente lo sono davvero e su cosa significa questo per le loro famiglie.

Nei limiti di questa rivista proviamo in questo numero a passare in rassegna una lunga serie di disturbi mentali, a cominciare da quelli che toccano i più giovani per finire con quelli della terza età, senza trascurare quelle che sono le malattie mentali per eccellenza, come autismo e schizofrenia.

In tutti questi contesti abbiamo cercato di mettere in evidenza il ruolo della famiglia, la sofferenza che è chiamata a vivere, le tensioni con cui deve misurarsi, le difficoltà che incontra nella cura.

Mi sembra che ci sia un passo del vangelo di Marco che metta ben in evidenza alcuni di questi problemi ed è l’incontro di Gesù con l’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-20).

Dopo la tempesta sedata, Gesù e i discepoli giungono sull’altra riva del mare e dai sepolcri gli viene incontro un indemoniato.

La malattia mentale è l’altra parte della vita, sull’altra riva, è la morte sociale.

L’uomo che viene incontro a Gesù è solo, come si sentono soli molti malati.

Non serve a niente l’internamento (le catene), la malattia appare indomabile.

La malattia è tormento, è grido disperato, è autolesionismo, è apparente rifiuto di ogni aiuto (“non tormentarmi”).

Eppure, anche il malato mentale prova a chiedere aiuto, come sa e come può, assumendo anche un’altra identità (“mi chiamo Legione”).

Gesù lo guarisce, liberandolo dal suo male, ma ciò ha un costo: duemila porci morti annegati.

E qui c’è, a mio avviso, l’elemento più drammatico del racconto: i geraseni pregano Gesù di lasciare il loro territorio. Perché?

Luca, nel brano sinottico, prova a dare una risposta: avevano molta paura (Lc 8, 37). Anche Marco accenna alla paura ma io preferisco provare a fornire una mia risposta: curare un malato di mente costa, soprattutto  in termini di strutture, di personale specializzato.

Costano molto meno le catene - i manicomi ieri, gli psicofarmaci oggi - e al malato, se ci tengono, ci pensino i suoi.

Riuscire ad avere le diagnosi corrette in tempi brevi, le cure adeguate, l’assistenza e le strutture sul territorio è la sfida che le famiglie dei malati devono affrontare.

Emerge da quanto scritto nel numero la profonda crisi che attraversa il sistema sanitario italiano, specchio di tante altre crisi, come quelle legate alla natalità, al lavoro e all’istruzione.

Non ci possono essere solo risposte frutto delle disponibilità di pochi samaritani, serve impegno politico e non diserzione dalle urne.

Ma la malattia mentale fa emergere anche la crisi che attraversa la famiglia, la fragilità delle relazioni, nella coppia e tra generazioni.

Per questo negli articoli, là dove è stato possibile, troverete indicazioni per affrontare il disagio mentale dei vostri figli o dei vostri cari.

Troverete inoltre, nelle proposte per il lavoro di coppia e di gruppo, alcune domande volutamente provocatorie: mi auguro che i temi trattati possano  riuscire ad interpellare le nostre coscienze.

formazionefamiglia@libero.it

 

4-LA LEGGE 180:

la grande incompiuta

 

Nonostante la legge 180, ancora oggi persone e famiglie  troppo spesso si trovano inermi e confuse di fronte alla fragilità delle risposte dei sistemi di cura.

 

Il più grande merito di Franco Basaglia è stato quello di restituire dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare, e non da recludere o da nascondere.

 

di Ugo Zamburru e Angela Spalatro*

C’era una volta un nobile cavaliere che si chiamava Franco Basaglia C'era anche un drago che si chiamava Manicomio. Il cavaliere, con un gruppo di giovani seguaci, riuscì ad abbattere il drago. Il villaggio fu liberato dal Manicomio e nacquero, così, i Servizi territoriali per la salute mentale. E vissero tutti felici e contenti.

Ma poiché questa non è una favola il finale non è così lineare. La legge n. 180 del 1978 e la riforma che seguì furono una conquista eccezionale, tra le più importanti nel nostro Paese. Tuttavia, la piena realizzazione di quella rivoluzione della cura non si è purtroppo tradotta fino in fondo nella pratica. Lo slancio vitale che aveva accompagnato la territorializzazione del disagio mentale con la chiusura dei manicomi e la conseguente apertura dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), articolata in Centri di salute mentale (CSM) sul territorio, Strutture residenziali e semiresidenziali, SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura), si muoveva in una direzione chiara, la cui bussola seguiva concetti ben precisi, generando un forte senso di appartenenza tra gli operatori che ne furono protagonisti.

La persona e non la malattia al centro, l'ascolto partecipe, l'attivazione delle risorse territoriali anche non professionali, l'interezza del progetto che riguardava la sfera della vita nel suo complesso e quindi non solo la scomparsa o il contenimento dei sintomi, ma includeva la questione del lavoro, della casa, delle relazioni interpersonali.

Un pensiero che si traduceva nelle équipe multiprofessionali, in cui comparivano gli assistenti sociali, gli psicologi, gli educatori insieme ai medici e agli infermieri.

Ma ancora oggi, diversi sono gli ostacoli al completamento di quella rivoluzione e sovente si tratta di difficoltà di accesso, di confronto, di reciproca comprensione tra utenti e Servizi di Salute Mentale.

Persone e famiglie, infatti, troppo spesso si trovano inermi e confuse di fronte alla fragilità delle risposte dei sistemi di cura. Si oscilla tra la passiva e rassegnata accettazione di quello che viene offerto, schiacciati da una sofferenza che sembra non trovare sollievo, e la rabbia di chi pensa di non ricevere quello che gli spetta, ovvero un aiuto professionale e materiale. Altre volte, tali difficoltà possono risiedere nell'atteggiamento che le persone, anche inconsapevolmente, mettono in campo nell'approccio alla cura.

Oggi i DSM si trovano ad affrontare una crisi di organico e di risorse che si riverbera inesorabilmente sulla qualità della cura. Una crisi profonda, radicata ben oltre le mura del Servizio e che trae origine dall'ancor più grave crisi del sistema politico, economico, etico del mondo occidentale. Una società alimentata dal pensiero neoliberista nella quale cresce sempre più, a livello mondiale, il numero degli esclusi.

I fenomeni secondari di tale crisi come le migrazioni di massa, una maggiore disponibilità delle droghe, la povertà, la mancanza di orizzonti e di riferimenti determinano un aumento delle patologie psichiatriche. A fronte di queste situazioni i DSM rischiano di collassare e di rispondere sempre meno ai bisogni delle persone.

La ricchezza della presa in carico psichiatrica garantita dal lavoro di équipe multidisciplinari (medico, educatori, infermieri etc.) oggi è diventata un miraggio. Gli infermieri sono diventati il farmaco che somministrano su indicazione medica, gli psichiatri fanno colloqui una volta al mese, gli educatori conducono i gruppi ma spesso non hanno il tempo nemmeno per quelli. Chi chiede aiuto, invece di poter parlare con qualcuno, si perde nel macchinario burocratico: ricetta rossa, competenza territoriale, attese di uno o due mesi rappresentano il fallimento della legge 180.

* psichiatri

Tratto da: Piccolo manuale di sopravvivenza in psichiatria, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2021

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La crisi dei Servizi psichiatrici rientra nella più grande crisi del SSN. Oltre a lamentarci, ci impegniamo per cambiare le cose? Come?

•          Da un punto di vista generale, come funziona il SSN nella vostra regione?

•          Meglio procedere con la privatizzazione o con l’aumento della tassazione regionale per coprire le carenze della sanità?

 

5-IL MANICOMIO

In Italia, prima della 180 c'era la legge 36 del 1904, per la quale venivano internate nei manicomi le persone «affette per qualunque causa da alienazione mentale». Erano i deviati, quanti non rientravano nei canoni, per motivi che non erano sempre legati alla malattia mentale, spesso non lo erano per nulla. In manicomio finiva chi era ai margini della società.

Il manicomio era un’istituzione strumentale per gestire la diversità. Sia che la si leggesse nei volti, con un’idea lombrosiana, sia che la si cercasse nelle anomalie del corpo: dal mancino al dislessico, dal troppo sensibile al contestatore. L’omosessualità era classificata come degenerazione. C’erano anche casi di donne che si ribellavano alla violenza dei mariti e che venivano fatte dichiarare pazze. Era un’emarginazione istituzionalizzata. Soprattutto, il 90% dell’utenza era fatta di poveri, di persone le cui famiglie non potevano reggere il peso di un “imperfetto” in casa.

La gran parte dei reclusi non erano folli, erano persone che volevano esprimere qualcosa e cadevano nella follia quando questo veniva loro impedito.

Chiara Pizzimenti

 

6-FRANCO BASAGLIA E LA LEGGE 180

Franco Basaglia è stato uno psichiatra e attivista italiano, noto per la sua lotta per la Riforma Psichiatrica negli anni ’70. Il suo pensiero e le sue azioni hanno cambiato radicalmente il modo in cui la società italiana concepisce e cura le malattie mentali.

Basaglia ha sempre criticato il sistema psichiatrico tradizionale, che prevedeva l’istituzionalizzazione dei pazienti in grandi ospedali psichiatrici. Egli riteneva che tali istituzioni fossero luoghi di violenza e oppressione, dove i pazienti venivano privati della loro libertà e dei loro diritti fondamentali. Basaglia era convinto che la psichiatria tradizionale fosse intrinsecamente coercitiva e paternalistica, e che i medici psichiatri avessero un potere eccessivo sui pazienti.

Basaglia propose una nuova concezione della psichiatria, volta a coinvolgere attivamente i pazienti nella gestione delle comunità terapeutiche, valorizzando il loro contributo nella cura della propria malattia mentale. Questa nuova psichiatria metteva al centro il paziente e non il medico.

Basaglia dedicò gran parte della sua vita alla lotta per la Riforma Psichiatrica, che rappresentava il suo obiettivo più ambizioso. La sua lotta portò alla chiusura dei grandi ospedali psichiatrici e alla creazione di comunità terapeutiche basate sulla partecipazione attiva dei pazienti.

La Riforma Psichiatrica rappresentò una svolta epocale nella lotta per i diritti delle persone con disabilità mentale, e Basaglia ne fu il principale artefice.

L’eredità di Franco Basaglia è stata enorme e duratura. La sua lotta per la Riforma Psichiatrica ha ispirato movimenti in tutto il mondo, e ha portato alla nascita di una nuova concezione della psichiatria, che valorizza la partecipazione dei pazienti e la loro autonomia.

Fonte: www.interattivamente.org

 

Dall’infanzia all’adolescenza

7-IL CORPO E LE SUE MODIFICAZIONI

I comportamenti autolesionistici

 

Il corpo è custode della nostra verità perché porta dentro di sé l'esperienza di tutta la nostra vita e fa in modo che ci sia possibile vivere con la verità del nostro organismo.

 

Mi sono fatta questo… perché stavo male, mi stressavano tutti, non capivo più niente, mi scoppiava la testa e dovevo farmi del male… prima lo facevo solo per rabbia ora lo faccio perché trovo sollievo e dopo ogni ferita…

 

È la paura delle reazioni genitoriali e il giudizio dei genitori che rischiano di incrementare i sentimenti di colpa e vergogna dei ragazzi, nonché la fatica nel chiedere aiuto e sostegno.

 

di Maura Manca*

La società moderna ha rivolto sempre più attenzione all'immagine corporea e i media hanno contribuito a rendere il corpo una sorta d'icona che domina rispetto alle caratteristiche psicologiche di una persona.

Il corpo rappresenta un potente strumento di comunicazione, il veicolo del nostro "essere nel mondo", luogo di espressione di aspetti personali, stati emotivi, ma anche di bisogni e sofferenze.

Talvolta esso costituisce il luogo privilegiato tramite il quale dar voce a conflitti e difficoltà evolutive; può essere utilizzato, quindi, come narratore di se stessi e, in alcuni casi, come portavoce di problematiche profonde e disagi.

 

Il corpo in adolescenza

L'adolescenza è l'età del cambiamento, del contrasto e della contraddizione.

É in questa fase che avvengono i cambiamenti corporei, in cui l'adolescente cerca di conquistare il suo posto nel mondo mentre, al contempo, si trova a gestire le diverse difficoltà determinate dalle trasformazioni che si manifestano, sia sul piano psicologico che su quello fisico.

Lo sviluppo biologico è quello più evidente: il corpo acquista una posizione centrale nello scenario mentale dell'adolescente, a causa delle modificazioni somatiche, sessuali e psicologiche.

Il corpo che cambia comporta una trasformazione globale: l'adolescente si ritrova, in un lasso di tempo molto ristretto, a vivere in una "pelle" diversa da quella precedente e deve fare i conti con una nuova e sconosciuta immagine di sé.

Inizialmente, quindi, l'approccio alla conoscenza e all'esplorazione dei cambiamenti fisici legati al proprio sviluppo può essere caratterizzata da un profondo senso di estraneità e confusione. Aumenta in questo periodo l'interesse degli adolescenti per il lato più esteriore ed estetico, quello con cui si entra in relazione con il mondo, il peso e l'aspetto esteriore, a cui viene dato un significato nuovo e che viene investito di vissuti più intensi rispetto a quanto non accadesse in precedenza.

 

Il corpo ai tempi dei social network

Nella società attuale si assiste ad un forte investimento sul corpo, sulla sua immagine e sulle diverse rappresentazioni di esso, fino ad esaltare all'estremo il suo potere all'interno della cultura occidentale.

L'aspetto più drammatico di questa tendenza è la completa valenza diseducativa basata su un messaggio completamente distorto: apparire significa successo, fama, notorietà e magari anche guadagno senza fatica.

Le norme, gli ideali, i valori della cultura dominante, inoltre, delineano gli standard di bellezza che condizionano la percezione del proprio corpo sin dall'infanzia. In adolescenza, poi, l'attenzione viene sempre più incentrata sugli aspetti manifesti ed estetici, sul gradimento che il gruppo dei coetanei esprime, sul grado di successo raggiunto nell'essere ammirati e desiderati, anche e soprattutto sui social network.

La e-generation o generazione hashtag è una generazione senza limiti e confini basata sulla condivisione di tutto, compreso il quotidiano, perdendo la differenziazione tra "pubblico" e "privato".

Tanti like, tante approvazioni che, per chi come loro vuole vivere esposto, accrescono l'autostima, la popolarità e quindi la sicurezza. Ovviamente, vale anche il contrario: commenti dispregiativi, pochi like, condizionano l’umore e l'autostima in negativo e, in alcuni casi, hanno anche favorito gesti estremi, come il suicidio.

 

La “body modification”

Di conseguenza, le pratiche di body modification o modificazione corporea hanno acquisito un significato del tutto differente rispetto al passato: diventano strumenti per fare del corpo una pagina bianca su cui ciascuno è libero di rappresentare ciò che vuole.

Accanto a diete, allenamento muscolare o interventi di chirurgia estetica, la cultura giovanile contemporanea ha fatto proprie le pratiche di modificazione corporea. Da questo punto di vista, il corpo, e in particolare la pelle, arrivano a rappresentare una sorta di rivestimento narcisistico su cui l'individuo tende a proiettare la sua identità, della quale le ferite autoinflitte sono un indizio.

Quando si parla di modificazioni corporee ci si riferisce non solo ai piercing o tatuaggi ma anche a tutte quelle pratiche che vanno a generare una modificazione del proprio corpo, a volte anche pericolose per la salute e molto dolorose, come l'incisione e il rimodellamento di determinate parti del corpo come la lingua biforcuta, le orecchie a punta o le limature dentali.

Fino a pochi decenni fa, pratiche di modificazione corporea erano considerate con connotazioni fortemente negative, rimandate a gruppi devianti e considerati veri e propri indicatori di disadattamento sociale.

Attualmente queste distinzioni non esistono più perché le modificazioni corporee sono talmente tanto diffuse in tutti i livelli sociali che coinvolgono anche ragazzi socialmente adattati e caratterizzati da un buon funzionamento generale.

Il passaggio alla "normalizzazione" eccessiva tuttavia ha portato, in un certo senso, a sottovalutare i possibili rischi associati a questi comportamenti e a favorire la comparsa di forme sempre più estreme, invasive, drastiche e permanenti che si accostano pericolosamente alla vera e propria automutilazione.

Inoltre, la letteratura recente ha riportato alla luce, in alcuni casi, evidenti associazioni tra il ricorso a queste pratiche e la messa in atto di comportamenti a rischio, come uso precoce di sostanze, disturbi alimentari, comportamenti aggressivi, condotte autolesive e suicidarie.

 

Tatuaggi e piercing

Dopo un passato in cui il tatuaggio è stato utilizzato per marchiare schiavi, prigionieri, prostitute o criminali, o comunque era considerato una caratteristica delle classi sociali più disagiate oggi, liberatosi definitivamente di qualsiasi pregiudizio, è ritenuta una delle pratiche più diffuse con fini estetici, cui si aggiungono spesso significati personali.

Infatti, tatuaggi e piercing rappresentano delle modificazioni a livello corporeo, dove il corpo stesso diventa un mezzo espressivo, un luogo di scrittura in cui la pelle è la superficie sulla quale si narra la propria storia.

Per gli adolescenti, fori nella pelle e corpi decorati sono mezzi comunicativi del proprio mondo interno che sanciscono le differenti fasi dello sviluppo.

Rappresentano mezzi di comunicazione che raccontano le dinamiche più profonde, caratteristiche della fase evolutiva che stanno attraversando: il bisogno di autonomia, del legame con i coetanei, di differenziazione, di definizione della propria identità e riconoscimento da parte degli adulti, della sperimentazione e dell'elaborazione dei cambiamenti.

Questo lo conferma il fatto che la maggior parte di loro, superata la fase oppositiva, decide autonomamente di eliminare alcuni piercing dal corpo.

I tatuaggi, invece, segneranno per sempre una fase della vita che non vuole essere dimenticata. Quando non ci si riconosce più in quell'immagine si decide di coprirla o di modificarla con un disegno più rappresentativo.

 

L’autolesionismo

Nella fase evolutiva adolescenziale è importante distinguere modalità di attacco al corpo, legate a tendenze e mode giovanili, come tatuaggi e piercing, da altre modalità più patologiche e gravi, caratterizzate dalla volontà di farsi internazionalmente del male.

Per esemplificare: tagliarsi la pelle con lamette o coltelli, bruciarsi con sigarette o fiammiferi, graffiarsi, non lasciare cicatrizzare le ferite.

L'autolesionismo rappresenta un fenomeno di indubbia rilevanza clinica e sociale soprattutto per la sua gravità e la sua considerevole diffusione nella popolazione adolescenziale già a partire dagli 11-12 anni di età.

L'adolescente per difendersi dai conflitti che sta vivendo può utilizzare il proprio corpo come luogo privilegiato per dar voce a conflitti e disagi, per esprimere la sofferenza psichica, diventando narratore o portavoce di emozioni profonde che l'adolescente può non essere in grado di esprimere e comunicare in maniera differente.

Se nel vedersi e nel percepirsi il soggetto prova sentimenti negativi, disprezzo se stesso o verso i propri genitori che hanno generato un corpo “difettoso”, insoddisfazione, tutto ciò  può condurre ad atteggiamenti autolesionistici, diete drastiche, confusione e talvolta isolamento.

 

L’uso della Rete

Gli adolescenti sono alla ricerca di attenzione e approvazione per gli altri e oggi tutto viene spostato sul web e sui social network.

L'aspetto più pericoloso di questi strumenti risiede nella possibilità di ottenere facili consensi ed una rapida approvazione sociale e, in modo altrettanto rapido, essere al contrario giudicati e criticati dagli altri.

Se un'immagine corporea negativa si somma ad insicurezza personale e ad una scarsa autostima, inseriti in un ambiente familiare sociale poco accogliente e comprensivo, possono emergere con facilità vissuti depressivi e ansiosi anche gravi.

Si tratta di vissuti negativi che vengono poi anche mostrati in rete, dove spesso i ragazzi trovano rifugi virtuali nei quali nascondersi, esprimere il proprio disagio e incontrare persone che vivono lo stesso tipo di malessere.

Un sondaggio realizzato in Gran Bretagna ha rivelato, in particolare, come sia in preoccupante crescita l’esposizione dei minori a immagini e conversazioni online sull'autolesionismo.

Un giovane su quattro tra gli undici e il 14 anni afferma di aver visto in rete immagini di altri ragazzi che si autoferiscono e il 60% di essi ha inoltre ammesso di aver condiviso immagini di autolesionismo sui social network.

Giovani e giovanissimi autolesionisti condividono la loro esperienza in rete, le loro motivazioni e le sensazioni che sperimentano e che spesso consigliano anche ad altri coetanei come unica soluzione per attenuare stati d'animo e sentimenti negativi.

Una pratica di cui ancora gran parte degli adulti non immagina nemmeno l'esistenza, che però seduce sempre più pericolosamente la fascia d'età esposta all'incertezza della propria identità: l'adolescenza

 

Una richiesta d’aiuto

Uno studio che ho condotto con altri colleghi ha evidenziato come gli adolescenti autolesionisti mettano in atto anche altri comportamenti a rischio per la salute, come ad esempio fare uso di droghe o alcol. Gli adolescenti che si fanno del male con ripetitività presentano inoltre, un'immagine negativa del proprio corpo e mostrano una minore tendenza a prendersi cura di lui.

L'autolesionismo non è, dunque, come spesso si crede, una ricerca di attenzioni quanto piuttosto una richiesta d'aiuto in cui gli adolescenti cercano di esprimersi e parlare attraverso il corpo, pensando che, il farsi male, sia l'unico modo per tollerare il dolore interno.

I genitori, dopo aver scoperto che i figli si autoledono, sperimentano solitamente sentimenti di incredulità, perplessità o colpa, non riescono a spiegarsi come non siano riusciti ad accorgersi prima di quanto stesse accadendo.

Uno dei problemi principali dell'autolesionismo è che il dolore e la sofferenza restino inascoltati: i ragazzi tendono a nascondere tutto, poiché non vogliono essere scoperti e i genitori, troppo spesso, non sono informati su quei segnali ed indicatori che possono far sospettare e che dovrebbero attirare l'attenzione degli adulti.

Davanti ai comportamenti autolesionistici dei figli i genitori si domandano spesso dove hanno sbagliato e cercano  i motivi per comprendere cosa possa essere successo. Provano spesso smarrimento e senso di colpa nei confronti dei figli, soprattutto per non essersene accorti prima.

 

Come rispondere

Per aiutare un adolescente che si ferisce, è fondamentale non colpevolizzarlo, né mortificarlo, ma fargli percepire sostegno e comprensione.

Bisogna quindi:

- Evitare qualsiasi tipo di inquisizione, ossia domande insistenti e pressanti perché si rischia di farli chiudere maggiormente in stessi.

- Riuscire a mettersi nei loro panni, senza giudicare o vedere il problema come uno scoglio insormontabile, capendo che è una modalità che utilizzano per prendere padronanza di loro stessi, per esprimere le proprie sofferenze e il proprio dolore.

- Non bisogna farsi vedere genitori disperati a causa del loro comportamento, anzi si deve evitare di esternare frasi del tipo “sto male per colpa tua”, “in questo modo mi fai del male”, “così mi uccidi”. Sono già profondamente in colpa, si vergognano delle ferite e farsi del male intenzionalmente, per cui dargli un peso psichico ulteriore, accrescerebbe solo la tensione interna andando a peggiorare la situazione.

- Va stimolato il dialogo in famiglia perché se i ragazzi iniziano a scaricare attraverso le parole, se rivivono la sensazione di essere ascoltati e di essere riconosciuti come persone e, quindi, esperire una sorta di contenimento emotivo, non sentiranno più l'esigenza di farsi del male.

- Bisogna cercare di non allarmarsi ad ogni loro sbalzo di umore e di non pensare che, per ogni delusione o litigata o frustrazione, possano sempre farsi del male. Se vedono i loro genitori in ansia per ogni altalena dell'umore, si sentono soffocare e si rischia di ottenere l'effetto contrario.

- Dare fiducia è importante, così come riuscire a fargli sentire che i loro genitori sono li con loro, pronti ad intervenire in ogni momento. Bisogna dare loro lo spazio di azione e contenerli in tutto quello che fanno: «io ci sono, ti lascio fare, ma vedo e sono presente e, se sbagli, ti recupero”.

- Sebbene ci sia spesso molta preoccupazione, incentrare tutte le attenzioni sui comportamenti autolesivi, ossessionarli con domande: “ci hai più pensato?”, “ti è venuta voglia di farlo?”, è deleterio e controproducente. In questo modo, si sentiranno ancora più incompresi e penseranno che i genitori  stanno loro vicino solo perché ansiosi e spaventati dei comportamenti autolesivi e non perché siano realmente interessati a ciò che provano e che poi, finito l'allarme, tornerà tutto come prima.

- Spesso, tra i fattori favorenti l'autolesionismo, ci sono situazioni di non inserimento sociale, difficoltà scolastiche e anche episodi di bullismo o di cyberbullismo, per cui è bene fare attenzione quando i ragazzi si confidano parlando di problemi relativi alla scuola o episodi di prese in giro e prevaricazione.

È importante comunque rivolgersi ad uno specialista, perché il figlio ha bisogno di una terza persona che non lo giudichi e che non lo faccia sentire in colpa, in grado di comprenderlo e di fornirgli il giusto supporto.

* psicoterapeuta

Fonte: L’autolesionismo nell’era digitale, Alpes Italia, Roma 2017

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Peircing, tatuaggi e autolesionismo: dove sta, secondo voi, il confine?

•          Condividete il lungo elenco di suggerimenti che, di fronte all’autolesionismo dei figli, l’autrice propone ai genitori?

•          Che rapporto abbiamo con il nostro corpo? Siamo riusciti ad accettarlo o c’è ancora qualcosa in esso che ci disturba? Cosa?

 

8-LE DROGHE = VITE ROVINATE

 

Le droghe sembrano prometterci di farci sentire più forti, più alti e capaci, di renderci più adatti alla velocità e alla competizione. Se la vita ci viene presentata come una gara, allora si può essere tentati di trovare una stampella chimica che ci aiuti a correre.

 

di Luigi Ciotti*

La relazione governativa al Parlamento Italiano del 2018 indica che nel nostro paese un terzo delle persone (il 33,5%) di età compresa tra i 15-64 anni hanno consumato almeno una sostanza psicoattiva e illegale nel corso della vita e circa una su dieci (1,6%) lo ha fatto negli ultimi 12 mesi.

 

La droga e i giovani

Se si prende in considerazione la classe di età 15 e 34 anni, quest'ultima percentuale sale al 23,7%.

Rilevante il consumo giovanile: il 34% degli studenti italiani (circa 880.000) avrebbe provato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita, mentre il 26%, lo ha fatto nel corso del 2017.

Una ricerca europea condotta nel 2018 conferma i dati precedenti entrando più nel merito. Solo il 10,6% degli studenti è “poliutilizzatore” cioè assuntore di più sostanze e solo lo 0,5%, ovvero circa 14.000 sono coloro che hanno usato sostanze psicoattive per via iniettiva almeno una volta nella propria vita.

 

Le sostanze usate

La cannabis resta la sostanza illegale più utilizzata ma è da segnalare che le cosiddette nuove sostanze psicoattive in pochi anni sono salite al secondo posto seguite da cannabinoidi sintetici, cocaina, stimolanti allucinogeni ed eroina.

Il 33,2% degli studenti (oltre 850.000 15-19enni) riferisce infatti di aver utilizzato cannabis almeno una volta nella vita, il 25,5%, (660.000) di averlo fatto nel corso dell'anno e il 15,3% (365.000) nel corso dell'ultimo mese; il 3,4% (87.000) dichiara con uso frequente, ovvero almeno 20 volte al mese.

 

L’età di inizio

Guardando i dati e ascoltando le storie, si potrebbe dire che purtroppo non è mai troppo presto per l'iniziazione e l'uso di droghe. Di certo l'età di prima assunzione si è abbassata situandosi in media ai 14/15 anni, ma arrivando a coinvolgere anche la pre-adolescenza, tanto da preoccupare persino la Federazione Italiana Medici Pediatri.

 

Cos'è la droga

Quando si parla di droghe in realtà ci si riferisce per lo più a quelle illegali. Al loro fianco ve ne sono però diverse altre che invece circolano legalmente, come alcol e tabacco, o che sono accessibili dietro semplice prescrizione medica, come le tante famiglie degli psicofarmaci, gli steroidi o anche certe anfetamine.

Si tratta di droghe e altrettanto, e talvolta maggiormente, pericolose e nocive il cui consumo viene addirittura incoraggiato da modelli culturali e abitudini sociali sbagliate.

Prescindendo qui per un momento dalla loro qualificazione giuridica, proviamo a definire che cosa è droga. Con questo termine possiamo identificare tutte quelle sostanze, farmaci di origine naturale oppure sintetica, che producono effetti psicotropi e il cui consumo protratto nel tempo comporta per l'assuntore una dipendenza di carattere fisico o psichico, o di entrambi i tipi. Dipendenza che induce alla frequente e crescente auto-somministrazione e dunque all'abuso.

 

Come uscirne

Alcuni, quando scoprono di non riuscire più a governare l'uso che piano piano, inavvertitamente, è diventato abuso, si decidono a chiedere aiuto; più tardi lo fanno, più arduo e faticoso sarà uscirne. In altri casi sono le famiglie che, venute a conoscenza del problema, portano i propri congiunti a un servizio sanitario pubblico oppure direttamente a una comunità terapeutica. Anche in questo caso i ritardi e l'esitazione si pagano con lacerazioni dolorose e con un supplemento di difficoltà nel recupero.

Guardiamo di nuovo i numeri, che sono un po' faticosi, ma che aiutano a inquadrare meglio i problemi e a fondare il giudizio sui dati di fatto, anziché sulle percezioni, che possono risultare infondate o distorte.

Nel 2018 sono state 133.000 le persone con problematiche di assunzione di droghe assistite negli ambulatori dei SerD. Il 64,7% è in carico per uso primario di eroina, in diminuzione rispetto agli anni passati, e il 19,6% di cocaina, percentuale in aumento. Da segnalare come 12.000 abbiano come sostanza secondaria di abuso l'alcol.

Le persone seguite presso le strutture socio riabilitative del privato sono state quasi 16.000. Il 58% delle strutture è situato nelle regioni settentrionali, il 19% in quelle centrali e il 23% in quelle meridionali.

La “comunità”- che in questo caso è difficile considerare terapeutica - con la presenza del maggior numero di consumatori di droga è però il carcere: le persone tossicodipendenti presenti al 31 dicembre 2018 erano quasi 17.000, di cui 96,2% maschi e 33,6% stranieri.

 

C’è droga e droga

Ci sono differenze anche sensibili di effetti e di pericolosità tra droga e droga.

Non per caso si è sempre parlato di droghe pesanti e droghe leggere.

Almeno sino a quando un modo superficiale e demagogico di trattare il problema da parte di una certa politica non è arrivato a sostenere che non vi è distinzione alcuna tra le une e le altre. Sarebbe un po' come dire che bere un bicchiere di vino e una bottiglia di whisky è la stessa cosa.

Anche un semplice bicchiere di vino può far male ma, in modo non indifferente, ciò dipende anche dalle leggi che disciplinano la produzione e il consumo di questa sostanza.

Questo è anche il motivo per cui le droghe talvolta uccidono: perché, essendo illegali e fuori controllo, vengono tagliate male o perché la quantità di sostanza attiva è variabile e sconosciuta al consumatore.

La proibizione, insomma, ha sovente anche un intento simbolico di indicare ciò che è “male” e ciò che è “bene”, Una politica accorta sulle sostanze psicoattive che non rinunci ad educare, prevenire e dissuadere, ma sappia e voglia investire sulla conoscenza e sulla consapevolezza anziché sulla paura e sulla punizione, dovrebbe invece spiegare ai giovani prima di tutto ciò che fa male e ciò che fa bene.

 

Modica quantità

La legge numero 162/1990 aveva come scopo principale quello di riformare il criterio della “modica quantità” che escludeva, in tal caso, la punibilità per la detenzione di sostanza finalizzata al consumo personale. La nuova legge introdusse invece la punizione per chiunque consumasse droghe.

Così il possesso di una quantità di sostanza inferiore alla dose media giornaliera comporta sanzioni amministrative (sospensione della patente, del passaporto, obbligo di colloquio in Prefettura), mentre al di sopra di quella soglia le misure diventano automaticamente penali (ma pure la reiterazione o l’inosservanza delle sanzioni amministrative comportava l'avvio al circuito penale).

L'intento è stato quello di escludere ogni discrezionalità della magistratura e delle forze dell'ordine nel valutare, caso per caso, se la droga fosse destinata all'uso personale o allo spaccio, e dunque di punire con rigore, e con il carcere, anche il semplice consumo.

 

Oltre la “guerra alla droga”

La “guerra alla droga” che ha caratterizzato da decenni le politiche nel settore, al di là delle intenzioni, si è tradotta in una “tolleranza zero” verso le vittime delle droghe anziché verso il sistema che ne gestisce la produzione e la distribuzione.

Il proibizionismo, ovvero quella filosofia in base a cui il divieto da norma giuridica si fa valore didattico e strumento educativo, ha dimostrato per intero i suoi limiti e anche, secondo i critici più severi, il suo fallimento.

Ciò non deve portare necessariamente a una scelta opposta, vale a dire la legalizzazione delle sostanze.

Tanto più se si considera che la legalizzazione non significa liberalizzazione ma semmai regolamentazione e vigilanza, contenimento dei danni e dei rischi, a partire dal permanere del divieto per i minorenni.

Bisognerebbe parlare di legalizzazione controllata, poiché sono poi le specifiche norme a dover trovare e indicare tecnicamente le misure e i punti di bilanciamento in cui si possono minimizzare i danni, in primis quelli di possibile estensione del consumo, e massimizzare i risultati in termini di libertà individuali, di sanità pubblica e di interesse sociale, in un quadro di chiarezza etica ed educativa.

* presidente dell'Associazione Gruppo Abele

Tratto da: Droga. Storie che ci riguardano, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2020

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Le droghe sono “male” ma non tutte sono uguali. Questa è la tesi di don Ciotti. Condividete?

•          Ciotti propone il superamento del proibizionismo e il passaggio alla regolamentazione. È un’idea sostenibile?

•          Riuscireste ad accettare un figlio ostinatamente tossico? Come lo aiutereste?

 

9-TESTIMONIANZE SULLA DROGA

La droga ha vinto

L’eroina mi ha tolto l'anima. La prendevo per uscire dalla timidezza, ne sento il richiamo fortissimo anche qui dentro. La sostanza mi fa delirare, uccide i pensieri belli e li fa diventare brutti. Facevo gare di ciclismo, sono risultato positivo al doping, mi hanno buttato fuori. La bici era il mio sogno, ma la droga ha vinto.

Andrea

 

Andare a mille

Ho iniziato con le canne come tutti, poi alle superiori ho scoperto la cocaina, mi piaceva da matti quell'effetto di concentrazione per andare a mille, mi faceva anche prendere bei voti.

Mica è facile resistere quando in ogni posto in cui vai ti offrono droga: in classe, alle feste, la sera se esci con gli amici. In giro c'è tutto, è un supermarket che costa niente.

Con 5 euro puoi fare una-tre fumate di eroina, una dose in vena ne costa 10, quanto tre spinelli, mentre una pasticca di ecstasy non supera i 15, una di LSD meno di 20 euro così anche la ketamina, la cocaina ce l'hai per 20 euro al grammo.

“Cali” e i problemi te li scordi. Non riuscivo più a fermarli. pompavo, spingevo, ero pazzo… Così per calmarmi sono passato all’eroina.

Nove mesi fa i miei genitori che mi hanno portato in comunità. Non riuscivo a guardarli negli occhi. Soltanto quando sei lucido capisci quanto male ti sei fatto e quanto male hai fatto. Gli ho spezzato il cuore. Ho perso la ragazza, gli amici, l'amore. Adesso spero di non ricaderci più. E di tornare a fare il pugile.

Roberto

 

Sentirsi zombie

Sono una ragazza di 21 anni, quasi 22. Fumo hashish e marijuana dai 16 anni ma sempre in modo occasionale, ci sono stati ad esempio mesi dove non ho proprio fumato. Il problema reale non sono queste due sostanze che oggi quasi non consumo più, ma sono quelle che hanno sostituito le precedenti: parlo di coca e alcool. Sono una ragazza sveglia, lavoro, studio e vorrei smetterla, non ce la faccio più a sentirmi come uno zombie il giorno dopo, non ce la faccio più a non saper più cosa significa ridere senza dover ricorrere a delle sostanze. Vorrei sentirmi una persona normale, ho provato molte volte a smettere da sola ma non ne sono capace. A chi posso chiedere aiuto? Sono stanca…

Anna

 

Bucarsi

Avevo 17 anni, volevo provare, non avevo paura di quello che si sentiva dire sull'eroina, già fumavo ogni tanto…

La prima volta è stato in macchina con degli amici. Stavamo andando in giro di sera senza sapere cosa fare. Loro si bucavano da qualche mese. Quella sera ho insistito, mi ricordo proprio di aver insistito per provare anch'io. Volevo essere, non so, diverso. Questi miei amici stavano bene. Non avevo ancora visto stare male nessuno di loro. Sì, sull'eroina si raccontavano tante cose, si diceva che faceva stare male, che dava assuefazione, ma ero altrettanto convinto di essere in grado di controllarla. Non mi lascio fregare, io, pensavo. Nessuno comincia pensando di non saperla controllare.

Marco

 

Droga e farmaci

In un giorno riuscivo a farmi anche sette tipi di droga diversi, la mia famiglia è ricca, alle feste butti giù roba che nemmeno conosci, girano un sacco di farmaci, Xanax, Tavor, Valium, ansiolitici, antidepressivi. Le dosi se vuoi arrivano a casa, come fosse Deliveroo… L'offerta è pazzesca. Ma è a scuola che tutti noi abbiamo cominciato. Vi prego, intervenite lì.

Rocco

 

10-NUOVE DIPENDENZE

Prima sono arrivate le droghe, poi ci siamo accorti che la dipendenza poteva essere legata anche all’alcool, a Internet, al gioco...

 

Lo slogan di oggi è: “tutto e subito, evitando le fatiche della vita”, perché quello che è maggiormente assente è la prospettiva di un domani, di un futuro.

Come dire: “l’erba voglio esiste, è un tuo diritto, prendila!”,

 

La “dipendenza tossica” è attivata e sostenuta da una semplice triade: seduzione, disistima, insoddisfazione.

 

di Danilo Lazzaro*

Il concetto di dipendenza, scrive l'Organizzazione Mondiale della Sanità, è una condizione psicofisica derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica. È caratterizzata da risposte comportamentali ed altre reazioni che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo e periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione.

Nel soggetto si sviluppa il convincimento di non essere in grado di vivere in maniera normale senza l'aiuto della “pozione magica".

 

OLTRE L’ALCOOL

Non sto in questo momento pensando a drogati ma a tutti gli amici di bevute. A chiunque sia in grado di trasformare la serata in un gran premio alcolico. A chi “butta giù” per sciogliere la tensione, per festeggiare una vittoria o dimenticare una sconfitta.

Semplicemente a chi non può fare a meno di quella sensazione di euforica leggerezza.

L'alcol purtroppo non è una dipendenza a bassa intensità. Secondo il sito alcool.info ogni anno sono attribuibili, direttamente o indirettamente, al consumo di alcool il 10% di tutte le malattie, il 10% di tutti i tumori, il 41% degli omicidi e il 45% di tutti gli incidenti. Sono numeri da guerra civile.

Le fasce più a rischio per entrambi i generi sono quella dei 16-17enni che non dovrebbero consumare bevande alcoliche e quello dei giovani anziani (65-75 anni). Circa 800.000 minorenni e 2.700.000 ultra sessantacinquenni sono consumatori a rischio per patologie e problematiche alcol-correlate.

La percentuale dei consumatori maschi è assolutamente superiore a quella delle femmine, con l'esclusione dei minorenni, dove i numeri appaiono equivalersi.

Vediamo quindi alcune categorie di bevitori. Il B-drinker è colui che assume una grande quantità di alcol (stimato in circa 12 grammi di alcol puro) nel corso di una serata oppure di un pomeriggio. Questo comportamento ha riguardato nel 2016 il 17% dei giovani tra 18 e 24 anni.

Il drinker italiano - in media maschio, giovane e del Nord - è espressione di una moda preoccupante venuta dai Paesi nordici che è sempre più diffusa anche nel nostro paese.

Altri bevitori rientrano nella categoria denominata playful drinking, letteralmente “bevuta gioiosa”. Il nome stesso evoca il gioco e il divertimento. In effetti si tratta di assunzioni goliardiche e che spesso avvengono quando l'assuntore è già in un avanzato stato di intossicazione. Evito di citare questi metodi per evitare ogni forma di emulazione.

Vi vorrei ora parlare della drunkoressia che è la tendenza a consumare molti drink, utilizzando le calorie contenute nell'alcol per alimentarsi e ridurre il senso di fame.

La drunkoressia è una patologia che coinvolge ragazze con tendenze all'anoressia. Bevendo alcolici tendono a non alimentarsi più sostituendo il cibo con i drink. Si tratta di una vera e propria malattia che le famiglie tendono ancora a nascondere per paura o per vergogna.

Cosa succede a un bevitore che si espone a un consumo massivo di alcol per un periodo prolungato?

Il reiterato consumo di sostanza è propedeutico allo sviluppo di patologie cerebrali croniche da ricaduta, caratterizzate dalla ricerca compulsiva di alcool, dalla mancanza di controllo sul consumo della sostanza e da un rapporto malsano di dipendenza con il bere.

Esistono dosi accettabili di alcol? Non esiste l'uso e l'abuso ma un consumo a basso, medio ed alto rischio. E nell'alcol il consumo sarà sempre superiore ad un rischio zero.

Per concludere: il disturbo da uso di alcool è una malattia.

L'ansia, la depressione e l'infelicità spesso accompagnano e alimentano il desiderio di bere. La riabilitazione è lunga è difficile. Il rischio di ricaduta, proprio perché legato a doppio filo a manifestazioni psichiatriche, è sempre dietro l'angolo. E le donne ne sono maggiormente colpite rispetto agli uomini. Le soluzioni esistono ma sono costose in perdita di tempo, denaro e applicazione e non immediate perché associate a diverse aree di intervento.

Oltre al discorso medico, vi è anche un discorso sociale che riguarda la famiglia.

Arrivati all'adolescenza le regole del gioco devono essere chiare. E devono essere i genitori a dettarle con chiarezza e intransigenza.

Questo deve avvenire non prima che gli stessi genitori abbiano ben chiari i rischi che potrebbero potenzialmente correre i propri figli. L’alcol può uccidere e il rischio è zero solo se il consumo è zero! Pertanto non si guida o non si lavora dopo aver bevuto.

Un ultimo punto sul quale ritengo sia necessario spendere alcune parole riguarda i soldi in tasca. Ogni cosa va guadagnata e meritata secondo le proprie capacità. Alcuni studi hanno dimostrato che i ragazzi che hanno circa 15 euro in tasca la settimana non bevono e rientrano prima di mezzanotte, chi ne ha fino a 30 inizia a bere almeno l'unità alcolica ogni settimana e a rientrare tardi, mentre chi ne ha oltre 50 tende a bere più di cinque unità alcoliche e a rincasare molto tardi.

 

OLTRE I SOCIAL

L'attaccamento allo smartphone può diventare a tutti gli effetti una dipendenza, con gli stessi sintomi e conseguenze di quelle “classiche” più conosciute.

“Ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare, a livello fisico sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualcosa di nuovo. La dopamina è l'ormone del piacere ed interviene anche sulla motivazione personale, sul sonno, sull’umore. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si avrà l'impulso di controllare in continuazione, innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore d’azzardo”.

La dipendenza da Internet, prima di diventare patologia, attraversa due fasi.

La prima, la fase tossicofilica, è caratterizzata dall'incremento delle ore di collegamento e dai continui contatti di chat e siti. Fase in cui troviamo un particolare fenomeno che fino a poco tempo fa era poco conosciuto: quello del sovraccarico cognitivo. Di base è un comportamento compulsivo che spinge il soggetto alla continua ricerca di informazioni il più aggiornate possibile.

Trovandosi di fronte l’infinità di pagine di internet, l’individuo continua a fare zapping da un sito all'altro senza soffermarsi sul contenuto e non riuscendo a catalogare quanto trovato.

La seconda, la fase tossicomanica, è caratterizzata invece da collegamenti estremamente prolungati che compromettono le abitudini di vita. In questa fase si perdono i contatti reali, iniziano le difficoltà cognitive e le relazioni fuori (e dentro) la rete, si sviluppano le dipendenze elencate prima.

Tra i soggetti più a rischio ci sono i NEET, persone non impegnate in nessun tipo di attività di studio o di lavoro, e che, secondo le ultime statistiche del 2017, in Italia rappresenterebbero il 24% dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Individui scoraggiati dalla loro situazione e che non si sentono più all'altezza delle aspettative sociali e che chiudono i contatti con il mondo esterno, trovando facile rifugio e protezione nella rete.

Questi sono casi estremi ma non così lontani dalla nostra vita. Se la dipendenza patologica da Internet, secondo i numeri, è ancora relativamente limitata, il suo visibile abuso desta preoccupazione e influenza comunque vita sociale, lavorativa e prestazioni di studio.

Un caso estremo di dipendenza da internet è rappresentato dagli hikikomori. Sono per lo più adolescenti che decidono di abbandonare qualsiasi contatto sociale, compreso quello con i familiari, non studiano, non lavorano, non fanno sport e si rinchiudono nella propria stanza per mesi, anni, senza mai uscirne, nemmeno per mangiare, con relazioni sociali esclusivamente virtuali.

Un hikikomori è una persona mentalmente sana, non è un dipresso, uno schizofrenico o un paranoico. La sua è una decisione (apparentemente) volontaria.

Questo fenomeno, nato in Giappone, ha cominciato a diffondersi anche in Italia. Un’associazione specializzata stima che ci sarebbero già più di 70.000 soggetti con questi comportamenti, considerando che 240.000 ragazzini e adolescenti passano in media più di tre ore al giorno davanti al PC. Una vera e propria dipendenza che porta a una sorta di isolamento sociale.

Lo hikikomori  non è affetto da nessuna patologia. Questo significa che non esistono farmaci per curarlo. La soluzione va cercata nei rapporti sociali e può richiedere molto tempo e tanti insuccessi.

Per prima cosa si deve stabilire un punto di contatto per fargli aprire la porta, per tornare a farlo interagire con gli altri. In molti casi si utilizza un animale come un cane, con funzioni di mediatore sociale. Di solito si ottengono dei risultati notevoli.

Più in generale Il mediatore sociale è qualcuno che non giudica, ti comprende e piano piano, senza forzarti, ti guida nella direzione giusta attraverso un rapporto di fiducia.

Il professionista dovrà prestare molta attenzione anche al contesto familiare, e studiare i componenti della famiglia forse ancor prima dell'utente.

Il secondo passaggio prevede l'uscita dalla stanza per l'inserimento in un gruppo di recupero. Da qui in avanti, se le risposte saranno positive, gradualmente inizierà il reinserimento nella società. I tempi sono soggettivi, ma l'obiettivo è raggiungibile.

 

OLTRE IL GIOCO

Dal 2013 al 2018 vi è stata una crescita esponenziale degli scommettitori online. Si parla di una spesa complessiva pari a 643,2 milioni di euro e sono stati incentivati dal boom dei casinò su smartphone che hanno pompato ancora di più le scommesse on-line.

È infatti questa la nuova frontiera su cui stanno puntando gli operatori.

Giocare ovunque. Incentivare i giocatori con bonus scommesse. Il trucco è mettere a disposizione dello scommettitore il brivido. Che deve essere fruibile e a portata di mano.

Il rischio di farsi prendere la mano e giocare troppo è poco percepibile perché la puntata avviene in un contesto amico. In un luogo percepito dal giocatore come sicuro.

In più, al brivido masochistico della possibile perdita bisogna aggiungere la funzione di passatempo. Il messaggio che cercano di inculcarci i grandi siti di scommesse è semplice e dirompente. Giocherete per divertirvi, non per guadagnare.

Il gioco d'azzardo, in forma patologica, è un'attività diffusa e spesso associata a situazioni debitorie oppure di difficoltà familiare, nonché a problemi di salute mentale come la depressione.

Nell'ultimo decennio questa patologia ha raggiunto proporzioni definite come “mai visto prima”.

Contestualmente al diffondersi in Italia di tale “epidemia” sono state implementate numerose prestazioni dei SerD (Servizio Dipendenze) normalmente destinate al recupero di altre patologie.

Le prestazioni vanno dal counseling individuale alla psicoterapia individuale: oltre la metà dei servizi applica terapie familiari (55%) e quasi la metà terapia di coppia (49%).

In massima parte gli accessi ai SerD derivano da pressioni dei familiari, i debiti e il malessere percepito. Ma di quante persone stiamo parlando?

I soli 184 centri SerD tra il 2014 e 2015 hanno visto transitare quasi 18.000 utenti.

La maggior parte di costoro si concentra nella fascia di età 41-50 anni e poi in quella 31-40 anni. Il rapporto maschi/femmine tende a diminuire progressivamente nell'utenza al crescere dell’età: passa 3:1 nella fascia 51-60 per arrivare a meno di 2:1 nella fascia 61-70.

 

*Ispettore della Guardia di Finanza, esperto di dipendenze

Tratto da: Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani? Edizioni Epoké, Novi Ligure (AL) 2020

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          L’alcol, per consumo, è la “droga” più assunta in Italia. Non è solo tollerata, ma pubblicizzata, fa “girare” l’economia. Non servirebbe una riflessione sul tema?

•          I nostri figli sono sempre su Internet ma noi adulti quanto tempo dedichiamo ai social?

•          Il gioco patologico rovina ma la Stato ci guadagna. Non è una contraddizione?

 

11-I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Una patologia molto diffusa ma segnata dai pregiudizi

 

Questi disturbi sono frutto di una serie di patologie articolate, determinate dalla stretta connessione tra aspetti biologici, psicologici, relazionali e culturali dell’individuo.

 

L’anoressia nervosa è una malattia psichiatrica grave, che è a tutti gli effetti una psicosi, perché ci nega la possibilità di vedere la realtà per com’è. È pazzia pura sotto mentite spoglie. Perché non può che essere pazza una persona che si suicida lentamente senza averne la reale percezione.

Maruska Albertazzi

 

L'anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro.

 

a cura della Redazione

In Italia oltre 3 milioni di persone soffrono di anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata (binge-eating), scrive Stefano Tavilla (1).

Se a ognuno di loro aggiungiamo anche un solo familiare, i numeri raddoppiano. Il 10% della popolazione fa i conti con questo dramma. Malattie che per bambine, ragazze e donne, nella fascia di età tra i 12 e i 25 anni, rappresentano la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, circa 4 mila decessi ogni anno.

 

Le cause

La nostra società influenza la cultura proponendo canoni di bellezza a volte impossibili da raggiungere, scrivono Micol Lucantoni e Eleonora Larosa (2).

L’avvento dei social media, inoltre, ha fatto sì che ognuno potesse mostrare il proprio profilo come una vetrina da esibire, in cui tutto è costruito sulla modernità delle immagini e sulla ricerca della perfezione socialmente accettata.

È chiaro che in soggetti già inclini all’insoddisfazione corporea, il non raggiungimento dei canoni esibiti dalla maggioranza provoca un ulteriore abbassamento dell’autostima, sentimenti di sconforto, di disagio e una svalutazione della propria persona con possibili conseguenze precipitanti verso una diagnosi di Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA).

In questi casi, infatti, l’alimentazione assume caratteristiche disordinate, caotiche, ossessive e ritualistiche, tali da compromettere la possibilità di consumare un normale pasto; nello stesso tempo le preoccupazioni per l’aspetto fisico diventano insostenibili e pervasive, tanto da minare la socialità della persona che ne soffre.

C’è da precisare, inoltre, che l’uso dei social media risulta essere maggiore tra gli adolescenti che già di per sé vivono una fase evolutiva di vulnerabilità, di incertezza, di definizione della propria personalità, di confronto costante e di identificazione con il gruppo dei pari. Oggi la comunità scientifica è concorde nel confermare una concomitanza di fattori che possono variamente interagire tra loro per favorire la comparsa e il perpetuarsi dei DCA.

Si tratta di patologie articolate, determinate dalla stretta connessione tra aspetti biologici, psicologici, relazionali e culturali dell’individuo; patologie di lunga durata che, se non trattate adeguatamente, tendono ad avere un andamento cronico con frequenti ricadute.

 

I sintomi

Scrive Stefano Vicari (3): l’anoressia nervosa si manifesta con una restrizione nell’apporto energetico rispetto al fabbisogno, che determina un peso corporeo significativamente basso rispetto a quello previsto per età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute fisica.

Questo è accompagnato da un’intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, o un persistente comportamento che interferisce con il recupero del peso, e un’alterazione nel modo in cui viene percepito il proprio peso o la forma del proprio corpo.

La bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate; continui comportamenti di compenso inappropriati allo scopo di prevenire l’aumento del peso, come il vomito autoindotto, l’uso di lassativi, diuretici, clisteri o altri farmaci, il digiuno o l’eccessivo esercizio fisico.

Il disturbo di alimentazione incontrollata è definito invece da ricorrenti episodi di abbuffate che si caratterizzano per tre o più dei seguenti criteri: mangiare più rapidamente del normale, mangiare fino a che non ci si sente spiacevolmente pieni, mangiare una quantità di cibo notevolmente maggiore rispetto alla sensazione fisica di fame, sentirsi disgustato da se stesso, depresso o in colpa dopo l’abbuffata.

È presente un marcato disagio riguardo agli episodi di abbuffata che si verificano, mediamente, almeno una volta la settimana.

È evidente, quindi, come i disturbi del comportamento alimentare costituiscano, in realtà, un complesso insieme di disturbi mentali. L’età d’esordio si colloca, generalmente, tra i 15 e i 19 anni, ma di recente sono diventate sempre più frequenti le forme a esordio precoce con nuovi casi di anoressia già a partire dai 9 anni.

L’esperienza clinica di questi ultimi anni dimostra come una diagnosi e un intervento precoce siano in grado ottenere tassi di risoluzione che, in età evolutiva, possono arrivare fino al 70-90% dei casi.

 

Una malattia mentale

Detto brutalmente, l’anoressia nervosa è una malattia psichiatrica grave, sottolinea Maruska Albertazzi (4).

Una malattia psichiatrica che è a tutti gli effetti una psicosi, perché ci nega la possibilità di vedere la realtà per com’è. L’anoressia nervosa è un’allucinazione mascherata da pensiero logico.

È pazzia pura sotto mentite spoglie. Fa paura questa parola, eppure bisognerebbe avere il coraggio di usarla per l’anoressia. Pazza.

Perché non può che essere pazza una persona che si suicida lentamente senza averne la reale percezione. Perché quando sei lì, con in testa solo quel maledetto numero che deve scendere, con in testa l’immagine “giusta” della malattia che non è mai la tua, la realtà non la vedi. Non vedi che stai camminando come una sonnambula verso la morte, senza riuscire più a sfiorare la vita.

 

Società e anoressia

L’anoressia nervosa è, ormai, un’emergenza medica e sociale di questo Paese, scrive Stefano Vicari (5). È necessaria una politica capace di intercettare la sofferenza di così tanti ragazzi e delle loro famiglie, di accoglierla elaborando risposte di cura efficaci.

Ma, soprattutto, è indispensabile che l’opinione pubblica superi il pregiudizio che circonda queste malattie, liberando i genitori dal senso di colpa che troppo spesso li paralizza davanti alla malattia mentale dei loro figli.

Per arrivare a questo ambito traguardo occorre parlare dei disturbi mentali che possono colpire i ragazzi senza tabù o ipocrisie, superando vecchi psicologismi che individuavano nella relazione intrafamiliare l’unica, vera e ultima responsabile. I disturbi mentali, e l’anoressia nervosa tra questi, hanno come gran parte delle malattie un’origine complessa e non possono essere ridotti, superficialmente, al conflitto dicotomico biologia-ambiente.

 

Consigli per la famiglia

Nella mia esperienza, scrive Stefano Erzegovesi (6), i due aspetti più importanti nella comunicazione con una ragazza che soffre di anoressia sono l'assenza di giudizio e la necessità di creare una comunicazione "a rete", che coinvolga quindi più persone.

"Assenza di giudizio" significa sforzarsi di comunicare direttamente con la figlia in una maniera non giudicante, usando, ad esempio, frasi che non comincino con "tu" (ad es. "tu non mangi abbastanza", "tu ti stai rovinando" o "se vai avanti così, morirai") ma con "io" ("ho notato che fai sempre più fatica a mangiare e sono preoccupata", "ho notato che fai molta più attività fisica, anche quando sei distrutta dalla giornata di lavoro", oppure "vedo che fai più fatica a stare insieme agli altri e che la tua qualità di vita ne sta risentendo"). Non sempre una buona comunicazione apre da subito un buon canale di condivisione, ma bisogna comunque insistere per trovare la via giusta e non far sentire da sola la persona che soffre.

A proposito di "non far sentire da soli", una comunicazione efficace con una ragazza giovane che soffre di anoressia nervosa è sempre una comunicazione "a rete", che preveda la partecipazione, come minimo, di entrambi i genitori e, se possibile, anche di altre figure significative (il fidanzato, un fratello o una sorella vicini di età, un insegnante o un allenatore con cui la ragazza abbia un rapporto di vicinanza, ecc.).

Anche in ragazze con pochissima consapevolezza di malattia, che tendono a rifuggire dall'aiuto degli altri, una comunicazione a rete, dove tutte le persone care esprimono in maniera uniforme e non giudicante la loro preoccupazione, con il tempo è sempre la più efficace.

 

Come curarsi

Il trattamento dei DCA è molto complesso, precisa Stefano Vicari (7), e va dal ricovero ospedaliero, nelle forme più gravi e acute, a quello ambulatoriale o in centri specializzati per le forme meno severe o croniche.

Il recupero del peso e delle condizioni fisiche costituisce l’obiettivo principale dell’intervento nelle situazioni d’emergenza, insieme a una rieducazione alimentare e alla costruzione di una più solida motivazione alle cure e al cambiamento; la psicoterapia individuale e/o familiare e il trattamento psicofarmacologico completano l’intervento terapeutico e costituiscono la base del trattamento a lungo termine.

 

I limiti della Sanità

Purtroppo, quando il paziente ha bisogno di accedere a cure specialistiche, scrive Stefano Tavilla (8), cure che ancora troppo spesso vengono negate, benché il diritto alla salute sia sancito dalla Costituzione italiana.

Non è ammissibile che nel 2021 un ragazzo, una ragazza, una donna, un uomo muoiano ancora perché non arrivano ad essere curati o, quando ci arrivano, ormai è troppo tardi. Non è accettabile che decine di famiglie siano costrette a sradicarsi dal loro territorio alla ricerca di un luogo adatto a volte a migliaia di chilometri di distanza da casa. Non è tollerabile che tanti, troppi malati restino mesi in lista d'attesa aspettando un letto, una sistemazione, mentre la malattia avanza inesorabilmente; oppure che vengano parcheggiati in un reparto di medicina o di psichiatria senza ricevere le cure adeguate.

In Italia c'è una gravissima carenza di strutture. Chi soffre di bulimia, anoressia e molto altro deve essere curato e coi malati anche le famiglie non devono essere lasciate sole. Perché tutto ciò sia possibile è necessario che queste patologie vengano riconosciute come malattie a sé stanti, scorporate dalla generica branchia della salute mentale. Basterebbero delle risorse dedicate, suddivise tra tutte le Regioni, per iniziare a costruire quella rete di assistenza di cui il malato e la sua famiglia hanno bisogno come l'aria.

Non si può più aspettare. Non possono più aspettare i bambini, gli adolescenti e neppure gli adulti, considerati troppo compromessi per aver diritto a un percorso di guarigione.

 

1 Presidente dell'associazione “Mi Nutro Di Vita”

Tratto da: Agnese Buonomo, La famiglia divorata, Vivere accanto al disturbo alimentare, Mursia Editore, Milano 2021

2 psicoterapeute

Fonte: www.istitutopsicoterapie.com

3 neuropsichiatra

Tratto da: Ilaria Caprioglio e Stefano Vicari, Corpi senza Peso. Storie di bambini e ragazzi con anoressia e del loro medico, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2016

4 giornalista

Tratto dal sito dell’autrice

5 Tratto da: Ilaria Caprioglio e Stefano Vicari, cit.

6 psichiatra e nutrizionista

Tratto dal sito: Fondazione Veronesi

7 Tratto da: Ilaria Caprioglio e Stefano Vicari, cit.

8 Presidente dell'associazione “Mi Nutro Di Vita”, cit.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La domanda è forte: secondo voi l’anoressia è una malattia mentale che può anche portare alla morte?

•          Emerge dal testo la carenza di riposte sanitarie adeguate. La sanità, insieme al lavoro, dovrebbe essere la priorità della politica. Che ne pensate?

•          Le donne hanno fatto notevoli passi verso la parità ma l’aspetto fisico conta ancora molto. Il superamento di questo pregiudizio non dovrebbe essere una battaglia delle donne?

 

12-DALLA DIETA ALL’ANORESSIA

La dieta me la propose mio padre. Mia madre fece sparire dagli armadietti della cucina i biscotti dal sapore infantile. Io cominciai eroica la mia crociata contro il cibo e mi sentivo improvvisamente adulta, così decisa a resistere alle tentazioni della gola. Per tacitare lo stomaco mi nutrivo dei complimenti di chi ammirava il mio sedere sgonfiarsi dentro le gonne aderenti.

In meno di un mese il mio cervello riuscì a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi. Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata.

A questo punto vomitai tre polpette al sugo. Non ero riuscita ad oppormi all’insistenza di mia madre che mi aveva fatto mangiare a forza quella carne, troppo condita e nutriente.

Per vomitare la carne ci vollero una decina di contrazioni dello stomaco, forti, secche. Le stimolavo convinta: se la bocca dello stomaco si era aperta per far scendere il cibo doveva aprirsi anche per farlo tornare su. Non immaginavo che sarebbe successo con tanta violenza. Le polpette arrivarono tutte insieme ed esplosero nel water, sul pavimento, persino sul muro.

Avevo vinto io.

Da quel momento vomitare sarebbe diventato ogni giorno più facile, proprio come mangiare due volte lo stesso pasto, in due diverse direzioni.

Ma svanire piano piano dentro ai vestiti mi avrebbe allontanato dalla realtà. Ogni giorno sempre di più.

Alessandra Arachi

Tratto da: Briciole. Storia di un'anoressia, Feltrinelli Editore, Milano 2015

 

13-L’ANORESSIA NON PASSA DA SOLA

Dalla prima infanzia a Roma alla nomina a professore ordinario all'università di Parigi, passando per una laurea e un dottorato alla Normale di Pisa, la mia vita si è svolta all'insegna del "dovere". Un diktat, però, che mi ha portato negli anni a fare sempre di più, sempre meglio, cercando di controllare tutto. Una volontà ferrea, ma una costante violenza sul proprio corpo. "Lei è anoressica" mi venne detto da una psichiatra quando avevo poco più di vent'anni. "Quando finirà questa maledetta battaglia?" chiesi anni dopo al mio analista. "Quando smetterà di volere a tutti i costi fare contente le persone a cui vuole bene" mi risponde. E ha ragione, solo che è troppo presto. Non sono ancora pronta a intraprendere quel percorso interiore che mi porterà a fare la pace con se stessa. L'anoressia non è come un raffreddore. Non passa così, da sola. Ma non è nemmeno una battaglia che si vince. L'anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro. Oggi ho quarant'anni e tutto va bene. Perché sto bene. Cioè... sto male, ma male come chiunque altro. Ed è anche attraverso la mia anoressia che ho imparato a vivere. Anche se le ferite non si rimarginano mai completamente.

Michela Marzano

Tratto da: Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Mondadori Editore, Milano 2012

 

14-DEPRESSIONE

Il male oscuro della vita

 

“Mi sveglio e sento un enorme dolore, mi sento pesante come se tutto il corpo soffrisse o come se avessi un quintale di pietre sulle spalle. Faccio fatica ad alzarmi, a parlare, a lavarmi, a mangiare, a fare qualunque cosa”.

 

di Cecilia Agostino, Marzia Fabi e Maria Sneider*

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione è la più diffusa tra le malattie mentali e in generale la seconda malattia dopo le patologie cardiovascolari.

‘Depressione’ è un termine latino che significa spingere giù, premere verso il basso. Indica uno stato in cui il flusso normale della vita subisce un cambiamento negativo tale da condizionare fortemente la propria esistenza.

 

Non è solo tristezza

Non è la stessa cosa sentirsi un po’ triste o sentirsi depresso.

La tristezza è un sentimento intrinseco alla natura umana ed è tutt’altro che negativo. Ci permette di riflettere sugli accadimenti della vita, sui nostri limiti, sugli errori commessi, ci serve per elaborare delle separazioni importanti, ad esempio i tanti passaggi evolutivi nella crescita. Ci dà il tempo per accettare i cambiamenti della vita.

La tristezza dura qualche tempo, insieme al malumore e alla mancanza di energie, ma non si tratta di depressione. Parlare di depressione invece, è molto più complesso.

Il calo dell’umore che si riscontra nelle forme depressive, soprattutto in quelle più gravi, spesso è apparentemente senza motivo, senza una causa ben precisa; forse, in questi casi, sarebbe più opportuno parlare di un dolore psichico che invade ogni aspetto della vita, ogni pensiero e movimento della persona, ogni parola detta, ogni respiro.

 

La depressione maggiore

Secondo gli attuali manuali psichiatrici utilizzati per la diagnosi delle malattie mentali, si considerano due tipi di depressione: la depressione maggiore, la più grave, tanto da costituirsi come depressione psicotica, e la distimia, che invece consiste in una depressione nevrotica o minore.

La depressione maggiore è la forma più grave, considerata da molti la ‘vera depressione’ in cui si rilevano sia sintomi psichici che fisici.

Il paziente si presenta spesso trascurato, cammina molto lentamente, come se avesse al piede una palla di ferro.

La voce è fioca, il tono è spento e, a seconda della gravità, il depresso o parla poco o non parla affatto. Il volto esprime dolore, è teso, triste, poco espressivo, come pietrificato e dimostra molti più anni. Si ha la sensazione di una persona che ha perduto qualcosa di fondamentale per vivere. Ma cosa?

Il depresso ha perso l’energia vitale, quella carica che ci permette di avere relazioni, di lavorare, sorridere, avere amicizie o passioni.

 

Il rischio suicidario

Nella depressione maggiore è sempre presente un disturbo del pensiero, che si manifesta sotto forma di idee di colpa, di rovina, di autoaccusa.

A questi livelli, il rischio di suicidio o di omicidio-suicidio è altissimo, per cui è doveroso per i terapeuti saper ben distinguere sindromi gravi come questa da altre, in cui il rischio non è così elevato.

A volte i depressi vivono la loro malattia in silenzio, fanno di tutto per non dare fastidio, mimetizzano così bene il malessere agli occhi degli altri che poi non si riesce a fermare il gesto autodistruttivo. Quante volte abbiamo sentito dire che “era una persona così calma e tranquilla”, tanto tranquilla... da non suscitare alcun sospetto.

Il loro non è un atto impulsivo, ma di un’azione premeditata, un progetto elaborato in un lungo periodo di tempo, senza alternative. Questa elaborazione rappresenta una scappatoia a cui ricorrere ogni volta che la vita diventa insopportabile, un pensiero che si affianca sempre a un comportamento riservato e silenzioso, un segreto da non condividere con nessuno.

 

Il suicidio negli adolescenti

L’adolescenza è la fase dei ricorrenti stati depressivi, dei ‘musi lunghi’, dell’apatia, delle ribellioni, dei silenzi e dell’insoddisfazione. E a volte arrivano nella stanza della psicoterapia, perché sono andati oltre la crisi fisiologica e stanno male, peggio di quanto sia sopportabile.

Infatti, in questa fascia di età, ma anche nell’infanzia, la depressione non si manifesta con i sintomi classici che siamo abituati a vedere negli adulti ma con una sintomatologia molto variegata, sfumata, che potrebbe ingannare un occhio non esperto.

Noia, stanchezza, nervosismo, disobbedienza, difficoltà di concentrazione, rabbia, assenze da scuola, sintomi somatici, fobie, attacchi di panico sono tutte manifestazioni che possono nascondere in realtà forme depressive anche gravi e che portano, a volte, anche a pensare di tentare il suicidio o al suicidio vero e proprio.

I tentativi di suicidio sono ancora più frequenti dei suicidi portati a termine, infatti si stima che per ogni gesto compiuto ci siano da 50 a 100 tentativi fatti.

Sappiamo inoltre che le ragazze minacciano il suicidio più apertamente e con facilità, invece i ragazzi sono restii a parlarne ma lo mettono in pratica e lo portano a termine in modo più deciso e definitivo. Il rapporto tra femmine e maschi è infatti di 1 a 7.

 

La depressione minore

La depressione minore, chiamata anche ‘lieve’ o ‘nevrotica’, indica una situazione meno grave e meno invalidante della forma precedente ma non per questo da sottovalutare.

Mancano infatti i deliri, il rallentamento psicomotorio è sostituito da un senso di affaticamento e il funzionamento lavorativo e sociale è solitamente mantenuto.

Infatti il depresso minore è consapevole del suo stato, si rende conto di come sta perché ha un buon grado di introspezione. Presenta una scarsa vitalità ma è accessibile al contatto interumano, tant’è che, fin dai primi colloqui, mostra di aver conservato una reattività al rapporto e quindi di non aver perso totalmente la speranza di poter uscire dalla sofferenza.

 

Le cure

Nella prima metà del Novecento il trattamento prevalente della depressione consisteva in tecniche invasive basate su metodi fisici e chimici che non tenevano in alcuna considerazione le dinamiche psicologiche dell’individuo. Negli anni Trenta fu introdotta anche la lobotomia ma la terapia elettiva per la depressione grave divenne l’elettroshock, che riscosse tanto successo nel trattamento della depressione da essere usato ancora oggi, nonostante provochi gravissimi danni alla memoria passata e presente.

Nel corso degli ultimi decenni la psichiatria organicista, insieme alla psicofarmacologia, si è concentrata nello studio delle basi biochimiche della depressione, considerando come causa di malattia la scarsa produzione di serotonina.

Tale approccio, a nostro avviso, è riduttivo, nella misura in cui trascura altri livelli di ricerca, come quelli riguardanti gli aspetti psichici, relazionali, della vita vissuta dal paziente, che viene condannato altrimenti ad essere dipendente da una ‘pillola della felicità’.

Pensiamo che invece sia necessario ricercare le cause della depressione nella realtà psichica del depresso e in particolare nel mondo non cosciente, oltre che nella storia personale, nei rapporti vissuti e negli eventi di vita.

Nelle depressioni minori, la dimensione affettiva presente consente al paziente di legarsi più facilmente con lo psicoterapeuta e di stabilire un rapporto basato su una sincera richiesta di aiuto.

Invece, coloro che presentano una grave depressione sono molto difficili da trattare.

Il lavoro sarà lungo, duro e faticoso perché il terapeuta dovrà scontrarsi costantemente con il pessimismo imperante e i sensi di colpa schiaccianti che, il più delle volte, popolano i pensieri dei depressi e che si possono riassumere nella frase: “Io sono incurabile, la depressione non si cura e quindi tu con me fallirai”.

Riteniamo invece che l’incurabilità sia frutto dell’assenza di un’approfondita ricerca sulla causa della depressione del soggetto. La guarigione è possibile.

* psicoterapeute

Tratto da: Depressione. Quando non è solo tristezza, L’asino d’oro edizioni, Roma 2018

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La depressione è il male del secolo. Conosciamo qualcuno che ne soffre? Come lo aiutiamo?

•          Meglio una pillola al giorno o soffrire d’ansia continuamente?

•          Adolescenza e suicidio. Senza drammatizzare, nei i vari disturbi che possono affliggere i giovani quanto è presente questa tentazione?

•          La psicoterapia: è solo una perdita di tempo e di soldi o può essere un valido approccio di cura, non solo della depressione?

 

15-DEPRESSIONE E EUTANASIA

In diversi paesi d’Europa è legale il suicidio assistito. L’autorizzazione viene concessa a chi versa in uno stato terminale o in una condizione fisica che impedisce una vita dignitosa ma anche a persone che, a causa di una depressione, hanno deciso di togliersi la vita.

È una realtà inquietante perché significa che la società non offre risposte adeguate a chi soffre di depressione, anzi ne conferma il convincimento che sia una malattia assolutamente incurabile.

Inoltre, offrire il suicidio assistito al depresso come soluzione alle sue sofferenze risulta un evidente fallimento della psichiatria che rinuncia a priori a una ricerca sulle cause della depressione e sulla cura per la guarigione.

 

16-AUTISMO E SCHIZOFRENIA

Due racconti esemplari

 

Si è prosciugato gli occhi a forza di chiedere un miracolo. Un figlio normale. Non un estraneo pure se stesso.

 

Spero che tutto ciò, un giorno, sarà letto da qualcuno che si renda conto dell’importanza di ciò che ho scritto.

Andrea Soldi

 

a cura della Redazione

Per parlare di autismo ci siamo serviti di un romanzo molto recente: Fame d'aria1, di Daniele Mencarelli, un autore con una sensibilità particolare per queste tematiche.

Per la schizofrenia abbiamo invece attinto da una storia vera, raccontata da Matteo Spicuglia, giornalista RAI, nel libro: Noi siamo due2.

 

AUTISMO: Jacopo

Jacopo è bello, ha il viso di sua madre, la delicatezza dei suoi lineamenti. la stessa carnagione di latte.

Jacopo è bello, di una bellezza che può ingannare per qualche istante, poi, anche mentre cammina, non si può non notare il leggero dondolamento, l'andatura da sonnambulo aggrappato al braccio del padre, e la mano sinistra, le dita della mano sinistra, che non smettono mai di passare e ripassare sulla coscia.

Jacopo è autistico, di un autismo a basso funzionamento, bassissimo. Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.

Jacopo nacque il 6 maggio del 2004. Per i primi tre mesi i suoi genitori, Bianca e Pietro, si sfinirono dentro notti senza sonno, orari cadenzati dietro poppate infinite. Ma, come l'amore insegna, tutta la stanchezza svaniva di fronte alla bellezza della loro creatura.

Pietro si sentiva realizzato come ogni uomo che si scopre riamato dal suo amore più grande. Poi venne la notte. Scese senza furia, un tanto al giorno, una tenebra più fitta della morte.

Piccoli segnali, come quando Jacopo, di fronte al triciclo, invece di andarci sopra, preferiva passare minuti sempre più lunghi a guardare il movimento della sua ruota, ipnotizzato da quel moto circolare.

Pietro e Bianca la prendevano per una sorta di sua speciale concentrazione. Un dono. Quando quel dono divenne una patologia incisa a fuoco sulla carne, autismo a basso funzionamento, tutto si fece più chiaro.

La sua involuzione fu totale. Sino ai sette, otto anni aveva ancora ecolalie, ripeteva parole. Poi perse anche quelle. Tentarono di tutto per restare in contatto con lui, per avere degli scambi, anche con i comunicatori simbolici, dei tablet fatti apposta. Ma con lui non ci fu niente da fare.

Di fronte a questa tragedia, Pietro e Bianca hanno preso vie diverse. Perché la madre, pur senza poter comprendere, continuando a soffrire, ha accettato che quel figlio potesse essere quel che è, con i suoi riti misteriosi, l'assenza di qualsiasi apparente relazione con gli altri e il mondo. Ha saputo ricostruire il suo amore attorno alla malattia del figlio. Il padre no.

Il padre ha iniziato a competerci con la malattia e alla fine ha perso.

Per Pietro il figlio ha smesso di essere Jacopo da tanto tempo, è diventato Scrondo, il nome di un nano verde, erotomane quanto maleducato, osceno, orribile, presente in alcune trasmissioni degli anni ’80 su Italia 1.

Ricorda il momento preciso, la cicatrice che glielo rammenta è nel suo cervello.

Sino allora aveva impedito a se stesso di sovrapporre al nome del figlio quello dello Scrondo, anzi, semmai aveva lottato per gridare al mondo che non lo era, e quanto ci aveva creduto, sperato.

Una mattina, Jacopo avrà avuto al massimo 10 anni, iniziò a cadere dentro la vasca da bagno In casa, provava a mettersi in piedi e poi giù, di nuovo.

Una culata dopo l'altra. Pietro passò dal pianto al sorriso.

Sentì nel cuore una frattura, percepì il momento esatto in cui l'amore divenne altro. In quel momento, anche il suo dolore, quello che lo accompagnava dalla prima volta in cui gli comunicarono che il figlio era malato, assunse altra forma.

Da dolore a repulsione. A odio.

Pietro, oggi, ricorda un po’ Giobbe. A Agata e Gaia, che nel romanzo provano a consolarlo, risponde per le rime, con spera più in niente.

Ci prova Agata: “Sono sicura che a guardare bene, anche un figlio che ha dei problemi rimane un dono…”.

 “No. L'unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? che cosa ho fatto di male? In questa vita non ho fatto male a nessuno. Magari in qualcuna delle precedenti. O future. Non lo so. Ma perché a me?”.

“Avete amici oppure qualche associazione che vi dà una mano?”.

“Se vuoi ti dico di sì. Ma no. Nessuno. Gli amici che avevamo, quasi tutti, si sono spaventati, o forse ci siamo chiusi noi, chissà. Le associazioni ci sono, tante sono per bene, ma alla fine fanno il loro, non possono certo sostituirsi a un familiare e a tutte le altre difficoltà”.

Insiste Agata: “Avere un luogo per una preghiera, o anche per incazzarsi con nostro Signore, a me ogni tanto manca”.

“Mia moglie è più attaccata a certe cose. Io no. Io spero che esista solo per un motivo. Perché da morto voglio andargli di fronte, faccia a faccia, e chiedergli qual è la spiegazione della malattia di mio figlio. Perché io non l'ho trovata”.

Ci prova anche Gaia: “Il tuo, Pietro, e quello di tua moglie, è un sacrificio enorme”.

“La questione è un'altra. Un figlio malato te lo manda il destino, ma non è solo quello che ti consuma. Perché c'è tanta gente che dovrebbe aiutarti, ma non ti aiuta nessuno. Dalla prima diagnosi di autismo a basso funzionamento ci hanno iniziato a segnare terapie su terapie. Poi ti ritrovi a casa, in zone dove le strutture pubbliche quelle terapie non le passano. Oppure la fila è di anni. E allora che devi fare? Ti devi mettere a cercare privatamente. E a pagare. Pagare. Tutto e tutti. Le strutture di neuropsichiatria infantile sono quasi ovunque al collasso. Io per Jacopo mi sono rovinato. Ogni mese scendo sotto il fido che la banca mi ha concesso: 3000 euro. E mi bloccano i conti.

Da 10 anni è come se vivessi con un coltello puntato alla gola. E sono stanco. La verità è che sono stanco”.

Abbiamo “spoilerato” abbastanza. Sappiate che, al di là del tema specifico dell’autismo, si tratta di un bel romanzo che merita di essere letto.

 

SCHIZOFRENIA: Andrea

Quella dei Soldi, prima della malattia, era la storia di una famiglia normale: il matrimonio di Renato ed Enza, la nascita di Cristina e Andrea negli anni Sessanta, gli anni del boom in cui tutto sembrava possibile. Il dopo invece, uno stravolgimento totale, un male che all'improvviso annebbia la quotidianità, altera le abitudini, costringe a ridefinire i legami famigliari attraverso segnali che non sono chiari da subito, ma affiorano inattesi, difficili a comprendere e accettare.

Renato, Enza e Cristina avevano imparato tutto da soli. Da quella prima volta, quando lo sguardo di Andrea era cambiato in un istante e i suoi occhi riflettevano solo terrore. Oppure, quando attaccava senza motivo suo padre. Grida, offese, parole affastellate e un secondo dopo il ritorno alla normalità con abbracci e parole senza senso.

È subdola la schizofrenia, perché arriva quando vuole, quasi sempre nel pieno della giovinezza, tra la fine dell'adolescenza e i 35 anni, con un'insorgenza più precoce tra i maschi, molto spesso ventenni. Un uragano in un tempo che è a tutti gli effetti il cantiere della vita, in cui ha senso ed è giusto sognare, progettare, decidere per poi iniziare a costruire.

Chi si ammala tutto questo non può farlo, il disturbo è un condizionamento troppo forte. Certo, i sintomi possono variare a seconda della fase e della gravità, ma sono una costante nella vita di queste persone.

Qual è la causa? Nel caso di Andrea uno stress sottile. L’altra faccia di un’esperienza che aveva voluto vivere con tutto se stesso, perché la sua vita cambiò per sempre in una caserma.

Il militare. Andrea non aspettava altro, lui il militare voleva farlo.

E pensare che avrebbe potuto evitarsela la naja. Quando era piccolo, era stato operato per un tumore a un polmone, per fortuna nulla di preoccupante. Ma i segni erano rimasti, soprattutto quella cicatrice lunghissima dietro la schiena.

Non sappiamo nulla della quotidianità di Andrea in caserma. In quegli spazi però cresceva anche il disagio.

Con suo cognato misurava le parole, ma una volta gli confidò che in alcune giornate era più il tempo passato in cucina a pelare patate e lavare i piatti che a fare altro.

Forse erano punizioni o semplicemente cominciava a stare male. Di sicuro subiva la pressione di quell'ambiente diverso da come se lo era immaginato.

Con il passare dei mesi anche Renato ed Enza videro che loro figlio non era più quello di prima.

Il male si manifestò in modo evidente il 7 dicembre del 1990.

Renato e Cristina erano andati a prenderlo in caserma. I suoi commilitoni lo trovarono disteso sulla branda, lo sguardo perso, come bloccato. Andrea faceva fatica ad alzarsi, a camminare, anche a parlare. Stava vivendo la sua prima crisi.

Scriverà tre mesi dopo nel suo diario: “Dovevo fare piantone e di notte dalle 2 alle 4, invece fino alle 5,30 a vedere figure sul muro, a disperarmi senza motivo. Sono andato in bagno se vedevo un ragnetto, che con la vista lo sdoppiavo e mi pareva un cobra. L'indomani avevo tanto sonno, e ho dormito fino al pomeriggio senza andar a mangiare... quando venne un compagno e mi disse che c'era mio padre. Andai a casa e nel viaggio, per me che ero cobra, mia sorella era una mangusta, mio padre uno scimmione, mia madre o una vipera o un leone”.

“Quando arrivai a casa mio padre mi dette da bere un liquore ed io lo sputai. Stavo già male. Poi nella mia stanza, in presenza di mia madre e mia sorella, sbavavo tutto, perdevo saliva e non mi reggevo in piedi... ma ero cosciente… Arrivò il medico... poi l'ambulanza che mi portò in ospedale. Da lì, l'inferno. Per due giorni senza pastiglie avevo il catatonismo, come gli spastici, che si muovono tutto malamente, storti...”.

Ma per arrivare alla diagnosi di schizofrenia dovettero passare due anni e la spola da un centro specializzato all’altro.

Di fronte alla malattia di Andrea il legame tra Renato ed Enza si era rafforzato, a differenza di quanto accade in altre famiglie davanti a prove così grandi. Loro erano riusciti a costruire un'armonia: Enza aveva imparato a prendere Andrea nel modo giusto, con delicatezza, Renato seguiva soprattutto la parte pratica, il rapporto con i medici e il capitolo del lavoro. Ruoli diversi ma la stessa direzione, la consapevolezza che entrambi, per la propria parte, erano rimasti presenti a se stessi, non erano mai fuggiti.

Ma nel 2000 ad Enza fu diagnosticata la SLA che in due anni la portò via.

Racconta Renato: “Dopo la morte di mia moglie lui continuava ad offendermi. Non era piacevole. Ti tieni tutto dentro ma stai male. Ti arrabbi, ma non puoi farci nulla. Devi sopportare. Parlarne non è mai facile, non puoi caricare gli altri di pesi inutili e hai paura di non essere capito, nemmeno dalle persone più vicine”.

Gli stessi familiari e conoscenti si comportarono in modo diverso: alcuni come gli zii Franca, Virgilio, Paolo e Marisa colsero il dramma seguito alla morte di Enza e continuarono a essere presenti, anche più di prima.

Altri non riuscirono a confrontarsi con un problema così grande. Forse senza strumenti, o imbarazzati dagli atteggiamenti di Andrea. Perché la sua stranezza si vedeva, eccome.

Purtroppo nel 2013 la malattia di Andrea fece una brusca svolta.

Fu un periodo di grandi cambiamenti. A causa di un trasloco, cambiò lo psichiatra di riferimento, perse per svogliatezza il lavoro presso un amico del padre, si dette a mangiare in continuazione fino a pesare 130 chili. Entrò in un loop autoreferenziale.

Dopo il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) del dicembre 2014 Andrea chiuse definitivamente con i farmaci e con le visite al Centro di Salute Mentale.

Un posto in comunità o in una struttura residenziale sarebbe stata la soluzione, ma Andrea avrebbe dovuto dare il proprio consenso, impossibile nelle sue condizioni. L'unica possibilità era provare a convincerlo a ricoverarsi oppure mettere in atto ancora una volta il TSO.

I medici spiegarono ogni passaggio a Renato che alla fine diede il suo assenso.

Proprio a causa di quel TSO mal eseguito Andrea perse la vita a seguito di una crisi respiratoria fatale. Era il 5 agosto 2015.

 

1 Daniele Mencarelli: Fame d'aria, Edizioni Mondadori, Milano 2023

2 Matteo Spicuglia, Noi due siano uno. Storia di Andrea Soldi, morto per un TSO, Add Editore, Torino 2021

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Se in gravidanza fosse diagnosticata al vostro feto una malattia genetica o una malformazione, come vi comportereste?

•          Emerge dal testo la carenza di riposte sanitarie adeguate. La sanità, insieme al lavoro, dovrebbe essere la priorità della politica. Che ne pensate?

•          Quanto la fede può aiutare in situazioni come quelle descritte?

•          Quanto conta l’unità della coppia?

 

17-PICCOLO VOCABOLARIO

L'autismo, noto anche come disturbo dello spettro autistico, è una condizione del neurosviluppo, ovvero una condizione che si manifesta durante lo sviluppo del cervello. Riguarda la comunicazione sociale, i comportamenti e gli interessi di una persona. Le persone con autismo possono avere una vasta gamma di sintomi e livelli di gravità, pertanto viene definito "spettro". Tuttavia, ci sono alcune caratteristiche comuni come la difficoltà nella comunicazione sociale, comportamenti ripetitivi e interessi ristretti, difficoltà nella flessibilità del pensiero, ipersensibilità o iposensibilità sensoriale.

La schizofrenia è un grave disturbo mentale cronico che colpisce il modo in cui una persona pensa, percepisce e interagisce con il mondo. È caratterizzata da sintomi che possono includere deliri, allucinazioni, pensiero disorganizzato, sintomi negativi e compromissione del funzionamento sociale e lavorativo. I sintomi della schizofrenia possono variare da persona a persona e possono presentarsi in episodi o essere presenti in modo continuo.

18-UNA GIORNATA DI 36 ORE

Prendersi cura della persona con demenza

 

In medicina la parola demenza ha un significato preciso: perdita o indebolimento delle capacità mentali. Demenza non significa pazzia.

 

La tensione dell’assistenza a una persona malata può creare dei conflitti nelle famiglie o risvegliare vecchi disaccordi. Meglio discuterne apertamente che tacere.

 

di Nancy L. Mace e Peter V. Rabins*

A un nostro familiare è stata diagnosticata una demenza. Può trattarsi della malattia di Alzheimer, di una demenza vascolare (o multinfartuale) a uno dei molti altri tipi di malattia che generano questo disturbo.

Indipendentemente dal nome della malattia, una persona che ci è molto vicina ha perso alcune delle sue facoltà intellettive: la capacità di pensare e ricordare. La memoria può peggiorare, la personalità può cambiare; il nostro congiunto può diventare depresso, schivo o chiudersi in se stesso.

A soffrire di demenza è una percentuale compresa tra l'8% e il 10% di persone che hanno superato i 65 anni di età. A 65 anni è solo l'1% a essere colpito da questa patologia, a 75 anni la percentuale è circa del 10%, a 80 anni è compresa tra il 20% e il 30%, a 90 anni sale al 30-50%. Che la demenza si manifesti prima dei 60 anni è invece piuttosto raro.

La maggior parte delle ricerche indicano che il 50-60% dei casi di demenza è causato dalla malattia di Alzheimer, un 10% da malattie vascolari un altro 10% da una combinazione di malattia di Alzheimer e malattie vascolari, un 5-15% da demenza con corpi di Lewy, un 5% da demenza frontotemporale, un ulteriore 10%, infine, da una condizione diversa da quelle elencate.

 

Il malato di demenza

Per loro stessa natura le lesioni cerebrali possono creare gravi problemi. Il cervello è un organo complesso e misterioso. È la fonte dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, della nostra personalità. Una lesione al cervello può provocare cambiamenti di emozione, di personalità e di capacità di ragionamento.

La demenza ha origine biologiche: molti dei cambiamenti nelle funzioni mentali e comportamentali che si riscontrano nella demenza hanno origine da cambiamenti strutturali e chimici del cervello.

La maggior parte delle demenze provocano un danno graduale, in modo tale che gli effetti non sono immediatamente visibili, come accade invece per un grave ictus o per un trauma alla testa.

Ne consegue che il comportamento di una persona affetta da demenza sembra spesso incomprensibilmente curioso rispetto ai comportamenti dovuti ad altre malattie.

Spesso non è così evidente che molti dei sintomi (p.e. i cambiamenti di personalità) sono il risultato di una malattia, anche perché la persona malata ha spesso un aspetto del tutto normale.

Ci si può a volte domandare - spesso con vivaci discussioni - quali comportamenti siano imputabili alla malattia e quali siano invece volontari.

Le competenze sociali tradizionali e la capacità di mantenere relazioni con gli altri permangono spesso più a lungo della consapevolezza e della capacità di giudizio critico. Così una persona potrà presentarsi molto bene al suo medico ma essere incapace di aver cura di sé.

Chi è affetto da demenza si sente spesso smarrito, preoccupato, ansioso, vulnerabile e impotente. A volte si accorge di non essere più in grado di fare certe cose e si sente ridicolo.

Infine, può essere difficile capire ciò che una persona malata comprende o percepisce. La soluzione migliore è di considerare i problemi come prodotto del danno cerebrale e non come conseguenza delle nostre azioni o della volontà esplicita del malato.

Affetto, rassicurazione e tranquillità sono le cose più importanti quando tutto sembra inutile.

 

I riflessi sulla famiglia

La diagnosi di una demenza irreversibile rappresenta un peso enorme per tutta la famiglia: ciò può voler dire parecchio lavoro e notevoli sacrifici finanziari; accettare il fatto che qualcuno che amiamo non sarà più lo stesso; veder cambiare le responsabilità e i rapporti all'interno della famiglia; disaccordi tra fratelli; sentirsi distrutti, scoraggiati, isolati, arrabbiati e depressi.

Noi, il nostro congiunto affetto da demenza e le altre persone che gli sono vicine, tutti interagiamo come parti di un sistema familiare. Questo sistema può essere messo seriamente in difficoltà da una demenza.

È importante sapere che quasi tutte le famiglie assistono il proprio parente anziano e malato il più a lungo possibile. Non è vero che la maggior parte dei figli abbandonano i loro genitori anziani o li “scaricano” nelle case di riposo. Numerosi studi hanno dimostrato che, benché molti anziani non vivano con i loro figli, essi sono molto amati e assistiti da loro. Le famiglie di solito fanno tutto il possibile, spesso con grande sacrificio personale, per assistere loro anziani malati prima di cercare un aiuto altrove.

Molto spesso i componenti di un nucleo familiare scoprono intimità e solidarietà quando lavorano insieme per assistere qualcuno affetto da demenza.

A volte comunque la tensione dell’assistenza a una persona malata può creare dei conflitti nelle famiglie o risvegliare vecchi disaccordi.

 

Il rapporto di coppia

Quando la persona malata è un genitore o un suocero, è importante considerare le conseguenze che può avere la sua malattia sul nostro matrimonio.

Mantenere un buon rapporto di coppia spesso non è facile, e assistere una persona affetta da demenza può renderlo ancora più difficile. Può significare maggiori impegni finanziari e meno tempo per uscire insieme, per fare l'amore. Può richiedere di avere più rapporti con i parenti acquisiti, di essere spesso stanchi, di essere meno disponibili con i figli.

Può voler dire far posto nella nostra vita a una persona malata, difficile, sgradevole, apparentemente prepotente.

Una demenza può essere penosa da osservare. È del tutto comprensibile che una persona possa guardare un suocero malato e chiedersi se anche suo marito diventerà così.

Un figlio può scoprirsi combattuto fra i bisogni di un genitore malato, le aspettative di fratelli e sorelle (o dell'altro genitore) e i bisogni e le esigenze del proprio coniuge e dei figli.

È facile scaricare le frustrazioni o la stanchezza su coloro che amiamo e in cui abbiamo più fiducia, il nostro partner o i nostri figli.

Anche il coniuge di un genitore malato può creare dei problemi. Può essere teso, critico, malato a sua volta, e può arrivare al punto di abbandonare il suo compagno malato.

Un buon rapporto di coppia può resistere a lungo allo stress e alle difficoltà, ma noi crediamo sia importante che marito e moglie trovino tempo ed energia per se stessi, per parlare, per andare insieme da qualche parte, per godere del loro rapporto come hanno sempre fatto.

 

Affrontare i conflitti

Quando la maggior parte del carico assistenziale ricade su una sola persona, i problemi aumentano. Il peso dell'assistenza a un malato cronico è spesso insostenibile per un solo individuo. È importante poter contare su qualcun altro, per potersi concedere una pausa, per una parola di incoraggiamento e di sostegno, per un aiuto concreto nel lavoro quotidiano e per condividere la responsabilità finanziaria.

Se si ricevono delle critiche o un aiuto insufficiente da parte della famiglia, non è il caso di lasciar covare il risentimento. È meglio affrontare i conflitti, per evitare che si cronicizzino.

In primo luogo, è importante conoscere il più possibile la malattia: dall'ignoranza e dai pregiudizi nascono spesso i disaccordi sull'assistenza alla persona disabile. Pur in presenza di molteplici perdite, vi sono ruoli che la persona malata è in grado di mantenere.

I cambiamenti di ruolo non sono eventi singoli, sono piuttosto dei processi continui. Con il progredire della malattia, dovremo continuare ad assumerci nuove responsabilità, sperimentando ogni volta quei sentimenti di tristezza e disperazione che fanno parte della sofferenza che si accompagna a una malattia cronica.

Nei gruppi di mutuo aiuto possiamo imparare che altri hanno dovuto affrontare cambiamenti simili. Gli incontri dei familiari dei malati di demenza sono spesso occasione di lacrime e di risate.

Cerchiamo quindi di aiutarci a vicenda: quando la moglie deve sostenere il maggior carico assistenziale per il padre malato può avere bisogno dell'aiuto del marito per lavori non tradizionali, come le pulizie di casa o lavare i piatti; ancor più avrà bisogno del suo amore e del su incoraggiamento. Tra le nostre responsabilità vi è infine quella di saper rinunciare al nostro ruolo di caregiver principale, quando non siamo più in grado di sostenerlo.

 

Suddividere i compiti

Secondo noi, è importante concordare quanto aiuto può fornire ogni membro della famiglia.

Per far ciò può essere molto utile una riunione di famiglia.

Ci sono regole fondamentali da seguire: devono partecipare tutti (compresi i bambini che saranno coinvolti dalla decisione), ognuno ha diritto di parlare senza essere interrotto e ognuno ascolta quanto gli altri hanno da dire (anche se non è d'accordo).

Se qualche nostro parente non è d'accordo sulla natura della malattia o su come organizzare l'assistenza, può essere utile suggerire loro questo libro o altri testi specifici, o domandare al medico di parlare con loro. È sorprendente come spesso questo riduca le tensioni tra i membri della famiglia.

Ecco alcune domande da porsi l'un l'altro quando ci si ritrova. Quali sono i problemi? Cosa sta facendo ognuno di noi? Cosa bisogna fare e chi può farlo? Come possiamo aiutarci a vicenda? Cosa significano questi cambiamenti per ciascuno di noi? Alcune questioni pratiche che può essere necessario discutere sono: chi si farà carico dell'assistenza quotidiana? Questo vuol dire rinunciare alla propria vita personale? Non avere amici? essere più in grado di permettersi una vacanza? Questo vuol dire che i genitori si aspettano che i loro figli si comportino in modo più adulto poiché i genitori saranno occupati con il malato? Chi prenderà la decisione di mettere un genitore in casa di riposo? Chi sarà responsabile dei soldi persona malata?

Se il coniuge sano di una persona disabile deve trasferirsi a casa di un figlio o di una figlia con il malato, quali saranno i ruoli di questa persona nella famiglia? Avrà la responsabilità dei nipoti? Ci saranno due persone a usare la cucina? Una famiglia allargata può essere stimolante ma può anche creare tensioni. Prevedere e discutere in anticipo possibili motivi di disaccordo può rendere tutto più facile.

Le questioni concrete

È importante parlare anche di tanti altri problemi concreti che possono pregiudicare i rapporti familiari. Può sembrare indelicato anche solo pensare ad argomenti come denaro o eredità quando una persona cara è malata, ma gli aspetti finanziari sono importanti e sapere chi riceverà l'eredità è un dato reale, anche se spesso nascosto, nel definire i livelli di responsabilità e può essere origine di molti risentimenti. Le questioni di soldi devono essere tirate fuori apertamente, ponendosi le seguenti domande:

1. Sono tutti a conoscenza della consistenza patrimoniale e dell'eredità?

2. Esiste un testamento? Qualcuno sa o sospetta di essere stato trattato ingiustamente nel testamento? Alcuni membri della famiglia hanno l'impressione che altri aspettino di ereditare soldi, proprietà o beni personali?

3. Quanto costa esattamente l'assistenza alla malata e chi paga?

4. Sono tutti informati di quanto costa assistere una persona affetta da demenza in una casa di riposo, e sanno chi è legalmente responsabile di queste spese?

5. Qualcuno in famiglia ha l'impressione che i soldi siano stati distribuiti in maniera diseguale nel passato?

Può essere scoraggiante non riuscire a convincere tutti gli interessati a parlare di queste cose.

Non è infrequente che le famiglie abbiano bisogno dell'aiuto di una persona esterna - uno psicologo, un sacerdote o un assistente sociale - per aiutarle a risolvere i loro problemi e raggiungere un accordo ragionevolmente equilibrato.

Se chiediamo a terza persona di aiutarci, dobbiamo però pretendere che non si schieri a favore di qualcuno in particolare.

Quando dobbiamo affrontare il problema di un familiare malato di demenza, abbiamo bisogno della nostra famiglia: è questa un'ottima occasione per mettere da parte vecchi conflitti, per il bene del malato. Anche se non riusciremo a risolvere tutti i nostri disaccordi potremo trovare attraverso una civile discussione, una o due cose su cui siamo d'accordo. Questo incoraggerà tutti e la discussione successiva potrà essere più facile.

*psichiatri

Tratto da: Nancy L. Mace e Peter V. Rabins, Una giornata di 36 ore. Prendersi cura della persona con demenza, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2013

Sintesi della redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          In questo testo emerge chiaramente il valore della famiglia: più i suoi membri sono solidali tra loro e con il malato, più il peso della malattia risulta contenuto. Quale insegnamento se ne può trarre?

•          La demenza senile costringe a fare i conti con realtà spiacevoli quali invidie, gelosie, ecc. Quali “scheletri” di questo tipo ci sono negli armadi della nostra famiglia?

 

19-TESTIMONIANZE SULLA DEMENZA SENILE

 

Gli occhiali

La signora Carbonari raccontava numerosi incidenti simili a questo, quando suo marito perdeva gli occhiali.

“Hai buttato via i miei occhiali”, egli le diceva.

“Non li ho nemmeno toccati”, rispondeva lei.

"Dici sempre così”, replicava lui. “Ma allora come spieghi il fatto che sono spariti?”.

“Ogni volta che perdi gli occhiali mi fai questo scenata”.

“Non li ho persi. Sei stata tu a gettarli via”.

Riflettendo su questi episodi la signora Carbonari capì che il marito era cambiato.

In passato le avrebbe semplicemente chiesto se sapeva dove fossero i suoi occhiali, invece di accusarla e iniziare una discussione.

 

Il post-it

Giovanna aveva detto a sua madre che il pranzo era nel frigorifero. Aveva lasciato una nota sulla porta del frigorifero per ricordarglielo.

La madre era in grado di leggere il messaggio ma non di comprenderne il contenuto. Rimase senza pranzo e si arrabbiò con la figlia.

 

Il lavoro a maglia

Alla signora Pescatori era sempre piaciuto lavorare a maglia. Quando improvvisamente abbandonò questo passatempo sua figlia si chiese cosa fosse successo.

La signora Pescatori disse soltanto che non le piaceva più. In realtà la sua crescente aprassia le rendeva impossibile lavorare a maglia ed essa si vergognava della propria incapacità.

 

La patente

Il signor Salomoni era un uomo indipendente e risoluto. I suoi familiari erano a conoscenza delle sue scarse capacità di guida ma pensavano che avrebbe molto sofferto per la perdita della sua indipendenza, quindi si aspettavano di dover battagliare su questo.

Un vicino di casa avvertì del problema gli uffici della Motorizzazione Civile e il signor Salomoni fu convocato per sottoporsi a un test di guida. Quando il signor Salomone tornò a casa dal test gettò la patente sul tavolo e disse che non avrebbe più potuto guidare.

A dispetto delle paure dei familiari non si mostrò mai triste o turbato.

Probabilmente alla Motorizzazione Civile avevano ritenuto più semplice spiegargli che si trattava di un controllo di routine per le persone della sua età.

 

Le coccole

Maria era contenta quando i suoi familiari venivano a trovarla. A volte ricordava i loro nomi; più spesso no. Non ricordava mai che erano venuti a trovarla la settimana prima e così ogni volta li accusava di averla abbandonata.

Si innervosiva quando le chiedevano se si ricordasse di questa o quella persona. Ma quello che le piaceva più di tutto era quando semplicemente l'abbracciavano e le dimostravano il loro affetto.

 

20-I DISTURBI MENTALI: Testimonianze dei lettori

 

Depressione

Come psicologo, mi sono trovato a confrontarmi con tre categoria di psichiatri: quelli che non credevano all'utilità e opportunità di psicofarmaci ma solo psicoterapia (come coloro che si riconoscono nella rivista Riza Psicosomatica) , ad altri che all'opposto ritenevano che le varie forme di depressione andavano curate solo con psicofarmaci e infine un ultimo gruppo che era quello che più mi convinceva: quello di coloro che ritenevano importanti gli psicofarmaci nella fase acuta per poi gradualmente diminuirli, sotto  stretto controllo dello psichiatra stesso.

Da parte mia vi è sempre stato un grande impegno per convincere i pazienti che non adottassero la terapia farmacologica del "fai da te" non consentendo al medico di valutare l'efficacia e l'opportunità del farmaco proposto. Al di là dei sintomi classici, denunciati dai pazienti, ho notato che spesso era molto importante far recuperare l'autostima, tentando di rendere funzionali quegli atteggiamenti disfunzionali presenti nella loro quotidianità.

Fiorenzo Saggin

 

Alcolismo

Sul tema della dipendenza da alcool, del nostro centro per la crisi coniugale di Bassano ho incontrato soprattutto le mogli di mariti alcolizzati, che si rivolgevano a noi quando riconoscevano questa dipendenza dei mariti.

Non avendo una preparazione ad hoc,  ho sempre indirizzato queste persone al Servizio delle tossicodipendenze.

Ho rilevato però che tutti gli operatori che seguivano persone alcolizzate, facevano capire ai familiari che non servivano i vari stratagemmi che comunque venivano adottati, quali controllare il livello di vino nelle bottiglie di casa, rompere le stesse bottiglie di alcolici e superalcolici, provocare sfuriate al ritorno a casa di mariti barcollanti per il vino bevuto al bar o con gli amici.

Se l'alcolizzato non trova dentro di sé la motivazione a dare un taglio netto alla sua dipendenza, cominciando dal telefonare al Servizio di Alcologia e poi nel proseguire con puntualità nei colloqui con gli stessi operatori, tutto è inutile.

Il problema che più faceva soffrire le mogli era se era giusto che si separassero o se invece dovevano tenere duro a fianco del proprio marito, cercando invece di frequentare i gruppi dei familiari degli alcolisti.

Fiorenzo Saggin

 

Demenza senile

Convivere con una persona che ha problemi di demenza senile non è facile, ancora meno se questa persona è un parente stretto, ad esempio un genitore, perché fa male al cuore accettare di non riuscire più a relazionarsi allo stesso modo di come si era fatto prima dell’inizio della malattia.

Non esiste una scuola che ci insegni come rapportarci con queste persone: si deve imparare sul campo quanto sia importante saper trovare frasi e risposte che siano ben interpretate e che non  disorientino ulteriormente il malato.

Spesso occorre improvvisare comportamenti particolari nella speranza di riuscire a tranquillizzare la persona che sta di fronte.

“Non temete, non abbiate paura”, si può leggere 366 volte nella Bibbia e si applica anche in queste situazioni: il Signore sostiene sempre chi sta affrontando una prova nella vita e gli fornisce quanto ha bisogno per superarle.

E aggiungo un consiglio: non restate da soli, circondatevi di parenti e amici con i quali poter condividere questa esperienza, anche solo per raccontarla e farla uscire “fuori da voi”, perché non rimanga dentro a logorarvi.

Un rapporto esclusivo è infatti pericoloso, rischia di farci perdere la razionalità, di lasciarci coinvolgere fino a quasi immedesimarsi nella situazione e farci prendere dallo sconforto.

Di grande aiuto in questi casi è la presenza di una terza persona, tipicamente il marito/compagno o la moglie/compagna, perché essendo meno coinvolti emotivamente riescono a tener un comportamento più razionale e meno istintivo.

Elda

 

Psicoterapia

Nella mia famiglia il disagio psicologico ha bussato alla porta più volte ed ha colpito anche me. In passato ho attraversato due momenti bui: una depressione dopo la laurea quando non riuscivo né a lavorare né a sposarmi e, nonostante i miei sforzi, mi sentivo bloccata ed un lungo periodo di attacchi di panico quando, qualche anno più tardi, avevo i miei primi due figli piccoli, un lavoro nuovo da impostare e degli studi da portare a termine.

Per fortuna questi periodi, anche se molto pesanti e dolorosi, si sono conclusi abbastanza velocemente (comunque mai prima di un anno!).

Fondamentale nel mio caso è stato l’incontro con un sacerdote che con delicatezza e determinazione mi ha accompagnata fuori dal buio e mi ha indicato una strada per proseguire in salute.

Ora, da tre anni seguo una psicoterapia e devo dire che questo percorso, anche se impegnativo, è ricco di belle sorprese e di conquiste importanti.

Paola

 

Distrurbo bipolare

Guardando al mio nucleo familiare di origine ed a quello di mio marito - due famiglie “normali” e piene di buone intenzioni - il malessere che si respirava in casa si è concentrato in particolar modo in due persone che hanno catalizzato tutti i pesi del gruppo e li hanno trasformati in vere patologie.

La sofferenza scaturita dai loro vissuti ha determinato pesantemente le esistenze dei soggetti coinvolti e di chi stava loro intorno (genitori, figli, partner). Tale sofferenza si è poi intrecciata ad altri accadimenti negativi come malattie, perdite e separazioni che ne hanno aumentato ulteriormente la portata di dolore.

Le loro esperienze di vita che ho potuto osservare da vicino mi fanno venire in mente due considerazioni: la prima è che è necessario chiamare le cose con il loro nome. Se si sta vivendo una depressione oppure se si soffre di un disturbo bipolare, è fondamentale saperlo.

Purtroppo, ho assistito per anni alle pietose bugie che madri di figli sofferenti raccontavano a sé stesse e agli altri per nascondere e giustificare comportamenti patologici e tribolazioni quotidiane. Venivano sbandierate pseudo spiegazioni come problemi alla nascita, mancanza di serotonina nel sangue, il fatto di aver contratto una determinata malattia da bambini, il fato avverso e chissà cos’altro per evitare di vedere come stavano davvero le cose e quindi sprofondare nella disperazione.

Infatti, i genitori della generazione precedente alla mia, i genitori del dopoguerra faticano a concepire una sofferenza di natura psicologica, loro che hanno dovuto lottare per ottenere quello che adesso è il nostro benessere.

Paola

 

L’esperto giusto

Un aspetto su cui vorrei soffermarmi è che, purtroppo, anche quando si prende consapevolezza della natura del problema, non sempre la soluzione è facilmente alla portata.

A volte il percorso è molto lungo, a volte non si ha la fortuna di incontrare subito lo specialista giusto. In questo campo, ho notato, gli errori di psicologi e medici hanno un peso specifico molto alto e, se i pazienti non sono adeguatamente accompagnati, fanno presto a tornare sui loro passi e ad abbandonare la cura più che mai convinti che la loro condizione sia una condanna permanente.

In questo caso, è giusto per quanti vivono intorno a chi soffre di disturbi psichici incoraggiare i propri cari a rimettersi alla ricerca della persona giusta e del metodo adeguato a loro, senza lasciar perdere.

Come nel caso di un mal di stomaco che non ci dà tregua e che ci spinge a cercare un secondo gastroenterologo se il primo non ci ha convinto, così anche nel caso della psiche malata è necessario non darsi per vinti e non far finta di nulla pensando che prima o poi passerà.

Bisogna piuttosto accettare la sfida, informarsi, cercare persone competenti e poi mettersi per strada in un viaggio che potrà portare dei significativi benefici per tutti.

Chissà, infatti, che nel percorso intrapreso da un singolo non vengano coinvolte anche le famiglie di origine e che la consapevolezza maturata faccia del bene a quanti vengono prima e dopo di noi.

Paola

 

Un gruppo di supporto

Circa 5 anni hanno diagnosticato a mio marito il morbo di Alzheimer.

Ho iniziato a provare angoscia e preoccupazione per il futuro che ci aspettava e, su suggerimento di mio figlio,  ho iniziato a cercare un Gruppo che potesse aiutare mio marito.

Così ho avuto modo di conoscere poi l’Associazione CondiVivendo di San Donà di Piave il cui scopo è dare sollievo e svago agli ammalati ma anche organizzare attività per noi familiari, tre mattine la settimana.

Per gli ammalati vengono svolte attività di ginnastica dolce per anziani, giochi, quiz per la memoria, giochi di gruppo, ogni tanto vengono i Clown a intrattenere e divertire, si fa merenda con qualche dolce fatto in casa e il clima è sempre leggero e conviviale, e mio marito partecipa sempre molto volentieri.

Noi familiari ci incontriamo una volta a settimana con persone che ci appoggiano e ci ascoltano; vengono a darci supporto psicologhe, neurologi, geriatri che ci consigliano e ci danno delucidazioni sugli aspetti sanitari della malattia e avvocati che danno risposte ai nostri dubbi legati agli aspetti legali.

Noi tutti sentiamo beneficio e supporto da questi incontri, tanto che ci sentiamo come in una Grande Famiglia.

Ognuno di noi del gruppo CondiVivendo vive le più diverse difficoltà ma sento che posso mettere nel salvadanaio sempre nuove consapevolezze che mi danno ogni volta maggiore forza e coraggio.

Per questo motivo, mi sento di consigliare vivamente a chiunque viva con un familiare malato di Alzheimer di non chiudersi in casa con vergogna, ma di uscire ed entrare in una comunità, in un Gruppo che li accolga e permetta di vivere questa nuova fase della vita con consapevolezza e maggior serenità.

Augusta

 

21-NOTIZIE DAL COLLEGAMENTO

 

RITORNARE TRIMESTRALE?

È dal 2019 che pur continuando ad essere ufficialmente un trimestrale, la rivista è uscita solo con tre numeri l’anno.

Se ci seguite saprete che il motivo è stato di natura economica: l’aumento dei costi di stampa e spedizione della rivista per quattro numeri era incompatibile con il bilancio dell’associazione.

Quest’anno sono però arrivate due notizie positive: un contributo straordinario all’associazione da parte della Regione Piemonte come ristoro Covid, e l’aumento significativo delle firme e dell’importo per il 5x1000 2022.

Toccherà ora all’assemblea soci  decidere come utilizzare al meglio queste entrate straordinarie ma ci auguriamo che ci siano risorse  in più anche per la rivista.

 

IL CAMPO ESTIVO

Come anticipato, quest’estate il Collegamento tra Gruppi Famiglia è riuscito ad organizzare un solo campo estivo, quello di Valle di Cadore.

In compenso, il campo è stato un successo. Ve ne daremo conto in modo dettagliato nel prossimo numero della rivista.

Grazie alla famiglia Agostinis è stato realizzato un bel quaderno sul campo, dalla sua preparazione fino alla sua conclusione.

Può essere utile, a chi non conosce i nostri campi, per farsi una prima idea di questa realtà.

Lo potete consultare andando sulla home page del nostro sito: www.gruppifamiglia.it

Qui troverete anche il calendario degli incontri 2023-2024 dei Gruppi Famiglia di Vallà (TV).

 

Ci precede in cielo

22- GIACINO BRUSCHI

 

È scomparso nel mese di maggio Giacinto Bruschi, il nonno delle nostre settimane estive.

Arrivava con la moglie Raffaella, sempre puntuali a condividere con noi queste esperienze.

Persona straordinaria, dai modi cortesi e sempre sorridente, Giacinto affascinava ragazzi e adulti con la sua capacità di scrivere a due mani la stessa frase, con la mano destra scriveva dritto e con la mano sinistra scriveva all’indietro come i gamberi.

Non mancavano mai le sue poesie sempre in rima per raccontare la settimana estiva con fatti e aneddoti,  che erano successi durante la settimana.

Lo ricordiamo con  grande affetto.

Siamo vicini alla moglie Raffaella, che il Signore la sostenga e il ricordo della loro lunga vita insieme le sia di conforto in questo momento.

Gli organizzatori dei campi

 

Se n’è andato a 86 anni Giacinto Bruschi, carpigiano doc e cultore della lingua dialettale. Lascia la moglie Raffaella a cui si stringe nel dolore la redazione di Tempo.

Fino all’ultimo si è impegnato per gli altri e per la sua città: travestito da Balanzone aveva intrattenuto gli anziani ospiti della Cra Il Carpine in occasione della festa di Carnevale dove è stato un volontario storico.

Giacinto Bruschi ha dato un contributo fondamentale alla sopravvivenza del dialetto e non se ne poteva andare senza lasciarci la sua preghiera (vedi temponews.it/2023/05/19/).

Dal settimanale Tempo, Carpi (MO).

 

23-PER CONCLUDERE

Fu nel giardino di un manicomio

che incontrai una giovane dal volto pallido,

bella e piena di stupore.

Mi sedetti accanto a lei sulla panca,

e chiesi: "Perché sei qui?".

Lei mi fissò con uno sguardo di meraviglia,

e disse: " È una domanda indiscreta,

ma risponderò lo stesso.

Mio padre voleva fare di me

una perfetta copia di se stesso;

e così anche mio zio.

Mia madre voleva che fossi l'immagine

di sua madre o di mia sorella.

Mio fratello elevava di continuo

la moglie "sottomessa e domestica"

invitandomi a seguirne l'esempio.

E anche i miei insegnanti, il dottore in filosofia,

il maestro di musica e il professore di logica

erano tutti ben decisi:

ognuno di loro altro non voleva

se non che io fossi

il riflesso del suo volto in uno specchio.

Per questo sono venuta qui.

Trovo che sia più sano, qui.

Qui posso essere me stessa, almeno".

Poi si volse di scatto verso di me e disse:

"Dimmi, anche tu ti trovi in questo posto

per ragioni attinenti all'educazione

e ai buoni consigli?"

E io risposi: "No, sono qui solo in visita."

E lei: "Ah, sei una di quelle che vivono

nel manicomio, di là

dall'altra parte del muro".

Alda Merini

Tratto da "Dio arriverà all'alba"