Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia

GF117 – luglio 2024

IO CREDO…

 

Lettere alla rivista

1-IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI

La versione estesa delle tre formule del rito battesimale

Mi è capitato di partecipare ad una eucaristia in cui il celebrante ha fatto recitare al posto del Credo il Simbolo degli Apostoli? Che differenze ci sono?

Ugo

 

È normale che durante la Quaresima e il periodo Pasquale di reciti il Simbolo degli Apostoli invece del Credo Niceno-Costantinopolitano, che proclamiamo regolarmente tutto l'anno.

Il motivo è che il Simbolo Apostolico consiste nelle tre risposte che si danno al momento del Battesimo, alle quali rispondiamo con la parola “Credo”.

La Quaresima è la preparazione prossima al battesimo per i catecumeni e per i battezzati è la preparazione al rinnovo dei voti battesimali che facciamo nella Veglia Pasquale.

Praticamente con il simbolo Apostolico rinnoviamo i nostri voti battesimali con le stesse parole che sono state usate al momento del battesimo.

Ci sono state tante formulazioni del Credo nei secoli, tutte fedeli alla tradizione. L'ultima che ricordo è il bellissimo Credo del Popolo di Dio di Paolo VI che vi invito a rileggere.

Il Simbolo Niceno-Costantinopolitano (N.C. d'ora in poi) come dice il termine si riferisce alla stesura fatta a Nicea il 325 A.D. con le piccole aggiunte di Costantinopoli nel 381 A.D.

Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica tra il n. 184 e il n. 185 ci sono i due testi del Simbolo Apostolico e del Simbolo N.C. messi a confronto su due colonne.

Come si vede il simbolo N.C. è più esteso e va in più dettagli.

Per esempio il primo dice che Dio è Creatore del Cielo e della terra mentre il secondo specifica “delle cose visibili e invisibili”, per chiarire che Dio ha anche creato gli angeli, che non vediamo ma ci sono.

Il primo Credo ci dice che crediamo nella risurrezione della “carne”. Termine che va spiegato in quanto la parola greca usata è “sarx”, la quale a sua volta traduce il termine ebraico usato nella Bibbia “basar”, che non è solo carne ma la persona.

Il Credo N.C. ci dice semplicemente “la risurrezione dei morti.” Si intendono le persone, ognuno con la sua personalità specifica.

Il Credo N.C. non toglie niente al primo, semmai aggiunge e spiega, questo perché nel frattempo erano insorte delle eresie come l'Arianesimo, che mettevano in dubbio la natura umana e divina di Gesù.

I due Simboli, Apostolico e N.C., sono approvati ovviamente nelle celebrazioni liturgiche e sono inseriti entrambi nel Messale.

p. Vincenzo Salemi, IMC

 

Dialogo tra famiglie

2-IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

Il peccato è il risultato del cattivo uso che ne facciamo

A volte sento ancora dire, nei momenti di prova, di unire le nostre sofferenza a quelle di Cristo. Ma Dio non ci poteva fare santi anziché peccatori?

Mirella

 

Il Dio Trinità ci ha creati a Sua immagine e somiglianza: capaci di amare, destinati alla comunione con Lui e fra noi, ma liberi di scegliere.

Ci siamo sentiti così liberi da preferire di fare secondo i nostri desideri anziché restare fedeli al suo progetto di vita.

Con l’aiuto del Divisore abbiamo scelto l’odio, la rivalità, la morte e Lui non ce lo ha impedito: avrebbe potuto farlo, ma l’amore non obbliga mai nessuno!

Per secoli l’umanità ha camminato sentendo il bisogno di crearsi divinità cui appoggiarsi per essere capace di vivere (popoli che adorano animali o statue sono presenti ancora oggi).

Ad un certo punto “nella pienezza dei tempi” “Il Padre ha tanto amato il mondo da dare Suo Figlio” scegliendo per Lui l’unico modo per dimostrare all’uomo quanto lo amasse: “dare la vita”.

Nonostante questo, Gesù non ci ha convinti e il peccato è rimasto tra noi, in noi, perché il Divisore è sempre pronto a sedurci, come ha fatto con Gesù nel deserto, ma noi abbocchiamo all’amo!

L’umanità è già redenta: la sofferenza offerta dai credenti è intercessione e riparazione, esattamente come la preghiera di cui tutti abbiamo bisogno per ricollocarci stabilmente nella comunione con la Trinità e tra noi.

Anna Lazzarini

 

In questo numero

3-SAPERE IN CIÒ CHE SI CREDE

Come possiamo annunciare la nostra fede se non la conosciamo bene?

 

di Franco Rosada

La fede non si trasmette tanto a parole quando con uno stile di vita radicato nel vangelo. Tuttavia ci sono situazioni in cui ci si trova a parlare con altri di temi di fede e qui sovente emergono molti pregiudizi sul credo cristiano.

Ratzinger, nei panni del teologo, si esprime così: “Chi oggi tenti di parlare della fede cristiana di fronte a persone che non hanno familiarità col pensiero e col linguaggio ecclesiale, avvertirà ben presto quanto sia ostica e sconcertante tale impresa.

Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell'oggi può realmente avere l'impressione di essere come un risuscitato da un vetusto sarcofago, che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi, e pertanto nell'impossibilità di comprendere gli uomini dell'epoca nostra e di essere compreso da loro”.

Una di queste occasioni sono proprio i corsi ai futuri nubendi o gli incontri con i genitori del catechismo.

In queste situazioni, di solito, come laici, passiamo la palla al sacerdote, perché noi di teologia siamo consapevoli di saperne poco.

Però, di fronte al progressivo calare delle vocazioni, questo argomento incomincia ad essere debole: dove troviamo un prete? Non è meglio che, come laici credenti, proviamo ad attrezzarci per dare ragione non solo pratica ma anche teorica della “speranza che è in noi”?

Tre sono gli autori principali che abbiamo scelto per guidarci in questo cammino: Il cardinale Tettamanzi, il teologo Kung e Joseph Ratzinger, con un testo scritto quando era nel pieno dei suoi studi teologici.

Il taglio con cui i tre trattano il tema della professione di fede potremmo definirlo così: pastorale il primo, storico-critico il secondo, profondamente teologico il terzo.

Nei vari articoli i loro interventi sono stati contrassegnati rispettivamente con le lettere T, K, e R.

Non mancano però altri autori, che vengono opportunamente segnalati.

La traccia che abbiamo scelto per illustrare la nostra professione di fede - che è in qualche misura la summa della nostra fede - è quella scandita dal Simbolo degli Apostoli. Rispetto al Credo niceno-costantinopolitano ha il vantaggio di essere più sintetico e di risparmiare al lettore concetti filosofici non proprio semplici.

“Il Simbolo degli Apostoli”, scrive Tettamanzi, “è quello più diffuso in Occidente e che, almeno fino a qualche anno fa, era insegnato in famiglia e a catechesi a tutti i cristiani fin da bambini.

Questo suo nome deriva dal fatto che, secondo una antica tradizione - riferita già da sant'Ambrogio -, sarebbe stato composto dagli Apostoli stessi. Di qui anche la sua suddivisione in dodici articoli, uno per ogni Apostolo. Al di là di questi aspetti leggendari, è comunque vero che questo Simbolo è composto tutto con affermazioni appartenenti alla più originaria tradizione apostolica

Il testo si articola in "tre tempi", attorno ai tre nomi con cui Dio si è fatto incontrare: Dio Padre, Gesù Cristo, lo Spirito Santo. In realtà, questi tre nomi non vanno letti in una semplice successione, ma vanno piuttosto articolati sui diversi tempi di questo nuovo incontro con Dio.

Al centro - quale "secondo tempo" di tutto il Simbolo - si trova l'incontro con Gesù Cristo. Siamo così chiamati a contemplare l'evento di Gesù di Nazareth, vero Figlio di Dio, nel quale Dio in persona viene tra noi, aprendoci il suo cuore e facendoci entrare nel dinamismo del suo amore che dona salvezza”.

formazionefamiglia@libero.it

 

4-UNA VOLTA ERA MEGLIO?

Guardando al Medioevo in Europa, ci viene da pensare che in quell’epoca tutti, senza eccezione, fossero credenti.

Invece, anche allora esisteva già la grande schiera dei trascinati e il relativamente piccolo stuolo di autentici credenti.

Anche allora, per molti, la fede rappresentava unicamente un sistema precostituito di forme esteriori di vita, in forza del quale l'eccitante avventura prospettata dalla parola 'credo' restava sempre qualcosa di esterno alla realtà quotidiana. (R)

 

5-IO CREDO...

Dio si "propone", non si "impone". Non ci costringe mai a credere per forza. Ci lascia liberi, ci chiede solo di scegliere con autentica responsabilità.

Se la fede in Dio è stata spesso autoritaria, tirannica e reazionaria oggi va riscoperta e testimoniata come una forza liberatrice, aperta al futuro e all’uomo.

 

Il Simbolo Apostolico comincia così: “lo credo”.

Queste parole indicano l'assunzione di un atteggiamento e di un orientamento complessivo della vita.

Parlare di fede significa parlare di una dimensione inevitabile della vita umana. Chi non ha mai provato a fidarsi, a confidare in qualcuno, ad affidare la propria vita, a ritenere per vere alcune cose?

Con le parole "ti credo", diciamo un nostro modo di metterci di fronte a una determinata persona: la riteniamo degna di fiducia, convinti che ci dice la verità. (T)

Ma, allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che questa fiducia a volte è mal riposta e ciò ci rende diffidenti.

 

Credere e dubitare

Ciascun credente può constatare  la condizione di insicurezza in cui versa la sua propria fede.

Questo, nei momenti della tentazione, gli fa balenare dinanzi agli occhi la fragilità del tutto, il quale ordinariamente gli appare tanto ovvio.

Ma, come succede al credente, esiste anche per l'incredulo il dubbio sulla sua incredulità, sulla reale totalità del mondo che egli ha fermamente deciso di dichiarare come il tutto.

In entrambi i casi non si sfugge al dilemma dell'essere uomini.

È la struttura fondamentale del destino umano dover trovare la dimensione definitiva dell'esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra dubbio e fede, fra tentazione e certezza. (R)

 

Religione e fede

'Religione' e 'fede' non sono sempre la stessa cosa, non tutte le religioni corrispondono ad una fede.

L'Antico Testamento si è presentato complessivamente non sotto il concetto di 'fede', bensì sotto quello di 'legge'. Esso è primariamente un ordinamento di vita, nell'ambito del quale peraltro l'atto di fede va continuamente acquistando maggior importanza.

La religiosità romana, a sua volta, ha praticamente inteso, sotto il nome di religio, in prevalenza l'osservanza di determinate forme e usanze rituali, in cui l'elemento determinante è rappresentato dalla minuziosa osservanza delle cerimonie.

La stessa constatazione si potrebbe fare esaminando l'intera storia delle religioni.

Ma bastano questi accenni a dimostrare come non si possa dare per ovvio e scontato che l'essere cristiani si manifesti centralmente nella parola 'credo'.

Parliamoci chiaro: inserirci in quell'Io della formula del Credo, trasformare lo schematico IO della formula nell'IO personale in carne e ossa, è sempre stata un'impresa emozionante e in apparenza pressoché impossibile, nell'intento di realizzare la quale, invece di riempire lo schema con l'IO in carne e ossa, si è non di rado tramutato l'IO in uno schema. (R)

 

Una fede tirannica?

Quasi quattrocento anni dopo Copernico, trecento dopo Galileo, duecento dopo Kant e cento dopo Darwin (tutti inizialmente condannati da un “magistero” romano incapace di imparare) sono consapevole che, letteralmente, ogni parola del Simbolo apostolico deve essere tradotta nel mondo postcopernicano, postkantiano, postdarwiniano e posteinsteiniano, come anche le precedenti generazioni, di fronte a svolte epocali decisive - alto medioevo, Riforma, illuminismo - hanno dovuto comprendere in maniera nuova la medesima professione di fede.

E, purtroppo, ogni parola di questo Credo - a cominciare dall'espressione “io credo” e dalla parola “Dio” - nel corso dei secoli è stata anche fraintesa, indebitamente sfruttata e persino profanata.

La fede in Dio è stata ed è spesso autoritaria, tirannica e reazionaria. Essa può essere causa di paura, immaturità, grettezza, intolleranza, ingiustizia, frustrazione e disaffezione sociale, può addirittura legittimare e ispirare immoralità, abusi sociali e guerre in un popolo o tra popoli.

Ma proprio negli ultimi decenni la fede in Dio si è di nuovo potuta rivelare in misura crescente come una forza liberatrice, aperta al futuro e umanitaria: la fede in Dio può diffondere fiducia nella vita, maturità, magnanimità, tolleranza, solidarietà, impegno creativo e sociale, può promuovere rinnovamento spirituale, riforme sociali e la pace mondiale. (K)

 

La fede nel Dio di Gesù

Come ogni altra fede religiosa, anche quella cristiana è fede in Dio. Non è, però, fede in un Dio generico, un elemento divino senza volto, disseminato nel cosmo come un'energia anonima che attraversa tutte le cose.

La fede cristiana è fede in quel Dio che ha il volto preciso del Padre di Gesù Cristo. È il volto di un Dio che ha parlato, che si è rivelato, che è entrato in dialogo, un dialogo di amore, con l'uomo. In questo senso, la fede cristiana è colloquio, è dialogo interpersonale. Il "mistero di Dio" si chiama Gesù Cristo, perché in lui si compie definitivamente e nel modo più grande possibile questa storia di amore, questa azione di salvezza.

Ne consegue che, per il cristiano, credere in Dio è inseparabilmente credere in colui che egli ha mandato, "il suo Figlio prediletto", nel quale si è compiaciuto (Mc 1, 11).

Solo tenendo fisso lo sguardo su Gesù, il cristiano impara a riconoscere la presenza e l'azione di Dio che lo cerca e lo chiama a una comunione nuova.

La fede, dunque, è risposta a un'azione personale di Dio che, in Cristo, si fa appello e invito.

Come ogni risposta, anche quella della fede cristiana scaturisce dalla sorpresa: è la sorpresa di chi scopre di essere gratuitamente cercato, notato, desiderato. (T)

 

Razionale o ragionevole?

Le proposizioni di fede non hanno il carattere delle leggi matematiche o fisiche. Il loro contenuto non può essere dimostrato con un'evidenza immediata o con l'esperimento ad oculos.

Ma la realtà di Dio non sarebbe nemmeno realtà di Dio se fosse visibile, tangibile, constatabile empiricamente, se fosse verificabile sperimentalmente o deducibile con procedimenti logico-matematici.

Dio è per definizione l'Indefinibile, l'Indelimitabile: una realtà letteralmente invisibile, incommensurabile, inconcepibile, infinita. Anzi, egli non è una qualsiasi altra dimensione della nostra realtà. La realtà di Dio non può essere dimostrata razionalmente ma neppure l'esistenza di un nulla può essere dimostrata.

A mio avviso accettare l’esistenza di Dio è un atto di tutto l'uomo, dell'uomo con ragione (Cartesio!) e cuore (Pascal!), più esattamente: un atto di fiducia ragionevole, che non dispone certo di prove stringenti, ma di buone ragioni sì. La fede dell'uomo in Dio non è un dimostrare razionale bensì un fidarsi fondato e, in questo senso, ragionevole. (K)

 

Fede e conversione

La paroletta ‘credo’ designa l'opzione che ciò che non può esser visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l'irreale, ma è anzi l'autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni altra realtà.

Tale atteggiamento, però, si acquisisce unicamente tramite quella svolta che il linguaggio biblico chiama ‘conversione’.

Senza conversione non esiste fede.

Ma siccome la forza di gravità in noi non cessa mai di spingerci in un'altra direzione, la fede in quanto svolta rimane un fatto da rinnovare ogni giorno; sicché solo mediante una conversione continua, per tutto l'arco della vita, noi siamo in grado di comprendere veramente che cosa significhi dire “lo credo”. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Come ci comportiamo quando la nostra fede va in crisi? Dove troviamo consolazione?

•          Quanto del nostro credere, rientra nella categoria della religione (p.e. la tradizione. la ritualità) e quanto in quella della fede?

•          Siamo credenti perché siamo nati cristiani o perché nella nostra vita abbiamo incontrato Gesù? Dove, come, quando?

 

6-DIO, UNO E TRINO

La trinità economica è il Padre, Figlio e Spirito nell'ordine storico- salvifico della loro manifestazione.

La Trinità immanente è Dio nel suo mistero eterno, nel suo essere.

 

La dottrina trinitaria non è nata da una speculazione filosofica su Dio ma è scaturita dallo sforzo di rielaborare delle esperienze storiche.

Nell'Antico Testamento la fede biblica aveva innanzitutto a che fare con Dio incontrato come padre d'Israele. Nel Nuovo Testamento viene ad aggiungersi un evento completamente inatteso, grazie al quale Dio si mostra sotto un aspetto fino ad allora sconosciuto: in Gesù Cristo si incontra un uomo che sa di essere e si professa al contempo Figlio di Dio.

Ne consegue un autentico paradosso: da un lato quest'uomo chiama Dio suo Padre, dall'altro lato, però, egli stesso è la reale prossimità di Dio che noi incontriamo proprio in quanto è egli stesso Dio-Uomo, Dio nella forma e nella natura umana: il Dio-con-noi (Emmanuel).

La sua mediazione si annullerebbe radicalmente, e diverrebbe una separazione anziché mediazione, qualora egli fosse altro da Dio, qualora fosse solo un essere intermedio.

Ora, ciò significa che qui incontro Dio non come Padre, bensì come Figlio e mio fratello, con il risultato che - cosa inconcepibile e insieme totalmente concepibile - compare una dualità in Dio, Dio si manifesta al tempo stesso come Io e come Tu.

A questa nuova esperienza di Dio fa seguito, infine, come terza, l'esperienza dello Spirito, della presenza di Dio in noi, nel nostro intimo. E di nuovo ne consegue che questo 'Spirito' non si identifica né col Padre, né col Figlio, ma neppure forma un terzo fra Dio e noi, è invece la modalità in cui Dio stesso si dà a noi, in cui entra in noi, così da essere nell'uomo, pur restando sempre, anche nell"inabitazione', infinitamente al di sopra di lui.

Come è possibile l’unità e allo steso tempo la trinità di Dio?

La triade delle forme di esperienza di Dio è forse solo una sua maschera storica, sotto la quale egli si avvicina all'uomo in ruoli diversi, ma restando pur sempre l'Unico?

I primi secoli della storia della Chiesa sono stati segnati da una ramificatissima lotta di due percorsi che alla fine risultarono vie senza sbocco: il subordinazianismo e il monarchianismo.

Il subordinazianismo sfugge al dilemma col sostenere che Dio, in sé, è unico; Cristo non è Dio, ma è solo un essere particolarmente vicino a Dio.

Ma, in questo modo, l'uomo viene separato da Dio stesso e confinato nel provvisorio. Dio diventa, per così dire, un monarca costituzionale; la fede non ha a che fare con lui, ma solo con i suoi ministri.

Il monarchianismo risolve il dilemma nella direzione opposta. Esso pure mantiene rigorosamente l'unità di Dio, ma ammette al contempo in tutta serietà che Dio si faccia incontro a noi dapprima come creatore e Padre, poi come Figlio e redentore in Cristo, e infine come Spirito Santo.

La storicizzazione della dottrina trinitaria diventa però la storicizzazione di Dio. Ciò significa che il Senso non è più semplicemente il creatore della storia, ma è invece la storia che diventa creatrice del Senso.

Di conseguenza, la dottrina trinitaria della Chiesa risulta giustificabile soprattutto per via negativa, come prova della mancanza di sbocco per tutte le altre vie.

Ma vi sono anche vie positive.

Tra queste proviamo ad illustrare quella che si muove dal concetto di persona.

Il concetto e l'idea di 'persona' sono affiorati allo spirito umano proprio nella lotta per l'immagine cristiana di Dio e per interpretare la figura di Gesù di Nazaret.

Se Dio è soltanto Uno, la Trinità va collocata su un piano diverso, su quello della relazione.

A questa conclusione spingeva soprattutto la familiarità con la Bibbia. Qui ci s'imbatteva nel fatto che Dio sembra colloquiare con se stesso.

Ora, la scoperta del dialogo all'interno di Dio stesso condusse ad ammettere in Dio l'esistenza di un 'io' e di un 'tu', un volgersi uno all'altro, per indicare il quale si impose formalmente il concetto di 'persona', sicché questo concetto, andando oltre il suo significato teatrale (maschera), fini per acquisire una nuova profondità.

Così veniva in fondo a formarsi il linguaggio del dogma.

'Padre' è un puro concetto di relazione. Solo nell'essere-per-l'altro egli è Padre; nell'essere-in-se stesso egli è semplicemente Dio. La persona è il puro rapporto di correlazione, non altro. (R)

 

7-IN DIO, PADRE ONNIPOTENTE CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA

Monoteismo, politeismo e ateismo: tutte e tre le forme sono in fondo convinte dell’unità e dell’unicità dell’Assoluto.

La descrizione più profonda di Dio non è tanto “onnipotente” quanto: “Dio è amore” (1Gv 4,8.16).

La teoria classica della redenzione è legata ad una visione statica del mondo, che invece è caratterizzato dall’evoluzione.

 

Con questo primo articolo del Simbolo apostolico siamo invitati a volgere il nostro sguardo verso l'origine di tutte le cose, siamo rimandati al "mistero" dell'origine di tutto ciò che esiste. (T)

 

Fede e idolatria

Questo articolo del Simbolo trae origine dalla quotidiana professione di fede di Israele: “Ascolta Israele, Jahvè, tuo Dio, è unico”.

Questa confessione fondamentale, che forma lo sfondo che rende possibile il nostro Credo, rappresenta nel suo significato originario una rinuncia agli dèi dei popoli vicini.

È professione di fede nel pieno senso del termine: la rinuncia agli dèi comporta una rinuncia a divinizzare ciò che ci è proprio (i beni materiali, l’eros, il potere), una caratteristica, questa, essenziale del politeismo.

Vi sono incluse anche la rinuncia alla sicurezza di quanto ci appartiene (tutto è di Dio), la rinuncia a placare l'angoscia venerando le forze sinistre che ci minacciano, per affidarsi invece al Potere che regge il mondo.

Questa situazione non è affatto cambiata nel Credo del cristianesimo primitivo. Anche in esso, infatti, l'ingresso nella comunità cristiana e l'accettazione del suo 'Simbolo' costituiscono una decisione esistenziale gravida di onerose conseguenze.

Si, perché chi abbracciava questo Credo, compiva al contempo una rinuncia al mondo a cui apparteneva e alle sue leggi: una rinuncia all’adorazione del potere politico dominante, una rinuncia all'adorazione del piacere, al culto del terrore e della superstizione che dominava il mondo.

Non è affatto un caso che il cristianesimo sia stato la lotta contro la forma fondamentale della vita pubblica vigente nell'antichità. (R)

 

DIO

Credere in Dio è la prima, fondamentale e più importante affermazione della nostra fede, perché tutto il Simbolo ci parla di Dio.  Può sembrare una affermazione scontata. Ma così non è. La cosa più difficile oggi sembra proprio "credere in Dio". Da una parte, infatti, ci sentiamo rinviati a Dio e al suo mistero: in noi c'è una forte sete di Dio; dall'altra parte, però, viviamo spesso "come se Dio non esistesse".

Ma a ben guardare, non è tanto Dio in sé a costituire un problema per noi. Sono, piuttosto, la nostra idea di Lui - ossia l'immagine che ce ne facciamo e che a volte ci appare così banale e infantile - e, ancora più radicalmente, il nostro rapporto personale con lui. (T)

 

Le tre idee di Dio

Il problema costituito dall’esistenza umana, l’incompiutezza di cui essa è affetta, i limiti contro il quale urta genera il desiderio dell’illimitato e dell’infinito.

Come mai le risposte che l’umanità si è data sono però così eterogenee?

In realtà l’idea di Dio sussiste in sintesi solo in tre forme: il monoteismo, il politeismo e l’ateismo e tutte e tre le forme sono in fondo convinte dell’unità e dell’unicità dell’Assoluto.

A questa unicità non crede solo il monoteismo; anche per il politeismo i molti dei non sono mai stati l'Assoluto stesso: anche per il politeista era chiaro che, dietro le molte divinità sussiste l'essere unico e l'essere è in definitiva solo uno (p.e. il fato) o comunque l'eterno opporsi di una contrapposizione primordiale (p.e. il bene e il male).

E anche l'ateismo, almeno nella sua forma più incisiva e massiccia, il marxismo, ribadisce questa unità dell'essere, affermando che ogni essere è materia. Ma questa materia assume al contempo dei tratti che ne evidenziano l'assolutezza, riportando così di nuovo al pensiero di Dio.

Ciò in cui divergono queste tre vie è la concezione del modo con cui l’uomo e l’assoluto si rapportano tra loro. (R)

 

PADRE

La prima dimensione di Dio è quella della paternità. È una dimensione che troviamo anche in molte altre religioni, nelle quali Dio viene invocato come "padre".

Qui il titolo “Padre” rimanda alla memoria storica del popolo eletto. Più precisamente ancora, esprime in modo sintetico la ricca e multiforme esperienza dell'alleanza tra Dio e Israele.

Questa esperienza raggiunge il suo culmine e la sua espressione-rivelazione definitiva in Gesù. È Gesù a rivelarci il vero volto di Dio, mostrandolo come “Padre”.

Dio quindi non è riducibile a un'energia positiva e senza volto ma, al contrario, è una persona viva, colma di bontà, di sollecitudine di amore per tutti e per ciascuno di noi. (T)

 

Dio padre o madre?

Dio Padre è una figura totalmente maschile? Stimolato dai contributi della teologia femminista, oggi sappiamo meglio di un tempo che questo Dio non è né maschio né femmina, ma trascende sia la maschilità sia la femminilità, che tutti i nostri concetti per indicare Dio, compresa la parola “Padre”, sono soltanto analogie e metafore.

Allora, dato che noi uomini non possediamo nomi superiori a quelli umani e a noi “padre” e “madre” dice di più di “l'Assoluto”, si può tornare a pregare, in tutta semplicità e insieme in modo postpatriarcale - includendo quindi anche l'essere-madre di Dio - come circa duemila anni fa ci ha insegnato Gesù: “Padre nostro”. (K)

 

ONNIPOTENTE

Il termine “onnipotente” non significa, anzitutto, che Dio può fare tutto ciò che vuole. Dice la "signoria di Dio" in ogni situazione e il suo dominio su ogni tempo e circostanza. Dice che quella di Dio è una "signoria di amore".

Come tale, l'onnipotenza divina è una realtà salvifica, una "buona notizia". Dio è “onnipotente” perché è infinitamente misericordioso.

Ancora più precisamente, l'onnipotenza di Dio si manifesta nel mistero della Croce, ossia nel momento della apparente "impotenza" di Dio. È il Cristo crocifisso a essere “potenza di Dio e sapienza di Dio”. (T)

 

Un Dio impotente?

Confesso che, dopo Auschwitz, il Gulag e due guerre mondiali, non posso più parlare, a maggior ragione, di un “Dio onnipotente”, che esiste come potente “assoluto”, “sciolto”, non toccato dalla sofferenza, che tutto governa, tutto fa o quanto meno tutto potrebbe fare se lo volesse, e poi, di fronte a enormi catastrofi naturali e crimini contro l'umanità, non interviene, ma tace, tace e tace...

“Onnipotente” (in greco: pantokrator cioè “sovrano di tutto”; in latino: omnipotens “che può tutto”) non esprime anzitutto la capacità creativa di Dio, ma la sua superiorità e potenza operativa, cui non si contrappone nessun principio di tipo numinoso o politico da essa indipendente.

Nella traduzione greca della Bibbia ebraica la parola viene per lo più usata per rendere il termine sabaoth (Signore degli “eserciti”), ma nel Nuovo Testamento - a parte due eccezioni - essa viene, sorprendentemente, evitata.

Certamente nel Credo (e in molte preghiere ufficiali) andrebbero preferiti, alla luce del Nuovo Testamento, altri attributi “più cristiani” del predicato “onnipotente” per esprimere quella che dovrebbe essere la descrizione più profonda di Dio: “Dio è amore” (1Gv 4,8.16).

Oggi non possiamo più pensare ad un Dio “al di sopra” o “al di fuori del mondo” ma a Dio nel mondo e al mondo in Dio.

Dio non opera nel mondo dall'alto o dall'esterno come un motore immobile; opera invece, come realissima realtà dinamica, all'interno del processo evolutivo del mondo, che egli rende possibile, guida e porta a compimento. Egli stesso è origine, centro e meta del processo cosmico.

Dio va concepito oggi non come un uomo, una persona come noi, ma infinitamente più di una persona. Ma non come un apersonale principio astratto, ma una realtà transpersonale, superpersonale: l'Infinito stesso in ogni finito, puro spirito. Allora a lui, all'Infinito che mi circonda, posso rivolgermi, pieno di rispetto, con il “Tu”, posso continuare a pregare come da due millenni fanno i cristiani. (K)

 

CREATORE

Parlare di creazione significa affrontare il problema delle origini del mondo e dell'uomo. In questo contesto, non ha senso contrapporre creazione ed evoluzione, perché “non si tratta soltanto di sapere quando e come sia sorto materialmente il cosmo, né quando sia apparso l'uomo, quanto piuttosto di scoprire quale sia il senso di tale origine".

Come la spiegazione scientifica della nascita di un bambino non contraddice l'affermazione che egli è il frutto del libero dono d'amore dei suoi genitori, così è per la creazione del mondo e dell'uomo. Ogni seria spiegazione scientifica al riguardo non è mai in contrasto con il dato della fede, perché confessare che Dio è “creatore del cielo e della terra” significa affermare che l'origine del mondo e dell'uomo non è governata dal caso, da un destino cieco, ma da un Essere trascendente, intelligente e buono, che è Dio. (T)

 

Creazione e evoluzione

Dio, uomo e mondo oggi devono essere visti nell'orizzonte dell'evoluzione.

La teoria classica della redenzione è prigioniera di una visione statica del mondo, nella quale all'inizio tutto era buono, mentre il male sarebbe entrato nel mondo soltanto per opera dell'uomo.

L'idea - che non si trova né nella Bibbia ebraica né nel Nuovo Testamento, essendo stata propagata dal Padre della chiesa Agostino - di un “peccato originario”, trasmesso mediante la procreazione sessuale (da cui la necessità del battesimo per i neonati!), non dovrebbe più essere mantenuta per il solo fatto che non è mai esistita quest'unica coppia umana, che avrebbe peccato per l'intera umanità.

Ora, proprio per quanto riguarda l'origine della vita, la biologia degli ultimi decenni ha conseguito successi talmente sensazionali che la teoria evolutiva di Darwin può oggi essere ritenuta fondata fisicamente - non soltanto sul piano della cellula vivente, ma anche su quello della molecola e dimostrata sperimentalmente - ad opera della biologia molecolare.

La biologia è in questo modo diventata altrettanto rivoluzionaria quanto, poco prima, lo era stata la fisica con la meccanica quantistica.

Se è un'ipotesi infondata postulare l'esistenza di Dio in base al passaggio dal mondo inanimato alla biosfera o anche in base all'indeterminatezza molecolare, è però un'ipotesi infondata anche escludere un'esistenza di Dio in base alle acquisizioni della biologia molecolare.

Secondo l'opinione di importanti biologi un diretto intervento soprannaturale di Dio nell'origine della vita - e poi anche, analogicamente, dello spirito umano - appare più che mai inutile.

Il processo evolutivo in quanto tale, considerato dal punto di vista scientifico, non comporta né esclude un fondamento originario.

Ma anche per il biologo, nella misura del proprio essere-uomo, si pone il problema esistenziale di un fondamento originario e di un senso-fine dell'intero processo.

A questo interrogativo non si può rispondere scientificamente. Esso comporta una decisione esistenziale.

Questa decisione è di nuovo affare di una fiducia ragionevole: o si ammette un'assenza ultima di fondamento, di sostegno e di senso o si postula un fondamento, un sostegno e un senso originario di tutto, un creatore, una guida e un perfezionatore del processo evolutivo. Soltanto il sì credente a un fondamento, a un sostegno e a un senso originari può rappresentare la risposta al problema dell'origine, del sostegno e del fine del processo evolutivo e, quindi, dare all'uomo la speranza in una certezza e sicurezza ultima. (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Tutto è di Dio. Siamo disposti ad abbandonare le nostre sicurezza per fidarci del suo amore?

•          Il mistero del male e l’onnipotenza di Dio. Dio non può, o non vuole o...? Il mistero della croce.

•          Scienza e fede: due visioni in conflitto o complementari? Quanto siamo condizionati dalle conquiste della scienza nel nostro credere?

 

8-E IN GESÙ CRISTO, SUO UNICO FIGLIO, NOSTRO SIGNORE

In Gesù, il Cristo, Dio ha voluto rendersi totalmente solidale con l'umanità.

Il Figlio è eterno, il Figlio è generato non creato, l’uomo Gesù è creato, è entrato nel tempo.

 

In Gesù si trova il "fondamento" e, per così dire, la "sintesi" di tutta la fede cristiana, dal momento che alla "radice" di questa sta l'incontro con la persona viva di Gesù stesso.

In questo, e negli articoli successivi, il riferimento è a un determinato tempo storico. Questo tempo è totalmente centrato su un nome - quello di Gesù - che si identifica con una storia reale, apportatrice di salvezza. (T)

 

GESÙ

Gesù è l’uomo storico; dire Gesù significa identificare una persona concreta, vissuta in un luogo preciso, in un tempo determinato. Quell’uomo ha un nome significativo, dice chi è: “Il Signore salva”; l’uomo Gesù è la salvezza operata da Adonai, il Dio personale che si è rivelato a Mosè e ai figli di Israele. (D)

 

Nostro salvatore

Al cristiano non basta credere in Dio; egli deve credere in Gesù. Noi siamo chiamati a riconoscere in questa persona, di nome Gesù, il “Cristo”, il "Figlio unico di Dio", il “nostro Signore”.

Gesù è l'unico e universale Salvatore del mondo.

Non c'è uomo al mondo, non c'è popolo sulla terra, non c'è realtà, non c'è dimensione dell'esistenza, non c'è avvenimento della storia che possano trovare salvezza al di fuori di Lui.

"Credere in Gesù" significa riconoscere che Dio non è indifferente al nostro destino concreto, alla nostra vita quotidiana, ma vuole entrarvi per portare liberazione, consolazione, salvezza e verità. (T)

 

CRISTO

Cristo è un titolo funzionale, dice la funzione regale, è una terminologia che qualifica Gesù come erede di Davide che tiene il trono promesso da Dio all’origine della monarchia davidica. Riconoscere che Gesù è il re-Messia è un atto di fede apostolica. (D)

 

Il messia

Il termine “Cristo” è la traduzione greca della parola ebraica "Messia", che significa "Unto".

Il riferimento è all'unzione con l'olio, che era in uso nel popolo di Israele, per "consacrare" i re, i sacerdoti e i profeti. E tale - cioè "unto da Dio" - doveva essere il Messia promesso come colui che sarebbe venuto per instaurare definitivamente il Regno di Dio.

Ma Israele attendeva un Messia che avrebbe restaurato l'indipendenza del paese e procurato in abbondanza tutti i beni materiali, un Messia che si sarebbe presentato come un personaggio potente e un giudice severo.

Gesù, invece, è Messia perché annuncia la "buona novella ai poveri" e, con le sue opere e i suoi prodigi, rivela e comunica a tutti la salvezza che viene da Dio, Padre misericordioso. Egli è Messia perché è il Salvatore non solo del popolo giudaico, ma dell'umanità intera.

Credere in Gesù come “Cristo”, ossia come il Messia così inteso, significa riconoscere che Dio non si accontenta del nostro mondo così com'è, ma lo vuole trasformare, migliorare, condurre alla sua piena verità.

Sì, in Gesù Cristo, Dio ci visita per condurci alla "terra promessa", in una città nuova, nella quale abitare da uomini veri, animati da una gioia profonda e piena. Questa "terra promessa" è donata gratuitamente da Dio a chi cerca di "seguire Gesù", partecipando del suo totale affidamento al Padre. (T)

 

FIGLIO

Il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è il momento decisivo della croce; si riconosce pienamente il Figlio nel momento tragico della morte in croce. Lì, sulla croce, c’è la rivelazione della Trinità nella relazione di amore totale tra il Padre e il Figlio che fa scaturire il dono dello Spirito Santo. Ecco perché croce e Trinità sono strettamente unite.

In quel momento Gesù, come uomo, ama totalmente Dio, in quel momento Gesù, come Dio, ama totalmente l’uomo e il Padre dà la vita cioè offre, permette il sacrificio della vita del Figlio, il Figlio dà la vita, lo Spirito comunica all’umanità la vita. Nel momento tragico della morte è innestata la forza dell’amore divino che comunica la vita. (D)

 

L’unigenito del Padre

Dicendo che Gesù è il Figlio di Dio, riconosciamo in lui il Figlio che da tutta l'eternità è stato generato dal Padre e che, nella “pienezza del tempo”, è entrato nella nostra storia come vero uomo e come il Messia atteso.

Anzi, più propriamente, noi diciamo che "questo uomo", di nome Gesù, è "Figlio di Dio", è Dio lui stesso!

Nel Simbolo niceno-costantinopolitano, che recitiamo normalmente durante la Messa domenicale, lo affermiamo confessando che Gesù Cristo, l'Unigenito Figlio di Dio, è “nato dal Padre prima di tutti i secoli”, è “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”, è “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”.

Non dimentichiamo che questo appellativo "unico Figlio di Dio" noi lo proclamiamo di Gesù di Nazaret, del figlio di Maria e di Giuseppe, di uno che è uomo come noi.

Confessare Gesù come "Figlio di Dio" significa affermare che Dio ha voluto rendersi talmente solidale con l'umanità.

Con questa professione di fede, riconosciamo che Dio vuole mettere l'uomo, e con l'uomo il mondo intero, in una stretta, profonda e indistruttibile comunione con lui.

Riconoscere che Gesù è il "Figlio unico di Dio" non è alla portata della nostra intelligenza e delle nostre capacità umane. Non deriva né dalla carne né dal sangue, ma è rivelazione che viene dallo stesso Padre che sta nei cieli.

È un'azione che ci genera come "figli di Dio" in Gesù, l'unico Figlio di Dio. (T)

 

SIGNORE

Dire che Gesù è “il Signore” significa affermare che è Dio. Il termine Kýrios non corrisponde semplicemente nel linguaggio greco al capo, ma è il corrispondente di Adonai della tradizione biblica. Quindi dire “Gesù è il Signore” significa affermare: Gesù è Dio, Gesù è identificato con Jahvè.

Questa è una operazione di fede compiuta dalla comunità apostolica primitiva ed è compiuta in ambiente ebraico da tutti ebrei che avevano un fortissimo senso del monoteismo. Quindi non hanno sentito il riconoscimento di Gesù come Signore un attentato alla unicità di Dio, ma lo hanno riconosciuto come strettamente unito al Padre, un unico Dio. (D)

 

Signore di una nuova creazione

Essendo "Messia" e "Figlio di Dio", Gesù viene anche riconosciuto come “nostro Signore”.

Secondo la fede di Israele, "Signore" era un titolo proprio ed esclusivo di Dio. Dire “Gesù è Signore” significa quindi affermare che “la potenza, l'onore e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche a Gesù, perché egli è di "natura divina" (Fil 2, 6)

Più concretamente, proclamarlo e invocarlo come il "Kyrios" significa riconoscere che l'ultima parola sul mondo non spetta a potenze ingiuste e violente, che portano morte e tristezza, ma è prerogativa esclusiva di Gesù stesso.

Gesù è il “Signore” della nuova creazione che, al di là di ogni apparenza, sta realmente crescendo nella storia.

Se dunque Gesù è Signore di un mondo nuovo, da lui inaugurato per noi, confessarlo “Signore” significa dichiarare l'intenzione di entrare pienamente in questa vita nuova che lui ha iniziato.

La confessione di Gesù come Signore, allora, comporta la condivisione dello stesso Spirito divino che, risuscitando Gesù dai morti, ha vinto la morte e che, donato dallo stesso Signore, illumina e introduce tutti noi nella verità e nella vita del Figlio.

In tal senso, la proclamazione di Gesù come "Signore" diventa invocazione piena di nostalgia e di desiderio elevata dallo Spirito e dalla Sposa: “Amen. Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20). (T)

 

La kenosis del Figlio

Partendo dall’uomo Gesù come esperienza storica, con tutto quello che raccontano i vangeli, fino alla esperienza grandiosa della morte e risurrezione, si arriva a comprendere la sua esistenza eterna: pre-esiste.

Nessuno di noi ha scelto di nascere, semplicemente perché noi prima di nascere non c’eravamo. Noi abbiamo cominciato a esistere nel tempo. L’unico che esisteva prima di nascere è Gesù. Questo è un principio di fede della comunità apostolica originaria. L’uomo Gesù pre-esisteva come Dio, non come uomo.

Quindi il Figlio è eterno, il Figlio è generato non creato, l’uomo Gesù è creato, l’uomo Gesù comincia a esistere, non c’è da sempre, è entrato nel tempo, cioè ha cominciato a esistere e ha cominciato a esistere partendo proprio dall’embrione. L’uomo Gesù non è apparso improvvisamente maturo, ma ha accettato la trafila normale e consueta dal primo istante di vita.

Gli apostoli hanno conosciuto l’uomo Gesù adulto, lo hanno visto morire e lo hanno incontrato risorto, hanno riconosciuto le sue qualità di Cristo, Figlio di Dio, Signore e hanno pensato la sua vicenda.

Lo Spirito del Risorto li ha aiutati a capire che quell’uomo, se è il Signore, lo era anche prima ed ecco la formula dell’inno riportato nella lettera ai Filippesi: “Cristo Gesù, che è nella forma di Dio, svuotò se stesso, si fece uomo" (Fil 2,6-7) .

Questo momento dell’incarnazione è decisivo, è il secondo mistero principale della nostra fede, il fatto che Dio abbia assunto l’umanità in modo organico. (D)

 

P.S. D sta per don Claudio Doglio, autore de: Il Simbolo della nostra fede.

Fonte: Internet

 

Egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio

l'essere come Dio,

ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

"Gesù Cristo è Signore!",

a gloria di Dio Padre. (Fil 2,6-11)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Chi è Gesù per la gente? Un grande profeta, un uomo benedetto da Dio o suo Figlio, l’Unigenito? Cosa cambia a seconda delle risposte?

•          Crediamo davvero a questa “cosa” incredibile e cioè che Gesù è Figlio di Dio?

•          Come sarebbe stata la nostra vita se non avessimo conosciuto Gesù? Quali scelte diverse avremmo fatto?

 

9-GESÙ E BUDDHA

Vi sono diverse somiglianze tra la figura storica di Gesù e quella del Buddha. Come Gautama, Gesù fu un predicatore itinerante, povero, senza patria, senza pretese, la cui vita aveva conosciuto una svolta decisiva, che lo indusse alla predicazione.

Come per Gautama, anche per Gesù l'avidità, il potere, l'accecamento rappresentavano la grande tentazione che - secondo i racconti delle tentazioni - si contrapponeva alla grande missione.

Ma, mentre Gesù proveniva da una famiglia povera, Gautama era figlio di grandi proprietari, abituato a feste e a ogni forma di godimento della vita.

A differenza di Gautama, Gesù non si rivolgeva ai contemporanei che volevano abbandonare la società dell'abbondanza, ma agli stanchi e agli oppressi, ai poveri.

Per Gesù il mondo non era qualcosa di negativo, da cui bisogna ritirarsi ma è piuttosto la creazione buona, benché continuamente corrotta dall'uomo. Per Gesù l'obiettivo quindi non è l'uscita, grazie ai propri sforzi, dal ciclo delle nascite, ma l'entrata nel compimento, nel regno definitivo di Dio.

Ci rendiamo pienamente conto della differenza decisiva quando proviamo a mettere l'una accanto all'altra le figure del Buddha sorridente, seduto su un fiore di loto, e di Gesù sofferente, inchiodato sulla croce. (K)

 

10-IL QUALE FU CONCEPITO DI SPIRITO SANTO, NACQUE DA MARIA VERGINE

La vera origine di Gesù è ‘il Padre’, egli proviene totalmente da Lui e in modo diverso da qualsiasi altro inviato di Dio che l’ha preceduto.

In quanto vera “Figlia di Sion”, Maria è immagine della Chiesa, immagine dell'uomo credente, il quale non può giungere alla salvezza solo grazie al dono dell'amore, ossia la grazia.

 

Con queste parole del terzo articolo del simbolo apostolico proclamiamo la nostra fede nel grande mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio. Di questa stessa incarnazione noi diciamo che è avvenuta per opera dello Spirito Santo e si è realizzata “in” e “da” Maria Vergine. (T)

 

L’amore di Dio incarnato

Molti nostri contemporanei considerano l’idea di una incarnazione di Dio priva di senso.

Certamente: la categoria “incarnazione” è estranea al pensiero ebreo e a quello giudeo-cristiano delle origini; essa proviene dal mondo ellenistico. Eppure anche questa parola può essere intesa correttamente nel contesto ebraico.

L'incarnazione va compresa soltanto nella luce dell'intera vita, della morte e della nuova vita di Gesù.

“Incarnazione” significa che in Gesù hanno preso figura umana la parola, la volontà, l'amore di Dio. In tutto il suo parlare e predicare, nel suo intero comportamento e destino, nella sua intera persona l'uomo Gesù non ha operato affatto come il “concorrente” di Dio. Egli ha piuttosto annunciato, manifestato, rivelato la parola e la volontà dell'unico Dio. Nel contesto ebraico si potrebbe forse osare anche la seguente formulazione: Egli, nel quale, secondo le testimonianze, parola e azione, dottrina e vita, essere e agire coincidono completamente, è, in forma umana, la “parola”, la “volontà”, l'“immagine”, il “Figlio” di Dio. Qui certamente si tratta di un'unità di Gesù con Dio. Ma anche i concili cristologici affermano non una “mescolanza” e un'“associazione”, come temono gli ebrei e musulmani, ma - come afferma il Nuovo Testamento - un'unità di “trono”, di conoscenza, di volontà, di azione di Gesù con Dio, e un'unità della rivelazione di Dio con e attraverso Gesù. “Chi vede me” dice il vangelo di Giovanni “vede il Padre” (Gv 14,9). (K)

 

La vera origine di Gesù

L'origine di Gesù è avvolta nel mistero. Certo Gesù e originario di Nazareth. Ma che si sa della sua vera origine?

Il Vangelo di Giovanni sottolinea in continuazione che la vera origine di Gesù è ‘il Padre’, che egli proviene totalmente da Lui e in modo diverso da qualsiasi altro inviato di Dio che l’ha preceduto.

Questa origine di Gesù dal mistero di Dio “che nessuno conosce”, è descritta dai cosiddetti racconti dell'infanzia dei Vangeli di Matteo e di Luca, non ha lo scopo di eliminarlo, bensì proprio per confermarlo come mistero.

Ambedue gli evangelisti, ma specialmente Luca, narrano l'inizio della storia di Gesù quasi interamente con parole desunte dall'Antico Testamento per dimostrare così, dal di dentro, ciò che accade qui come realizzazione della speranza di Israele, inserendola nel contesto di tutta la storia dell'Alleanza di Dio con gli uomini.

Così Maria viene caratterizzata come il resto santo d'Israele, come la vera Sion, su cui si erano concentrate le speranze nel corso delle devastazioni della storia. Stando al testo di Luca, con lei ha inizio il nuovo Israele, anzi, non solo incomincia con lei, ma lei stessa è l'intatta “Figlia di Sion” nella quale Dio pone il nuovo inizio.

Non meno densa di significato è la promessa centrale: “Lo Spirito Santo scenderà su di te… Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35). Andando oltre la storia dell'alleanza con Israele, la visuale si allarga qui alla creazione: nell'Antico Testamento lo Spirito di Dio è la sua potenza creatrice (Gen 1,2); se Dio manda il suo Spirito sono creati gli esseri viventi (Sal 104[103],30).

Dunque, ciò che ora accadrà in Maria è una nuova creazione: Dio, che ha chiamato l'essere dal nulla, pone in mezzo all'umanità un nuovo inizio; la sua parola si fa carne.

La nascita di Gesù dalla Vergine, della quale riferiscono i Vangeli, per gli illuministi d'ogni genere è stata sempre una spina nell'occhio.

Il mito della nascita miracolosa del bimbo redentore è, in effetti, diffuso in tutto il mondo. In esso si esprime una nostalgica aspirazione dell'umanità: il desiderio di innocenza e di purezza che la Vergine intatta incarna.

È probabile che anche Israele abbia conosciuto miti di questo tipo, come parrebbe indicare il testo di Is 7,14 «Ecco, la vergine concepirà...».

Se il testo andasse compreso a partire da tali origini significherebbe che il Nuovo Testamento avrebbe accolto, per questa via indiretta, le confuse speranze dell'umanità nella vergine madre; tale motivo primordiale della storia umana non è di certo assolutamente privo di importanza.

Ma i racconti extra-biblici di questo tipo sono profondamente diversi dal racconto della nascita di Gesù, sia nel loro vocabolario che nelle loro concezioni; la divergenza centrale sta nel fatto che, nei testi pagani, la divinità appare quasi sempre come una potenza fecondante, generatrice, ossia sotto un aspetto più o meno sessuale e quindi come 'padre' in senso fisico del bimbo redentore. Nulla di tutto ciò, come già abbiamo visto, nel Nuovo Testamento.

Il concepimento di Gesù è una nuova creazione, non una procreazione da parte di Dio, Dio non è il padre biologico di Gesù.

Gesù non è mezzo Dio e mezzo uomo, ma per la fede è sempre stato fondamentale il fatto che Gesù è interamente Dio e interamente uomo.

Il suo essere Dio non comporta una sottrazione al suo essere uomo: questa è stata la strada seguita da Ario e da Apollinare, i grandi eretici dell'antica chiesa. Contro di essi venne energicamente difesa l'intatta integrità della natura umana di Gesù, rifiutando così l'assimilazione del racconto biblico al mito pagano del semidio generato dalla divinità.

Infatti, la figliolanza divina, di cui parla la fede, non è un fatto biologico, bensì ontologico; non è un processo avvenuto nel tempo, bensì nell’eternità di Dio. (R)

 

Nato da vergine

Nel nostro mondo scientifico-industriale, dove alcuni miracoli tecnologici superano di gran lunga i miracoli biblici, la nascita verginale non può essere liquidata semplicemente richiamandosi a un miracolo compiuto contro tutte le leggi naturali?

Ma cosa dice la Scrittura a proposito di questo miracolo?

Anche il semplice lettore della Bibbia può constatare molto facilmente che nei racconti dell'infanzia si ha a che fare con una situazione del tutto diversa da quella della vita pubblica di Gesù: troppe cose capitano nei sogni, nei quali gli angeli vanno e vengono continuamente. Inoltre tra le due narrazioni dell'infanzia ci sono contraddizioni non armonizzabili.

La narrazione della nascita verginale, a mio avviso, non è il resoconto di un fatto biologico bensì l’interpretazione della realtà con l'ausilio di un simbolo originario. Un simbolo, carico di senso, del fatto che con Gesù Dio ha dato - alla storia del mondo e non soltanto alla vita della mia anima - un inizio veramente nuovo.

Proviamo quindi a collocare i testi biblici originali della nascita di Gesù nel contesto storico e ci troveremo di fronte a qualcosa come il nucleo di una teologia della liberazione.

Scopriremo così che mai si parla di una “notte silenziosa” e del “grazioso fanciullo riccioluto”; mangiatoia e fasce sono segni concreti di un mondo di umiltà e povertà. Il Magnificat di Maria, della “serva del Signore”, piena di grazia, annuncia polemicamente un sovvertimento dell'ordine gerarchico: umiliazione dei potenti ed esaltazione degli umili, sazietà per gli affamati e indifferenza per i ricchi.

E, infine, invece dell’illusoria pax romana, acquisita a prezzo di tasse elevate, escalation degli armamenti, pressione sulle minoranze e ansia per il benessere, viene annunciata “con grande” gioia la vera pax Christi, fondata sulla restaurazione delle relazioni interumane e segno dell'amore di Dio e della pace tra gli uomini.

Al salvatore politico e alla teologia politica dell'Impero romano, che giustificava ideologicamente la politica di pace imperiale, viene quindi contrapposta la vera pace, che può essere attesa soltanto là dove Dio viene onorato “nell'alto dei cieli” e la sua benevolenza si stende sugli uomini. (K)

 

Nato da Maria

Con queste parole, noi proclamiamo che al momento dell'Incarnazione del Figlio di Dio, al punto di confluenza dell'Antico Testamento nel Nuovo, c'è una donna, dalla quale nasce un figlio, anzi nasce il Figlio di Dio.

Il Verbo di Dio si fa uomo prendendo carne nel cuore e nel grembo di una donna.

Non possiamo credere nell'Incarnazione del Figlio di Dio senza credere, insieme, nella maternità di Maria.

Maria è la "madre di Gesù": lo è diventata acconsentendo alla Parola di Dio, quando ha detto all'angelo il suo “Eccomi”. Proprio per questo, in quanto è la madre del Figlio eterno di Dio fatto uomo, Maria è veramente “Madre di Dio".

Grazie a Maria, Gesù ha una vera nascita e la sua vita sulla terra comincia in modo simile a quello di tutti gli altri uomini. Con la sua maternità, Maria permette al Figlio di Dio di avere - dopo il concepimento straordinario ad opera dello Spirito Santo - uno sviluppo umano ed un inserimento normale nella società degli uomini.

Quella di Maria è una "maternità verginale": è quanto noi crediamo dicendo “nacque da Maria vergine”.

Ella - come ci dice l'intero insegnamento della Chiesa - è la "sempre vergine", in quanto è rimasta tale prima del parto, nel parto e dopo il parto.

Parlare di "maternità verginale" significa parlare di qualcosa che supera del tutto ogni comprensione e ogni possibilità umana.

Ma è proprio in questa compresenza di maternità e verginità in Maria che si rivela, una volta di più, la straordinarietà dell'intervento di Dio.

Siamo di fronte a una "novità assoluta", realizzata da Dio nella storia dell'umanità, e alla conferma che nella nascita di Gesù l'iniziativa assoluta rimane quella di Dio.

Nella storia della salvezza incontriamo diversi episodi di nascite prodigiose da donne sterili. In tutti quei casi, si tratta di grazie speciali che Dio concede per prepararsi un eletto in vista di una missione particolare.

Nel caso di Maria vergine, invece, Dio irrompe nella vita di una giovane donna con un dono totalmente inatteso e imprevedibile: il dono di una nascita da un grembo che è e rimane vergine e, quindi, non disponibile a generare.

Credere che Gesù “nacque da Maria vergine” significa affermare che non è più l'uomo che fa qualcosa con l'aiuto di Dio. È Dio stesso a intervenire e a porre un'azione creatrice che si qualifica come "nuova nascita". Mediante questo intervento, Dio si fa "sposo" della sua creatura.

Mentre confessa che Gesù è nato da Maria vergine, il cristiano non va alla ricerca di un Dio che protegga e assicuri i suoi beni, ma si apre all'incontro totalmente appagante con un Dio che riconosce e accoglie come il suo vero Bene, il grande Amore della sua vita, la sua somma Felicità. (T)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La figura di Maria è presente in tutte le nostre chiese. Quale immagine sentiamo più nostra: l’Immacolata Concezione o la Madonna col bambino? Perché?

•          Cosa ne pensiamo delle letture meno “tradizionali” del mistero dell’Incarnazione proposte sia da Kung che da Ratzinger? Generano solo dubbi o orientano ad una fede più matura?

•          La pace di Cristo annunciata da Maria nel Magnificat trova spazio nei nostri cuori e nella nostra vita?

 

11-UN DIO CHE SI PUÒ TOCCARE

Per questo bambino che l’intimorisce, Maria avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio.

Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me. Ha i miei occhi. La forma della sua bocca è la forma della mia. Mi assomiglia.

Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola. Un Dio bambino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci. Un Dio caldo che sorride e respira. Un Dio che si può toccare e che vive.

Jean-Paul Sartre

 

12-LA FIGLIA DI SION

Il significato rettamente inteso del segno divino costituito dalla nascita verginale indica il luogo teologico della pietà mariana.

In quanto vera “Figlia di Sion”, Maria è immagine della Chiesa, immagine dell'uomo credente, il quale non può giungere alla salvezza da se stesso in nessun altro modo, fuorché grazie al dono dell'amore, ossia mediante la grazia.

La parola con cui Bernanos fa terminare il suo Diario di un curato di campagna – “Tutto è grazia” - si è davvero fatta evento in Maria, la “piena di grazia” (Lc 1,28).

Ella non è contestazione o minaccia dell'esclusività della salvezza da Cristo, bensì rinvio a essa.

Essa è rappresentazione dell'umanità, la quale è tutta aspettativa e ha bisogno di questa immagine, tanto più necessaria quanto più essa corre il pericolo di dimenticare di attendere, per abbandonarsi al fare, il quale - per indispensabile che sia - non potrà mai riempire il vuoto che minaccia l'uomo quando non trova quell'Amore assoluto che gli dà senso, salvezza, ciò che è veramente necessario per vivere. (R)

 

13-PATÌ SOTTO PONZIO PILATO, MORÌ E FU SEPOLTO

Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire... potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,31. 38s.)

Ed egli, Dio, dimorerà tra di loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché tutte le cose di prima sono passate (Ap 21,3s.)

 

Quello che è posto davanti ai nostri occhi è un preciso fatto storico: la passione e la fine tragica di Gesù. (T)

 

Lo scandalo della croce

La laconica espressione “morì” non è solo la registrazione di un fatto. È anche la impietosa sottolineatura di uno “scandalo”. Colui che fu introdotto nella vita dalla potenza dello Spirito Santo ora patisce la morte.

Lo “scandalo” non consiste nel subire i colpi della lotta: ogni vero eroe, combattendo, sa portare il peso dei colpi che subisce. Lo “scandalo” consiste nella “contraddizione” che ha l'amaro sapore di una sconfitta: lui - l'autore della vita - sperimenta l'impotenza della morte.

Ed è proprio qui che si impone la domanda a cui non ci si può sottrarre: che ne è del suo essere figlio di Dio? Che ne è del suo aver riposto tutta la sua fiducia nel Padre? Non si può sfuggire. L'esperienza della morte si presenta sempre come una domanda radicale, che suscita o la più audace speranza o la più mera disperazione.

Queste considerazioni riemergono, con una drammaticità ancora più inquietante, nelle ultime parole di questo articolo del Credo: “e fu sepolto”.

Ridotto all’impotenza del cadavere, Gesù è relegato nel sepolcro, nello spazio dei morti. È messo da parte, è “gettato via”.

La croce è davvero il più radicale “segno di contraddizione” che possiamo incontrare, perché essa e sì scandalo, ma è soprattutto, e nello stesso tempo, il vessillo della nostra salvezza, la nostra unica speranza.

La morte di Gesù in croce non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze ma appartiene al mistero del disegno di Dio.

È la rivelazione più piena dell'amore di Dio, quale amore vissuto fino alla fine.

È, in una parola, “causa di salvezza eterna” per tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.

La croce è il vertice e il perfetto compimento della “missione” di Gesù, della sua totale obbedienza al Padre e del suo amore incondizionato agli uomini e si presenta come il gesto supremo di amore del Figlio di Dio per noi.

Ed è proprio in forza di questo amore che essa, da strumento di morte e di condanna, diventa luogo di vita e di salvezza.

Credere che Gesù “fu crocifisso” significa riconoscere di essere raggiunti e redenti dal suo amore e, nello stesso tempo affermare che solo chi vive nell'amore vive secondo la verità piena di se stesso e secondo la sua vocazione originaria. Sì, aver fede nella croce di Gesù vuol dire proclamare che ogni uomo è amato da Dio ed è chiamato ad amare.

Immolandosi in croce per amore, Gesù rivela nel modo più luminoso il volto di Dio che lo rivela come Dio “con” noi e “per” noi. (T)

 

Un Dio impotente?

Alcuni teologi cristiani, dopo la seconda guerra mondiale, richiamandosi a Dietrich Bonhoeffer, non di rado hanno voluto venire a capo della problematica della croce con la tesi di un “Dio sofferente”. Dio sarebbe “impotente e debole nel mondo”, e proprio così e soltanto così egli ci sarebbe vicino e ci aiuterebbe; soltanto il “Dio sofferente” ci potrebbe aiutare.

Uno sguardo alla Scrittura può smentire tali audacie speculative. Secondo l'Antico Testamento gli uomini gridano continuamente a Dio nella fiducia che egli ne ascolti l'invocazione e lamento, ma il loro gridare, soffrire e morire non diventa mai il gridare, soffrire e morire di Dio.

Anche secondo il Nuovo Testamento Gesù, il Figlio di Dio, grida a Dio, suo Padre, perché nella profondità del suo dolore si crede abbandonato da lui. Ma in nessun passo si dice che Dio grida a Dio.

No. Il teologo cristiano, che pensa biblicamente, non può aggirare l'affermazione: il messaggio, la parola della croce, secondo Paolo, è debolezza e stoltezza soltanto per i non credenti, mentre per i credenti essa è forza e sapienza di Dio (cfr. 1 Cor 1,18-31).

La croce non è il simbolo del “Dio che soffre”, “che grida” o addirittura “il simbolo del Dio che patisce lo scacco della morte”, bensì il simbolo dell'uomo che patisce lo scacco della morte.

Sulla croce - su questo punto tutto il Nuovo Testamento è concorde - non è morto Dio stesso, il Padre, ma il “messia” e il “Cristo” di Dio, l'Immagine, la Parola e il Figlio di Dio. Parliamoci chiaro anche come teologi: considerata in sé, la croce è un evidente fallimento, sul quale c'è poco da speculare.

Soltanto nella luce della resurrezione di Gesù alla vita si può fiduciosamente ammettere la segreta presenza di Dio nella sua manifesta assenza.

Ma chi è il soggetto della resurrezione? Naturalmente Dio stesso, che è un Dio dei vivi e non dei morti: il “Padre”.

Anzi, soltanto così, mediante l'assunzione di questo Figlio nella vita eterna di Dio, Dio si rivela ai credenti come il Dio solidalmente vicino a quest'unico Figlio (e quindi a tutti i suoi figli e figlie) persino nella sofferenza estrema e nella morte: come il Dio legato anche al nostro dolore e partecipe della nostra sofferenza (meritata o immeritata), come il Dio segretamente compassionevole e proprio per questo, alla fine, infinitamente buono e potente, sensibile alla nostra miseria e a ogni forma di ingiustizia. (K)

 

Dio e il male

Resta aperta, per tutti i credenti, la difficoltà di conciliare la presenza del male nel mondo con la bontà divina, il tema della teodicea.

Su questo punto credo sarebbe preferibile una teologia del silenzio.

Serve un altro atteggiamento di fondo. È una mia convinzione maturata nel corso di decenni, alla quale finora non ho trovato un'alternativa convincente: la sofferenza, il dolore immenso, innocente, privo di senso non si lascia comprendere teoreticamente - nell'ambito sia individuale sia sociale -, ma soltanto sopportare praticamente. Per cristiani ed ebrei il problema della teodicea può ottenere soltanto una risposta pratica.

Nel dolore estremo, privo di senso, gli ebrei, ma anche i cristiani, hanno presente la figura di Giobbe.

Ma al di là della figura (in ultima analisi immaginaria) di Giobbe, si impone per i cristiani la figura, realmente storica, del “Servo di Dio” sofferente e morente (cfr. Is 52,13-53,12).

La morte di Gesù ha senso soltanto dalla fede nella sua resurrezione a vita nuova mediante e con Dio. Soltanto in virtù di questa fede il Crocifisso, resuscitato alla vita eterna di Dio, è l'invito a confidare in un senso anche in mezzo a una sofferenza apparentemente priva di senso e a praticare in questa vita, sino alla fine, la sopportazione e la resistenza.

A noi credenti, di fronte all’enorme negatività presente nella nostra vita e nella storia universale è offerta teologicamente una via intermedia

Questa modesta via intermedia è la via dell'illimitata, incrollabile fiducia in Dio, una fiducia non irrazionale, ma perfettamente ragionevole - nonostante tutto: la via della fede in un Dio che rimane la luce nonostante l'abissale oscurità. “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39) - così l'apostolo Paolo, che ha scritto queste parole non in un impeto lirico, ma nell'amara esperienza del dolore. (K)

 

Dio ha immolato suo Figlio?

Molti libri di devozione propongono l'idea che la fede cristiana nella croce si raffiguri un Dio la cui giustizia spietata avrebbe preteso un sacrificio umano, l'immolazione del suo stesso Figlio. Perciò si voltano con terrore le spalle a una giustizia la cui oscura ira rende inattendibile il messaggio dell'amore. Per quanto diffusa sia un'immagine del genere, essa è falsa.

Al contrario, nella teologia della croce della Scrittura si esprime veramente una rivoluzione rispetto alle idee di espiazione e di redenzione presenti nella storia delle religioni non cristiane.

Quasi tutte le religioni ruotano attorno al problema dell'espiazione; nascono dalla consapevolezza che l'uomo ha della propria colpa di fronte a Dio e denotano il tentativo di superare questo senso di colpa, di cancellare la colpa mediante opere di espiazione che vengono presentate a Dio.

Nel Nuovo Testamento, invece, la situazione è quasi esattamente inversa. Non è l'uomo che si accosta a Dio e gli porta un dono compensatore, ma è Dio che viene all'uomo per dare a lui.

Il Nuovo Testamento non dice che gli uomini riappacificano Dio, come dovremmo propriamente attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che “è stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2 Cor 5,19). Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di nuovo: il punto di partenza dell'esistenza cristiana e il centro della teologia neotestamentaria della croce.

Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti per riconciliarsi con lui, ma va loro incontro per primo e li riconcilia a sé. In questo si mostra la vera direzione del dinamismo dell'incarnazione, della croce.

Per questo, nell'ambito cristiano, l'adorazione avviene in primo luogo nell'accoglienza riconoscente dell'azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi, a ragion veduta, eucaristia, cioè rendimento di grazie.

L’essenza del culto cristiano non sta, di conseguenza, nell’offerta di cose e nemmeno in una certa qual distruzione, come purtroppo dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente nei trattati teorici sul sacrifico della messa.

Il culto cristiano consiste nell’assoluta dedizione di amore, quale poteva attuare unicamente colui nel quale l’amore stesso di Dio si è fatto amore umano. Esso esige che noi accogliamo il dono dell’amore di Gesù Cristo che si fa garante per noi, lasciandoci così unire per divenire in lui e con lui veri adoratori. (R)

 

Passione d’amore

Il dolore della passione e della croce è risultato e manifestazione del dilatarsi di Gesù Cristo dal suo essere in Dio sino al baratro del “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Chi ha teso la sua esistenza in modo tale da essere contemporaneamente immerso in Dio e immerso nell’abisso della creatura da lui abbandonata, costui deve, per così dire, lacerarsi - egli è realmente crocifisso.

Con ciò dovrebbe ora essere chiaro anche che la croce non è importante in quanto somma di sofferenze fisiche, quasi che il suo valore redentivo stia nella maggior quantità possibile di tormenti. La Bibbia e la retta fede cristiana sono lontanissime da idee del genere. Non il dolore in quanto tale conta, bensì l'ampiezza dell'amore, che dilata l'esistenza al punto da riunire il lontano col vicino, da rimettere in relazione l'uomo abbandonato con Dio.

La croce è rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi bensì Dio e l’uomo. Ci svela chi Dio è come l’uomo è.

Il fatto che il vero Giusto, allorché apparve, sia diventato Crocifisso, colui che dalla giustizia fu consegnato alla morte, ci dice implacabilmente chi sia l'uomo.

Il giusto crocifisso è quindi lo specchio messo davanti all'uomo, nel quale egli si vede spietatamente riflesso.

La croce, però, non rivela soltanto l'uomo, ma rivela anche Dio: ecco Dio, tale da identificarsi con l'uomo, fin nel profondo di questo abisso, tale da salvarlo nell'istante stesso in cui lo giudica. Nell'abisso del fallimento umano si rivela l'abisso ancora più insondabile dell'amore divino. La croce è quindi veramente il centro della Rivelazione. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Come viviamo la Messa: come sacrificio di espiazione o come rendimento di grazie?

•          Perché Cristo è morto in croce: per espiare i nostri peccati o per donarci la vita eterna?

•          Cosa è per noi la croce: simbolo dell’umana sofferenza o segno dell’infinito amore di Dio?

•          Platone scrive che il destino del giusto è la croce: fino a che punto pratichiamo la giustizia?

 

14-LA TEORIA DELLA SODDISFAZIONE

Perché Cristo è morto in croce? Anselmo di Canterbury lo spiega così: a causa del peccato dell'uomo, che è stato un atto di ribellione contro Dio, l'ordine della giustizia è stato ferito e Dio offeso.

Siccome Dio è l'Infinito, anche l'offesa a lui fatta dall'umanità col peccato ha un peso infinito. Ora, il diritto in tal modo violato deve essere ripristinato, perché Dio è la Giustizia stessa. Ma corrispondentemente alla misura dell'offesa è necessaria una riparazione infinita. E l'uomo non è assolutamente in grado di offrirla.

E allora, l'ordine dovrà rimanere per sempre distrutto, l'uomo dovrà restare eternamente sprofondato nel baratro della sua colpa? No, perché Dio stesso lava l'ingiustizia, ma non (come potrebbe fare) accordandoci una semplice amnistia, la quale non può eliminare intrinsecamente l'accaduto, bensì subentrando al posto nostro.

L'infinito stesso – Gesù Cristo - si fa uomo e poi, in quanto uomo, appartenente alla stirpe degli offensori eppur sempre in possesso della forza capace di infinita riparazione negata al semplice uomo, offre la richiesta espiazione. Ecco la redenzione, che avviene interamente per grazia, ma al contempo interamente come ripristino del diritto.

È da mille anni che questa teoria condiziona le coscienze dei credenti. (R)

 

15-IL GIUSTO CROCIFISSO

La croce è rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci svela chi Dio è e come l’uomo è.

Nella filosofia greca ne abbiamo un singolare presentimento: l’immagine del giusto crocifisso, descrittoci da Platone. Il grande filosofo si chiede, nella sua opera sullo Stato, come dovrebbe andare, in questo mondo, a un uomo veramente giusto. E giunge alla conclusione che la giustizia di un uomo sarebbe davvero perfetta e provata solo allorché egli assumesse la sembianza dell’ingiustizia, perché soltanto allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma cerca la giustizia unicamente per se stessa.

Sicché, seconde Platone, il vero giusto deve essere in questo mondo un misconosciuto e perseguitato; anzi, Platone non esita a scrivere: “Direte quindi che, stando così le cose, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine, dopo tutto questo scempio, finirà per esser crocifisso… “.

Questo brano, scritto ben 400 anni avanti Cristo, continuerà a commuovere un cristiano. (R)

 

16-DISCESE AGLI INFERI

Nel Risorto anche la morte dell'uomo diventa una condizione di passaggio. È solo una fase di un movimento più vasto di "discesa-ascesa": da Dio e verso Dio.

 

Questo articolo di fede venne introdotto nella professione di fede della chiesa relativamente tardi, nella seconda metà del secolo IV.

Per la discesa di Gesù Cristo agli inferi non si può esibire nessun chiaro documento neotestamentario.

Questa mancanza è indubbiamente il motivo principale dell'ambiguità, che ancor oggi sussiste, di questo articolo di fede, al punto che le Chiese tedesche ne hanno mutato la traduzione ufficiale da “disceso agli inferi” a “disceso nel regno della morte”. (K)

 

Dio ci è sempre vicino

Non c'è situazione o condizione umana - anche la più contraddittoria, la più drammatica, la più disperata, la più apparentemente priva di senso - che non sia raggiunta da Dio, dal suo amore misericordioso.

Dio, prima di trasfigurare il nostro mondo con la sua potenza, ha voluto farci sapere che ci è misteriosamente accanto anche nelle situazioni più disperate, che ci allontanano da lui.

Credere che Gesù “discese agli inferi” è riconoscere e credere che la sua discesa nella dimora dei morti ha un valore salvifico, di redenzione: qui si compie, nella sua pienezza, il messaggio evangelico della salvezza.

L'opera redentrice di Cristo è per tutti, nessuno escluso, è anche per quelli che nei giorni della morte e sepoltura di Gesù erano già morti e giacevano negli "inferi", in attesa di essere presi per mano dal Signore e fatti risalire dagli inferi, per partecipare della sua risurrezione e della sua gloria. Gesù è davvero l'unico e universale Salvatore di tutto il genere umano.

Gesù non è disceso agli inferi per rimanervi, ma per "risalire dagli inferi" e per risalirvi non da solo, ma in compagnia degli uomini da lui salvati e redenti.

In questa luce, anche la morte dell'uomo assume un aspetto nuovo. In quanto viene inserita nel movimento dell'abbassamento di Gesù, essa assume la figura di una condizione di passaggio, di una condizione segnata da provvisorietà. È solo una fase di un movimento più vasto di "discesa-ascesa": da Dio e verso Dio. (T)

 

Una possibilità di salvezza

Il Cristo risorto ha predicato ai morti, soprattutto ai patriarchi d'Israele, per condurli con sé nel regno dei cieli, nel regno di Dio.

Il passaggio attraverso il regno dei morti va inteso non come un viaggio della sofferenza, come un estremo atto di umiliazione, ma come un viaggio trionfale e il primo atto della glorificazione.

La discesa agli inferi può perciò essere concepita come possibilità di salvezza per quanti non sono stati raggiunti dalla predicazione cristiana, anzi, per tutti i defunti. (K)

 

Il silenzio di Dio

L'articolo di fede sulla discesa del Signore agli inferi ci rammenta come della rivelazione cristiana non faccia parte solo la parola di Dio, ma anche il silenzio di Dio.

“Discese agli inferi”. Cosa accade quando uno muore, ossia quando entra nel regno della morte?

Nessuno sa realmente che cosa succeda, perché tutti viviamo al di qua della morte, non abbiamo alcuna esperienza della morte. Possiamo, però, forse tentare di avvicinarci proprio partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce.

In quest'ultima preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell'Orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono.

Ora qui viene alla luce, in definitiva, semplicemente l'abissale solitudine dell'uomo: dell'uomo che nel suo intimo è solo. Questa solitudine è la più stridente contraddizione con la natura dell’uomo che ha bisogno, per essere, degli altri.

La paura che ne deriva non può esser superata con l’intelletto, ma soltanto grazie alla presenza di una persona che gli voglia bene.

La discesa di Gesù agli inferi ci conferma che Egli ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione in questo abisso del nostro estremo abbandono. Là dove nessuna voce è più in grado di raggiungerci, lì egli è presente.

Con ciò l'inferno è vinto, o - per essere più esatti - la morte, che prima era l'inferno, ora non lo è più, ora l'amore abita al centro di essa. (R)

 

Resurrezione e re-incarnazione

In tutte le religioni di origine indiana la reincarnazione è un dogma, mai dimostrato, ma accettato a priori.

Gli argomenti a favore della reincarnazione ruotano intorno alla questione tormentosa della giustizia in un mondo in cui i destini della vita umana si presentano distribuiti in maniera così spaventosamente disuguale e ingiusta.

A mio avviso la dottrina della reincarnazione tende a misconosce anche il mistero della divinità, ritenuta incapace di distribuire e valutare in maniera giusta e misericordiosa destini e sofferenze.

La dottrina della reincarnazione ha molti seguaci anche a causa di due carenze della dottrina tradizionale cristiana. La prima riguarda la scomparsa della fede tradizionale nel “purgatorio”, nella quale viene cancellata ogni colpa, prima che l'uomo possa entrare nella terza vita, eterna.

Così facendo non ci si è preoccupati del fatto che l'entrare nell'eternità non può essere la stessa cosa per l'assassino e le sue vittime, se almeno alla fine dev'esserci una situazione di giustizia.

La seconda riguarda il modo con cui la teologia cristiana presenta vita eterna, l'”eternità”.

Tradizionalmente questa vita viene presentata in maniera così noiosa e statica, così priva di ogni dinamismo e di ulteriore sviluppo da non essere attraente.

Se c'è un nucleo valido della dottrina della reincarnazione, è questo: la vita eterna è vita reale e non esclude, ma include inimmaginabili ulteriori sviluppi nell'ambito, non della finitezza, ma dell'infinitezza. (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Gli Inferi sono anche quelle situazioni della vita che noi giudichiamo senza possibilità di redenzione. Quali sono?

•          Come ci comportiamo quando la solitudine ci pesa? Come e dove troviamo conforto?

•          La reincarnazione: è meglio o peggio della resurrezione? Perché in parecchi ci credono?

 

17-IL TERZO GIORNO RISUSCITÒ DA MORTE

Soltanto l’amore di Cristo può fondare la nostra immortalità. Tuttavia, resta fermo a questo riguardo che il modo della nostra immortalità dipenderà dal nostro modo di amare.

 

Dopo quelli della nascita e dello scandalo della croce, inizia ora il terzo momento del passaggio centrale del "Credo", nel quale ci si sofferma sul mistero di Gesù Cristo. È il momento della glorificazione.

I "tre giorni" esprimono il tempo breve della prova, quell'attimo in cui il giusto che ha confidato in Dio si sente abbandonato da lui, prima di sperimentarne di nuovo l'intervento salvatore. (T)

 

La nostra speranza

La risurrezione, operata da Dio, non è il lieto fine per l'eroe che è riuscito a scampare alla prova più radicale. È, piuttosto, la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato e della verità della divinità di Gesù. Nella risurrezione la morte di Gesù appare come offerta sacrificale, ispirata da amore, che il Padre accoglie e ratifica proprio facendolo risuscitare.

Sì, Cristo è risorto! Questo è il fatto che fonda tutta la nostra fede: un fatto "storico", reale, documentato e documentabile e, insieme, un "mistero" che trascende la nostra umana comprensione ed esperienza.

La risurrezione di Cristo è il contenuto della nostra fede e, nello stesso tempo, è il motivo per cui crediamo. Se non fosse vero, la nostra fede e la nostra speranza sarebbero vane.

Proclamando la nostra fede nella risurrezione di Gesù, affermiamo che in lui, il Crocifisso risorto, si è realizzata la redenzione dell'umanità, è riconoscere che il cristianesimo è gioia e che la Pasqua del Signore è il fondamento più solido e la causa più vera della speranza dell'uomo e del mondo.

Nella Pasqua di Cristo ha finalmente inizio quella vita per la quale l’uomo è stato creato e si inaugura la rigenerazione dell’umanità. (T)

 

Come si risorge

La fede in una vita dopo la morte era un'antichissima convinzione israelitica. Ma per secoli ci si era immaginata questa vita come un'esistenza umbratile, triste, in un “mondo sotterraneo” (sheol).

Solo relativamente tardi fa la sua comparsa la fede in una vita nuova dopo la morte: Dio risuscita i morti a nuova vita. Il più antico documento della Bibbia ebraica in favore di questa resurrezione a una vita nuova, eterna, si trova nel libro di Daniele del secolo I.

Con l'espressione “resurrezione” qui non s'intende mai - come per esempio nell'ellenismo - soltanto un'immortalità dell'“anima” umana, bensì, in conformità alla concezione ebraica dell'uomo come unità psico-somatica, una vita nuova dell'intera persona presso Dio.

La resurrezione ad opera di Dio di Gesù, che è il fondamento della fede dei primi discepoli e discepole, è coerente con la fede di Israele.

Secondo le testimonianze della Scrittura morte e resurrezione non eliminano l'identità della persona, ma la conservano in una forma nuova irrappresentabile, in una dimensione totalmente diversa.

A noi uomini di oggi, con una mentalità scientifica, si deve parlar chiaro: perché l'identità della persona rimanga conservata, Dio non ha bisogno dei resti corporei dell'esistenza terrena di Gesù. Risorge non il sostrato, per principio continuamente mutevole, o gli elementi di questo determinato corpo, ma all'identità della medesima immutabile persona. (K)

 

Forte come la morte è l’amore

La professione di fede nella risurrezione di Gesù Cristo costituisce per i cristiani l'espressione della certezza che è vera quella parola che sembrerebbe solo un bel sogno: “L'amore è forte come la morte” (Ct 8,6).

L’uomo fa esperienza di come l'amore aneli all'infinito, aspiri all'eternità, ma si trovi in realtà imprigionato nel mondo della morte.

L'uomo, naturalmente, cerca di essere in altri, per restare attraverso di essi e in essi nella terra dei viventi. Due vie, soprattutto, sono state tentate. La prima è quella di sopravvivere nei propri figli. Ecco perché, nei popoli primitivi, il celibato e la mancanza di figli vengono considerati come la peggiore delle maledizioni.

La seconda è legata alla propria fama, alla propria celebrità, che dovrebbe renderlo veramente immortale, facendolo sopravvivere attraverso il tempo nella memoria degli altri.

Ma, in entrambi i casi, il tentativo di procurarsi immortalità mediante l'essere-in-altri, fallisce perché ciò che permane non è lui, bensì solo una sua eco, un'ombra. In altre parole, l’Ade, lo Sheol, il regno delle ombre.

Ora, se le cose stanno così, soltanto uno potrebbe veramente offrire stabilità: colui che 'è', che non è soggetto al divenire e non passa: il Dio dei viventi. Egli non conserva solo l'ombra e l'eco del mio essere, perché io stesso sono suo pensiero.

“Gesù è risorto”. Questa formulazione indica che l'amore totale di Gesù per gli uomini, che lo ha condotto alla croce, trova compimento nel totale passaggio al Padre e in esso diviene più forte della morte, in quanto esso è allo stesso tempo totale essere-conservato da lui.

È l'amore che genera immortalità, e l'immortalità scaturisce unicamente dall'amore. Questa affermazione comporta poi anche che colui che ha amato per tutti sia fondamento di immortalità per tutti. È precisamente questo il senso dell'affermazione biblica, secondo cui la sua risurrezione è la nostra vita. L'argomentazione, alla prima così singolare per la nostra sensibilità, sviluppata da san Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi, diventa ora comprensibile a partire da questo: se egli è risorto, anche noi risorgeremo, perché l'amore è più forte della morte; se invece egli non è risorto, non risorgeremo neppure noi, perché allora è chiaro che la morte ha l’ultima parola (cfr 1Cor 15,16ss).

Poiché si tratta di un'affermazione di centrale importanza, cerchiamo di interpretarla in un modo ancora diverso: o l'amore è più potente della morte, oppure non lo è. Se in Gesù esso è divenuto così forte, lo è divenuto proprio in quanto amore per gli altri.

Ciò significa che soltanto il suo amore, il quale coincide con la potenza vitale e amorosa di Dio, può fondare la nostra immortalità. Tuttavia, resta a questo riguardo fermo che il modo della nostra immortalità dipenderà dal nostro modo di amare.

A ciò va aggiunta un’altra considerazione. La vita del Risorto non è analoga alla nostra vita attuale, bensì vita nuova, diversa, definitiva, vita che ha superato lo spazio della morte, propria della vicenda biologica, spazio che qui è stato oltrepassato da una potenza superiore.

Infatti, i racconti neotestamentari della risurrezione ci fanno chiaramente conoscere come la vita del Risorto non si svolga nell'ambito della vicenda biologica, ma fuori e sopra di essa.

Ecco perché gli incontri con il Risorto sono 'apparizioni', ecco perché non viene riconosciuto dai suoi migliori amici. È riconosciuto solo quando egli apre loro gli occhi e quando il cuore si lascia aprire.

Per la stessa ragione torna molto difficile agli stessi vangeli descrivere gli incontri con il Risorto; quando ne parlano, non fanno che balbettare, e sembrano contraddirsi nel presentarceli.

Essi attestano un farsi vicino di Gesù che non è venuto dal cuore dei discepoli, ma è accaduto loro dal di fuori, si è imposto contro i loro dubbi e ha dato loro certezza: Il Signore è veramente risorto. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Crediamo nella resurrezione di Cristo? Crediamo nella nostra resurrezione?

•          L’amore può essere più forte della morte. Come sta di salute la nostra capacità di amare?

•          In quali occasioni, nella nostra vita, abbiamo avuto la sensazione di aver incontrato il Risorto?

•          Come mai la parola sacrificio è così presente nelle nostre liturgie?

 

18-SALÌ AL CIELO

Il "cielo" è il simbolo della vita liberata dal male e dalla morte e totalmente dedicata a Dio, è la meta della nostra esistenza.

 

A differenza della discesa agli inferi, dell’ascensione di Gesù ne parla l’evangelista Luca.

 

Ascensione, ascensioni

Come va intesa l'ascensione al cielo? Nella Bibbia ebraica se ne parla a proposito di Elia e di Enoch, ma si racconta di un'ascensione al cielo anche di altri grandi dell'antichità, come Romolo e Alessandro Magno e Apollonio di Tiana. Tali ascensioni consistono di un “rapimento” del grande eroe, di un suo scomparire dalla terra. Di solito una nube copre molto presto il rapito - segno della vicinanza e insieme dell'inaccessibilità di Dio.

Da tutto ciò si deduce che la storia lucana di un'ascensione al cielo non è un'invenzione cristiana, ma un modello rappresentativo familiare agli uditori di allora.

Per Luca l'ascensione di Gesù al cielo non va compresa e celebrata come un secondo “fatto salvifico” dopo la Pasqua, ma come un aspetto particolarmente evidenziato del medesimo evento pasquale. (K)

Quindi l'espressione “salì al cielo” non va intesa come l'affermazione di un trasferimento spaziale di Gesù nel cielo, inteso in senso empirico. In essa leggiamo, piuttosto, l'asserzione del definitivo ingresso di Gesù nella sfera invisibile dello spazio vitale di Dio, cioè nella pienezza della comunione con il Padre. Il "cielo" è il mondo proprio di Dio, il suo modo di essere. (T)

 

Essere presso Dio

"Salire al cielo" significa "essere presso Dio". Noi crediamo che, salendo al cielo, Gesù è entrato per sempre in una vita completamente nuova e diversa, ha fatto il suo ingresso definitivo nell'ambito della vita di Dio ed è stato sottratto alla morte una volta per sempre.

Dicendo che Gesù “sali al cielo”, affermiamo, nello stesso tempo, che "il cielo" esiste davvero; che la vita eterna non è affatto un mito o una chimera.

Gesù sale al cielo non solo per se stesso, ma anche per noi, per portare noi nella gloria del Padre.

In forza della risurrezione e dell'ascensione di Gesù il "cielo", ossia il luogo da cui Dio viene a visitare e salvare il suo popolo, diventa ora una dimora per l'umanità, luogo di incontro tra Dio e l'uomo.

Il "cielo" diventa il simbolo della vita liberata dal male e dalla morte e totalmente dedicata a Dio, diventa la meta vera dell'esistenza dell'uomo.

Ed è così che la nostra vita si presenta come un pellegrinaggio verso la casa del Padre, nella certezza che, dopo questa vita, è Dio stesso ad essere la nostra vera patria. (T)

 

Terra e cielo

Il mondo della Bibbia è un mondo per noi mitico, una cosmologia a tre strati: il cielo, la terra e sottoterra, il regno dei morti. In questo quadro sembrano inserirsi tanto l’ascensione al cielo quanto la discesa agli inferi di Gesù.

In realtà, più che di tre piani cosmici, si tratta di tre dimensioni metafisiche.

L'affermazione di fede ci spinge a guardare sin nell'abisso della morte abbracciando quindi anche la dimensione dell'inferno. L'ascensione di Cristo al cielo ci porta in contatto - con tutti gli altri uomini - con l'amore divino.

Il termine 'cielo' non va inteso come un luogo eterno, ultramondano, ma nemmeno solo come una regione metafisica eterna.

il cielo non è un luogo che prima dell'ascensione di Cristo sarebbe stato sbarrato da un positivistico decreto punitivo di Dio, per venir poi un giorno altrettanto positivisticamente riaperto. La realtà 'cielo' nasce, invece, in primo luogo dall’intimo incontro fra Dio e l’uomo.

Il cielo è quindi quel futuro dell’uomo e dell’umanità che essa non può darsi da sé ma che solo gli può dare Dio, in Cristo.

Se l’ascensione del Signore è determinante per comprendere l'aldilà dell'esistenza umana, non è meno determinante per comprenderne l'aldiquà, ossia come esistenza terrena e esistenza ultraterrena possano conciliarsi, quale sia la possibilità e il senso dei rapporti umani con Dio. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Riusciamo a immaginare l’ascensione di Cristo in modo diverso dall’iconografia tradizionale?

•          Il ‘cielo‘ prima di Gesù era sbarrato. Abbiamo mai sentito questa affermazione? La condividiamo?

•          Ha senso credere nella vita eterna? L’uomo se la potrà mai dare da solo?

•          Meglio una vita eterna in Dio o una vita eterna umana?

 

19-SIEDE ALLA DESTRA DEL PADRE

il Crocifisso vive e regna per sempre presso Dio come pegno e speranza per noi.

 

Con l’intronizzazione di Gesù alla destra del Padre, siamo al centro del Vangelo e della nostra fede. Qui il mistero dell'Incarnazione - con la quale Gesù è disceso dal cielo - raggiunge il suo coronamento. Qui si rivela la assoluta e totale signoria di Gesù. Qui si inaugura il tempo della Chiesa. (T)

 

Dove si trova il Risorto?

La risposta a questa domanda i primi cristiani se la sono data soprattutto con una parola del Salmo, che è entrata nel Simbolo apostolico: Egli “siede alla destra del Padre”.

In effetti, nessuna proposizione della Bibbia ebraica viene citata o variata nel Nuovo Testamento più del primo versetto del Salmo 110: “Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra”.

Con ciò non si intende una “comunione di essenza”, bensì - questo era il massimo che poteva dire un ebreo in quanto monoteista – “una comunione di trono” del Gesù risorto con Dio suo Padre, sul “trono della gloria”, sul “trono” di Dio stesso.

Fin dall'inizio questo è presente in tutte le testimonianze, pur in mezzo a tutti i contrasti e persino alle contraddizioni della tradizione: il Crocifisso vive e regna per sempre presso Dio - come pegno e speranza per noi. (K)

 

La signoria di Dio

Sedendo alla destra di Dio, Gesù acquista e condivide la sovranità stessa di Dio, la sua signoria universale. Viene finalmente inaugurato il suo regno di Messia e Salvatore.

In tal senso, Gesù è il traguardo che decide e orienta il cammino, è la metà a cui tendiamo e a cui Dio vuole condurre tutte le cose.

Ma il "sedere alla destra" indica anche una "presa di possesso". In Gesù sperimentiamo la signoria di Dio che domina ogni situazione della vita.

La sua è una signoria di amore, che dice una presenza e una vicinanza intense e feconde. Proprio perché “siede alla destra di Dio”, Gesù è con noi.

È e sarà sempre con noi, poiché gli è stato dato ogni potere in cielo e in terra.

Gesù glorificato, quindi, "prende possesso" di tutta la realtà, è "Signore", per poterci meglio servire, per essere più vicino a noi e aiutarci così ad aprire la nostra esistenza alla gloria del Padre. (T)

 

L’eternità di Dio

Nel contesto di questo articolo di fede si pone la questione di come esistenza terrena e esistenza ultraterrena possano conciliarsi, quale sia la possibilità e il senso dei rapporti umani con Dio.

La mentalità odierna si lascia per lo più guidare dall'idea che l'eternità sia immutabilità: Dio ci appare quasi prigioniero del suo disegno eterno. In lui, 'essere' e 'divenire' non si mischiano affatto.

Di conseguenza, l'eternità viene da noi intesa in senso meramente negativo come a-temporalità, come qualcosa di diverso rispetto al tempo, che quindi non può influire sul tempo. perché in tal modo cesserebbe addirittura di essere immutabile, diventando anch'essa tempo.

L'eternità, però, non è ciò che è più antico, che esisteva prima del tempo, ma è il totalmente Altro, ciò che si rapporta a ogni tempo che passa come il suo oggi.

Essa non è a-temporalità, bensì potenza nel tempo. In quanto 'oggi' contemporaneo a ogni tempo, essa può anche agire dentro ogni tempo.

L'incarnazione di Dio in Gesù Cristo non è altro che l'ultima concretizzazione della potenza di Dio nel tempo.

La sua potenza nel tempo ci sta davanti, per così dire, corporalmente, in lui.

In Gesù noi esseri nel tempo possiamo parlare a uno nel tempo, a un nostro con-temporaneo; in lui veniamo però in contatto con l'Eterno, perché egli è tempo con noi ed eternità con Dio.

Dio non è prigioniero della sua eternità: in Gesù egli ha tempo per noi, e Gesù è così davvero “il trono della grazia” al quale, in ogni tempo, possiamo “accostarci pieni di fiducia” (Eb 4,16). (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          La parola ‘trono’ quali idee ci suggerisce? Che tipo di re è Cristo?

•          La Chiesa come manifesta la regalità di Cristo?

•          Come ci immaginiamo la vita eterna? Noia infinita o qualcosa di totalmente Altro?

•          Noi creature siamo schiave del tempo, Dio è invece il padrone del tempo. Quanta fiducia ci dà questa definizione?

 

20-DI LÀ VERRÀ...

L’elemento del giudizio è parte integrante a costitutiva della fede cristiana.

Sì, perché Gesù, che sta alla destra del Padre, è anche “giudice”. (T)

 

La parusia

Il Signore ritornerà. Questo suo secondo, definitivo “venire” è qualificato dal Nuovo Testamento come “parusia”.

Professando la nostra fede nel Signore che “verrà”, noi crediamo che la storia non è un vagare senza senso, senza meta e senza termine. Crediamo che c'è un termine per la storia e per ogni uomo.

Il testo del "Credo" specifica "da dove" il Signore “verrà a giudicare i vivi e i morti”. Verrà “di là”: "dal cielo" al quale era salito, dalla sua comunione con Dio.

Gesù verrà dal cielo per estendere a noi la sua partecipazione alla gloria del Padre.

Ci viene detto "da dove", ma non ci viene detto "quando" il Signore verrà. Questa venuta escatologica può compiersi in qualsiasi momento.

La venuta gloriosa di Cristo è per il credente oggetto di speranza. È la grande speranza escatologica del ritorno del Signore. (T)

 

La fine del mondo

Crediamo che il ritorno del Signore come giudice sarà accompagnata dalla ‘fine del mondo’.

Questo, della fine del mondo, è un concetto che l’uomo moderno considera arcaico, mitico.

In realtà, nella Bibbia, cosmo e uomo sono realtà profondamente legate tra loro. Per la Scrittura non è concepibile né una vita umana staccata dal mondo, né un mondo senza gli uomini.

Alla luce degli insegnamenti di Teilhard de Chardin, l’idea della fine del mondo rappresenta il convergere di antropologia e cosmologia nella cristologia definitiva.

Infatti, cosmo e uomo, saranno una cosa sola sono grazie alla complessificazione in quella realtà più grande che è l’amore, il quale supera e comprende il biologico.

Ciò significa, in senso positivo, che il cosmo è movimento, che non solo in esso c'è una storia, ma che è esso stesso storia: esso non forma solo lo scenario della storia umana, ma già prima di essa e insieme a essa è 'storia'. In definitiva si dà un'unica storia complessiva del mondo, la quale, pur con i progressi e i regressi che presenta, mantiene però una direzione complessiva e procede 'in avanti’.

La fede nel ritorno di Gesù Cristo e nel compimento del mondo in esso si potrebbe, quindi, spiegare come la convinzione che la nostra storia cammina verso un punto Omega.

Per Teilhard de Chardin l’Omega del mondo è una persona, un singolo, è Cristo.

Ma lo stadio finale del mondo non è il risultato di un corso naturale, ma il risultato di una responsabilità fondata sulla libertà.

Perciò il ritorno del Signore non è soltanto salvezza, ma anche giudizio. (R)

 

21-VERSO IL PUNTO OMEGA

 

Secondo Teilhard de Chardin l’universo non può considerarsi in modo statico e definito una volta per tutte, ma è necessario ammettere un suo progressivo cammino, cioè una sua evoluzione, anche strutturale.

Questo cammino evolutivo, intuitivamente rappresentato come un segmento orientato che - avendo la sua origine all’inizio del tempo e della storia - tende ad un punto finale di compimento; è come un fuso, chiuso alle sue due estremità. I due estremi del fuso sono, ovviamente, i due estremi della storia.

Il punto di partenza è costituito da un’unità di tipo materiale e mentre quello di arrivo è un’unione di tipo psichico, personale.

Questa meta finale, per l’autore, è il punto Omega, definito così perché risulta essere l’ultimo atto del cammino evolutivo, come omega è l’ultima lettera dell’alfabeto greco.

Questo cammino evolutivo permette all’universo di progredire non solo a livello esteriore – con l’evoluzione, la formazione e la distruzione, di pianeti e corpi celesti, oppure con l’evoluzione di diverse forme di vita –, ma anche al suo “interno”.

L’evoluzione, cioè, permette all’universo di passare da un mondo puramente materiale, ad uno “spirituale”, caratterizzato, tra le altre cose, da una qualità di esistenza migliore rispetto alla prima, senza la necessità di opporre, obbligatoriamente tra di loro, questi due mondi.

Per Teilhard de Chardin l’uomo rappresenta il tramite attraverso cui la materia si è composta con la realtà spirituale, è il “fenomeno umano”.

Lo realtà spirituale è la capacita dell’uomo di riflettere su se stesso, è la sua coscienza.

La coscienza è l’elemento che permette all’universo di fare quel passo ulteriore verso il compimento della sua evoluzione; che permette, cioè, allo spirito di compiersi nel personale.

E allora, per l’autore, “persona”, “centro”, “coscienza” e “spirito” diventano praticamente dei sinonimi. E con queste identità, allora, egli può fare il suo passaggio finale, integrando, insieme al “fenomeno umano”, anche il suo punto di approdo definitivo: il Cristo-universale.

Un lui, punto Omega della storia, l’unificazione delle coscienze dei singoli non verranno annullate, ma sostenute e unificate senza confusione.

Antonio Galati, Il “credo” di Teilhard de Chardin sull’evoluzione dell’universo. Theologica leoniana 4 (2015)

 

22-... A GIUDICARE I VIVI E I MORTI

Credere nel "giudizio" ci impegna a considerare l'incontro con Cristo come "un caso serio", anzi come "il caso serio" della nostra vita.

 

La reciproca e definitiva relazione tra noi e il Risorto non si realizza in modo automatico e anonimo, come un avvenimento inevitabile; si presenta, piuttosto, come un'offerta fatta a tutti e a ciascuno, come un dono proposto alla libertà dell'uomo e, dunque, come una sfida alla nostra responsabilità. (T)

 

Accogliere o meno il dono

Di fronte a questa offerta e a questo dono, la libertà dell'uomo è chiamata a una scelta responsabile: o accogliere il dono o rifiutarlo.

Accogliere il dono vuol dire riconoscere con gratitudine che Gesù Cristo è la verità dell'uomo: lui solo svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione.

E proprio nel riconoscimento di questo profondo e intrinseco dinamismo della libertà che il ritorno del Signore si presenta come “giudizio”.

Si, Gesù è anche il "nostro giudizio".

Lo è ora, mentre la nostra libertà cammina e si costruisce. Lo è al momento della morte, quando la libertà conclude il suo cammino di accoglimento o di rifiuto dell'assoluto umano di Cristo.

Lo è al momento in cui la storia si conclude.

In questo senso, il ritorno del Signore e il relativo incontro con lui possono assumere anche la forma del "castigo", ossia di una "autoesclusione" dalla relazione di piena e totalizzante comunione con il Risorto, che lo stesso Gesù viene ad offrirci.

È il "non-senso" di un'esistenza che assolutamente ha deciso di porre il vero e il giusto al di fuori di Gesù, dove il vero e il giusto non possono esistere.

Il "giudizio" rimanda a una relazione reciproca, anzi ha la forma del riconoscimento reciproco. (T)

 

Un caso serio

Abbiamo visto che il riconoscimento del Risorto non è da parte nostra sempre esplicito e immediato. C'è, tuttavia, un atteggiamento che lo esprime e lo incarna. È l'atteggiamento verso il prossimo a rivelare l'accoglienza o il rifiuto dello stesso.

C'è un rapporto strettissimo tra riconoscimento di Gesù e accoglienza dei fratelli più piccoli e bisognosi, occorre perciò vigilare sui rapporti, perché nelle relazioni con i fratelli si gioca la piena realizzazione della reciprocità paterno-filiale.

Credere nel "giudizio" ci impegna a considerare l'incontro con Cristo come "un caso serio", anzi come "il caso serio" della nostra vita.

Non si può credere che Gesù “di là verrà a giudicare i vivi e i morti” e vivere un cristianesimo di parole, all'insegna del compromesso, della tiepidezza e della mediocrità. (T)

 

La fine dei tempi

Se si prende sul serio il messaggio biblico, ci si deve confrontare con la possibilità della fine di questa terra e di questo cosmo. Nella Bibbia non aveva già il Deutero-Isaia annunciato, durante l'esilio babilonese, la dissoluzione del cielo e della terra? E nel Trito-Isaia, dopo l'esilio babilonese, ci viene promesso addirittura un nuovo universo: “Ecco, io creo un nuovo cielo e una nuova terra” (Is 65,17).

Oggi anche la maggior parte dei cosmologi muove dall'idea che il nostro mondo sia tutt'altro che stabile, immutabile o addirittura eterno.

Controversa è al massimo la questione se l'espansione dell'universo, iniziata con il big bang, prosegua in maniera duratura oppure pervenga a una stasi, cui farà di nuovo seguito una contrazione.

Su questo tema neppure il teologo dispone qui di un sapere privilegiato. Egli però può interpretare le immagini della fine del mondo. Le enunciazioni bibliche sulla fine del mondo sono una testimonianza di fede in favore del compimento dell'opera di Dio nella sua creazione.

Secondo la Bibbia stessa, la fine ha due aspetti: cessazione del vecchio, del caduco, dell'imperfetto, del cattivo e insieme compimento mediante qualcosa di nuovo, di eterno, di perfetto; perciò si parla di una terra nuova e di un cielo nuovo.

In questo contesto l'idea di un giudizio universale alla fine dei tempi per la fede cristiana continua a essere una fede nel ritorno di Gesù come giudice.

(K)

 

Dies irae o Maran atha?

Questa definizione del Simbolo significa che nessuno, all'infuori di Cristo, alla fine ci giudicherà. E significa ancora che l'ingiustizia del mondo non ha l'ultima parola, perché l’amore si realizza solo salvaguardando il diritto.

Il vero amore eccede il diritto, è sovrabbondanza che va oltre il diritto, ma mai distruzione del diritto, che deve essere e rimanere la forma fondamentale dell'amore.

Talvolta l’articolo sul giudizio ha assunto nella coscienza cristiana una forma tale da portare in pratica alla distruzione dell'autentica fede nella redenzione e della promessa della grazia. Come esempio si adduce sempre il profondo contrasto fra il Maran atha e il Dies irae.

Il cristianesimo primitivo, con la sua invocazione “Vieni, Signore nostro” (Maran atha), ha sempre interpretato il ritorno di Gesù come un evento colmo di speranza e di gioia.

Viceversa, per il cristiano del Medioevo quel momento assumeva l'aspetto del terrificante 'giorno dell'ira' (Dies irae), dinnanzi al quale l'uomo sarebbe dovuto sprofondare nel pianto e nello spavento.

Ora, in una visione del genere, il cristianesimo appare praticamente ridotto a moralismo, risultando così privato di quel respiro di speranza e di gioia che è la sua più tipica espressione vitale.

Invece, colui che giudica non è Dio, l'Infinito, l'Ignoto, l'Eterno. Egli ha affidato il giudizio a uno che, in quanto uomo, è nostro fratello. A giudicarci non sarà un estraneo, bensì colui che già conosciamo tramite la fede. Il giudice non ci verrà incontro come il totalmente Altro, bensì come uno di noi, che conosce l'essere-uomo dal di dentro e ha sofferto.

È in questo senso che dobbiamo interpretare questo articolo del Credo. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          L’amore per il prossimo: che differenza c’è tra la pratica di chi crede e quella di chi non crede?

•          Se non ci sono differenze allora a cosa serve la fede?

•          Quando dobbiamo temere il giudizio di Dio alla fine della nostra vita?

•          Nei nostri giudizi sul prossimo ci comportiamo come fossimo dio o come creature?

 

IL NOSTRO DESTINO FINALE

Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore. San Giovanni della Croce

 

Il giudizio comporta una sentenza. Anche se il giudizio sarà basato sull’amore non ignorerà i principi del diritto.

Muovendo dai Vangeli la tradizione della Chiesa ha individuato tre esiti a seguito di questo giudizio: il paradiso, il purgatorio e l’inferno.

 

23-L’INFERNO

L’inferno è espressione del male, che è presente tanto nella storia universale quanto nella vita del singolo individuo.

Gesù, benché sia vissuto in un'epoca in cui la credenza nei demoni era assai diffusa, non lascia trasparire nulla di un dualismo di provenienza persiana, in cui Dio e il diavolo combattono sullo stesso piano per il possesso del mondo e dell'uomo. Egli non predica il messaggio minaccioso della sovranità di Satana, bensì quello gioioso della sovranità di Dio.

In Gesù, quindi, la cacciata dei demoni non significa affatto rafforzamento del loro potere; essa è piuttosto un esempio della sdemonizzazione dell'uomo e del mondo, in vista della liberazione finale perché Il regno di Dio è una creazione buona.

L’aver preso "congedo" dal "diavolo" non comporta automaticamente prendere congedo anche dall’inferno.

Gesù di Nazareth non è stato un predicatore dell'inferno, per quanto egli abbia parlato dell'inferno e abbia condiviso le idee apocalittiche dei suoi contemporanei in nessun luogo Gesù dimostra un interesse diretto per l'inferno.

Perciò il cristiano crede “nel” Dio misericordioso, quale si è manifestato attraverso Gesù Cristo e ha operato nello Spirito santo. Egli invece non crede - non ha fiducia - nell'inferno. Giustamente l'inferno è assente anche dal Credo.

Già nella chiesa antica c'erano grandi padri e dottori della Chiesa per i quali la pena dell'inferno verrebbe inflitta solo temporaneamente. È possibile che un uomo, magari a causa di un unico “peccato mortale”, debba essere condannato per l'eternità?

Come posso davvero credere in un Dio che accetta una simile tortura psico-fisica, priva di speranza, di misericordia e di amore, oltre che senza fine, delle sue creature?

Diversi teologi sostengono che non sarebbe Dio a condannare l'uomo - con un verdetto dall'esterno. Sarebbe invece l'uomo stesso che - dall'intimo della sua libertà - condanna se stesso per i propri peccati. Quindi, la responsabilità non starebbe in Dio, ma nell'uomo. E ora con la morte diverrebbero definitive l'autodannazione e la lontananza dell'uomo da Dio (non un luogo, ma uno stato).

Cosa si intende, però, con 'definitivo'?

Cosa può diventare definitivo contro la volontà di un Dio onnipotente e misericordioso? Perché un Dio infinitamente buono dovrebbe essere costretto a rendere impossibile per l'eternità una purificazione dell'uomo colpevole?

Nell'espressione “supplizio eterno” (Mt 25,46), che compare nella scena del giudizio finale, l'accento cade sul fatto che questa pena è definitiva, decisa per sempre, e non sul fatto che il tormento debba durare in eterno.

È una contraddizione ammettere l'amore e la misericordia di Dio e contemporaneamente l'esistenza di un luogo di tormenti eterni. No, la “pena dell'inferno” resta, come tutte, subordinata a Dio, alla sua volontà e alla sua grazia. (K)

 

24-IL PURGATORIO

Molti teologi cattolici hanno abbandonato da tempo l'idea di un luogo o di un tempo di purificazione dopo la morte, e a maggior ragione la fede in un interregno o in una fase intermedia che ha inizio dopo la morte. Per una tale idea in effetti non esiste alcun fondamento biblico.

Però resta un interrogativo: il morire in Dio, realtà ultima, dev'essere identico per tutti? Dev'essere lo stesso per i criminali e per le loro vittime, per gli sterminatori di masse e per la massa degli sterminati, per coloro che hanno cercato di compiere la volontà di Dio e per coloro sono vissuti per il loro egoismo?

Perciò la risposta di molti teologi oggi non si riferisce a un tempo dopo la morte, ma all'atto stesso del morire: il morire in Dio non va inteso come una separazione dell'anima dal corpo, ma come un compimento di tutto l'uomo, mediante il quale con misericordia viene giudicato, purificato, salvato e, quindi, illuminato e portato a perfezione - da Dio stesso.

In altre parole, il purgatorio dell'uomo non è un luogo speciale e neppure un tempo speciale, Dio stesso nell'ira della sua grazia nascosta: la purificazione è l'incontro con il tre volte Santo, in quanto essa giudica e purifica l'uomo, ma insieme lo libera e illumina, lo salva e lo porta a perfezione. Questo è il vero nucleo dell'idea tradizionale di purgatorio. (K)

 

Il fuoco d’amore di Dio

Il purgatorio non è un terzo "luogo" rispetto ai due stati possibili: vita eterna beata - vita eterna dannata. Le persone che accedono al fuoco purificatore dopo la morte, sono già consapevoli della salvezza eterna, soffrono per la purificazione, ma non delle stesse pene dei dannati. È un fuoco d'amore, quello di Dio, che cura le imperfezioni dell'anima e la prepara all'incontro definitivo con Dio, luce inaccessibile per i non purificati.

I mistici e i santi ci dicono che l'anima che sperimenta la purificazione, avrebbe preferito patire cento anni sulla terra che un solo istante in purgatorio. Credo che la consapevolezza della propria condizione di peccato e impurità davanti all'amore eterno e misericordioso di Dio, donino alla persona in purgatorio un senso di inadeguatezza incommensurabile misto alla dolcezza infinita dell'amore percepito non ancora completamente abbracciabile.

Marco Favero

 

25-IL PARADISO

Tutte le grandi religioni promettono uno stato finale privo di sofferenze.

Nel cristianesimo il centro di tutte le attese dell’“aldilà” è costituito, fin dal tempo dei Padri della Chiesa, dalla visione beatifica di Dio. È il modello neoplatonico agostiniano di una felicità totalmente spiritualizzata.

Di fronte ad una tale tradizione occorre tornare all’eredità ebraica.

Questa concepisce il compimento finale - che in nessun caso va inteso come qualcosa di ostile alla materia e al corpo - come una nuova creazione in cui il vecchio mondo viene trasformato o rinnovato, in gli uomini non moriranno più neonati, ma vivranno sempre giovani, costruiranno case, pianteranno viti e ne godranno i frutti (Is 65, 20-21).

Sono immagini che il Nuovo Testamento fa proprie e sviluppa: la sposa e il banchetto nuziale, l'acqua viva, l'albero della vita, la nuova Gerusalemme. Immagini per indicare la comunione, l'amore, la chiarezza, la pienezza, la bellezza e l'armonia.

Occorre comunque ricordarci che le immagini sono solo immagini.

Ciò che è certo è che il compimento finale dell'uomo e del mondo è una vita nuova nelle dimensioni invisibili di Dio, fuori del nostro tempo e del nostro spazio. E in questo senso, il compimento è alla fine un mistero ineffabile, quel grande mistero che è Dio stesso:

"Io, quindi, con fiducia ragionevole, con fede illuminata, con speranza provata vorrei contare sul fatto che il regno del compimento finale non è un regno umano, ma il regno di Dio segno della salvezza definitiva, della giustizia realizzata e della libertà perfetta, il regno della verità inequivocabile, della pace universale, dell'amore infinito e della gioia sovrabbondante, anzi, della vita eterna". (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          A vostro avviso, l’inferno esiste? Chi sono coloro che vi sono finiti?

•          Condividete l’idea di Kung sull’inferno?

•          Dal “fuoco purgatorio” dei primi secoli della Chiesa si è passati all’identificazione di un luogo. Condividete l’idea di Favero sul purgatorio?

•          Riusciamo ad immaginare il paradiso? Come vorremmo che fosse?

•          Ci fidiamo di Dio anche su questo tema?

 

26-CREDO NELLO SPIRITO SANTO

Vivere "secondo lo Spirito" è vivere "come Gesù".

Oggi siamo nel tempo dell'attualizzazione di una presenza, oggi siamo nel tempo dello Spirito.

 

Con questo articolo inizia il "terzo tempo" del "Credo", quello che si struttura intorno allo Spirito Santo.

Dal tempo della testimonianza storica di un avvenimento del passato, che ha posto un nuovo inizio, passiamo all'esperienza di una presenza. Siamo nel tempo dell'attualizzazione, nell' "oggi" della salvezza.

Ciò che caratterizza questo tempo è un nome divino senza volto e senza lineamenti, poiché la sua missione è quella di essere luce che rimanda al volto di Gesù e lo illumina facendolo scoprire e incontrare in tutto il suo splendore.

Gli ultimi articoli del "Credo" confessano queste opere: la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna.

Siamo, quindi, di fronte ad articoli che dicono l'ampiezza, la profondità, la grandezza e la bellezza della vita cristiana a partire dalla presenza viva e vivificante dello Spirito. (T)

 

SPIRITO

Lo Spirito Santo è la terza Persona della Santissima Trinità. Credere “nello Spirito Santo” significa credere in una persona il cui posto, il cui ruolo, la cui missione sono determinanti e cruciali.

Lo “Spirito” è un dono di Dio, anzi è Dio stesso che si dona.

Nel Simbolo niceno-costantinopolitano ne troviamo una descrizione più ampia: “è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti”.

Lo Spirito Santo è Dio stesso che si comunica; grazie a questo dono noi diventiamo partecipi della natura divina e tempio di Dio, diventiamo partecipi della relazione tra il Figlio e il Padre.

Lo Spirito, dunque, è la realizzazione in noi dell’ineffabile abbraccio tra Padre e Figlio. (T)

Questo abbraccio non chiude la relazione, ma la apre al riconoscimento di tanti fratelli. L'azione dello Spirito consiste nell'estendere a tutti il legame filiale, moltiplicando senza sosta il dono della comunione.

 

Solo una colomba?

Siamo portati ad immaginare lo Spirito Santo sotto forma di colomba, perché è dal 1600 che questa è l’unica rappresentazione ammessa dalla Chiesa cattolica.

Ma nella Bibbia come è stato immaginato lo Spirito e l'agire invisibile di Dio? Invisibile e tuttavia potente, di vitale importanza come l'aria che si respira, carico di energia come il vento, la tempesta.

Lo Spirito è in ogni caso una realtà totalmente diversa da una persona umana, è la potenza e la forza viva che promana da Dio. Lo Spirito opera creando o anche distruggendo, come vita o come giudizio, che opera sia nella creazione sia nella storia, in Israele come anche, in seguito, nelle comunità cristiane. (K)

 

SANTO

L'unico appellativo che il Simbolo degli Apostoli esprime in riferimento allo Spirito è quello che lo qualifica e lo definisce come “santo”.

È un termine che indica, da un lato, l'inavvicinabilità di Dio, la sua trascendenza, e, dall'altro lato, la santità, che è ciò che Dio vuole comunicare ai suoi, stabilendo legami speciali di alleanza con loro.

Dio, proprio mediante lo Spirito di Gesù, comunica a noi qualcosa del suo mistero, ci fa sentire il fascino e la forza del suo stesso amore, ci "divinizza", rendendoci santi e capaci di vivere come tali.

Proprio perché costantemente animati dallo Spirito, noi siamo figli di Dio e ritroviamo sempre dentro di noi quella fonte della santità che lo stesso Signore fa scaturire nel nostro cuore

Dobbiamo accogliere con gioia il dono e assumere con decisione il compito di una "vita secondo lo Spirito", perché vivere "secondo lo Spirito" è vivere "come Gesù". (T)

 

Una figura mitologica?

Lo Spirito è “santo” in quanto viene distinto dallo spirito non santo dell'uomo e del suo mondo e deve essere visto come lo Spirito dell'unico Dio santo.

Infatti, la maggior parte dei fraintendimenti sullo Spirito santo provengono dal fatto che lo si è staccato da Dio e reso autonomo alla stregua di una figura mitologica, e a ciò ha contribuito il concilio di Costantinopoli, affermando che “lo Spirito è della medesima natura del Padre e del Figlio”.

No, con la parola Spirito si intende la vicinanza personale di Dio stesso agli uomini, altrettanto poco separabile da Dio quanto il raggio dal sole.

Se dunque ci si chiede come il Dio invisibile e inafferrabile sia vicino, presente ai credenti, la risposta del Nuovo Testamento suona concorde: Dio è vicino a noi uomini nello Spirito; è presente nello Spirito, mediante lo Spirito, anzi, come Spirito.

L'incontro di Dio, del Cristo e dello Spirito con i credenti è in realtà un unico e medesimo incontro.

Ma si noti bene: Dio e il suo Cristo non sono presenti soltanto attraverso il ricordo soggettivo dell'uomo o attraverso la fede. Essi sono presenti piuttosto in virtù della realtà spirituale, dell'attività di Dio e di Gesù Cristo stesso, che vengono incontro all'uomo. (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Lo Spirito santo questo sconosciuto. E invece è lo Spirito di Gesù che agisce nella storia. Questo ce lo rende più prossimo?

•          Ci impegniamo a rivalutare la figura dello Spirito santo nella Chiesa e nella nostra vita?

•          Riscopriamo i doni dello Spirito: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio.

•          Spirito di Cristo e Chiesa: cosa si dovrebbe fare per rendere la Chiesa meno mondana?

 

27-SPIRITO SANTO E CHIESA
La professione di fede nello Spirito e professione di fede nella Chiesa si intrecciano.

La terza parte del Simbolo rinvia in prima linea non allo Spirito Santo in quanto terza Persona divina, bensì allo Spirito Santo quale dono di Dio alla storia nella comunità di quanti credono in Cristo.

Questo articolo del Simbolo presenta quindi lo Spirito Santo quale potenza grazie alla quale il Signore innalzato resta presente nella storia del mondo come principio di una nuova storia e di un nuovo mondo.

Nei primi secoli, nella coscienza di chi pregava il Simbolo, professione di fede nello 'Spirito' e professione di fede nella chiesa si intrecciavano. Va considerato come una iattura il fatto che successivamente questa correlazione sia andata perduta: ne hanno sofferto grave danno tanto la dottrina sulla chiesa, quanto quella sullo Spirito Santo.

La chiesa non venne più, da allora, considerata nella sua dimensione carismatico-pneumatica, ma esclusivamente a partire dall'incarnazione e quindi come realtà terrena, finendo così per essere interpretata interamente in base alle categorie di potere del pensiero profano.

In questo modo, però, anche la dottrina sullo Spirito Santo venne privata del suo luogo: nella misura in cui non riusciva più a mantenere un ruolo sul piano puramente edificante, venne assorbita nella generale speculazione trinitaria, perdendo in pratica qualsiasi funzione per la coscienza cristiana.

Questo articolo di fede ci ricorda invece che la dottrina sulla chiesa deve trovare il suo punto di partenza nella dottrina sullo Spirito Santo e i suoi doni.

Appare così chiara anche la direzione in cui deve svilupparsi la cristologia: essa deve evitare che, a partire dall'essere-uomo di Gesù, interpreti la chiesa troppo 'mondanamente'.
Cristo rimane presente fra noi tramite lo Spirito Santo, con tutta la sua apertura, ampiezza e libertà, che logicamente non escludono affatto la forma istituzionale, ma ne limitano le pretese e non le permettono di equipararsi semplicemente alle istituzioni del mondo. (R)

 

28-LA SANTA CHIESA CATTOLICA, LA COMUNIONE DEI SANTI

Oggi la chiesa è divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede. Vedono in essa solo l'ambizione umana del potere.

La Chiesa è un campo di battaglia in cui si combattono lo Spirito di Dio e lo spirito maligno del mondo.

la Chiesa non va pensata partendo dalla sua organizzazione, ma è l'organizzazione che va compresa partendo dalla Chiesa.

 

Non è infrequente sentire tra i cristiani delusi questa domanda: “Perché restare nella chiesa? Perché non andarsene come già molti hanno fatto in precedenza? Non si può essere cristiani anche senza chiesa?”. (K)

 

LA CHIESA

Nonostante le dolorose esperienze che ho avuto con la mia chiesa credo che abbia un senso resistere e che il rinnovamento sia possibile. Ciò però presuppone che si sappia che cosa sia la chiesa. (K)

 

Chiesa = Gerarchia?

Personalmente credo che in nessun caso la chiesa vada identificata con la “gerarchia”.

Gerarchia significa infatti “sacro dominio”. La parola che dovrebbe avere una posizione di rilievo, come lo ha nel Nuovo testamento, è “diaconia”. E diaconia significa “servizio”.

L'esercizio del potere si trova ovunque, anche nella chiesa, ma nello Spirito di Gesù il potere deve essere esercitato fondamentalmente come servizio e mai come dominio.

Si deve inoltre dire che, secondo il Simbolo apostolico, i cristiani non hanno l'obbligo di credere “nella” chiesa.

È sorprendente che già nel Simbolo apostolico si trovi sì l'affermazione: “Credo in Dio, in Gesù Cristo, nello Spirito santo”, ma poi venga detto “Credo la chiesa”.

Questa distinzione è qualcosa di più di una sfumatura linguistica. Infatti, nel terzo articolo di fede la chiesa è menzionata in connessione con la fede nello Spirito santo.

Un cristiano crede in Dio e nello Spirito santo; la chiesa invece, in quanto comunità umana, è soltanto il luogo in cui lo Spirito di Dio opera o dovrebbe operare attraverso gli uomini.

La chiesa, definita sinteticamente, alla luce del senso letterale ebraico e greco, è un'“assemblea”, una “comunità”, è quindi la comunione dei credenti in Gesù Cristo. (K)

 

Una chiesa peccatrice

Se siamo onesti, proviamo forte la tentazione di dire che la chiesa non è né santa, né cattolica.

lo stesso concilio Vaticano II è arrivato a parlare non più soltanto della chiesa santa, ma della chiesa peccatrice.

I secoli della storia della chiesa sono così pieni di fallimenti umani che giustificano questa tentazione.

Anche la cattolicità della chiesa ci appare problematica. L'unica chiesa è frazionata in molte chiese, ognuna delle quali accampa più o meno intensamente la pretesa di essere l'unica in regola.

Così oggi la chiesa è divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere. (R)

 

SANTA

L'aggettivo 'santo' non intende in primo luogo la santità delle persone umane, ma si riferisce al dono divino, al dono della santità in mezzo alla non santità umana. (R)

 

Restare e sopportare?

Nel Simbolo la chiesa viene chiamata 'santa' non perché i suoi membri siano, insieme e singolarmente, santi, uomini senza peccato. Serve fare un passo indietro: la santità della chiesa sta nel potere di santificazione che Dio esercita in essa malgrado la peccaminosità umana.

In virtù del dono del Signore, mai ritrattato, la chiesa continua a essere quella che egli ha santificato, in cui la santità del Signore si rende presente fra gli uomini. Ma è sempre realmente la santità del Signore che si fa qui presente e che sceglie continuamente come contenitore della sua presenza, con amore paradossale, anche proprio le sporche mani degli uomini. È santità che risplende come santità di Cristo in mezzo al peccato della chiesa.

Di conseguenza, si potrebbe dire addirittura che la chiesa, proprio per la sua paradossale struttura di santità e di miseria, sia figura della grazia in questo mondo.

Ciò non vuol dire che bisogna lasciar sempre tutto così com'è e sopportarlo così com'è. Il sopportare può essere anche un processo altamente attivo, un lottare per far sì che la chiesa diventi sempre più lei stessa capace di sorreggere e sopportare.

Ma la lotta risulterà fruttuosa, costruttiva, soltanto se sarà animata dallo spirito del sopportare, da un autentico e reale amore.

Una porta violentemente sbattuta può sì essere un segnale, ma non aiuta a costruire una chiesa ‘santa’. (R)

 

Un campo di battaglia

Su questo tema si deve realisticamente constatare: la chiesa reale è una chiesa peccatrice perché composta da uomini fallibili e peccatori.

Tutto questo è stato causato non soltanto dal fallimento dell'individuo umano in quanto tale, ma anche dalla disumanità di molte strutture ecclesiastiche e persino dalla perversione di ciò che è cristiano ad opera del Maligno.

Alla luce di ciò la santità della chiesa non è, evidentemente, fondata dai suoi membri e dal loro operato etico-religioso.

Ma che cosa significa “santo”? Sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento “santo” designa l'essere-separato in Dio e per Dio, in opposizione a “profano”.

Ora però è sorprendente che nel Nuovo Testamento non si parli mai di una “chiesa santa”. Si parla di comunità, che in quanto tali vengono dette “i santi”, che ci si riferisca a un “popolo santo” o al “tempio santo”, le cui pietre viventi sono costituite dai credenti.

Nel Nuovo Testamento non ci sono luoghi e oggetti santi speciali, ma interessa - semmai - una santità del tutto personale, la santità come atteggiamento di fondo dell'uomo, cioè un orientamento complessivo verso la volontà del Dio “santo” stesso. Insomma, la concreta comunità di fede, che si chiama chiesa, è contemporaneamente santa e peccatrice.

Essa è un campo di battaglia in cui si combattono lo Spirito di Dio e lo spirito maligno del mondo, e il fronte non corre semplicemente tra la chiesa santa e il mondo non santo, ma dentro il cuore stesso degli uomini. (K)

 

CATTOLICA

Della Chiesa noi crediamo, ancora, che è cattolica» Lo è perché il suo respiro è universale, aperto all'intera umanità, anzi a tutto il cosmo e ad ogni realtà.

Professare nella fede la "cattolicità" della Chiesa è rifiutare l'atteggiamento di chi seleziona alcune parti dell'esperienza e della verità di fede a scapito di altre, tenendo solo quelle che gli piacciono di più.

Credere che la Chiesa è “cattolica” significa affermare che in essa è presente Cristo. In tal senso va interpretato anche l'antico assioma: “Al di fuori della Chiesa non c'è salvezza”.

L'espressione non significa che Dio non voglia salvare le persone al di fuori dei confini della Chiesa visibile. Significa piuttosto, in positivo, che la Chiesa possiede tutti i mezzi necessari a salvarci e che, pertanto, non è bene abbandonare la propria casa per avventurarsi in sentieri meno sicuri. (T)

 

Cattolici ed evangelici

Cattolico è sinonimo di universale, ma dopo lo scisma del XVI secolo Roma e le chiese della Riforma si sono contese a lungo questo titolo.

Chi, dunque, può chiamarsi cattolico? Cattolico nell'atteggiamento di fondo è soltanto colui che si preoccupa in modo particolare della chiesa cattolica = intera, universale, onnicomprensiva, totale. In concreto: è cattolico chiunque abbia a cuore la continuità nel tempo della fede e della comunità di fede che permane nonostante tutte le fratture (due millenni di tradizione) e, in secondo luogo, l'universalità nello spazio della fede e della comunità di fede che abbraccia tutti i gruppi, nazioni, razze e classi.

Chi può, dunque, chiamarsi evangelico? Evangelico nell'atteggiamento di fondo è soltanto colui che, in tutte le tradizioni, dottrine e pratiche ecclesiali, ha a cuore in particolare il continuo riferimento critico al Vangelo (depositato originariamente nella Sacra Scrittura) e, in secondo luogo, la continua riforma pratica secondo le norme di questo Vangelo (Ecclesia semper reformanda).

Se compresi correttamente, l'atteggiamento di fondo cattolico e quello evangelico non si escludono affatto. Oggi anche il cattolico battezzato può essere di sentimenti veramente evangelici. Viceversa, anche il protestante battezzato può rivelare un'apertura veramente cattolica. (K)

 

Segno di unità

Le sfumature di significato assunte da questa parola, nel lungo cammino percorso dalla sua origine a oggi, sono molteplici.

Tuttavia, un'idea fondamentale è documentabile, sin dal principio, come determinante: con questa parola si allude all'unità della chiesa in un duplice senso.

Innanzitutto, ci si riferisce all'unità di luogo: solamente la comunità unita al vescovo è 'chiesa cattolica', non i gruppi parziali che, per qualsiasi motivo, se ne sono staccati.

In secondo luogo, è qui richiamata l'unità delle chiese locali fra loro, le quali non possono rinchiudersi in se stesse, ma possono rimanere chiesa solo mantenendosi aperte l'una verso l'altra, formando un'unica chiesa nella comune testimonianza della Parola e nella comunione della mensa eucaristica, che è aperta a tutti in ogni luogo.

La costituzione episcopale compare sullo sfondo come un mezzo di questa unità.

Un ulteriore stadio, sempre nell'ordine dei mezzi, sarà poi costituito dal servizio del vescovo di Roma.

Una cosa però è chiara: la chiesa non va pensata partendo dalla sua organizzazione, ma è l'organizzazione che va compresa partendo dalla chiesa.

Solo in quanto 'cattolica', ossia visibilmente una pur nella molteplicità, essa corrisponde a quanto richiede il Simbolo. Nel mondo dilaniato e diviso la chiesa deve essere segno e strumento di unità, deve superare barriere e riunire nazioni, razze e classi. (R)

 

APOSTOLICA

Che le chiese spesso siano istituzioni autoritarie, a volte perfino totalitarie, è molto evidente.

Secondo il Nuovo Testamento però la chiesa deve essere una comunione nella libertà, nell'uguaglianza e nella fraternità: cioè, sia in grande sia in piccolo, una comunità di persone libere, fondamentalmente uguali, e una comunità di fratelli e di sorelle.

La chiesa non può quindi essere un'aristocrazia o addirittura una monarchia, benché molti si comportino in essa come se fosse tale.

Una chiesa che si ispirasse alla primitiva chiesa degli apostoli, sarebbe, nel senso migliore della parola, una comunità democratica. La democrazia nella chiesa non riguarda ovviamente la questione della verità di fede.

Ovviamente tutti i membri e gli organi della chiesa stanno sotto la parola di Dio. A rigore, nella chiesa non deve predominare neppure il popolo, ma la Parola di Dio, Cristo, il Signore stesso.

Al pari della gerarchia, neppure il popolo deve prendere il posto della rivelazione. No, il carattere democratico della chiesa attiene unicamente al modo in cui questa comunità organizza e struttura il suo servizio sotto la Parola di Dio, nello Spirito di Gesù.

“Democrazia” non significa quindi abbandonare la chiesa allo spirito del tempo e la verità al principio elettivo, ma corrisponde alla costituzione neotestamentaria della chiesa, per la quale nella chiesa tutti, in certo modo, sono chiamati al servizio, anche se in funzioni diverse. (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Quanto la chiesa che frequentiamo è una “comunità” di credenti in Cristo?

•          “Una porta violentemente sbattuta può sì essere un segnale ma non aiuta a costruire una chiesa ‘santa”. Concordiamo?

•          Quanto la nostra parrocchia è cattolica, cioè aperta verso le altre parrocchie dellla zona?

•          Democrazia e Chiesa sono parole conciliabili? Quando?

 

29-LA COMUNIONE DEI SANTI

Questo articolo di fede si completa nel credere “la comunione dei santi”.

Ciò significa credere che, nella Chiesa, esiste una “comunione di beni spirituali” e una “comunione tra le persone” rese sante dal battesimo.

Credere “la comunione dei santi” significa accettare la sfida di stare insieme a partire non da simpatie che avvicinano o da interessi comuni che aggregano, ma dal dono sincero di sé a imitazione di Cristo.

Credere la “comunione dei santi” significa credere “alla comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa” (Paolo VI).

Ed è in questa ottica che si comprendono e si possono vivere anche la venerazione e l'intercessione dei santi, la preghiera di suffragio per i defunti, la certezza della loro vicinanza. (T)

 

30-LA REMISSIONE DEI PECCATI

Il Credo presuppone la peccaminosità dell'uomo, ma apre subito alla possibilità del perdono.

 

L’articolo relativo alla remissione dei peccati allude al sacramento del battesimo e a quello della penitenza.

Ovviamente, all'inizio del cristianesimo è il battesimo il grande sacramento del perdono, che appare come il momento della svolta che trasforma la vita.

Solo a poco a poco si dovette imparare da una dolorosa esperienza che il cristiano, anche da battezzato, ha sempre bisogno del perdono, tanto che venne sempre più in primo piano la rinnovata remissione dei peccati grazie al sacramento della penitenza, soprattutto da quando si prese ad amministrare il battesimo nei primi giorni di vita, per cui cessò di essere espressione di una conversione attiva.

Restava comunque fermo, anche allora, che cristiani si può diventare non per nascita, bensì solo attraverso la rinascita: essere cristiani è possibile sempre e soltanto allorché l'uomo opera una svolta nella sua esistenza, distaccandosi dall'autosoddisfazione del semplice vivacchiare e 'convertendosi'. (R)

 

Abbandonare l’uomo vecchio

Nella risurrezione di Gesù c'è un messaggio nuovo: il male non ha più l'ultima parola, né la morte può smentire ogni speranza! Quindi, neppure il peccato - ossia la contraddizione dell'uomo che cerca una vita vera con scelte di morte, di egoismo e di chiusura - ha l'ultima parola.

Con queste parole del "Credo", siamo chiamati, da una parte, a prendere coscienza della nostra condizione di peccatori e, dall'altra parte, affermiamo con gioia la nostra fede nella potenza e nella misericordia di Dio che perdona i nostri peccati.

Professando “la remissione dei peccati”, noi crediamo che non c'è nessuna colpa, per grave che sia, che non possa essere perdonata dalla santa Chiesa.

Quello di rimettere i peccati è un potere che la Chiesa esercita una volta nel sacramento del Battesimo e un'infinità di altre volte nel sacramento della Penitenza o Riconciliazione.

L’elemento battesimale di questo articolo lo troviamo esplicitato nel Simbolo niceno-costantinopolitano con le parole: “Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati”. Con il Battesimo, noi entriamo a far parte della Chiesa. E ciò avviene ripetendo il movimento di "discesa-ascesa" che caratterizza la vita di Gesù: veniamo immersi nella morte di Gesù, cioè nel dono di sé fino in fondo, per riemergere alla vita nuova del Cristo glorificato.

L'immersione esprime l'abbandono dell'uomo vecchio con la sua logica egoista. L'emersione dice l'ingresso nel mondo nuovo caratterizzato dalla legge dell'amore evangelico, ossia dell'amore di Dio al di sopra di ogni cosa e del prossimo come se stessi.

Questa esperienza di "rinascita" è un dono inaugurale, che va ripreso di continuo nella lotta contro la riemersione dei desideri dell'uomo vecchio. Purtroppo, infatti, il peccato rimesso nel Battesimo può avere la sua rivincita in maniera anche grave nel corso della vita.

Anche questo peccato viene rimesso, poiché “la remissione dei peccati” non avviene solo con il lavacro del Battesimo, ma anche con la preghiera, la penitenza e la riparazione delle proprie colpe con la Confessione. È per mezzo del sacramento della Penitenza che il battezzato può essere riconciliato con Dio e con la Chiesa. (T)

 

Tu puoi!

Nella nostra società esiste la tendenza a negare, rimuovere, liquidare la colpa, a ridurla al suo mero profilo giuridico. Ognuno che sia religioso o no si trova irretito in numerose storie di colpa, che però preferisce rimuovere o negare.

Questo è esattamente l’opposto di quello che i rappresentanti delle chiese hanno fatto per secoli ingenerando sensi di colpa , ma limitandosi ad un campo molto ristretto, quello della sessualità, mentre in altri campi sono stati molto liberali (liceità delle guerre; approvazione del colonialismo e dello sfruttamento economico).
Una teologia cristiana autocritica oggi dovrà perciò pronunciarsi sia contro la rimozione della colpa nella società sia contro l'ingenerazione ecclesiastica di sensi di colpa in ambiti sbagliati o fissati unilateralmente.

L'obiettivo del dominio cristiano sulla colpa non è la condanna, ma l'assoluzione del peccatore, la "terapia della colpa".

La professione di fede mostra subito un accento positivo: presuppone la peccaminosità dell'uomo, ma parla subito della remissibilità dei peccati.

Questo accento teologico rinvia alla predicazione e al comportamento dello stesso Gesù: la sua predicazione del regno di Dio esige certamente in maniera risoluta l'allontanamento da una via errata, di peccato.

Ma Gesù non intende mai generare sensi di colpa, invita piuttosto a una conversione interiore, totale e radicale, a un ritorno di tutto l'uomo a Dio e a una vita per il prossimo.

A Gesù non interessa il Dio offeso e la sua legge, ma l'uomo divenuto colpevole e infelice, che egli non vuole condannare e punire, ma liberare e reintegrare nella comunione.

Ogni conversione viene offerta all'uomo come una nuova possibilità.

Decisivo per il Nuovo Testamento è questo: la conversione proviene già dalla grazia di Dio e presuppone il perdono di Dio. Essa non è conseguenza di una legge oppressiva, che esige soltanto: “Tu devi”. È invece conseguenza del Vangelo, che rende possibile la conversione: “Tu puoi”.

Il perdono può essere concesso in molti modi. Alla luce del Vangelo si devono perciò relativizzare le diverse forme di remissione dei peccati, sviluppatesi nella storia, e nessuna delle figure affermatesi storicamente viene canonizzata una volta per tutte dalla professione di fede.

Per Gesù c'è qualcosa di più importante delle forme di penitenza “sacramentale” sviluppatesi nel corso del tempo: il perdono ricevuto da Dio deve essere trasmesso agli uomini.

L'uomo non può ricevere il grande perdono di Dio e, a sua volta, rifiutare il piccolo perdono al prossimo; deve trasmettere il perdono ricevuto.

Purtroppo molto spesso anche i cristiani non si sono perdonati tra loro e non hanno perdonato agli altri le loro colpe! (K)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Viviamo in una società che tende ad autoassolversi. Noi coltiviamo ancora il senso del peccato?

•          Il Signore ci perdona. E noi siamo sempre capaci di perdonare?

•          Confessare le colpe vuol dire morire al peccato per rinascere in Cristo? Ne siamo consapevoli?

•          Siamo cresciuti secondo la logica del “Tu devi”, insegniamo ai nostri figli e nipoti la logica del “Tu puoi”!

 

31-LA RESURREZIONE DELLA CARNE

La risuscitazione dei morti, di cui parla la Scrittura, si riferisce alla salvezza dell'unico e indiviso uomo.

 

Con questo articolo del "Credo", professiamo la nostra fede nella “risurrezione della carne”. Diciamo di credere che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell'anima immortale, ma che anche i nostri "corpi mortali" (Rm 8, 11) riprenderanno vita.

È questo un elemento essenziale della fede cristiana. E lo è fin dalle origini della Chiesa. Ma che cosa è questa “carne” chiamata a risorgere? (K)

 

La carne: indispensabile ma fragile

La carne è ciò che delimita l'uomo e lo costringe in una prospettiva rinchiusa nello spazio e nel tempo. Ma è anche ciò che apre l'uomo al mondo e lo mette in comunicazione con gli altri. Essa dice concretezza, solidità, realismo, ma anche debolezza, fragilità, fatica, provvisorietà.

Un'esperienza umana è ritenuta autentica, reale quando produce emozioni e sentimenti forti che risuonano nella carne. Nello stesso tempo, però, l'uomo cerca le cose vere e durevoli attraverso la liberazione dal peso e dai limiti della carne.

La fede nella risurrezione sa cogliere le dimensioni positive della carne, superando, per la forza dello Spirito, quelle negative.

Queste ultime sono esperienze in cui "la carne" domina l'agire umano come unico principio di azione e così amplifica le sue ambiguità: promette felicità e piacere, ma rivela fragilità e precarietà; fa sperare rapporti intensi, ma genera invidie e gelosie.

Lo Spirito, invece, ristabilisce ordine tra le dimensioni dell'esperienza umana e apre la carne a orizzonti i più grandi.

In tal modo, la carne sente di poter accogliere e sperimentare una vita più grande e duratura.

Credere la “risurrezione della carne” significa affermare che la nostra carne - e, quindi, tutta la concretezza storica della nostra esistenza personale - è resa partecipe della condizione gloriosa di Gesù ed è così destinata a una vita al di là della morte.

Non sappiamo immaginare cosa e come sarà la “risurrezione della carne”. Sappiamo, però, che si tratta di una "trasformazione" che raccoglie ciò che siamo, la nostra carne, per aprirla a una vita nuova, a un dono più grande.

La fede nella “risurrezione della carne”, in ogni caso, non può essere intesa e non può essere vissuta come una attesa passiva di un vago "dopo morte" ma deve tradursi nell'impegno a seminare in questa carne – con la sua ambivalenza – gesti che aprano alla nuova vita, superando la fragilità e le ambiguità della carne.

Deve esprimersi in un impegno costante per vivere gesti di giustizia, di solidarietà, di condivisione, di amore, che rimangono per sempre; gesti che concorrono a costruire un mondo più giusto, più abitabile, più umano, "preparando" così quei cieli nuovi e quella terra nuova nei quali avranno stabile dimora la giustizia e la pace.

La fede nella “risurrezione della carne” è, in definitiva, la sola e giusta prospettiva per poter vivere in pienezza le cose più belle della vita, raccogliendo positivamente la promessa che esse contengono. (T)

 

Anima immortale?

Stiamo oggi riscoprendo l'indivisibilità dell'uomo e viviamo con rinnovata intensità la nostra corporeità. In base a ciò, siamo portati a comprendere in modo nuovo il messaggio biblico, che non promette immortalità a un'anima separata dal corpo, ma a tutto l'uomo.

Di conseguenza, si tende a contestare la dottrina greca dell'immortalità dell'anima, considerata anche come idea cristiana. La vera fede cristiana conoscerebbe soltanto la risuscitazione dei morti a opera della potenza di Dio.

Ma anche questa posizione lascia spazio ad obiezioni.

Tale risurrezione esigerebbe corpi immortali e non più bisognosi di nutrizione, una condizione completamente mutata della materia.

Le idee bibliche e greche sull’Aldilà non sono complementari ma rappresentano di due diverse visioni d'insieme, che non si possono semplicemente addizionare.

La concezione greca si basa sull'idea che l'uomo sia composto di due sostanze estranee fra loro, di cui l'una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l'altra (l'anima) è per sua natura immortale, Anzi, solo nella separazione dal corpo l'anima perverrebbe alla sua piena perfezione.

Viceversa, il pensiero biblico presuppone l'indivisa unità dell'uomo; per esempio, la Scrittura non conosce alcun termine che indichi soltanto il corpo (separato e distinto dall'anima).

La risuscitazione dei morti (non dei corpi!), di cui parla la Scrittura, si riferisce quindi alla salvezza dell'unico e indiviso uomo, non soltanto al destino di una sua metà (magari addirittura secondaria). Appare adesso chiaro che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell'idea della restituzione dei corpi, a cui invece l'abbiamo ridotto nel nostro modo di pensare.

Qual è allora il vero contenuto della Bibbia su questo tema?

L'idea dell'immortalità, che la Bibbia esprime parlando della risurrezione, intende un'immortalità della 'persona', dell'unica realtà uomo; è proprio questo essere uomo che continua a sussistere in quanto tale, sebbene trasformato.

Si tratta di un'immortalità 'dialogica', una risuscitazione, un essere risvegliato, frutto dell'azione salvante di Colui che ci ama e ha il potere di far questo: l'uomo non può perire totalmente perché è conosciuto e amato da Dio. Se ogni amore vuole eternità, l'amore di Dio non la vuole soltanto, ma la determina ed è l'eternità.

Il fatto che la risuscitazione dei morti sia attesa per gli ultimi giorni, alla fine della storia, e sia universale, cioè coinvolga tutti gli uomini, indica il carattere comunitario dell'immortalità umana.

L'uomo, inteso come unità di corpo e spirito, è essere relazionale; se deve sopravvivere oltre la morte, la dimensione comunitaria non può rimanere esclusa.

Quindi, dopo la morte continuerà ad esserci una comunione vicendevole fra gli uomini e questa è la comunione dei santi. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Dopo averlo per secoli denigrato, oggi viviamo in un’epoca che idolatra il corpo. Quale deve essere il comportamento del cristiano nei confronti del suo corpo?

•          Il corpo è relazione. Anche la vita eterna sarà relazione. Che qualità hanno le nostre relazioni con gli altri?

•          Come ci immaginiamo da risorti?

Quanto qui esposto ci aiuta a credere in questa verità di fede?

 

32-IL CORPO DEI RISORTI

Quale sarà il nostro corpo nella resurrezione?

Già Paolo era stato tempestato da interrogativi del genere, da parte dei cristiani di Corinto.

Ad essi aveva dato questa risposta: “Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità” (1Cor 15,50).

Nel linguaggio di Paolo 'corpo' e 'spirito', non sono due realtà opposte; gli opposti si chiamano 'corpo carnale' e 'corpo spirituale'.

Quello che Paolo intende è che la “risurrezione della carne”, la risurrezione degli esseri corporei, non è una risurrezione dei corpi.

Paolo intende la risurrezione delle persone, e questa non nel ritorno dei "corpi di carne", ossia delle strutture biologiche, che egli indica esplicitamente come impossibile (“Il corruttibile non può diventare incorruttibile”), bensì nella diversità specifica della vita della risurrezione, così come si è esemplarmente manifestata nel Signore risorto.

Ma, allora, la risurrezione non ha proprio alcun rapporto con la materia? E l'‘ultimo giorno' diviene con ciò superfluo, a vantaggio della vita che scaturisce sempre dalla chiamata di Dio?

Se il cosmo è storia e se la materia rappresenta un momento nella storia dello spirito, allora materia e spirito non stanno eternamente una accanto all'altro in modo neutrale, ma occorre pensare a un'ultima ‘complessità’ in cui il mondo trova il suo Omega e la sua unità.

Allora c'è un ultimo nesso fra materia e spirito in cui trova compimento il destino dell'uomo e del mondo, anche se oggi ci risulta impossibile definire il tipo di tale connessione.

Allora l'‘ultimo giorno' sarà quello nel quale il destino del singolo uomo si compirà perché ha trovato compimento il destino dell'umanità. (R)

 

33-LA VITA ETERNA

La “vita eterna” è la partecipazione, secondo la nostra capacità, a quella eternità che è proprietà e prerogativa di Dio stesso.

 

L'ultimo articolo del "Credo" ci parla di “vita eterna”. Ci invita a credere che la vita non è solo quella che viviamo su questa terra, che la morte non è la fine di tutto, che c'è qualcosa che ci attende oltre l'esistenza nel tempo.

Però sono proprio queste espressioni - "vita eterna", "vita che non finisce", "vivere per sempre" - ad apparirci come paradossali. (T)

 

Vita eterna: che noia!

Una “vita eterna” è, forse, la ripetizione senza fine di questa esperienza? È il prolungamento "infinito" della vita? E se è così, la vita eterna è desiderabile? Una vita che dura per sempre non rischia di annoiarci?

Invece, credere “la vita eterna” è credere in una presenza piena di Dio in noi e di noi in Dio.

La “vita eterna” è il dono di una partecipazione, secondo la nostra capacità, a quella eternità che è proprietà e prerogativa di Dio stesso.

Consiste nel "conoscere" Dio con quel tipo di conoscenza che dice amore, relazione, comunione, partecipazione alla sua vita.

Per questo, “la vita eterna” ha le caratteristiche della definitività.

Se, in conseguenza della nostra libertà, Dio avrà il volto di un "Dio conquistato", questa dimora sarà il Paradiso. Se avrà i lineamenti del "Dio verificante", essa si presenterà come Purgatorio. Se, tragicamente, rivestirà i tratti del "Dio perduto", questo "luogo definitivo" sarà l'Inferno.

Così interpretata, “la vita eterna” è l'oggetto e l'obiettivo fondamentale della speranza cristiana, è vivere nell'attesa fiduciosa e operosa dell'avvenire, mantenendo desto il desiderio di vedere il volto del Padre e di essere in comunione piena con lui.

Significa anche coltivare un atteggiamento di stupore sempre nuovo e di gratitudine senza limiti per quel grande amore di cui siamo immeritevoli ma fortunati destinatari.

Coltivare questo stupore e questa gratitudine è anche nutrire profonda venerazione per la vita dell'uomo.

Credere “la vita eterna” ci conduce a riscoprire, a rispettare e a promuovere la dignità di ogni persona umana e della sua vita. (T)

 

Vivremo perché amati

L'Antico Testamento, preso isolatamente, lascia alla fine in sospeso la questione del futuro dell'uomo.

Soltanto con Cristo, l'uomo che “forma una sola cosa col Padre”, l'uomo grazie al quale l'essere 'uomo' è entrato nell'eternità di Dio, il futuro dell'uomo appare definitivamente aperto, diventa chiaro il concetto di vita eterna.

Cristo è totalmente uomo, pertanto, in lui è presente la questione del destino finale dell’uomo.

Ma egli è al contempo parola di Dio rivolta a noi, è 'Verbo di Dio'.

In lui la parola di Dio si è fatta 'carne', inserendosi realmente nella nostra esistenza.

Ora, se il dialogo di Dio con l'uomo significa vita, se è vero che l’uomo, grazie al suo esser interpellato da colui che vive eternamente, ha egli stesso vita, allora ciò significa che Cristo, in quanto discorso di Dio a noi, è davvero “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25).

Ciò significa, inoltre, che l'entrare in Cristo, ossia la fede, diventa in senso specifico un entrare in quell'essere conosciuti e amati da Dio, che è l'immortalità: “Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna” (Gv 3,15; 3,36; 5,24).

Affermando la ‘vita eterna’ intendiamo dire che gli uomini, personalmente, continuano a vivere dopo la morte, non in virtù di un proprio potere, ma perché sono conosciuti ed amati da Dio in una maniera che non permette più loro di scomparire.

L'essenziale dell'uomo, la persona, rimane; ciò che è maturato in questa esistenza terrena, fatta di spiritualità corporea e di corporeità permeata dallo spirito, continua in una maniera diversa. Esso continua a sussistere perché vive nella memoria di Dio. E poiché è l'uomo stesso che seguiterà a vivere, e non un'anima isolata, anche la dimensione comunitaria continuerà nel futuro; per cui, il futuro del singolo uomo sarà pieno unicamente quando anche il futuro dell'umanità troverà compimento. (R)

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Pensiamo all’eternità come qualcosa che non finisce mai o come ad una infinita scoperta di Dio?

•          Quanto la nostra maggiore o minore intimità con Gesù ora ci permetterà di godere dell’intimità con Dio dopo?

•          Che posto ha l’amore nella nostra vita? Cosa possiamo concretamente fare per amare di più Dio e il prossimo?

 

34-PER CONCLUDERE

Spero siate riusciti a leggere, in tutto o in parte, a rate o tutto in una volte, il contenuto di questo numero.

Da parte mia, nel realizzarlo, ho trovato cose note e altre veramente interessanti, utili per presentare la nostra fede in modo più rispondente alle sensibilità attuali. E adesso?

Se l’argomento vi ha coinvolti e desiderate approfondire, trovate in ultima pagina le indicazioni complete dei libri usati, anche se il testo veramente da leggere, a mio avviso, è quello di Ratzinger.

Per rispondere alle sfide odierne, sarebbe anche utile accostarsi ad un libro di teologia fondamentale, disciplina che si interroga sui fondamenti del cristianesimo e sulla loro credibilità.

Ve ne vorrei proporre uno che ho trovato interessante e che può essere complementare al libro di Ratzinger.

Si tratta di: Il Dio capovolto, la novità cristiana. È edito da Cittadella Editrice, Assisi 2020. Gli autori sono Bruno Maggioni ed Ezio Prato.

Vi consiglio di iniziare la lettura dal capitolo tre, come suggeriscono anche gli autori, e poi procedere nella lettura scegliendo gli argomenti che interessano di più.

Procedendo in questo modo, personalmente ho potuto apprezzare la ricchezza del testo, evitando la fatica che può derivare da una lettura puntuale e continua.

Franco Rosada

 

35-LE ULTIME DAL COLLEGAMENTO TRA GRUPPI FAMIGLIA

Giovedì 9 maggio si è tenuta on-line l’assemblea dei soci dell’associazione Formazione e Famiglia, la realtà che permette ai volontari del Collegamento tra Gruppi Famiglia di operare concretamente.

Si trattava di rinnovare le cariche del direttivo, in scadenza dopo 5 anni di mandato.

Il direttivo uscente è stato interamente confermato ed in più è stato allargato, passando da 5 a 7 membri.

Questi i nominativi: Noris Bottin (presidente), Corrado Demarchi (vicepresidente), Franco Rosada (tesoriere), Maria Rosa Tonda, Renato Durante, Guido Lazzarini e Fiorenza Morao (consiglieri).

Anche la coppia responsabile del Collegamento tra Gruppi Famiglia era in scadenza e, in questo ruolo, sono stati confermati Noris e Franco Rosada.

Si tratta, nei 35 anni di vita del Collegamento, di un’anomalia perché fino ad ora c’era stata un’alternanza di coppie: i Lazzarini, i Fauda, gli Albert, i Demarchi, i Durante.

Troppo bravi i Rosada, o mancavano alternative?

Sentiamo cosa ne pensano loro.

            Perché vi siete ricandidati?

Non è proprio così; la nostra è stata una candidatura “spintanea”, o accettavamo o si approdava ad una direzione collegiale, che di solito è l’anticamera della fine.

            Solo per questo?

Lo ammettiamo, ci dispiaceva anche generare una situazione di incertezza in un momento in cui, nonostante si stia vivendo una fase di stanca, non mancavano gli attestati di fiducia per quello che stavamo facendo e che il bilancio del 2023 conferma plasticamente.

            Questa fase di stanca riguarda solo il Collegamento?

La crisi è più generale e sembra riguardare l’intero comparto della pastorale familiare.

Da quanto coglie Franco, che collabora con il Forum delle Associazioni Familiari del Piemonte, anche altre associazioni attraversano un momento di crisi. Sono sempre i soliti che si danno da fare e le iniziative proposte riescono a coinvolgere poche famiglie.

E anche la realtà parrocchiale in cui siamo inseriti risente di questa crisi.

            In che modo?

Mancano le famiglie, le messe domenicali vedono molte teste canute e pochi bambini.

Se si partecipa da alcune celebrazioni, per esempio all’inizio delle attività pastorali, i bambini e i ragazzi non mancano, anzi, arrivano a riempire la chiesa. Abbiamo l’oratorio, il gruppo scout, la scuola calcio, i catechismi. Ma durante l’anno è come se sparissero.

E questo vale anche per il Collegamento: ai giovani sembra non interessare l’esperienza che proponiamo.

            Siete pessimisti?

Diciamo realisti. Ma lo Spirito soffia dove vuole e recentissimamente abbiamo ricevuto una buona notizia da Vallà: le giovani coppie che seguono la scuola stanno organizzando per la prima volta un week-end di riflessione a settembre.

Questo ci fa ben sperare.

 

26-I GRUPPI FAMIGLIA DI VALLÀ

“Chi ben comincia è già a metà... “: facendo un bilancio di quest’anno di attività dei Gruppi Famiglia, a partire dagli incontri di organizzazione e confronto, possiamo proprio ritenerci soddisfatti.

Una bella equipe organizzatrice, famiglie e generazioni che si incontrano, che si confrontano e si arricchiscono davanti ad una tavola rotonda conviviale, una divisione dei ruoli fluida secondo le capacità e abilità di ognuno, senza interferenze.

Sarebbe già bello e motivante così!

E poi, gli incontri.

Le aspettative, anche nostre, erano sempre alte e possiamo dire, con orgoglio, che non sono state disattese!

La sala piena, tanti bimbi, persone in festa e disposte ad accogliere il messaggio, tante unicità che dialogano e si arricchiscono nel confronto reciproco.

Relatori capaci, ognuno a modo proprio, di catturare la sala e far scoprire un pezzetto del proprio mondo.

Le presenze sono state interessanti, alcuni fedelissimi sempre presenti, altri in base agli argomenti trattati: comunque la sala è stata sempre gremita e questo ha permesso ai relatori di sentirsi accolti nella loro esposizione, ha facilitato scambi proficui nei lavori di gruppo e l’aggregazione e l’amicizia delle coppie frequentanti.

Animatori ineccepibili e insostituibili: un vero esempio di servizio; coinvolgere costantemente una quarantina di bambini new generation di tutte le età non è cosa da poco, armati “solamente” di motivazione, penne, forbici, colla a caldo e tanti, tanti, tantissimi biscotti!

E un plauso a parte va a quanti hanno dedicato forze e tempo per il coordinamento dei nostri ragazzi.

Alla fine la cena condivisa coronava la serata domenicale tra il chiacchiericcio degli adulti, le corse affannate dei bimbi per il salone e quanto di buono ognuno riusciva a portare.

Ma non è finita qui.

Già fissate le nostre prossime riunioni-pizzate per l’organizzazione dei campi estivi: settimana estiva ad agosto a Valle di Cadore e week-end a fine settembre a Castel Tesino, con nostra grande soddisfazione, già sold-out.

Speriamo di non fermarci qui, siamo in tanti, ma mai in troppi!

Il nostro obbiettivo è di raggiungere tante famiglie per camminare insieme e crescere reciprocamente. Pertanto, se chi legge volesse partecipare alle domeniche invernali o alle proposte estive, non sia timido, ci segua sui canali social Instagram e Facebook e ci contatti... saremo felici di aggiungere una sedia e fare nuove amicizie!

Da Treviso, per il momento è quanto... stay tuned!

@gruppi.famiglia.treviso

 

Novità

37-WEEK END PER FAMIGLIE

27-28-29 settembre ’24 Castello Tesino (TN)

 

Tema: Dalla tenerezza alla speranza. Per una famiglia che ripensa se stessa.

Trascorreremo insieme due giornate di gioia, alternando momenti di riflessione a momenti di convivenza e svago.

Tutti i bimbi sono attesi dai nostri simpatici animatori per un interessante e divertente cammino parallelo.

Info e prenotazioni: Fiorenza: 3405195718; Elena: 3298828790

 

38-I TEMI DEI PROSSIMI NUMERI DELLA RIVISTA

Questi sono i temi scelti da voi lettori (in ordine di gradimento):

•          Per un rinnovamento della morale

            Troppa insistenza sul tema della sessualità, mentre per le guerre, il colonialismo, lo sfruttamento economico...

•          La dottrina sociale della Chiesa

            Un tema “vecchio” ma ripreso in modo nuovo.

•          35 anni di collegamento

            A che punto è la pastorale familiare e le politiche familiari in Italia?

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•          2025 Anno giubilare

            Un anno di grazia del Signore senza dimenticare le conclusioni del Sinodo.

 

 

39-CAMPI ESTIVI 2024

Il calendario definitivo

 

Ecco il calendario dei campi per famiglie di quest’estate.

Come associazione, quest’anno organizziamo un solo campo a inizio agosto. Per vostra comodità, segnaliamo anche il campo organizzato dalla diocesi di Cuneo e i WE organizzati dalla Comunità di Caresto (PU).

Anche quest’anno non perdete l’occasione per trascorrere alcuni giorni di vacanza in modo “diverso”!

 

2-9 agosto San Giacomo di Entraque (CN)

Tema da definire.

Relatore: Angelo Fracchia, biblista.

Org.: Diocesi di Cuneo.

È possibile partecipare anche al solo week-end iniziale.

Info: Angela e Tommy Reinero,

347 5319786, tommy.angela@libero.it

 

WE di agosto Caresto - Sant’Angelo in Vado (PU)

2-4 La sponsalità – Festa di Caresto

9-11 Le Beatitudini nella coppia

13-15 Regola di vita nella coppia

16-18 Fare memoria, essere riconoscenti

23-25 Il lavoro e le sue implicanze con la famiglia

I relatori saranno amici e volontari di Caresto.

Info: Daniela, 328 9455674, eremocaresto@gmail.com

 

3-10 agosto Valle di Cadore (BL)

Tema: Spero dunque siamo

Relatore: Monica Goisis

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Fiorenza e Antonio Bottero,

340 5195718, 375 6066265, antoniobottero@alice.it

 

Il calendario è consultabile sul sito: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le attività in evidenza.

 

40-BILANCIO 2023 F&F

Un bilancio economico in positivo

 

Carissime/i,

come potete leggere nella tabella sottostante, il bilancio 2023 dell’associazione Formazione e Famiglia, editrice della rivista, si è chiuso con un notevole attivo.

Questo è dovuto a due fattori: l’una-tantum dovuto al ristoro COVID erogato dall’Agenzia delle Entrate e l’aumento delle quote del 5x1000 da voi destinate all’associazione.

Infatti, quest’ultimo è cresciuto, rispetto all’anno precedente, di 1.500 euro. In controtendenza gli importi dei contributi liberali all’associazione, che sono leggermente diminuiti.

Sul fronte delle spese abbiamo sostenuto il campo estivo e coperto i costi per la pubblicazione della rivista (che sono in continuo aumento). A questo riguardo la tiratura è rimasta quella usuale (2000 copie per numero) e la scadenza quadrimestrale.

Ricordo infine che il volume di denaro movimentato in bilancio è raddoppiato rispetto agli anni precedenti al 2022 per l’inserimento delle entrate e delle uscite legate al campo estivo. Di conseguenza, è stato quindi chiuso il CCB dedicato.

Grazie ancora per il vostro sostegno,

la presidente Noris Bottin

 

41-PER APPROFONDIRE IL TEMA

I libri usati per realizzare questo numero

 

Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Editrice Queriniana, Brescia 2019 (24)

Si tratta di un libro non proprio recentissimo: la sua prima edizione italiana risale al 1969, e adesso si è arrivati alla 24° edizione.

Si tratta quindi di un long seller, scritto dal giovante teologo Ratzinger in un epoca in cui non era ancora condizionato dai ruoli che avrebbe poi via via ricoperto nella Chiesa.

Su 350 pagine del testo abbiamo utilizzato soprattutto le ultime 100. Le prime 250 sono infatti dedicate al mistero di Dio e alla figura di Gesù Cristo, troppe e a volte troppo complesse per poter essere riassunte.

Come potrete notare, leggendo quanto riportato in questo numero della rivista, l’autore, pur nel rispetto della tradizione, non ha timore a fornire una lettura più attuale su alcuni punti chiave del Simbolo, sottolineando non solo il valore della Tradizione ma anche i suoi limiti.

 

Hans Kung, Credo. La fede, la chiesa e l’uomo contemporaneo, Rizzoli, Milano 1994

Nel commentare il Credo l’autore presta attenzione ad alcune delle suggestioni che il tempo attuale pone al credente: p.e. lo strapotere del potere scientifico, le religioni orientali, il protestantesimo.

La sua è quindi una lettura critica del Simbolo e che si manifesta in osservazioni e critiche ad un certo modo di interpretare i misteri della fede.

Nonostante ciò alla base di questo testo troviamo questa affermazione: “Anche come uomini della fine del Ventesimo secolo, nonostante tutte le critiche al cristianesimo e alla Chiesa, si può dire in un atteggiamento di ragionevole fiducia: Credo. Io posso dire sì agli articoli del Simbolo apostolico come orientamento per la mia vita e speranza per il mio morire”.

Pur non essendo recentissimo questo libro risulta ancora utile ed interessante.

 

Dionigi Tettamanzi, Questa è la nostra fede, Centro Ambrosiano, Milano 2004

L’autore tratta il Credo con uno stile prevalentemente pastorale. è stato scritto durante il papato di Giovanni Paolo II e, di conseguenza, non mancano spunti tratti dal suo Magistero. Un’altra fonte, altrettanto importante, è l’edizione 1992 del Catechismo della Chiesa cattolica.

Si tratta quindi di un’esposizione “canonica” delle tematiche toccate dalla nostra professione di fede, ma non mancano spunti interessanti. Uno di questi è legato alla consegna del credo ai catecumeni nella domenica precedente la Pasqua. Questi lo dovevano imparare a memoria, ma non lo potevano trascrivere.

Tale proibizione era dovuta al fatto che, nei primi secoli della Chiesa, tutti i fedeli erano obbligati a tenere segrete e riservate alcune formule proprie della fede cristiana, tra cui il Credo.

Una cosa “preziosa”, dunque!

 

GF 64, Bibbia e famiglia, marzo 2009.

GF 77 Vivere le beatitudini, giugno 2012

D solito sulla rivista non si trattano temi teologici; siamo più orientati verso temi pastorali e sociali. Eppure, andando indietro nel tempo, abbiamo trovato alcuni numeri che potrebbero essere utili per integrare il percorso proposto in questo numero.

Nel 2009 abbiamo dedicato un intero numero alla Bibbia, con brevi introduzioni al Vecchio e al Nuovo Testamento e sulle modalità per pregarla.

Nel 2012 abbiamo presentato le beatitudini.

Esse sono l’espressione sintetica della novità cristiana, ma spesso le trascuriamo o le ignoriamo del tutto.

 

GF 93, Le dieci parole di Dio, marzo 2017.

GF 102 Il Padre nostro, giugno 2019.

Chi non conosce i Dieci Comandamenti? Eppure ogni tanto è bene riconsiderarli. Ce li hanno sovente proposti come una serie di no, ma essi sono invece la via maestra per non cadere nelle lusinghe del mondo. Letti alla luce del Risorto possono assumere anche una nuova valenza.

Infine il Padre nostro, la preghiere per eccellenza,

la preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato.

Nel numero 102 della rivista la ripercorriamo passo dopo passo.

Infine, sempre a proposito di preghiera, vi ricordiamo l’ultimo numero della rivista uscito prima di questo, interamente dedicato alla preghiera.