Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia

GF119 – marzo 2025

Ripensare il VI comandamento

 

Lettere alla rivista

1-IL DELICATO TEMA DELLA CONTRACCEZIONE

Fare quello che è bene e che fa bene anche all’altro

 

Mia moglie ed io abbiamo sempre usato metodi contraccettivi e non mi pento. Perché il Magistero continua a negare agli sposi la possibilità di generare responsabilmente?

Mario

Ci sono questioni che difficilmente si possono mettere per iscritto su una rivista, perché, almeno io ritengo, ogni caso va valutato di per sé.

Il Magistero della Chiesa non è lì per renderci la vita difficile, ma per farci pensare, poi sta alla coscienza di ciascuno decidere. Certo la coscienza va formata o per lo meno, come ci insegna S. Ignazio di Loyola, ci vuole discernimento.

S. Giuseppe quando si è accorto che Maria era incinta non ha subito applicato la legge o la prassi - lapidare la donna o esporla al pubblico ludibrio; ha pensato che in quel caso non si dovesse applicare la legge ma si doveva avere rispetto e anche compassione per una donna in quelle condizioni. Quindi pensò di separarsene in privato. Poi sappiamo come Dio è intervenuto nel sogno di Giuseppe.

Allora, davanti al dilemma che Mario mi presenta, suggerisco un discernimento accompagnato da persone che hanno esperienza e conoscenza della materia come ci suggerisce il libro di Tobia: “Chiedi consiglio a ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio” (4,18).

Il Cristiano è guidato dalla legge dell'amore, e ogni decisione deve essere presa non egoisticamente ma con generosità, rispetto e delicatezza verso l'altro, cioè, fare quello che è bene e che fa bene anche agli altri.

padre Vincenzo Salemi IMC

[N.d.R. Vorremmo ricordare che, in termini di contraccezione, non esiste solo quella chimica o meccanica ma anche quella naturale. Richiede studio, impegno, perseveranza ma rende le coppie che la praticano più consapevoli nei loro gesti d’amore.]

 

Dialogo tra famiglie

2-CRESCE L’ANALFABETISMO SENTIMENTALE

Si è perso il significato della parola amore?

 

C’è molto analfabetismo sentimentale tra i giovani (e meno giovani). C’è qualche rimedio per superare questa ignoranza?

Enrica

Chiedi molto: non è facile trovare rimedi a vuoti affettivi in famiglia o in altri luoghi significativi.

Oggi, anche tra molti genitori e figli, spesso si comunica a “messaggini”; la “premura” o l’attenzione con cui ci si occupa del coniuge o dei figli è spesso soffocata dalla fretta: non ci si ricorda di dirsi buon giorno, non ci si ringrazia di essere assieme, non si ha tempo di fare colazione assieme… al massimo un bacio frettoloso all’ultimo momento prima di ‘scappare’ a scuola o al lavoro. Non ci può essere educazione sentimentale se non c’è tenerezza…

Tra adulti in coppia certamente ci sono relazioni sane, affettuose, ma sempre più spesso capita che vi siano vari atteggiamenti negativi: uno domina l’altro fino ad esserne padrone e ad ucciderlo se vuole allontanarsi, oppure si sfruttano a vicenda od anche si offrono una reciproca libertà – che, in effetti, è indifferenza – e restano assieme per convenzione sociale o per motivi biologici, altri ancora si separano perché “non sento” più nulla per te!!!

E i figli? Cosa provano? Che ferita avranno? Molti non ci pensano affatto... anzi, creano ulteriori ferite quando si mettono uno contro l’altro investendo i figli con parole cattive perché è tutta colpa dell’altro…

Con esperienze famigliari di questo tipo i figli chiedono cose concrete, regali, acquisti continui e, tra i ragazzi di un gruppo, chi si innamora è considerato/a lo/a scemo/a di turno. Di qui rapporti sessuali senza legame affettivo sempre più precoci e, se non hai rapporti, sei anormale. A questa realtà, già molto lontana dai sentimenti, si è aggiunta, in tempi abbastanza recenti, anche l’incertezza sulla propria identità di genere: mi piace davvero un ragazzo o mi piace anche una ragazza e viceversa?

Cosa fare? Non possiamo cambiare il nostro mondo. Possiamo solo cambiare la nostra vita, curare ed esprimere i nostri sentimenti, amarci nella verità.

Anna Lazzarini

 

In questo numero

3-DE SEXTO. NON COMMETTERE ATTI IMPURI

 

di Franco Rosada

Coloro che si occupano di pastorale familiare e organizzano i corsi di preparazione al matrimonio si trovano quasi sempre di fronte ad interlocutori che in fatto di fede coltivano credenze che coincidono solo in parte con l’insegnamento del Magistero e che in fatto di morale sessuale non condividono affatto le Sue indicazioni.

In questo campo la Chiesa dà indicazioni precise: i rapporti sessuali sono ammessi solo all’interno del matrimonio, devono avvenire in modo umano, ed essere aperti alla procreazione. In tutti gli altri casi la materia dell’atto è considerata grave e, quando vi siano anche piena avvertenza e deliberato consenso, si commette un peccato mortale, si rompe la comunione con Dio.

Stante queste premesse, è davvero un’impresa formulare nuove proposte che possano essere maggiormente condivise e che, allo stesso tempo, non si discostino troppo dalle indicazioni magisteriali. Nonostante questo, ci abbiamo provato.

 

Le cronache degli ultimi anni, grazie anche all’impegno soprattutto delle donne, hanno portato alla luce dell’opinione pubblica molti modi malsani di vivere la relazione affettiva, modi che vanno ben al di là del sesto comandamento (gli atti sessuali) e toccano tutti i comandamenti che riguardano il prossimo: il quinto (ferire l’altro, soprattutto in senso morale), il settimo (rubare l’affetto) e l’ottavo comandamento (ingannare l’altro, mentire sui sentimenti).

Ma, per poter essere più chiari è utile uscire dall’orizzonte del decalogo e passare a quello delle virtù e dei loro contrari: i vizi.

I sette peccati capitali: ira, avarizia, invidia, superbia, gola, accidia, lussuria rivelano in modo più immediato l’ampiezza del male che può essere presente in una relazione affettiva.

La superbia si manifesta come volontà di sottomettere gli altri, l’invidia si manifesta con la gelosia, la lussuria come incapacità di accogliere l’altro ma di usarlo, la gola come ricerca insaziabile di emozioni, l’accidia come rifiuto della gioia e del dolore, l’ira come violenza, volontà di distruggere l’altro, l’avarizia come attaccamento morboso.

L’orizzonte è sempre quello del peccato ma, meglio dei comandamenti, permette di cogliere meglio la sua dimensione globale, che tocca tutta la persona e non solo la sua sfera sessuale.

In quest’ottica si comprende appieno l’invito di papa Francesco alla virtù della castità: “La castità è più che l’astinenza sessuale e va connessa con la volontà di non possedere mai l’altro. Infatti, amare è disporsi nella conoscenza di un corpo, di una psicologia e di un’anima che non sono i nostri, e che devono essere contemplati per la bellezza di cui sono portatori”.

Non mancano quindi, nella proposta cristiana, strumenti che permettono di avere uno sguardo d’insieme sull’arte di amare, che vanno ben al di là del sesto comandamento.

 

Serve, a questo punto, proporre una via che esalti la positività dell’agire, nonostante le inevitabili cadute. Questa via può essere trovata in una proposta introdotta negli ultimi decenni nella teologia e nella prassi morale: l’opzione fondamentale.

Con l’opzione fondamentale la persona compie una scelta decisiva per la sua vita: quella di seguire Cristo e di mettere in pratica il suo grande comandamento “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente… e il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-40).

Questo non rende il soggetto immune dalla tentazione e dal peccato ma lo illumina sempre anche quando è nell’errore indicandogli la strada per ritornare a Dio.

L’opzione fondamentale, se perseguita con costanza, aiuta il soggetto nella formazione di una coscienza retta, gli permette di evitare di non identificarsi con il proprio peccato e di non cadere in inutili sensi di colpa.

 

Se ritorniamo adesso sulle premesse con cui ho aperto questo articolo, non è difficile riconoscere che, con il magistero di papa Francesco, qualcosa è cambiato. Se il peccato non è stato messo in discussione è cambiato lo sguardo sul peccatore.

Papa Francesco mentre ribadisce che nella legge morale non vi può essere gradualità, afferma che vi può essere gradualità nella capacità della persona di farla propria. Questo atteggiamento “apre la porta a una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un approfondimento graduale delle esigenze del Vangelo” (AL 38).

 

4-DAL TROPPO... baci “mortali”

 

Da un manuale per confessori del 1837...

Il Testo si apre con le avvertenze dell’Autore: “In questo libro, destinato esclusivamente ai preti e ai diaconi, noi abbiamo tentato di raccogliere ciò che sarebbe pericoloso ignorassero i sacerdoti, esercenti il ministero della confessione. Questo osceno argomento (VI comandamento del Decalogo) essendo sempre, per la nostra fragilità, pericoloso non lo si deve studiare che per necessità, con animo vigilante, con retto fine e invocando la suprema assistenza di Dio”.

Scorrendolo leggiamo:

•          I baci, ancorché onesti, dati o ricevuti per motivo sensuale, fra persone dello stesso sesso o di sesso diverso, sono peccati mortali.

•          Se, all'infuori d'una legittima causa, si accarezza in modo veramente sensuale altre persone, dell'uno o dell'altro sesso, non si va esenti da peccato mortale, in forza dell'evidente pericolo di emozioni veneree in cui s'incorre.

•          L'esperienza dimostra che la vista influisce sulla lussuria meno del tatto: ciò nondimeno è certo che certi sguardi, benché in sé stessi onesti, sono peccati mortali quando avvengono accompagnati dall’intenzione sensuale.

•          L'atto coniugale compiuto per il solo godimento è peccato, ma soltanto veniale.

Fonte: Utopia.it

 

...ad un libro di Teologia morale del 2007

Nella teologia morale, il contrario dell’amore può essere “usare l’altro”, usare il corpo dell’altra persona per il proprio piacere e la propria gratificazione sessuale.

Padre Antonio Royo Marín, O.P., nella sua opera Teología Moral para seglares [teologia morale per laici (2007)] presenta uno schema piuttosto specifico delle pratiche che costituiscono un peccato.

Scorrendolo leggiamo:

•          Sarà ordinariamente peccato mortale guardare o toccare senza causa grave (come quella del medico, del chirurgo, ecc.) le parti intime di altre persone, soprattutto se sono del sesso opposto.

•          I baci e gli abbracci costituiscono peccato mortale quando con essi si vuole eccitare direttamente al piacere venereo.

•          Possono essere molto facilmente mortali i baci passionali tra fidanzati (anche se non si tenta il piacere disonesto), soprattutto se sono sulla bocca e si prolungano per qualche tempo, perché è quasi impossibile che non rappresentino un pericolo prossimo e movimenti carnali in sé o nell’altra persona.

Bisogna tener sempre presente che l’amore avviene tra due soggetti, e non tra un soggetto e un oggetto. Per questo, la Chiesa insegna a non trasformare l’altro in una cosa, in un giocattolo.

Fonte: nazarnet.net

 

Con sorprendenti eccezioni

Al contrario, un autore del 1600, Antonino Diana, teologo morale notissimo ai suoi tempi, scriveva: “Il piacere, che si avverte nei baci e negli abbracci, è meramente sensuale, consiste nella relazione con l'oggetto toccato, e non è altro che il piacere di una cosa morbida, tiepida, lieve, tenera, diverso dall'altro piacere turpe che è quello unito all'eccitazione della carne, in cui interviene lo spirito di generazione. Il tatto e i baci con il piacere del primo genere non sono libidinosi, e mortali, e quelli con il piacere del secondo genere sono mortali; dunque, baci e abbracci non sono di per sé libidinosi, e mortali”.

Come è evidente, questo testo rappresenta un’eccezione rispetto alla regola. Nonostante le pesanti accuse di lassismo (troppa indulgenza) che ricevette- soprattutto dopo la morte - occupò incarichi importanti come quella di esaminatore dei vescovi a servizio di ben tre papi in successione.

Fonte: Scaraffia, Atti impuri

 

Le differenze

Confrontando i tre testi, sembra che il rigore morale in campo sessuale sia soprattutto una prerogativa degli ultimi due secoli: un bacio appassionato era nel 1800 peccato mortale e lo è ancora oggi.

Ma qualche differenza c’è: se nell’Ottocento tutto quello che riguardava il VI comandamento era da considerarsi osceno, oggi la fonte del peccato non è solo l’atto in sé ma anche il mancato rispetto dell’altro/a.

 

5...AL TROPPO POCO. L’altro come “oggetto”

 

La relazione di riserva

La relazione di riserva – backburner relationship – è una sorta di un piano B, spesso nascosto da frasi come: “Godiamoci il momento”, “Vediamo come vanno le cose”, “Non facciamoci troppe domande”.

In tempi di fluidità è un comportamento diffuso, ma esisteva anche prima, solo che non aveva un nome. Siamo in coppia e flirtiamo con un ex o con qualcuno conosciuto da poco? Siamo single e ci teniamo aperte diverse possibilità? Le relazioni di riserva gratificano chi le pratica (richiedono meno attenzione, sono a basso costo emotivo, prive di ansia) ma ovviamente non chi le subisce.

Ho partecipato come osservatrice a un gruppo di sostegno per donne rimaste impigliate in una “relazione di riserva”. Le voci degli uomini che venivano fuori dai loro racconti erano tutte molto simili. Lui “aveva già una storia fissa ma era scontento”. Lui “aveva un lavoro così impegnativo che non gli consentiva legami”. Lui aveva “bisogno di vedere gente e fare nuove amicizie per non cadere in depressione”. Lui sapeva di essere incostante, ma “bisognava prenderlo così com’era”. Lui era il tipo “avventuroso che non fa programmi”. Il guaio è che poi alcuni di questi signori nel frattempo si erano sposati, erano diventati padri e si erano anche separati. Tenendo in caldo le “riserve” per anni.

Online si trovano orribili confessioni di backburner che spiegano come tenere sulla corda una ragazza, ignorarla per un po’, tornare da lei.

Ma cominciano esserci ragazze alfa capaci di usare lo stesso metodo. Effetti della parità?

Roselina Salemi, Specchio de La Stampa, 21 aprile 2024

 

Gli amanti virtuali

Tra i nuovi traditori abbiamo gli amanti virtuali. Un perfetto sconosciuto che scrive e-mail d'amore, straripanti di passione, a una perfetta sconosciuta, coadiuvati dalla segretezza e dal presunto anonimato, tra lucine lampeggianti e fedifraghe che illuminano le loro notti altre e altrove. Sono coloro che, tra mancanze e compensazioni, si amano senza corpo e senza sensi. Senza lenzuola, senza odori e umori. Apparentemente senza postumi, rischi e scomodi sensi di colpa.

Questa forma di tradimento viene consumata segretamente da chi scrive e-mail d'amore e di desiderio, scaldate da parole audaci e rese ancora più trasgressive da immagini o video hot; il tutto rigorosamente a casa propria. A debita distanza dal mondo dell'altro.

Il protagonista del tradimento agisce in silenzio sotto le lenzuola silenziando la suoneria delle notifiche, il più delle volte mentre divide lo stesso talamo coniugale con il partner reale.

Quello ignaro, e in carne e ossa.

Dal sito di Valeria Randone

 

Analfabetismo sentimentale

Secondo l’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza   per oltre la metà dei ragazzi il primo rapporto avviene tra i 15 e i 17 anni. Con un allarmante distacco – in un’età decisiva per lo sviluppo della personalità – fra affettività e sessualità.

Più di un terzo di oltre 1.000 giovani “under 20”, intervistati dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (SIGO), ha dichiarato la propensione a consumare il rapporto già dopo il primo incontro. ”Per metà di essi non c’è una regola e solamente il 4% attende di essere ufficialmente una coppia” (Nicola Surico, presidente della SIGO). Diventano più frequenti anche le esperienze di sesso di gruppo.

Da qui, “l’analfabetismo sentimentale, in crescita anche fra le ragazze”, che “si traduce nella scomparsa del corteggiamento a vantaggio di un uso sessuale del corpo precoce, aggressivo e progressivamente promiscuo (…). L’analfabetismo sentimentale diventa poi analfabetismo sensuale: si fa sesso, si agiscono comportamenti sessuali, amputati però della capacità di sentire le emozioni, la gioia di una carezza a lungo desiderata e sognata, il gusto di un abbraccio e di un bacio che faccia sentire unici, amati e felici” (Alessandra Graziottin, Direttore del Centro di Ginecologia del San Raffaele Resnati, Milano).

Giuseppe Savagnone, settimananews

 

6-SULLA MORALE SESSUALE NELLA CHIESA CATTOLICA

Di fronte alla singolarità irripetibile di ogni essere umano la norma teorica continua ad avere senso e valore per il singolo solo attraverso una faticosa e amorosa opera di discernimento personale.

Agostino voleva salvare la propria anima e credeva di purificarla abbandonando qualsiasi tipo di piacere sensibile, dal sesso alla natura. In nome dell'ascesi separò l'anima dal corpo e si rifugiò nella meditazione e nella mortificazione di sé stesso.

Non state a guardare se sono bruna, perché il sole mi ha abbronzato. I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, non l’ho custodita. CdC 6

La sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita; perciò, anche gli atti specifici della vita coniugale, ordinati secondo la vera dignità umana, devono essere rispettati con grande stima GS 51

 

di Enrico Chiavacci

È ormai tempo che la teologia morale prenda atto delle origini da cui nasce la rigidità di talune posizioni magisteriali e le ponga a confronto con le trasformazioni profonde dell’esperienza umana in materia sessuale, tutte avvenute tra il XIX e il XX secolo e tuttora in crisi di crescenza.

 

Da dove veniamo

Le prime elaborazioni dell’epoca dei Padri si basano sulla base filosofica dell’interpretazione della natura derivante da Platone o da Aristotele.

Per Agostino l’attività sessuale, letta come impulso corporeo, è sempre – in una visione più o meno platonica – cosa negativa. Solo l’obbedire all’ordine di moltiplicarsi può legittimarla.

Il rapporto sessuale fra coniugi non deve avvenire per piacere, ma esclusivamente per la procreazione, eventualmente con piacere.

Così gli sposi che rifiutano la prole e si uniscono nei tempi allora considerati infecondi (le mestruazioni) trasformano il matrimonio in un lupanare.

Lo stato di perfezione verginale (o comunque di assoluta castità monastica) è stato sempre considerato via di perfezione superiore a quello coniugale fino ad alcune aperture di Pio XII (ma ancora vivo in gran parte della mentalità popolare).

Così, prima che fosse diffuso il celibato dei preti, sembra fosse raccomandato ai preti uxorati di non celebrare la Messa senza prima essersi astenuti per qualche giorno dai pur legittimi rapporti con la moglie; è comunque ampiamente documentato, dal IV-V secolo, che l’uomo sposato ammesso al presbiterato doveva astenersi dal rapporto coniugale e mantenere la vita familiare considerando e amando la moglie come una sorella.

Così fin quasi ai giorni nostri la donna che aveva partorito non era conveniente che entrasse in chiesa senza una previa benedizione ‘mulieris post partum’.

Va anche considerata, entro lo schema tradizionale, la funzione della donna in materia di sesso. Nel rapporto sessuale la funzione della donna è sostanzialmente passiva: l’eccitazione è necessaria solo nell’uomo, e la donna ha il dovere di subire l’aggressione maritale.

Si apre qui la questione dell’amore.

Per la Chiesa e per la cultura occidentale (e molto più in altre aree culturali) l’amore come intesa e attrazione reciproca non è richiesto per il matrimonio. In genere il matrimonio è combinato dai genitori spesso fin dall’infanzia.

Nel XX secolo, per motivi che subito vedremo, l’importanza dell’amore come scelta, intesa e attrazione reciproca diventò gradualmente normalità.

In realtà un’attrazione corrisposta e ‘sessuata’, ma con profonda valenza non solo ‘sessuale’ fra due persone, vi è sempre stata.

I grandi poemi e le grandi narrazioni di tutti i tempi ne rendono testimonianza: “l’amor che a nullo amato amar perdona” è un’esperienza presente in ogni epoca e cultura. Si pensi anche al Cantico dei cantici. Solo che non è stato preso in seria considerazione nella morale sessuale e matrimoniale cristiana.

 

Dove andare?

Nel corso del XIX secolo due concezioni nuove sono emerse, parallelamente e profondamente innovative rispetto all’impianto di base di tutta la riflessione morale cristiana precedente.

Primo: l’essere umano non può prendere coscienza e conoscenza di sé stesso se non in relazione all’altro.

Fin dal seno materno, e poi specialmente nell’infanzia, l’essere umano (come molte altre specie viventi) riceve passivamente memorie – suoni, gesti, linguaggi etc. – che restano spesso allo stato inconscio ma che influiscono sulle sue future scelte e in generale sulla comprensione di sé.

Secondo: la relazione con l’altro è sempre ‘sessuata’, e quindi il sesso – e in genere la vita e la morale sessuale – non è più pensabile solo come una serie di singoli comportamenti, ma primariamente come una capacità di relazione di una ‘persona’ con un’altra.

L’attrazione amorosa, sempre misteriosa, di una persona verso un’altra (si pensi all’influsso inevitabilmente inconscio e impercepibile dei feromoni) chiama in gioco la persona nella sua interezza.

In base a ciò, oggi la morale sessuale non può concepirsi che all’interno di una ‘morale della relazione’.

Allo stesso tempo, oggi si assiste a una tragica trasformazione sociale profonda del significato della sessualità: alla perdita di significato (di rilevanza) della sessualità per il mio pormi come persona di fronte ad altra persona.

In questo quadro il partner sessuale non entra se non come strumento per me: l’idea stessa di relazione fra persone sparisce salvo che come convenienza reciproca. Così, alla locuzione classica di ‘fare all’amore’ è subentrata la nuova locuzione ‘fare sesso’.

 

Partire dal Concilio

Occorre dunque, se vogliamo studiare i gravi problemi morali del nostro tempo, procedere alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana. Nel Vangelo abbiamo ben poco, ma quel poco è importante.

In Mt 19 vi è il tema del matrimonio, e viene citato Gn 3 (e non Gn 1: crescete e moltiplicatevi): il commento di Gesù è: “Così che non sono più due, ma una carne sola”, e la congiunzione è opera di Dio, come il formarsi di una convivenza nuova (“lascerà il padre e la madre”) con una evidente valenza sessuale.

Ciò appare anche nel Cantico, dove l’attrazione sessuale è esplicita, ma sfocia in una dedizione reciproca inestinguibile: “forte come la morte è l’amore”. Si noti come in tutta la Scrittura la procreazione non è mai la causa, primaria o unica, giustificante il rapporto sessuale: lo è sempre invece la relazione di dono totale.

Col Concilio, e solo col Concilio, l’esperienza umana maturata fra il XIX e il XX secolo, e che abbiamo sopra descritto, viene recepita da un documento magisteriale.

Nella Costituzione Gaudium et spes (GS) l’impianto del rapporto matrimonio-amore-sessualità-procreazione viene radicalmente riesaminato, proprio ed esplicitamente alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, superando di slancio oltre un millennio di una logica e di regolamentazioni varie, sia religiose che culturali.

Ciò spiega la difficoltà di comprensione e di ricezione della dottrina conciliare, che però, almeno in parte è dovuta alla superficialità della lettura del documento (o della non-lettura), e anche al timore di infrangere una tradizione ecclesiastica di regole e precetti, tradizione però solo umana.

GS riconosce subito le profonde piaghe che oggi mettono a grave rischio amore e matrimonio: poligamia, divorzio, libero amore, e altre deformazioni; ma anche all’interno del matrimonio: egoismo, edonismo, uso improprio anti-procreativo. Ma le profonde mutazioni sociali odierne, nonostante tutte le difficoltà che ne derivano, spesso manifestano in modo diverso la vera natura del matrimonio.

E subito dopo GS dà una definizione del matrimonio come intima comunione di vita e di amore coniugale e come tale comunità deve nascere da un’intima unione, come dono reciproco di due persone.

Qui appare chiaramente quello che definisco ‘cambiamento di paradigma’: al centro di tutta la trattazione di GS appare sempre, e ripetutamente, la donazione reciproca tra persone, la relazione interpersonale specifica e paritetica tra gli sposi.

GS abolisce ogni superiorità o potestà dell’uomo rispetto alla donna e dà un nuovo senso e dignità al rapporto sessuale: gli atti propri del coniugio sono onesti e dignitosi e, in modo veramente umano, intendono e incoraggiano la donazione reciproca. Così la sessualità ha una sua propria e specifica finalità, indipendente per principio dalla finalità procreativa.

La decisione di procreare spetta alla libera e generosa volontà dei coniugi.

Possono infatti imporsi serie ragioni, singole e collettive, per cui la procreazione può non corrispondere all’amore di Dio Creatore, e GS enumera le ragioni fondamentali per cui può essere conveniente o doveroso non procreare.

Ma questo non deve risolversi nell’astensione dai rapporti sessuali.

E poco dopo si afferma: La sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita; perciò, anche gli atti specifici della vita coniugale, ordinati secondo la vera dignità umana, devono essere rispettati con grande stima.

Si noti come con questa semplice frase - meravigliosamente superiori - va in crisi l’intero impianto ultramillenario della morale sessuale cristiana.

Tale impianto era basato sull’unica specifica ragion d’essere del rapporto sessuale, tipica per tutto il regno animale a cui l’essere umano appartiene, che è quella della riproduzione.

Ogni singolo atto che tendesse ad evitare la riproduzione era considerato contro natura. La rilevanza della relazione fra ‘persone’ era sconosciuta.

L’enciclica Humanae Vitae bene esprime, e anche arricchisce, il tema della GS, ma nell’indicare le condizioni di liceità dei modi di impedire la procreazione ricade nella vecchia logica: l’atto viene giudicato nella sua pura fisicità.

Restano aperti molti nuovi problemi: si pensi alla valutazione dei rapporti prematrimoniali, ad alcune situazioni di vera omosessualità, alla sessualità in persone gravemente disabili, alla sessualità dei giovanissimi, non ancora in grado di concepirsi come ‘persone’.

 

Problemi aperti

Io ritengo, dopo oltre quaranta anni dalla GS, che oggi si assista a un doppio e simmetrico irrigidimento cristiano e ‘pagano’: di segno opposto ma con unica base che direi individualistica.

Il problema ‘morale’, nel senso generico di scelte di vita, nell’area della sessualità viene letto da un lato e dall’altro come problema di comportamenti singoli personali, in cui l’attenzione alla persona dell’altro ha scarso o nullo rilievo.

Nell’area cristiana il tema è il lecito/illecito di un comportamento, sulla base di schemi astratti vecchi di oltre un millennio, nati e sviluppatisi fino ai nostri giorni senza alcuna (o scarsa) attenzione all’amore come dono reciproco, come relazione profonda interpersonale che trova la sua espressione nel rapporto sessuale.

Il sesso è problema del singolo, e si risolve in pratica in una serie di divieti; ciò avviene in genere anche all’interno dei corsi di preparazione al matrimonio, e ciò avviene talora anche in riprovazioni ufficiali nei confronti di Autori che cercano – nel quadro tracciato dalla GS – di studiare più a fondo il problema.

Nella mentalità invece oggi dominante nell’area occidentale si ha un processo simile e inverso. Il sesso è sempre un problema del singolo, maschio o femmina che sia. Il singolo mira sempre a celebrare o soddisfare sé stesso anche in campo sessuale, come in campo economico o in quello di predominio sugli altri.

Si cerca perciò di fare sesso senza alcuna preoccupazione per una relazione profonda e vitale per il partner, consensuale o pagato che sia.

L’annuncio morale cristiano deve coraggiosamente affrontare la morale sessuale con spirito nuovo.

Forse noi – teologi, pastori, e anche Magistero – abbiamo troppo e spesso esclusivamente calcato la mano sui comportamenti sessuali invece che sull’idea centrale di vita di relazione, che dovrebbe essere, secondo il Vangelo, il cuore di ogni esortazione morale cristiana in ogni campo, e primariamente nella relazione esplicitamente sessuata.

Forse solo in questo quadro, oggi, singoli precetti in materia sessuale possono avere senso e accoglienza nei nostri giovani (e meno giovani), sopraffatti da un imperante individualismo-egoismo.

Fonte: Rivista di teologia morale, n.161

Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Secondo voi, che differenza c’è tra ‘fare all’amore’ e ‘fare sesso’?

•          Cosa distingue, a vostro avviso, l’amore umano dall’accoppiamento tra animali?

•          Condividete la posizione dell’autore riguardo alla liceità dei modi per impedire la procreazione?

•          Amore e vita di relazione: a quale stadio della relazione è concepibile il dono totale di sé all’altro?

•          Cosa insegnare ai giovani per aiutarli ad evitare di essere “usati”?

 

6-NON È BANALE

Una sessualità banalizzata è una fonte pericolosa per cui tante persone non trovano più in essa l'espressione del proprio amore, ma solo una specie di droga che si somministrano autonomamente.

Perciò la lotta contro la banalizzazione della sessualità è anche una parte della lotta perché la sessualità venga valutata positivamente e possa svilupparsi la sua positiva azione nella totalità dell'essere umano.

Benedetto XVI, Luce del mondo, LEV 2010

 

7-I DIECI COMANDAMENTI

La trasformazione del VI comandamento: da “non commettere adulterio” a “non commettere atti impuri"

L’amore malato non va solo contro il VI comandamento ma viola quasi tutta la seconda tavola della Legge
 

A cura della Redazione

Gli atti in materia sessuale ricadono sotto il sesto comandamento “Non commettere adulterio” (Es 20,14) anche se correntemente prevale un’altra definizione: “Non commettere atti impuri".

 

Dal sociale al personale

Questa trasformazione della definizione, scrive Lucetta Scaraffia (1), “sposta lo sguardo del giudice dalla comunità ferita dal peccato nella sua coesione all'individuo peccatore. Dalle conseguenze sociali del peccato si passa così a quelle spirituali nell'animo del peccatore. Si tratta di un lento passaggio che segna tutta la storia del cristianesimo.

Come nelle comunità ebraiche, a lungo per i cristiani vengono sanzionati i comportamenti sessuali devianti di maggiore rilevanza sociale.

Sarà per influenza dello stoicismo che l'orientamento dei cristiani si farà sempre più rigoroso e attento ai comportamenti specifici.

Ma ancora nel terzo secolo, momento di affermazione delle prime scuole teologiche, la lussuria viene condannata soprattutto nelle sue forme interpersonali e di rilevanza sociale.

All'origine, la disciplina morale cristiana è fondata sulla tradizione dei sette peccati capitali: ira, avarizia, invidia, superbia, gola, accidia, lussuria proposti in questo ordine che corrispondeva alla loro gravità. Una classifica che fa trasparire un'etica più attenta al mantenimento dell'ordine comunitario che alle trasgressioni derivate dalla concupiscenza.

Non si può negare che in sostanza i peccati condannati con maggiore severità erano quelli contro la carità verso gli altri, vero pilastro dell'insegnamento evangelico, per cui la mancanza di castità diventava tanto più grave quanto più si avvicinava ad una colpa sociale.

Ma a partire dal XV secolo la pedagogia morale cominciò a sostituire il decalogo all'elenco dei peccati capitali.

Già alla fine del Quattrocento, in un penitenziale anonimo, era scritto che la fornicazione è un peccato ‘più detestabile dell'omicidio e del furto’.

Un'affermazione sicuramente esagerata ma che dà l'idea di come stesse cambiando la tendenza morale”.

 

Materia grave

I peccati contro i dieci comandamenti di solito non hanno tutti la stessa gravità. Per esempio, nel catechismo romano del 1566 leggiamo: “Il furto fa parte certamente del numero dei peccati, ma se uno ruba uno zecchino, commette certamente minor peccato di un altro che ne ruba cento” (2).

Invece, uno dei pilastri su cui si fonda la morale sessuale tradizionale della chiesa, scrive Martin M. Lintner (3), “è il principio che nell'ambito del sesto comandamento non vi sia materia levis ma solo materia gravis, quindi solo materia grave e di conseguenza oggettivamente solo colpa grave, ed ex toto genere suo, vale a dire per tutto il suo genere e in senso lato, dai pensieri impuri fino allo stupro.

Con ciò la sessualità fu caratterizzata di un enorme carico di colpe, ma venne pure completamente materializzata perché fu limitata al singolo atto isolato e oggettivamente osservabile in sé, che - isolato dai valori personali o dal rapporto in cui è integrato - venne misurato in base alle norme generali.

La dottrina della materia gravis ebbe inoltre come conseguenza una sopravvalutazione della morale sessuale in generale e un’occupazione sovradimensionata con la sessualità, cosa che nella Neoscolastica si rifletté nello sforzo di descrivere dettagliatamente e di concepire casisticamente ogni possibilità di modi e di varietà degli atti sessuali”.

 

L’amore e il peccato

Oggi si è acquisita la consapevolezza che la fonte del peccato sessuale non è solo l’atto in sé ma anche il mancato rispetto dell’altro/a. Quindi non si agisce solo contro il sesto comandamento ma a quasi tutta la seconda tavola della Legge. Proviamo a scorrerla attingendo a quanto pubblicato a suo tempo su questa stessa rivista (4).

 

NON UCCIDERE

“C’è poi un ultimo volto dell’uccidere che sicuramente è il più nascosto” scrive Ricca. “Parliamo dei molti delitti incruenti, magari consumati tra le mura domestiche, in cui non si versa sangue ma si uccide qualcosa di una persona: si può uccidere un sentimento, una passione, la dignità, la giovinezza di qualcuno, e lo strumento utilizzato è la parola.

Ma si può uccidere anche con l’indifferenza, con l’umiliazione”.

 

NON RUBARE

Cosa c’è alla base del furto? “C’è una specie di sete di avere – continua Ricca – ma questa pulsione è una grande illusione: quella che l’avere equivalga all’essere”.

Chi ruba di più? Non certo “i ladri di professione ma coloro che rubano occultamente; infatti, si ruba per necessità ma soprattutto per avidità. Si vuole avere sempre di più, possibilmente subito, senza faticare”.

Queste considerazioni, applicate alla sfera sessuale, diventano il voler tutto e subito non rispettando i tempi dell’amore, nel prendere senza dare (affetto, tenerezza, sicurezza), il coltivare più relazioni contemporaneamente.

 

NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA

Dire la verità è importante anche nei rapporti interpersonali, scrive Ricca, “la sua mancanza indica slealtà e non autenticità. Questo vale nel rapporto di coppia, nel rapporto di amicizia, nei rapporti di lavoro. Con un’immagine si potrebbe dire che la verità è l’ossigeno dei rapporti umani, mentre la menzogna è il veleno”.

Pensiamo a quanti “ti amo” pronunciati con l’intenzione di ingannare l’altro, a quante false promesse (lascio mia moglie per te), a quante false minacce (sono incinta) ma anche a quante mezze verità (nascondere una parte di sé stessi).

“Una mezza verità” scrive ancora Ricca, “mescola verità e menzogna, crea l’illusione della verità”.

Pensiamo anche ai modelli di relazione che i media propongano. “La vita che esse dipingono”, scrive frère John, ”è irreale ma tuttavia è in grado di suggestionare molti. Infatti, agli occhi di molti contemporanei questa ‘realtà virtuale’ sembra più reale della vita che essi conducono, e ciò non può che condurre alla delusione, alla frustrazione, al vuoto”.

 

NON DESIDERARE

“Questo comandamento”, scrive Ravasi, “non condanna solo i tentativi di impadronirsi dell’amore della donna di un altro ma anche ogni atteggiamento che riduca la donna a mero ‘oggetto’ del desiderio, a un giocattolo. E in questo la televisione, il cinema, la pubblicità, i giornali possono diventare un infame strumento di perversione sociale”.

Andando oltre, pensiamo al nefasto impatto che può avere la visione di siti pornografici, soprattutto quando diventa un modello da imitare.

Il problema vero, dopo questo breve excursus, sta nell’incapacità che abbiamo di cogliere la piena gravità del nostro peccato.

 

1 Lucetta Scaraffia, Atti impuri, Editori Laterza, Bari-Roma 2024

2 cit. Cataldo Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Editrice Querinana, Brescia 2013

3 Martin M. Lintner, La riscoperta dell'eros. Chiesa, sessualità e relazioni umane, EDB, 2015

4 GF 93, Le dieci parole di Dio, marzo 2017

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Secondo voi, in che misura il peccato contro il VI comandamento è un peccato sociale?

•          In tutti gli atti sessuali c’è materia grave? Un bacio appassionato tra innamorati equivale ad un rapporto completo?

•          Quando il nostro modo di amare manca di rispetto nei confronti dell’altro? Quanto trascuriamo il fatto che l’amore è “non fare agli altri quello che non vuoi che venga fatto a te”, esattamente come non rubare, mentire, uccidere?

 

8-LE VIRTÙ E I VIZI CAPITALI

Alle quattro virtù cardinali la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza si oppongono i sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria.

La superbia si vince con l’umiltà; l’avarizia con la liberalità; la lussuria con la castità; l’ira con la pazienza; la gola con l’astinenza; l’invidia con l’amor fraterno; l’accidia con la diligenza e col fervore nel servizio di Dio.

 

a cura della Redazione

Analizzare l’agire umano utilizzando le virtù e il loro opposto: i vizi, non è più di moda.

Sfogliando lo stesso catechismo della Chiesa cattolica vediamo che ad esse sono dedicate meno di dieci pagine contro le cento dei comandamenti.

Eppure, “la contrapposizione frontale tra le virtù fondamentali e i vizi capitali fu per secoli un’occupazione intellettuale di straordinaria importanza”, scrive Alessandro Galvan (1). “Essa consentiva di sondare, disponendo di un nuovo vocabolario e di nuove categorie, quel torbido mondo di passioni e pensieri che è l’anima umana e di fornirle l’armamentario e l’attrezzatura necessari per contrastare il male”.

Analizzare i peccati d’amore non solo con lo strumento dei dieci comandamenti ma anche con quello dei vizi che si oppongono alle virtù, ci permette di cogliere in modo più chiaro la piena gravità di certi nostri comportamenti in una relazione amorosa malata.

Parlare di ira anziché di omicidio è più immediato quando siamo di fronte a comportamenti violenti, sia fisici che verbali.

Proviamo allora a scorrere l’elenco dei peccati legati ai vizi seguendo l’ordine che diede loro Gregorio Magno nel sesto secolo.

Nel farlo attingeremo a quanto pubblicato a suo tempo su questa stessa rivista (2).

 

SUPERBIA

La tradizione occidentale pone la superbia a capo dei sette vizi capitali perché alla base di tutti i vizi è sempre ravvisabile un amore smodato per il proprio io, cioè un atteggiamento superbo!

“Il superbo”, scrive Sabino Frigato (3), “anche se non allo stato puro, è una persona tremendamente antipatica e insopportabile. L’unica relazione che può instaurare è quella dall’alto in basso. Gli altri sono solo pedine da usare per la propria affermazione. Il superbo è anche un presuntuoso, un vanaglorioso, un millantatore, un arrogante, un ipocrita e, per completare, un terribile egoista”.

È difficile non ritrovare, nel nostro agire quotidiano, nei nostri rapporti affettivi qualcuna di queste mancanze legate alla superbia.

Proprio per questo, aggiunge padre Livio Fanzaga, “Dio, a volte, permette che l’orgoglioso cada in altri peccati, per esempio quelli carnali, che sono meno gravi per l'anima ma comportano una vergogna più manifesta agli occhi degli uomini”.

 

INVIDIA

L’invidia riguarda prevalentemente il rapporto con determinate condizioni (relativamente all’aspetto estetico, materiale, di successo, di potere, di status) la cui mancanza nel soggetto viene resa evidente dal confronto sociale.

“L’invidia è una terribile frustrazione”, sottolinea Frigato. “Non solo ce la troviamo dentro ma, come dice la parola in-vidia, ci fa veder male, nel senso che rende il nostro occhio cattivo fino a non vedere più l’altro e a volerne addirittura la sparizione”.

Invidia e gelosia non sono la stessa cosa anche se hanno molti punti in comune. In questa sede abbiamo collocato la gelosia come un’espressione   dell’avarizia.

 

IRA

Per questo peccato è necessaria una prima distinzione: “sdegnarsi per delle ingiustizie, per la violenza contro gli innocenti o per la falsità e l’ipocrisia di tanti non solo è giusto ma è anche doveroso”, scrive Frigato.

L’ira, come peccato, può essere di due tipi: la collera nera e quella bianca.

La collera nera, precisa Frigato, “scatta quando uno si sente ‘aggredito ingiustamente’ e si accende come un fiammifero,”. Sono piatti che volano, urla e grida. Si tratta di un‘ira che ferisce e fa male sia a noi stessi che agli altri. Ma la più pericolosa è la collera bianca, che riguarda coloro che sanno trattenersi.

Costoro, continua Frigato, “conservano dentro un livore e una rabbia che non aspetta altro che l’occasione buona per colpire. È l’ira amara, vendicativa, di chi è subdolo e aspetta solo il momento opportuno per farla pagare all’altro”. È un’ira che porta alla vendetta, e può arrivare fino al crimine.

 

ACCIDIA

“L'accidia attecchisce in una vita tutta giocata in superficie, in cui prima o poi da dentro affiora il vuoto: un vuoto intriso di nulla”, argomenta Frigato. E continua: “quando il giorno successivo è uguale a quello presente comincia ad aumentare la voglia di cambiare. Cercare alternative è l'obbligo esistenziale del momento.

Una manifestazione tipica dell’accidia è l'incapacità di relazioni stabili e durature, così le amicizie e gli amori ‘eterni’ sfumano nel breve giro di poco tempo”.

 

AVARIZIA

Questo vizio non è solo legato al denaro ma incide anche sulla qualità delle relazioni. “Scontrarsi con l’avarizia rappresenta un vissuto doloroso, quando si è partner di una persona avara, perché, oltre al denaro, sono i sentimenti e gli affetti ad essere centellinati”, scrive la Piccoli, collaboratrice di don Paolo Scquizzato.

“Le persone legate affettivamente ad un avaro sono privati di un clima caldo e accogliente, dell’atmosfera protettiva e dell’arte del ‘saper dare’ senza misurare costantemente”.

L’avaro si illude che la felicità si trovi nel possesso delle cose e degli altri, dei loro sentimenti, del loro corpo e delle loro azioni.

L’avaro è quindi una persona gelosa e sappiamo bene quanto, nei rapporti affettivi, questo difetto porti a manifestazioni morbose e violente.

 

GOLA

In cosa consiste questo vizio? “Il goloso da vizio capitale si rapporta al cibo con voracità e ingordigia”, scrive Frigato. Ma questa voracità e ingordigia si può estendere anche alla sfera sessuale con la ricerca di un piacere smodato, senza freni, che limita la capacità di godere del bene ricercato.

 

LUSSURIA

“La lussuria è la ricerca spasmodica del piacere sessuale, quando questo è slegato alla sua dimensione di dono e di reciprocità, concentrandosi piuttosto sul solo desiderio di possesso”. Annota Scquizzato. E prosegue: “Quando l'atto sessuale è vissuto solo come piacere fine a sé stesso, paradossalmente non si giunge al piacere agognato e quindi alla felicità, ma piuttosto alla distruzione e a una profonda tristezza.

La lussuria altro non è che la libertà negata. Dove c'è la lussuria non c'è più la libertà. Si diventa schiavi di un ‘dittatore’, la propria passione, una passione in grado di generare cecità, incapacità di vedere la propria vita nella totalità. È per questo che, quando siamo presi dalla passione, confondiamo il bene con il male”.

“Quello che si osserva in questi ultimi decenni”, annota la Fusaro, collaboratrice di Scquizzato, “è un ‘senso di deriva’ presente nella società: la libertà si sta in qualche modo esprimendo con la filosofia del ‘fare ciò che si vuole’.

E nel ‘fare ciò che si vuole’ rileviamo i comportamenti più strani, specialmente in campo sessuale. Infatti, sul tema della sessualità riscontriamo l'esplosione di tutte le perversioni catalogate o non nei manuali di psichiatria”.

 

1 Alessandro Galvan, I sette vizi capitali, Gruppo di ricerca filosofica Chora, Tortona 2006.

2 GF 94, Gli idoli di questo mondo, giugno 2017.

3 Sabino Frigato, Vizi capitali. Come parlarne oggi? Editrice Elledici, Leumann (TO) 2010.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Tra la catalogazione dei peccati con lo strumento dei comandamenti e lo strumento dei vizi, quale vi sembra più efficace?

•          Abbiamo la consapevolezza che ogni nostro atto abbraccia tutto il nostro modo di essere e non soltanto una sfera particolare (p.e. quella sessuale)?

•          Tra i vizi capitali quale vi sembra essere più ricorrente nella relazione affettiva?

•          ”Faccio come voglio!” Cogliamo la gravità di questa affermazione?

 

9-CASTITÀ = ASTINENZA?

La castità è la disponibilità interiore dell'uomo ad affermare pienamente la propria sessualità, a riconoscere gli impulsi sessuali nel loro carattere integralmente personale e sociale, e a inserirli in maniera ricca di senso nella globalità della vita umana.

Johannes Grundel

Se vuoi essere felice non andare sempre fino in fondo. C'è anche tanto in mezzo.

Elias Canetti

 

a cura della Redazione

Abbiamo visto come i peccati sessuali coinvolgano la persona nella sua interezza, e non soltanto a livello genitale. Eppure, la relazione amorosa è uno dei più bei doni di cui godono gli esseri umani.

La castità, allora, può essere l’atteggiamento corretto per vivere l’amore.

 

Che cos’è

“Oggi la parola castità non richiama una particolare bellezza; è usata solo come sinonimo di astinenza”, scrive Domenico Cravero (1). “Pur essendo l’eco di una ricchissima ricerca e anche di coraggiose buone pratiche, non riesce più a essere intesa come la virtù della pienezza, quella che trasfigura la sessualità in intermediario dell’amore, trasforma il bisogno in desiderio e lo difende da ogni surrogato e falsificazione”.

Dopo aver ricordato che la castità è una virtù morale che dipende dalla temperanza, Cravero continua: “oggi la virtù della castità va riferita allo sviluppo pieno ed equilibrato delle potenzialità affettive e sessuali. Dovrà difendere l’amore dai pericoli dell’insensibilità e dell’aggressività, e orientare la sessualità alla felicità e non solo al soddisfacimento”.

Gli fa eco papa Francesco (2): “la castità è la volontà di non possedere mai l’altro. Infatti, amare è rispettare l’altro, ricercare la sua felicità, coltivare empatia per i suoi sentimenti, disporsi nella conoscenza di un corpo, di una psicologia e di un’anima che non sono i nostri, e che devono essere contemplati per la bellezza di cui sono portatori”.

 

Una virtù da imparare

“Per amarsi nella verità dei corpi occorre essere casti”, scrivono Nicoletta e Davide Oreglia (3). “Per ritrovarsi uniti nell'incontro intimo è necessario che tutti e due abbiamo ben chiaro nel cuore che c'è in palio per noi non solo un momento di piacere, ma che nell'amplesso ci viene donato un mattoncino per costruire la nostra comunione profonda.

Intanto è fondamentale che i coniugi si ricordino che la gioia dell'unione fra gli sposi è un dono che Dio ha fatto alla coppia. Sì, è proprio un regalo, che permette ai due di vivere nella loro quotidianità momenti di intima unione e di creare una complicità capace di uscire dalla camera da letto per inondare tutta la loro casa.

Non stiamo pensando alla ‘sessualità da manuale’ quella che riesce sempre bene e non porta mai con sé dubbi o sofferenze. Noi parliamo della carnalità di ogni coppia che ha nel suo cammino di conoscenza erotica una scuola di dialogo intenso e profondo, vera e autenticamente incarnata nel vissuto di entrambi.

In quanto dialogo, l'incontro intimo contiene tutti i termini di una nuova lingua che va imparata continuamente. Perché il nostro sposo, la nostra sposa sono in continuo cambiamento. E hanno il grande desiderio di dirci tutto questo, se sappiamo creare spazi perché ciò accada.

Frequente è il disorientamento delle coppie quando si rendono conto che l'erotismo è una realtà cangiante e complessa, che non ha nulla a che vedere con le nozioni di sexi-soft-pornografia che un po' tutti abbiamo imparato dalla cultura ‘voyeuristica’ e volgarmente ammiccante in cui viviamo.

La grandezza dell'amplesso non è data da parametri esterni ai due, ma proprio dall'intimità della comunione che riesce a creare. E pazienza se non è sempre tutto facile, pazienza se non tutto fila sempre liscio.

A volte ci sono abbracci scambiati dopo un amplesso deludente che avvicinano i cuori più di un orgasmo comune. Ma dobbiamo avere il coraggio di fare l'amore castamente, cioè di mettere al centro la nostra relazione, facendo attenzione ai desideri di entrambi.

Abbracciare e baciare godendo di ciò e non prendendo per sé e basta. Ascoltare il corpo nostro e del coniuge, magari facendo il primo passo per andargli incontro. Mettere nelle sue mani i desideri e i sogni che abbiamo.

Tutto questo lascia ai due la possibilità attingere dall'amplesso il gusto di cui abbiamo bisogno in quel momento: la gioia dell'incontro, il desiderio di un figlio, la vicinanza in un momento difficile e molto altro ancora”.

 

 

Fare “diversamente”

“La castità assomiglia ad una cosa leggermente naif, quasi fuori moda, senza più mordente oggi”, scrive Marco Pozza4. “Invece la castità non è tanto il ‘non fare’ ma il ‘fare diversamente’: non si tratta di non amare, ma di amare in un modo diverso.

Forse anche più in profondità se è vero che un amore casto è un amore che evita di ridurre la persona a un semplice strumento di piacere, di non cadere nell'egoismo anche quando è in gioco il cuore, di non lasciare come traccia del tuo passaggio un senso di sfruttamento, di una certa violenza anche se, magari, non è penalmente rilevante. La castità, quand'è in corso, appende il cartello all'ingresso: ‘Divieto di manipolazione’.

La castità, poi, si allarga a dismisura nell'umano fino ad esser abbinabile a tutta l'esistenza: è il tentativo di arginare il brutale istinto a possedere.

Prima che essere una gioia, dunque, è una sfida, forse una delle sfide più ardite: non riguarda soltanto gli organi riproduttivi maschili e femminili, riguarda la complessità dell'essere umano.

È uno stile che ha a che fare con le mani e le parole, gli sguardi e i pensieri, il detto e il non-detto. Con l'ascolto, la vista, la testa e la memoria. Prima che essere una virtù, è uno stile di vivere, di sognare, di appartenersi.

Da anni tengo collegata la ‘castità’ al ‘pudore’: lo ritengo, ad oggi, la vera trasgressione del momento. Pudore che non è questione di vesti, di sottovesti o di abbigliamento intimo. Possedere del pudore è essere capaci di vigilanza: è il decidere da sé il grado di apertura o di chiusura verso l'altro. La castità esige il pudore: ‘Se vuoi essere felice’ – scrive Elias Canetti – ‘non andare sempre fino in fondo. C'è anche tanto in mezzo’. Il pudore preserva l'intimità della persona, conserva il silenzio e la riservatezza dove traspare il rischio della morbosità. È il pudore che, ai miei occhi maschili (le donne rovescino il paragone) conferisce un'invincibile attrattiva”.

 

1 Domenico Cravero, Avvenire, 4 febbraio 2024

2 Papa Francesco udienza mercoledì 17 gennaio 2024

3 Nicoletta e Davide Oreglia, GF68, marzo 2010

4 Marco Pozza, La Stampa, 21 maggio 2023

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Le meraviglie della castità! Dopo aver letto questo articolo non vi vien voglia di far uscire questa virtù dalla dimenticanza?

•          Papa Francesco la invoca sempre quando incontra i giovani. Riusciamo a tradurla in parole legate alla nostra esperienza?

•          Un’altra parola negletta è pudore. Anche questa va rivalutata. In che modo, secondo voi?

 

10-INNAMORAMENTO E AMORE

L’amore vive per il tempo dell’innamoramento. Ma muore davvero con il matrimonio? 

Tristano e Isotta non si amano. Ciò che essi amano è l’amore, è il fatto stesso d’amare... Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sé: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro come è in realtà; e non della presenza dell’altro, ma piuttosto della sua assenza… Si amano, ma uno ama l’altro partendo da sé stesso non dall’altro… un duplice narcisismo.

Denis de Rougemont

Credo sinceramente che Gesù voglia una Chiesa... che “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”. AL 308

 

a cura della Redazione

L’innamoramento è una delle realtà più sorprendenti dell’esistenza, per molti è anche ciò che riesce a dare un senso alla vita.

Ma, ai nostri giorni, sembra diventata una realtà fine a sé stessa, non aperta al matrimonio o almeno a una relazione stabile; una realtà che, una volta esaurita la vampa iniziale, termina lasciando “morti e feriti”.

In questa prospettiva la vera tomba bell’amore non è il matrimonio, ma un certo modo di vivere l’innamoramento.

 

Innamoramento e biologia

“Presente in tutte le società e culture, benché variabile nel modo di manifestarsi”, scrive Francesco Alberoni (1), “l'innamoramento è un'esperienza improvvisa e imprevedibile mirante, da un punto di vista evoluzionistico, a favorire il legame sessuale tra due individui geneticamente diversi in ordine alla sopravvivenza e al miglioramento della specie. La durata dell'innamoramento, indicativamente compresa tra i sei mesi e i tre anni, sarebbe il tempo minimo affinché la donna resti gravida e accudisca il neonato nelle prime fasi di vita e l'uomo si prenda cura di entrambi. L'innamoramento sarebbe amore statu nascenti e come tale destinato ad essere superato nello stato più stabile dell'amore”, cioè quella realtà che oggi chiamiamo matrimonio.

Si tratta di una definizione molto tecnica e poco romantica ma utile a smitizzare l’innamoramento come fine a sé stesso.

 

La “bolla” amorosa

“Oggi il processo che va dallo stato nascente fino alla creazione di un’istituzione stabile molto spesso si interrompe nelle prime fasi”, scrive sempre Alberoni (2). “Grazie alla libertà sessuale, quando due persone si piacciono o provano attrazione improvvisa e intensa che chiamano colpo di fulmine, si gettano subito l’uno nelle braccia dell’altro, hanno frenetici rapporti sessuali. Con questa esperienza di erotismo straordinario hanno l’impressione di aver realizzato la fusione.

È in parte questo, ma solo in parte, perché, tutti presi dalla loro esperienza meravigliosa, non vogliono avere rapporti con la vita quotidiana, con i suoi problemi. Quello che conta è il presente, il qui ed ora, il resto è nulla.

L’innamoramento appare loro come una nuova vita a sé stante, a cui abbandonarsi senza pensieri, senza domande.

Non vogliono pensare al passato, non vogliono sapere nulla l’uno dell’altro, se potessero non si direbbe nemmeno il nome. Tanto meno vogliono pensare al futuro, costruire una coppia o una famiglia. Si collocano interamente nell’ambito dell’erotico, riducendo lo stato nascente all’erotico. In questo modo però, non mettono in moto il processo di conoscenza reciproca, che può avvenire quando ciascuno vuole vedere il mondo con gli occhi dell’altro. Non mettono in moto il processo di confronto, che consente di abbandonare le parti di sé incompatibili con l’altro. Non fanno nulla per dare consistenza reale al processo di fusione”.

 

Amore e verità

Sempre Alberoni (3), in un articolo scrive così: “L’innamoramento non è un atto, è un processo con una lunga fase preparatoria, dei sintomi premonitori, l’incontro, la fascinazione, la presa di coscienza, l’accettazione dell’amore”. Anche senza limitare l’innamoramento alla sola dimensione erotica, vi sono altri errori che si possono commettere.

Per esempio, “l’innamorato parla, dice di sé, ma viola una regola fondamentale dell’innamoramento: la verità.

Lo stato nascente dell’amore è una rinascita morale che non può avvenire se c’è occultamento o menzogna. Un esempio? L’innamorato racconta all’amata la sua vita, ma non la mette in discussione, non la critica, non accetta di rinnovarsi. Dice: ‘Io sono fatto così, devi prendermi come sono’. Ma come può fondersi con un altro se pensa di essere perfetto? Come può rinascere chi rifiuta il mutamento?

Un altro esempio è quello dell’innamorato che, per fare bella figura, nasconde gli aspetti della sua vita di cui si vergogna. Oppure si vanta di qualità che non ha, di successi inesistenti. In questo modo si costringe a vivere nell’inautenticità nel preciso momento in cui potrebbe essere finalmente libero. Perché l’innamoramento ha il potere di dissolvere i legami del passato, e di redimere qualsiasi colpa venga confessata.

Infine, da ultimo, vi è il caso della persona che, per compiacere l’amato, per timore di perderlo, rinuncia ad un desiderio profondo, ad una aspirazione essenziale. Tace nel momento in cui dovrebbe parlare, chiedere ciò che non ha mai chiesto. Ma quel desiderio nascosto, col passare del tempo, le peserà sempre di più. E minerà in modo sotterraneo la coppia fino al momento in cui, inevitabilmente, esploderà.

Chi si innamora non dovrebbe mai fare questi errori”.

 

Innamoramento e fragilità

“Se non viene inquinato dal vizio, l’innamoramento è uno dei sentimenti più puri”, scrive papa Francesco (4). “Una persona innamorata diventa generosa, gode nel fare regali, scrive lettere e poesie. Smette di pensare a sé stessa per essere completamente proiettata verso l’altro. E se si chiede a un innamorato: ‘Per quale motivo tu ami?’, non troverà una risposta: per tanti versi il suo è un amore incondizionato, senza nessuna ragione. Pazienza se quell’amore, tanto potente, è anche un po’ ingenuo: l’innamorato non conosce veramente il volto dell’altro, tende a idealizzarlo, è pronto a pronunciare promesse di cui non coglie subito il peso.

Questo giardino dove si moltiplicano meraviglie non è però al riparo del male. Esso viene deturpato dal demone della lussuria, e questo vizio è particolarmente odioso”.

Questo vizio, continua il papa, “devasta le relazioni tra le persone. Per documentare una realtà del genere è sufficiente purtroppo la cronaca di tutti giorni.

Quante relazioni iniziate nel migliore dei modi si sono poi mutate in relazioni tossiche, di possesso dell’altro, prive di rispetto e del senso del limite? Sono amori in cui è mancata la castità: virtù che non va confusa con l’astinenza sessuale – la castità è più che l’astinenza sessuale – bensì va connessa con la volontà di non possedere mai l’altro.

Amare è rispettare l’altro, ricercare la sua felicità, coltivare empatia per i suoi sentimenti, disporsi nella conoscenza di un corpo, di una psicologia e di un’anima che non sono i nostri, e che devono essere contemplati per la bellezza di cui sono portatori.

La lussuria, invece, si fa beffe di tutto questo: la lussuria depreda, rapina, consuma in tutta fretta, non vuole ascoltare l’altro ma solo il proprio bisogno e il proprio piacere; la lussuria giudica una noia ogni corteggiamento, non cerca quella sintesi tra ragione, pulsione e sentimento che ci aiuterebbe a condurre l’esistenza con saggezza”.

Il lussurioso cerca “solo scorciatoie: non capisce che la strada dell’amore va percorsa con lentezza, e questa pazienza, lungi dall’essere sinonimo di noia, permette di rendere felici i nostri rapporti amorosi”.

 

La legge della gradualità

In apertura di articolo vi è l’immagine di due innamorati: sono Tristano e Isotta e, a fianco, vi è un commento di Denis de Rougemont (5) sulle caratteristiche del loro amore.

Il narcisismo che li caratterizza ben si adatta al nostro tempo: al centro poniamo noi stessi, anche in amore.

È questo il peccato più grave che due innamorati possono commettere, un peccato che li isola tra loro nonostante la fusione erotica. Non è solo violare il sesto comandamento ma, come abbiamo visto, commettere una serie di peccati capitali. È questo il vero peccato di lussuria: “usare” l’altro.

Allora, quando consapevolmente non “uso” l’altro, posso esercitare liberamente la sessualità?

La teologia morale, in risposta a questa domanda, ha iniziato a proporre quella che viene definita legge della gradualità o cammino graduale.

Non vi può essere gradualità della legge, o la rispetti o la trasgredisci, ma ci può essere una gradualità nel farla tua e attuarla.

L'essere umano, infatti, “conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita”, e “avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto nell'intera vita personale e sociale dell'uomo” (AL 295).

Scrive Aristide Fumagalli (6): “Edotta dall'insegnamento di Giovanni Paolo II in Familiaris consortio, la Chiesa sa che quello umano è un ‘cammino graduale’, che avviene all'insegna della ‘legge della gradualità’ (FC 34).

Questo tema è stato ripreso in modo più ampio da papa Francesco in Amoris laetitia e che Fumagalli spiega così: “Il cammino umano verso il bene ideale implica ‘una gradualità nell'esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge’ (AL 295).

Chiamata ad ‘accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno’, la chiesa, pur ‘senza sminuire l'ideale evangelico del matrimonio’ e ‘benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada’, non rinuncia alla ricerca del ‘bene possibile’ (AL 308)”.

Nel cammino graduale della relazione affettiva “verso l'ideale pieno del matrimonio, il bene possibile, paragonabile al passo secondo la gamba di chi cammina, non può essere stabilito da ‘una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi’, ma esige ‘un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari’ (AL 300). E questo per almeno due ragioni.

La prima ragione è la necessità di ovviare all'indeterminazione della norma generale rispetto al caso particolare. Richiamando l'insegnamento di Tommaso d'Aquino, di gran lunga il teologo più citato, Francesco ricorda che ‘quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione’ (AL 304).

Il discernimento particolare non è allora la deroga alla legge generale, ma il prolungamento dello spirito della legge nella singolarità del caso, laddove la lettera non è in grado di condurlo. La legge, infatti, insegna ancora Tommaso d'Aquino, vale nella maggior parte dei casi, non dunque in tutti i possibili.

Ciò non significa che il discernimento pratico cui si è giunti in un caso particolare possa essere fatto valere come norma generale (cfr. AL 304).

La seconda ragione che accredita il discernimento particolare deriva dal fatto che ‘l'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere diminuite o annullate’ (AL 302) da circostanze attenuanti e fattori condizionanti”.

Questo è il criterio della piena avvertenza e del deliberato consenso che caratterizzano l’atto morale.

 

1 Francesco Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 1979

2 Francesco Alberoni, Corsera, 21 maggio 2002

3 Francesco Alberoni, Corsera, 2 gennaio 2002

4 Papa Francesco, Udienza generale del 17 gennaio 2024

5 Fonte: Roberto Carelli, La verità, vi prego, sull’amore, Nuova Pastorale Giovanile, Elledici, dicembre 2014

6 Aristide Fumagalli, L’amore sessuale. Fondamenti e criteri teologico - morali, Queriniana, Brescia 2017

 

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Innamorarsi: quante volte nelle crisi di coppia questa parola è usata come una giustificazione?

•          Le persone innamorate sono fragili, chi se ne approfitta pecca due volte. Concordate?

•          In morale si sta parlando di cammino graduale di consapevolezza: può questa proposta aiutare i giovani e meno giovani a superare l’analfabetismo sentimentale?

 

11-INNAMORARSI DA ADULTI

Nella quotidianità di una relazione stabile uomini e donne vivono una sessualità ordinaria, più o meno come il mangiare ed il bere. Però sanno che potrebbe essere tutto diverso.

Lo sanno perché nella loro vita hanno avuto periodi in cui l'esperienza sessuale era frequente, intensa, straordinaria, esaltante e desidererebbero che fosse sempre così, come quando erano stati innamorati.

In questi periodi tutta la vita fisica e sensoriale si dilata, diventa più intensa, ma si dilata anche la vita intellettuale perché si percepiscono relazioni che prima ci erano opache.

Questa sessualità è legata all'intelligenza e alla fantasia, all'entusiasmo, alla passione, fusa con esse. È una fonte di continua aspirazione e di continua nostalgia.

Così, quando nella relazione le cose non funzionano, ecco la tentazione di rivivere l’esperienza dell’innamoramento, che è ben più di un tradimento occasionale.

Infatti, la sua natura è di sovvertire, trasformare, rompere i precedenti legami.

L'eros è una forza rivoluzionaria anche se limitata a due persone. E di rivoluzioni nella vita se ne fanno poche.

Liberamente tratto da: Francesco Alberoni, Innamoramento e amore

 

12-DISORDINE E PECCATO

La tradizione della Chiesa non ha mai identificato il piano oggettivo con il piano soggettivo e nel secondo millennio ha evitato accuratamente di identificare il peccato grave (o mortale: quello che priva della grazia) con la pura lesione oggettiva delle norme. Solo la lesione oggettivamente grave che nasca dalla consapevolezza morale (non giuridica) del male e dalla libertà priva il soggetto della comunione di carità con Dio.

Una lesione oggettiva posta senza tale consapevolezza e libertà può essere nel soggetto del tutto incolpevole e in ogni caso non è un peccato grave che privi della grazia.

Sottolineo questo aspetto, perché è quello che AL 295, richiamando FC 34, esplicita formalmente parlando di “gradualità nell‘esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge”.

È basandosi su tale visione morale che AL 305 ricorda che una persona potrebbe trovarsi in una situazione oggettivamente disordinata senza essere “soggettivamente colpevole” o senza esserlo in modo pieno e senza essere pertanto privo della grazia, ma anzi vivendo e crescendo nella carità.

Si sa che particolarmente queste parole di AL 305 hanno suscitato reazioni e contestazioni, quasi fossero una novità inaudita, ma non sono parole nuove, sono anzi radicate nella sapienza della Chiesa.

Leggiamo infatti nel Catechismo degli adulti della CEI, datato al 1994: “Disordine morale oggettivo e peccato personale non vanno confusi. Lo stesso grave disordine può essere peccato mortale in alcuni, veniale o inesistente in altri, secondo che la loro responsabilità sia piena, parziale o nulla. La Chiesa è maestra e madre: da una parte insegna con fermezza la verità; dall’altra cerca di comprendere la fragilità umana e la difficoltà di certe situazioni” (n. 920).

Basilio Petrà

Fonte: CEI, Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia

 

13-L’OPZIONE FONDAMENTALE

Con l’opzione fondamentale la persona compie una scelta decisiva per la sua vita: quella di seguire Cristo e di mettere in pratica il comandamento dell’amore.

 All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona: Gesù.

Per sua stessa natura il peccato è sempre serio, anche quello veniale. Ma per chi ha abbandonato l'amicizia con Dio ogni suo peccato porta il segno pestifero di questa inimicizia.

 

di Cataldo Zuccaro

Non tutte le azioni che compiamo hanno per noi lo stesso peso. Alcune le avvertiamo più nostre rispetto ad altre, che rimangono, invece, alla periferia del nostro orizzonte affettivo ed esistenziale.

Pertanto, pur nella diversità dei nostri ambiti di vita – celibe, sposato, consacrato – nella misura in cui ogni azione manifesta i nostri interessi vitali, questa trova una sua collocazione all’interno del nostro progetto di vita.

In realtà la cultura in cui viviamo non ci aiuta a pensare ed agire in modo progettuale. La postmodernità, per usare immagini diffuse e presenti nell'immaginario collettivo, coltiva piuttosto la cultura del "mordi e fuggi", dell'"usa e getta", del "pochi, maledetti e subito".

Si tratta di riconsiderare il nostro agire non solo dell’ottica del “cosa voglio fare” ma soprattutto del “chi voglio essere”. In questo modo è possibile trovare l’elemento che agisce come catalizzatore delle nostre singole scelte particolari.

Proprio da qui, dall’esigenza di approfondire l’unità dell’essere e dell’agire e dalla necessità di superare la distanza tra atto e persona, ha preso origine la riflessione sulla nozione di opzione fondamentale.

 

L'opzione fondamentale

L'opzione fondamentale si prospetta come un orizzonte generale che abbraccia tutte le realtà della vita morale personale ed è sempre oltre le singole azioni morali sebbene essa non sia mai indifferente nei confronti di queste ultime.

L'opzione fondamentale si configura come la risposta, forse la più efficace, all'esigenza di assicurare l'unità dell’agire morale, superando l'enfasi, di per sé giusta, sull'oggetto del singolo atto. Questa enfasi ha portato ad una concezione cosistica e materiale delle singole azioni senza il necessario riferimento al soggetto agente.

Comunque, non va dimenticato che ogni atto manifesta in qualche modo le credenziali della persona che lo compie e di cui lascia emergere qualcosa del suo mondo interno. Come i nostri sentimenti più intimi e profondi spesso emergono a fior di pelle, in modo analogo la persona emerge nei suoi atti.

L'opzione fondamentale si va definendo progressivamente in forma sempre più chiara attraverso quel circolo virtuoso che lega atto e persona, interpretazione e azione.

Quindi, non si definisce una volta per tutte, dal momento che la persona è responsabile delle condizioni che ne favoriscono o ne mortificano la crescita.

Di conseguenza essa può diventare più solida e radicata, oppure modificarsi, in seguito a nuove esperienze personali e venire sostituita da una scelta radicalmente opposta.

 

La decisione di vita

Prima, però, che l'opzione fondamentale si estenda ai singoli atti morali essa ordinariamente si esprime attraverso un'opzione vitale o decisione di vita.

Quando l'opzione fondamentale è vera, essa attiva la ricerca della persona, così che il compimento del bene, o il suo rifiuto, non saranno più frutto di azioni episodiche e scollegate tra loro, ma saranno organizzate in una vera e propria strategia: la decisione vitale.

Un esempio in tal senso è costituito dall’unione coniugale. Il modo in cui la decisione coniugale dirige le decisioni quotidiane è descritto sinteticamente da Lievens: “In primo luogo, alcune decisioni vertono su azioni specificamente legate all'impegno interpersonale: vivere nella stessa casa, prendere i pasti insieme, svolgere attività comuni, assumersi tutte le responsabilità di bambini concepiti o accolti nell'unione coniugale.

I tempi spesi l'uno per l'altra e le decisioni richieste a questo scopo sono di fondamentale importanza per mantenere viva l'unione fra i coniugi. Poi, un gran numero di decisioni di azione - anzi, il maggior numero - verte su azioni non specificamente legate all'impegno interpersonale, ma ne ricevono vita in qualche misura e, reciprocamente, lo fanno vivere e lo rafforzano, a condizione di esservi ricollegate”.

Nessuno sa lo sviluppo della propria vita matrimoniale, ma ciò che rimane già deciso è che, comunque, le novità che la storia comporta rappresenteranno delle occasioni per confermare e vivere come sempre attuale la decisione operata nel passato una volta per tutte.

C’è comunque la necessità di mantenere vivo il legame tra l'opzione fondamentale e le singole azioni che ne rappresentano la traduzione ultima sul piano operativo ed esecutivo. Pertanto, non è possibile contrapporre opzione fondamentale e decisioni particolari senza compromettere l'unità della persona.

Più l'opzione fondamentale si esprimerà con azioni particolari corrispondenti e più essa diventerà stabile; d’altro canto, più l'opzione fondamentale è stabile, più essa si esprimerà con azioni corrispondenti.

Comunque, all'interno dell'opzione fondamentale scelta, i singoli atti non saranno sempre della stessa specie: un orizzonte buono può essere cosparso qua e là di punti neri, rappresentati da azioni cattive o viceversa. Fino a che punto il genere della decisione fondamentale potrà sopportare la presenza di specie di azioni di segno contrario? A lungo andare tali azioni contrarie alla decisione fondamentale corrodono e sgretolano progressivamente tutto l'edificio della personalità.

A quel punto basta un niente per far crollare l'edificio: avverrà, così, che quel singolo atto cattivo esprimerà un cambiamento ben più radicale della persona e sarà il segno visibile che è cambiata la polarità della decisione fondamentale per il bene.

 

L’opzione per Cristo

L'opzione fondamentale, che riguarda ogni persona in quanto agente morale, assume per il cristiano un significato particolare. In tal senso l'orizzonte della vita morale, la sua sorgente e la sua meta si specificano per il cristiano in una persona che è Gesù.

Questo convincimento si ritrova all'inizio della prima enciclica di Benedetto XVI: “All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una direzione decisiva” (Deus caritas est).

Tramite la decisione della coscienza il fedele entra in un rapporto fino ad allora inedito nei confronti dei valori morali che caratterizzano le sue relazioni. Una tale novità non consiste certo nel fatto di scoprire valori prima non esistenti per lui, ma nel vederli ormai alla luce del dinamismo della grazia in particolare attraverso il prisma della carità e della fede.

La grazia di Dio ci dà stabilità e ci pone in un determinato atteggiamento di vita, poiché si realizza per mezzo di molti atti singoli ai quali essa conferisce un saldo orientamento. Non solo, ma aiuta meglio a capire la realtà del peccato mortale che è incompatibile con la presenza della grazia.

La decisione di seguire Gesù come meta finale del cammino significa che la risposta ultima a qualunque domanda circa il motivo e la ragione delle decisioni riguardanti la propria vita sarà la carità di Gesù.

Però, occorre mettere in guardia dalla presunzione di usare la fede come un prontuario morale dove trovare ogni risposta perché la fede non contiene un disegno etico allo stesso modo, come se il fedele potesse disporre di un preciso modello di vita da riprodurre in modo puramente esecutivo.

È ancora più falso pensare che la fede contenga tutte le norme morali già pronte e ben individuate per realizzare quotidianamente quel particolare disegno di vita.

Certamente va accolta l'attenzione - richiamata in toni piuttosto forti - da Veritatis Splendor (n.67) a non svuotare di significato l'atto particolare enfatizzando in modo esclusivo l'opzione fondamentale come criterio unico di valutazione morale.

Sotto il profilo strettamente teologico, tuttavia, va assunta in termini più espliciti la relazione tra opzione fondamentale e il peccato. Il confronto serve a portare chiarezza ai due termini e contribuisce al superamento di una visione forse ancora troppo istantanea e puntuale del peccato, individuato in un atto senza storia e biografia.

 

Il peccato: mortale o veniale?

L'amore verso Cristo, cioè la decisione fondamentale di porlo come orizzonte che abbraccia tutto l'agire, non è rimesso in causa dal peccato veniale. Naturalmente non possiamo ingenuamente credere che, per questo motivo, il peccato veniale non abbia alcun influsso sull'opzione fondamentale, che sopravvivrebbe comunque indenne.

Sostanzialmente esso rappresenta una sorta di corrosione lenta e quindi impercettibile dell'opzione fondamentale.

Una specie di sgretolamento che, se continua nel tempo, prima o poi darà origine alla morte della stessa opzione fondamentale.

A lungo andare - non sempre a lungo - subentra nausea del bene, insofferenza alla fedeltà, fiacca davanti ai doveri.

Naturalmente il rapporto tra peccato mortale e opzione fondamentale è di natura diversa e il legame di parentela è molto più stretto, sebbene convenga già dall'inizio affermare chiaramente che non è compatibile la presenza simultanea dell'opzione fondamentale di carità con il peccato mortale.

Infatti, l'atto posto esternamente non è che la fine di un processo sempre più o meno lungo che lo ha prodotto.

Una relazione di amore come non nasce all'improvviso, ma si costruisce progressivamente, allo stesso tempo non muore all'improvviso ma muore lentamente, attraverso piccoli e progressivi atti di tiepidezza e tradimenti [N.d.R. Le relazioni possono morire di tanti piccoli dettagli che portano al fallimento, piuttosto che per un atto di violenza eclatante].

E qui si inserisce la problematica della piena avvertenza e del deliberato consenso, condizioni necessarie, insieme alla materia grave, per determinare la presenza del peccato mortale.

Va precisato che l’agire morale è sempre sporco, non nel senso di peccaminoso, ma condizionato da elementi soggettivi, provenienti dalla personalità dell’agente, e oggettivi, provenienti dalla complessità dell’ambiente.

Tutto ciò non deve indurre a credere che alla fine sia pressoché impossibile per la persona compiere un atto gravemente peccaminoso.

Riconoscere la possibilità e la serietà del peccato significa paradossalmente riconoscere la dignità del peccatore [N.d.R. Il furto fa parte certamente del numero dei peccati, ma se uno ruba una mela, commette certamente minor peccato di un altro che ne ruba un’intera cassetta…]

Accanto alla dimensione di natura più personale, i criteri per individuare la gravità del peccato prevedono anche l’osservazione della materia che deve essere grave.

La materia è un indicatore fondamentale perché i rivela l'intenzionalità profonda della persona: essa ordinariamente vuole ciò che fa e non vuole ciò che non fa!

È talmente importante la materia come indicativo morale che fa parte della consapevolezza del magistero della chiesa la convinzione che alcune azioni sono intrinsecamente cattive (intrinsece malum).

Senza nulla togliere alla gravità della scorrettezza dell'azione, tuttavia può accadere che essa non rappresenti per la persona un peccato mortale, perché di fatto e senza sua colpa egli potrebbe non avvertire la gravità del coinvolgimento richiesto da quell'azione in base alla materia.

Del resto, la persona potrebbe anche sentirsi gravemente coinvolto, e quindi vedere il peccato mortale in un'azione la cui materia non sarebbe tale da richiedergli una intensità di partecipazione così profonda.

Questa distinzione aiuta a capire come non necessariamente un atto gravemente scorretto debba classificarsi in modo automatico come peccato mortale. Rimane un grave atto scorretto, ma non necessariamente un grave atto cattivo, cioè un peccato mortale.

Non si può chiudere la questione senza affrontare in modo esplicito una difficoltà che scaturisce dalle riflessioni appena proposte. Infatti, l'esperienza che sembra essere piuttosto diffusa testimonia come taluni con una relativa facilità alterino peccato mortale e grazia della conversione sacramentale.

Il rischio di un tale altalenare è di svilire sia l'importanza della grazia sia la serietà del peccato mortale.

Ora, come fa giustamente notare qualche autore, il matrimonio, dove si realizza la forma più intima che l'uomo possa sperimentare di affidamento dell'uno nelle mani dell'altra, la possibilità che questa esperienza possa morire è un fatto che non ha bisogno di prove. Ma questo affidamento reciproco e questo amore non subiscono una morte improvvisa.

Chi potrebbe sostenere, in modo sensato, che questo amore e questo affidamento reciproco potrebbero vivere in pienezza il martedì, morire il venerdì per riprendere vita piena la domenica pomeriggio, ma solo per morire nuovamente il lunedì mattina? L'amore coniugale può morire, ma non può risalire dalla sua tomba con la stessa frequenza con cui uno esce dalla vasca da bagno.

Pertanto, secondo l'indicazione di Flick e Alszéghy, se “l'opzione fondamentale per Dio non esercitasse un influsso ulteriore sulla vita affettiva, questo indicherebbe o che non è stata fatta realmente, o che è già stata implicita mente revocata”.

 

Fonte: Cataldo Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Editrice Querinana, Brescia 2013

Sintesi e adattamento della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          L’opzione fondamentale: ne avete sentito parlare?

•          L’opzione fondamentale può essere usata per far conoscere meglio Gesù e la sua misericordia?

•          Può essere un argomento da usare per non far allontanare i giovani dalla Chiesa, nonostante le inevitabili cadute nel peccato?

•          Anche il decidere di essere coppia è un’opzione fondamentale. La consideriamo come tale?

•          Il peccato è sempre grave proprio perché è peccato. Quale peccato allora è un peccato mortale? Provate ad esemplificare.

 

14-PECCATO MORTALE E PECCATO GRAVE

Un uomo può, con sufficiente libertà, scegliere falsi dèi in opposizione al Dio vero. Un'opzione fondamentale di questo tipo coincide con il concetto teologico di peccato mortale.

Ciò non significa però che tutti i peccati gravi siano un'opzione fondamentale contro Dio e contro il bene, esattamente come non tutte le ferite gravi portano alla morte. Ma chi ha commesso un peccato mortale e persevera in esso è in uno stato di morte.

Non stiamo parlando qui dei molti peccati, bensì del peccato che è soggiacente ai molti peccati.

In Rm 5,7 e in molti altri luoghi Paolo distingue fra hamartía (peccato al singolare) e hamartíai (i molti peccati).

Il peccato, nel senso pienamente malizioso, è un allontanarsi da Dio che distrugge l'opzione fondamentale rivolta all'impegno buono di sé stesso per il servizio di Dio e per l'amore del prossimo.

Dobbiamo tener presente che è impossibile distinguere semplicemente fra peccati seri e peccati non seri.

Per sua stessa natura il peccato è sempre serio. I peccati veniali che a poco a poco conducono all'estremo pericolo di un peccato mortale (opzione fondamentale contro Dio) devono essere considerati come del tutto seri.

C'è poi un'importante differenza fra il peccato veniale grave di una persona che è ancora nello stato di grazia e qualsiasi peccato grave di chi ha già abbandonato l'amicizia con Dio.

Nel nemico di Dio c'è quel veleno pestifero della sua opzione fondamentale di inimicizia, il quale contagia ogni peccato, mentre la persona la cui opzione fondamentale è per l'amicizia con Dio non porta impresso questo marchio di inimicizia nella profondità del suo essere.

Ad ogni modo, se in una persona c'è qualcosa di malato ed essa non si preoccupa di guarire, tale disinteresse per la salute può diventare la causa della sua rovina finale.

La stessa cosa capita con il peccato veniale, specialmente con il peccato veniale grave.

Bernhard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol.1, Edizioni Paoline, Roma 1980

 

15-LA COSCIENZA

Se non sappiamo dare le risposte giuste secondo la fede circa la giustizia, la sessualità, la fedeltà…  significa che, non facciamo più riferimento ai valori cristiani.

Non è vero che qualsiasi consenso al magistero debba coincidere con un atteggiamento di obbedienza, come non è vero che l’obbedienza alla volontà di Dio sia sufficiente per giustificare qualsiasi atteggiamento di contestazione.

 

Di Cataldo Zuccaro

Non solo all'interno della tradizione cristiana, ma anche nel contesto culturale contemporaneo, la coscienza si trova al centro di tante considerazioni non sempre riconducibili le une alle altre, anzi talvolta divergenti e opposte.

In particolare, a seguito della polverizzazione dell'orizzonte metafisico ad opera della postmodernità, è facile assistere alla rivendicazione di punti di vista parziali e legati strettamente all'individuo.

In tale contesto, è facile che la coscienza morale non sia concepita più, come nella tradizione cristiana, quale luogo di verità, ma quasi esclusivamente come spazio di libertà.

Tradisce questa convinzione il richiamo alla propria coscienza come ad un tribunale unico e supremo: “Davanti alla mia coscienza non ho proprio nulla da rimproverarmi!”.

La coscienza diventa, così, la bandiera della libertà personale, assolutamente indipendente e senza più alcun legame con l'altro. La persona “non deve fare i conti con nessuno” e, semmai questo deve succedere, l'oggetto del confronto non può essere la verità.

Si tratta, piuttosto, di trovare una strada che permetta a ciascuno di assicurare il proprio diritto, cercando l'accordo per non ledere il diritto dell'altro.

In una parola: la verità viene sacrificata sull'altare dell'accordo; non ciò che è giusto diviene il criterio della ricerca, ma ciò che è condivisibile dalla maggioranza.

 

La coscienza in Cristo

Il mistero della coscienza morale trova il suo punto focale nell'evento di Gesù Cristo. Appare necessario evidenziare subito che il motivo della dimensione cristiana della coscienza morale è il radicamento dell'uomo in Cristo. Come dire: è Cristo che rende cristiana la coscienza morale e non l'obbedienza a qualche particolare norma. Ciò che caratterizza la dimensione cristiana della coscienza è lo spessore e la vivacità del rapporto personale del cristiano con il Signore.

La coscienza va vista quindi come “risposta a” Cristo che con la sua grazia, si rende accessibile alla persona, provocando la risposta della sua coscienza.

Lo conferma l'autorevole voce di Gaudium et spes, in cui troviamo scritto “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria” (n.16).

È opportuno notare come, parlando della dimensione cristiana della coscienza morale, la prima osservazione proposta è relativa alla dimensione morale dell'esperienza di fede, cioè di adesione all'iniziativa di Dio, in Cristo. È importante sottolineare questa sorta di subordinazione antropologica della fede alla coscienza morale per evitare la presunzione di poter concepire una moralità cristiana che aggiri la coscienza morale, eludendola, ed erroneamente pensi che sia possibile leggere la volontà divina direttamente, senza alcun tipo di mediazione.

 

Il rischio del fondamentalismo

È proprio una tale concezione – che chiamerei quella di una fede gnostica e senza storia – che diventa la radice di ogni forma di fondamentalismo religioso e di fanatismo.

Con la stessa attenzione, tuttavia, occorre ribadire la trascendenza della fede: la fede permane sempre nel segno della gratuità e dell'amore di Dio, e l'uomo non può fare nulla per meritarla.

L'accento che si desidera porre, invece, è semplicemente sulla necessità di superare una sorta di integralismo cristiano che talvolta serpeggia dentro alcune delle nostre comunità ecclesiali. In base ad esso, alcuni sono erroneamente portati a credere che il riferimento a Cristo renda inutile e superato il faticoso discernimento etico della coscienza nella comprensione della verità morale.

 

Coscienza e preghiera

Il rapporto personale con Cristo – e in particolare la preghiera – sono una strada privilegiata per l'educazione della coscienza morale cristiana.

Nemmeno la preghiera può sostituire le decisioni che la coscienza deve prendere; tuttavia, la preghiera si pone come itinerario formativo della coscienza morale del cristiano, nel senso che esprime la consapevolezza della dipendenza radicale dell'orante con Dio.

La preghiera comporta la necessità di un rapporto con Dio che non sia ipotetico, ma vitale, cioè, coinvolga il soggetto nella biografia concreta che egli sta scrivendo nella sua storia.

Da una parte, infatti, pregare è dire sinceramente se stessi a Dio, educandosi sempre più a prestare l'attenzione alla verità della propria situazione.

Dall'altra parte, invece, pregare è anche dire Dio a sé stessi, educandosi a prestare maggiore attenzione alla sua presenza, assumendo come propri i suoi parametri di valutazione dell'esistenza e della storia.

 

Coscienza e libertà

Ogni decisione morale è necessariamente una scelta che porta il contrassegno della libertà, senza la quale non può darsi alcuna esperienza di moralità personale. Non ogni scelta che porta il contrassegno della libertà, tuttavia, necessariamente si configura come scelta di libertà, cioè scelta che rende libera la persona.

In fondo l'uomo, mentre usa la libertà come struttura formale del suo agire, talvolta, in pratica potrebbe contraddirla, operando una scelta di schiavitù.

Troppo spesso, tuttavia, la nostra cultura ha assunto la coscienza come spazio per esercitare la libertà e non, invece, come spazio per cercare la verità.

La rinuncia a cercare la verità è teorizzata con il fatto di una società plurale, dove sarebbe ingiusto, a livello di etica pubblica, imporre per legge una verità morale particolare a chi è libero di non condividerla e fondare la propria vita su una differente scala di valori.

Così si introduce un doppio binario di vita: a livello individuale la coscienza risponde soltanto alla propria libertà, mentre e a livello pubblico non è più la verità a guidare la ricerca della politica, dell'economia, ma il consenso delle parti.

 

Coscienza e verità

La coscienza cristiana deve accettare il riferimento vincolante a una verità che non può arbitrariamente manipolare perché è custodita nella memoria di Gesù. Nell'interpretazione autentica di questa memoria, un carisma particolare è rappresentato dal magistero della chiesa.

Il compito del magistero è quello di porsi a servizio della coscienza del cristiano, offrendo il proprio carisma come un aiuto perché essa riconosca l'autenticità della tradizione cristiana e discerna l'intenzionalità di Gesù sulla vita.

A questo proposito vanno segnalati due rischi. Il primo è pensare che un desiderio sincero e dichiarato di obbedienza alla volontà di Dio, che la coscienza vuole seguire ad ogni costo, sia sufficiente per giustificare qualsiasi atteggiamento di contestazione del magistero.

Il secondo è pensare che qualsiasi consenso al magistero debba necessariamente coincidere con un atteggiamento di obbedienza: non sempre consenso e obbedienza sono sinonimi. Esiste, infatti, una forma di consenso che non può essere barattata con l'obbedienza, perché avviene per motivazioni esclusivamente giuridiche e formali.

Per queste ragioni si può concludere che il rapporto tra coscienza morale e magistero non può essere di giustapposizione programmatica, perché la verità cui si riferiscono è la medesima.

Tutto ciò non mette, però, al riparo da eventuali conflitti che talvolta possono sorgere tra la coscienza del fedele e l'autorità del magistero in campo morale.

 

Coscienza e discernimento

Il discernimento è una virtù necessaria perché l'agire morale non è mai un agire asettico, ma è sempre sporco di terra.

Il discernimento è legato inoltre alla morale della sequela Christi. Il discepolo non può fotocopiare il comportamento del Maestro e applicarlo ai problemi morali del proprio tempo.

È necessario che egli interpreti, all'interno delle situazioni spesso aggrovigliate, quale sia per lui l'azione che meglio esprime la fedeltà all'intenzionalità del Maestro e alla propria storia.

L'esercizio del discernimento morale è stimolato anche dalla necessità, oggi molto avvertita, di distinguere tra ciò che è assoluto e ciò che è relativo circa i valori. L'apertura mondiale dei problemi ci rende oggi maggiormente sensibili a questa necessità. Talvolta, infatti, è successo di aver esportato come valore assoluto e universale quella che era un'interpretazione culturalmente contingente.

 

Coscienza e valori

Non basta la solenne proclamazione del valore se poi non si trovano le mediazioni concrete per attuarlo nella storia. Un valore proclamato e mai attuato va incontro, almeno in parte, alla sorte delle grida di manzoniana memoria.

Non negoziabile per definizione, il valore esige di essere mediato nella attuazione storica. Naturalmente, non ogni mediazione del valore è automaticamente corretta – questo equivarrebbe al relativismo dei valori morali. Nondimeno, esiste una sorta di tensione e di pluralità di interpretazione dei valori che non si può risolvere sacrificandone la complessità.

Vi è quindi la necessità di un discernimento che non sempre è facile e che richiede il contributo di tutti.

Almeno due eccessi sono da evitare: da una parte, la pretesa di vedere impiantato il valore nella storia senza alcun condizionamento, dall'altra l'indifferenza propria di chi elimina la tensione tra mediazione storica e dimensione assoluta del valore. Sarebbe davvero fruttuoso, a questo punto, ripensare il rapporto tra coscienza e compromesso etico.

 

Fonte: Cataldo Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Editrice Querinana, Brescia 2013

Sintesi e adattamento della Redazione

Vedi anche: GF 105, p.12ss

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

Riportiamo di seguito alcune affermazioni dell’autore:

•          È Cristo che rende cristiana la coscienza morale e non l'obbedienza a qualche particolare norma.

•          Non basta riferirsi a Cristo per evitare il faticoso discernimento etico della coscienza nella comprensione della verità morale.

•          Valori non negoziabili: in ogni valore occorre distinguere tra ciò che è assoluto e ciò che è relativo, contingente.

•          Ogni consenso al magistero non comporta necessariamente ubbidienza perché non sempre consenso e obbedienza sono sinonimi.

Commentiamoli insieme.

 

16-LA COSCIENZA NEL PROTESTANTESIMO

Nella tradizione protestante emerge un’immagine duplice della coscienza, che appare al tempo stesso “libera e vincolata”.

Anzi, proprio in quanto vincolata unicamente alla Parola che è di Dio e non della chiesa, il credente è liberato dalla subordinazione e dall’ubbidienza alla chiesa magistero, depositaria delle norme da seguire, non dispone più di precetti cui attenersi ed è chiamato a decidere responsabilmente i criteri con i quali orientare le proprie scelte di comportamento.

Ma nello stesso tempo, dato che è “prigioniera della Parola di Dio”, la coscienza non può essere assolutizzata: essa non è una coscienza sovrana e infallibile che dà legge a sé stessa, poiché il suo fondamento, che è anche il suo limite, non è all’interno di sé ma nel rapporto di alterità con Dio. Questo evita, come sottolinea Paolo Ricca, la tentazione – alla quale come protestanti siamo forse particolarmente esposti – di fare della propria coscienza un ‘idolo’ e di considerarla l’’autorità suprema’ cui prestare ubbidienza, mettendola per così dire al posto di Dio, scambiando la voce della coscienza per la voce di Dio.

La voce di Dio, la sua Parola, non deve infatti essere cercata nella propria coscienza ma nella Scrittura, che la Riforma, a partire da Lutero, pone a fondamento della chiesa, così che soltanto ciò che “può essere ricondotto e fatto risalire alla Scrittura ha diritto di cittadinanza nella chiesa e può esigere l’ubbidienza della fede”.

Elena Bein Ricco

Fonte: coscienzaeliberta.it

Nota a margine

Nel protestantesimo la coscienza, emancipata dalla guida del Magistero, ha messo però in crisi la stessa pretesa del testo biblico di rappresentare la parola infallibile di Dio.

Vito Mancuso

Fonte: Rivista di estetica, n.66, 2017

 

17-LA COSCIENZA ERRONEA

Il più grande male è quando la coscienza diventa ottusa e cieca

 

di Bernhard Häring

Il Concilio vaticano II ha riaffermato un dato della tradizione cattolica classica riguardante il giudizio di coscienza erroneo. “Succede non di rado che la coscienza erri per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato” (GS 16).

Finché si tratta di verità e valori oggettivi, sicuramente la coscienza umana non è infallibile. Il concilio riconosce che nella valutazione l'errore avviene piuttosto frequentemente.

Ma più importante è il riconoscimento che ciò accade spesso senza colpa personale, senza che la coscienza perda la sua dignità, ad esempio ogni qualvolta le intenzioni sono rette e la coscienza cerca sinceramente la soluzione migliore. Ma per “soluzione migliore” io non intendo quella migliore in astratto, bensì quella che qui ed ora, in questa particolare situazione, per la persona costituisce il passo più appropriato nella giusta direzione.

Errare nel proprio giudizio di coscienza su una questione importante può essere una grande disgrazia, ma assai peggio, è un male morale se la coscienza erra per mancanza di sincerità. Il più grande male è quando la coscienza diventa ottusa e cieca.

Il concilio parla chiaramente di questa evenienza, che si verifica quando una persona “poco si cura di cercare la verità e il bene”, non si preoccupa di acquisire la conoscenza morale specialmente in situazioni moralmente rilevanti, e alla fine, come risultato di peccati abituali e dei quali non ci si è pentiti, diventa praticamente cieca.

Quando una persona va veramente in cerca del bene e del giusto, la sua coscienza gode di una specie di indefettibilità.

Un dettato di coscienza incolpevolmente erroneo obbliga allo stesso modo di un dettato di coscienza corretto, così come un dipendente si sente obbligato di adempiere l'ordine del suo superiore quale l'ha compreso dopo averlo attentamente ascoltato, anche se l'ordine era di fatto diverso.

Se noi cerchiamo di scoprire realmente la volontà del Signore in una ricerca sincera della verità e con l'intenzione di agire secondo verità, il Signore vede nel nostro cuore. È dunque esatta la famosa affermazione del cardinale Newman: “Ho sempre sostenuto che l'obbedienza anche a una coscienza erronea costituisce la via per raggiungere la luce”.

Medesima enfasi, su questo punto, troviamo nella teologia morale e pastorale di sant'Alfonso de' Liguori. Egli parla di coscienza invincibilmente erronea quando una coscienza sincera si trova nell'incapacità di interiorizzare una legge positiva della chiesa o delle autorità civili, o anche un aspetto valido dell'insegnamento sulla legge naturale. Da un punto di vista esistenziale ciò potrebbe non essere tanto una valutazione erronea, quanto piuttosto un'impossibilità di fare il terzo passo prima del secondo nel progresso verso una più profonda conoscenza del bene.

Fonte: Bernhard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol.1, Edizioni Paoline, Roma 1980

 

18-COLPA E PECCATO

Il senso di colpa tende ad impedire alla persona di perdonarsi e perciò di lasciarsi perdonare da Dio

 

di Gilberto Borghi

La distinzione e la differenza tra senso di colpa e senso di peccato, a partire soprattutto dalla fine del 1500, è andata spesso perdendosi, fino a dovere essere recuperata, in termini concettuali espliciti, da pochi decenni, dopo gli studi delle scienze di area psicologica.

Queste ci ricordano che il senso di colpa si qualifica come uno stato d’animo pesante, in cui la persona si sente oppressa dal male commesso, in conseguenza della trasgressione di una norma, e avverte l’impotenza ad uscire da tale condizione, perché quel male e i suoi effetti non si possono più cancellare. È una oppressione che tende a bloccare la persona nel suo possibile sviluppo etico e spirituale, per cui non si dà speranza, non si apre al futuro e che, nei casi più gravi, può portare all’autolesionismo e anche al suicidio. Possiamo perciò definirlo un autogiudizio negativo di una coscienza che si relaziona solo a sé stessa, guardando ad una regola presa come “altro da sé”, che diviene un giudice inesorabile.

Se riletto in chiave teologica, il senso di colpa mostra tre aspetti davvero molto problematici rispetto alla redenzione. Primo. È uno stato in cui il peccatore si concepisce totalmente solo, perché la trasgressione non è vissuta dentro ad una relazione con un Altro. Perciò anche lo sguardo di Dio che lo viene a cercare non è percepibile, né riconoscibile.

Secondo. La persona non è in grado né di accogliere, né di generare perdono alcuno, perché ha rinchiuso sé stesso nel dolore del male commesso e non crede di poterne uscire.

Terzo. Tende a rivolgere l’aggressività verso sé stesso, in termini espiatori o di riscatto della pena, ma senza mai riuscire a liberarsi dal suo stato. La conseguenza spirituale è che, così facendo, si pone un ostacolo enorme all’azione dell’amore di Dio, vanificando il suo perdono. Forse la bestemmia contro lo Spirito si configura anche in questo modo.

Il senso di colpa, infatti, tende a ripetere l’azione che ne è la causa, non a liberarsi da essa. Ci sono persone che si confessano centinaia di volte, ma non si muovono mai e non cambiano, ripetendo sempre i medesimi peccati e le medesime conseguenze, proprio perché nel profondo non si danno la speranza di poterne uscire. Portano croci che non si aprono mai alla resurrezione. E rischiano perciò di vivere il sacramento come un talismano che ha solo funzione psicologica di purificazione retroattiva, senza nessuna possibilità di apertura di un futuro diverso. Quasi sempre sono ancorati all’idea del peccato come di una trasgressione della norma, e non lasciano molto spazio alla misericordia. In sostanza il senso di colpa tende ad impedire alla persona di perdonarsi e perciò di lasciarsi perdonare da Dio.

Chi invece ha fatto realmente esperienza di un rapporto vivo e personale con Dio, sa che, quando rifiutiamo il suo amore, è un altro stato d’animo a prevalere: il senso di peccato. Che si caratterizza per la percezione della “mancanza” del bene possibile infranto, più che del male commesso. Questo perché, lo sguardo chiuso del peccatore che guarda sé stesso, nonostante tutto si lascia incrociare ancora dallo sguardo di Dio che lo viene a cercare per perdonarlo, benché lo si senta lontano e irraggiungibile.

Il senso di peccato esiste solo a partire dall’esperienza della relazione con Dio, non prima. È nel momento in cui Lui mi può perdonare che mi accorgo si essere peccatore, non prima. Prima sono solo colpevole. Il peccatore sa che, dalla sua parte, il suo peccato ha rovinato, o anche rotto del tutto, la relazione con Dio e sente l’impotenza di ripristinarla con le sue sole forze. Ma continua a credere che Dio, invece, lo può fare. Nel senso di peccato il dolore del male commesso, pur se percepito, non sequestra emotivamente la persona, perché egli non si avverte da solo. Perciò la persona continua a restare aperta al futuro, in cui sa che, in forza dell’amore di Dio, può imparare a non ripetere quel peccato e a crescere spiritualmente. Il senso di peccato, cioè, tende a lasciarsi perdonare da Dio e in questo a poter perdonare sé stessi.

È urgente perciò recuperare e testimoniare il senso del peccato. Oggi, nel tempo della frammentazione e della solitudine sociale, dell’individualismo autodistruttivo, sostenuto da un perfezionismo onnipotente, il senso di colpa sta devastando il cuore di molte persone, che rischiano davvero di chiudersi al futuro e all’umano, prima ancora che al divino.

Fonte: www.vinonuovo.it

 

Uomini e donne nella bibbia

19-IL PUDORE

È una questione di sguardo

 

Di Lidia Maggi

In questo nostro tempo l’idea di pudore appare obsoleta, perché da una parte prevale l'urgenza di mettersi in mostra a qualunque prezzo e, dall’altra, appare controproducente, perché la millenaria storia del pudore ha prodotto frutti avvelenati, soprattutto per le donne. Il pudore è stato usato per preservare lo spazio pubblico da un'alterità – quella femminile – che, spudoratamente, altera l'ordine stabilito, insieme con l'immaginario simbolico.

Parlare di pudore significa ripensare radicalmente questo concetto. Alla luce della sapienza biblica possiamo tentare di battere questa strada, non certo per ripresentare una versione aggiornata di un richiamo essenzialmente misogino, ma per tornare ad interrogarci sui corpi, sul loro senso, su quell'antropologia relazionale che, per forza di cose, trova il suo caso serio nello sguardo dell'altro.

 

La bibbia e il pudore

Per le Scritture d'Israele il pudore è questione di sguardo. Gli stessi occhi possono gustare la bellezza dei corpi o metterli a nudo.

Nel racconto di Genesi 2 l'uomo e la donna giocano allo scoperto, si mostrano nudi “e non ne avevano vergogna”. La nudità originaria è condizione “buona”: esprime uno stare bene con sé stessi, col proprio corpo e con il proprio partner. É espressione di intimità, ovvero della possibilità che i “due” siano “una carne sola”.

Nella pagina successiva tutto cambia. Il serpente, in modo strisciante, insinua il dubbio che Dio sia un antagonista geloso della propria felicità, che la parola da Lui rivolta all'umanità sia ingannevole, nasconda un secondo fine.

Il serpente opera una radicale mutazione dello sguardo: fa vedere le cose in modo differente. Non cambia la realtà: abbaglia gli occhi, accende il sospetto, spezza l'intesa. Lo fa con astuzia, sollecitando il desiderio umano di gustare il bene e godere del bello.

 

Questione di sguardi

La questione del pudore non attiene alle cose, al loro modo di presentarsi: sta tutta negli occhi, nei filtri che li indirizzano, nei desideri che accendono lo sguardo. Il filtro del serpente è micidiale – mortale, aveva detto Dio. Non nel senso che uccide lo sguardo rendendo ciechi. Piuttosto li fa aprire: “s'accorsero che erano nudi”.

Lo sguardo del serpente, fatto proprio da entrambi gli umani, sguardo che divora il mondo vedendolo come strumento per la propria realizzazione, si ritrova a fissare la propria nudità.

Se guardi l'altro con gli occhi del serpente e ti senti da lui guardato allo stesso modo, l’unica cosa che puoi fare – di fronte all’imbarazzo – è metterti addosso qualcosa che copra quella pericolosa nudità.

Un gesto improvvisato, insufficiente. Per ovviare allo sguardo angosciato, dovrà intervenire il Creatore: “Dio fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì”.

Non è la nudità in sé a fare problema. È lo sguardo che, dopo l'incontro fatale con il serpente, mette a fuoco la fragilità dell'altro e, puntando a quella debolezza, colpisce, ferisce, giudica.

Le vesti tessute da Dio per questa umanità sono abiti che non si limitano a riparare i corpi dalle intemperie, ma che intendono riscaldare e scongelare le nostre intimità fredde per riaprirle al calore dell'incontro.

 

Uno sguardo pudico

C'è un pudore che prova a fare fronte allo sguardo del serpente, che si sottrae alla spada di occhi spietati, che oggettivizzano l'altro. E c'è un pudore che sorge dal desiderio di ristabilire lo sguardo divino, sperimentato nel giardino di Eden. Un pudore che non segue la strategia della separazione, dell'evitamento, ma scommette sulla possibilità di un nuovo incontro, nel quale ci si riconosca reciprocamente, senza più temere il giudizio e l'indiscrezione.

Se il primo ci appare necessario per difendere la singolarità e la dignità della persona, il secondo sguardo, quello divino, prova a ristabilire la giustizia degli affetti, la sorpresa di una bellezza altra, il desiderio di gustare almeno in parte quella bontà originaria che ci costituisce come umani.

In entrambe le accezioni del pudore la partita si gioca sull'educazione dello sguardo. In fondo, le Scritture ebraico-cristiane intendono essere solo questo: una scuola di sguardi che si posano sui corpi. Una scuola per apprendere, di nuovo, lo sguardo di Dio.

Fonte: Famiglia domani, n.4 2024

Sintesi della Redazione

 

20-SINODO DEI VESCOVI

Un commento al documento conclusivo

 

di Franco Rosada

Il Sinodo dei vescovi si è concluso il 30 ottobre dello scorso anno ma l’evento è passato sotto silenzio: poche notizie sugli organi di stampa, pochi richiami nelle parrocchie.

Per quanto riguarda la stampa è naturale: nessuna novità eclatante – come il diaconato femminile o l’apertura ai preti sposati – per quanto riguarda le parrocchie un po’ meno: c’erano state consultazioni, erano state redatte sintesi e, adesso, nessun resoconto.

Grazie all’aiuto di padre Vincenzo Salemi, come Collegamento tra GF abbiamo organizzato una video conferenza in cui abbiamo presentato il documento. Lo trovate, con le nostre sottolineature e brevi note, sul sito www.gruppifamiglia.it.

 

Provo a riportare di seguito le impressioni che padre Vincenzo ed io abbiamo ricavato. La parola “missione” è forse la più ricorrente: con i suoi derivati compare più di 140 volte. Se ne può spiegare l’uso attraverso questa affermazione: “La Chiesa esiste per testimoniare al mondo l’evento decisivo della storia: la risurrezione di Gesù. Il Risorto” (n.14).

Un’altra parola ricorrente è “popolo”, ricorre più di 100 volte perché – riporta il documento – “il processo sinodale ci ha fatto provare il ‘gusto spirituale’ (EG 268) di essere Popolo di Dio”.

È proprio nell’ottica di un laico membro del popolo di Dio che vorrei partire con le mie osservazioni.

La sinodalità deve avvenire partendo dal basso, dalla parrocchia, e dai suoi organi consultivi: “gli organismi di partecipazione costituiscono uno degli ambiti più promettenti su cui agire per una rapida attuazione degli orientamenti sinodali, che conduca a cambiamenti percepibili in modo rapido” (n.103).

Attraverso questi organismi. i membri più competenti del Popolo di Dio vanno coinvolti nella pianificazione pastorale ed economica (n.102).

In particolare, per il consiglio pastorale, “è fondamentale vi siedano battezzati impegnati nella testimonianza della fede nelle ordinarie realtà della vita e nelle dinamiche sociali... non solo persone impegnate nell’organizzazione della vita e dei servizi interni alla comunità” (n.106).

 

Un’altra prospettiva di lettura può essere quella offerta dai risultati delle votazioni sui singoli punti del documento.

Il punto più controverso è stato il 60.

Affrontando il tema del ruolo delle donne nella Chiesa il documento prima afferma: “le donne continuano a trovare ostacoli nell’ottenere un riconoscimento più pieno dei loro carismi”, e poi che “non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa” concludendo che “la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta”. Su 355 votanti i no sono stati 97, il 27% del totale.

Altri punti critici, ma nessuno dello stesso peso del n.60, riguardano il modello sinodale. Così il paragone tra l’assemblea eucaristica e quella sinodale (n.27) raccoglie 43 no, il ruolo delle Conferenze Episcopali (n.125) 45 no; la trasformazione del Sinodo da evento puntuale a processo ecclesiale (n.130) 37 no.

Un ultimo punto critico riguarda la struttura gerarchica della chiesa: l’affermazione che il Vescovo non può ignorare gli orientamenti emersi dagli organismi di partecipazione (n.92) raccoglie 39 no; la rivalutazione dei Concili particolari, sia provinciali che plenari, la loro convocazione periodica e la loro autonomia decisionale (quando non si tratti di questioni di fede, morale o disciplina sacramentale) (n.129) raccoglie 37 no.

 

Pur non essendo esperto di ecclesiologia, mi pare che, dal documento nel suo insieme, appaia la tendenza ad attenuare il primato di giurisdizione della Santa Sede. Questo primato è uno dei due dogmi scaturiti dal Vaticano I insieme all’infallibilità papale. Ma mentre questo secondo è stato applicato una sola volta nel 1950 con il dogma dell’Assunzione, il primo è diventato prassi ricorrente.

Ne troviamo traccia al n.134: “La riflessione in merito all’esercizio del ministero petrino in chiave sinodale va condotta nella prospettiva della ‘salutare decentralizzazione’ (EG 16), sollecitata da Papa Francesco e richiesta da molte Conferenze Episcopali”.

Un’altra tendenza mi pare quella di riaffermare il ruolo delle chiese particolari come scritto nella LG: queste “sono formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica” (n.23).

Ne troviamo traccia al n.30b: “la natura sinodale della Chiesa si esprime a livello istituzionale, in modo analogo, sui vari livelli della sua realizzazione: locale, regionale, universale”.

formazionefamiglia@libero.it

 

21-GIUBILEO 2025

Chiamati ad essere pellegrini di speranza

 

di papa Francesco

Il Giubileo del 2025, Anno Santo che ho voluto fosse dedicato al tema “Pellegrini di speranza”, è un’occasione propizia per riflettere su questa fondamentale e decisiva virtù cristiana. Soprattutto in tempi come quelli che stiamo vivendo, nei quali la terza guerra mondiale a pezzi che si sta svolgendo sotto i nostri occhi può indurci ad assumere atteggiamenti di cupo sconforto e malcelato cinismo.

La speranza, invece, è un dono e un compito per ogni cristiano.

 

Un dono

È un dono perché è Dio che ce la offre. Sperare, infatti, non è un mero atto di ottimismo, come quando a volte auspichiamo di superare un esame all’università (“Speriamo di farcela”) oppure ci auguriamo bel tempo per la gita fuoriporta in una domenica di primavera (“Speriamo faccia bel tempo”). No, sperare è attendere qualcosa che ci è già stato donato: la salvezza nell’amore eterno e infinito di Dio. Quell’amore, quella salvezza che danno sapore al nostro vivere e che costituiscono il cardine su cui il mondo rimane in piedi, nonostante tutte le malvagità e le nefandezze causate dai nostri peccati di uomini e di donne. Sperare, dunque, è accogliere questo regalo che Dio ogni giorno ci offre. Sperare è assaporare la meraviglia di essere amati, cercati, desiderati da un Dio che non si è rintanato nei suoi cieli impenetrabili ma si è fatto carne e sangue, storia e giorni, per condividere la nostra sorte.

 

Un compito

La speranza è anche un compito che i cristiani hanno il dovere di coltivare e mettere a frutto per il bene di tutti i loro fratelli e sorelle. Il compito è quello di restare fedeli al dono ricevuto, come giustamente evidenziava Madeleine Delbrêl, una donna francese del Novecento, capace di portare il Vangelo nelle periferie, geografiche ed esistenziali, della Parigi di metà secolo scorso, segnate dalla scristianizzazione. Scriveva Madeleine Delbrêl: “La speranza cristiana ci assegna per posto quella stretta linea di crinale, quella frontiera dove la nostra vocazione esige che noi scegliamo, ogni giorno ed ogni ora, d’essere fedeli alla fedeltà di Dio per noi”. Dio ci è fedele, il nostro compito è quello di rispondere a questa fedeltà. Ma attenzione: non siamo noi a generare questa fedeltà, è un dono di Dio che opera in noi se ci lasciamo plasmare dalla sua forza d’amore, lo Spirito Santo che agisce come soffio d’ispirazione nel nostro cuore. A noi il compito, dunque, di invocare questo dono: “Signore, donami di esserti fedele nella speranza!”.

Ho detto che sperare è un dono di Dio e un compito per i cristiani. E per vivere la speranza serve una “mistica dagli occhi aperti”, come la chiamava il grande teologo Johann-Baptist Metz: saper scorgere, ovunque, attestazioni di speranza, l’irrompere del possibile nell’impossibile, la grazia dove sembrerebbe che il peccato abbia eroso ogni fiducia. [...]

 

Un gesto concreto

Invito ogni lettore di questo testo (*) ad un gesto semplice ma concreto: alla sera, prima di coricarsi, ripercorrendo gli eventi vissuti e gli incontri avuti, andate alla ricerca di un segno di speranza nella giornata appena trascorsa. Un sorriso di qualcuno da cui non ve lo aspettavate, un atto di gratuità osservato a scuola, una gentilezza riscontrata sul posto di lavoro, un gesto di aiuto, magari anche piccolo: la speranza è proprio una “virtù bambina”, come scriveva Charles Péguy. E serve tornare bambini, con i loro occhi meravigliati sul mondo, per incontrarla, conoscerla e apprezzarla. Alleniamoci a riconoscere la speranza. Sapremo allora stupirci di quanto bene esiste nel mondo. E il nostro cuore si illuminerà di speranza. Potremo così essere fari di futuro per chi ci sta intorno.

 

Città del Vaticano, 2 ottobre 2024

* Fonte: La speranza è una luce nella notte, LEV, Roma 2024

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Siamo ancora capaci di sperare o siamo rassegnati come molte persone che ci circondano?

•          Nel nostro parlare c’è spazio per la speranza o c’è spazio solo per il pessimismo?

•          Speriamo in Dio, nel Suo amore, nella sua salvezza?

•          Sentiamo come nostro compito di cristiani quello di essere portatori di speranza?

•          In questo anno giubilare, ci impegniamo, ogni sera, a fare memoria dei segni di speranza che abbiamo incontrato durante la giornata

 

22-NOTIZIE DAL COLLEGAMENTO

Fine settimana, cammini formativi in presenza e on-line, campi estivi, rivista: non mancano le occasioni di crescita come coppia e famiglia

 

A cura della Redazione

Il Collegamento, nonostante tutte le “fatiche” del momento, è ancora vivo e continua il suo cammino.

 

Il WE per giovani coppie:

Dalla tenerezza alla speranza

Queste è stata la più bella novità dell’anno e confidiamo possa essere fonte di un ricambio generazionale all’interno del Collegamento.

Come è andato il WE? Lasciamo la parola a Marta e Nicola.

“Eravamo 16 coppie oltre gli animatori e lo staff cucina. Tra di noi coppie non solo della parrocchia di Vallà, ma anche di altre realtà, addirittura una coppia del Trentino che cercava un’opportunità come questa.

Tre sono stati gli spunti di riflessione: “La tenerezza nuziale: ogni coppia comincia il suo viaggio a partire dalla tenerezza e poi…?” (relatori Federica e Manuel); “Coppia sacramento di Dio: è attraverso la coppia che Dio si manifesta.” (don Tiziano Rossetto); “Coltivare assieme la speranza; come una ragionevole speranza può essere faro per la coppia oggi?” (Stefany e Eric).

È emerso che la speranza è un cammino che si snoda attraverso Dio e il nostro legame con Lui. Nel matrimonio, amandoci l’un l’altro, facciamo esperienza, attraverso il coniuge, dell’amore di Dio che si esprime nella tenerezza.

I bambini, coordinati dagli animatori, hanno avuto modo di svolgere attività in parallelo a quella degli adulti affrontando in modo semplice e con lo stile giocoso il tema dello stare insieme e dell’accoglienza verso l’altro, attraverso la storia di un riccio.

Uno dei valori aggiunti di queste esperienze resta il momento di convivialità e la collaborazione di tutti, compresi i ragazzi, nei servizi. La grande tavola, come in famiglia, è un momento di relazione che permette di approfondire le conoscenze e le amicizie. I ragazzi diventano figli di tutti e siamo un’unica grande famiglia”.

 

Le attività dei gruppi

Mentre in Veneto gli incontri dei Gruppi famiglia continuano con successo, in Piemonte si è scelta la strada delle proposte on-line.

Abbiamo proposto a dicembre un incontro sul documento finale del Sinodo e ha preso il via, in collaborazione con le associazioni Increase e Parole in movimento, un cammino in sei tappe (una al mese fino a maggio) sulla relazione di coppia, guidato da Anna e Guido Lazzarini ed altri esperti.

Trovate tutte le informazioni del caso sul nostro sito: www.gruppifamiglia.it.

 

I prossimi numeri della rivista

Quando, meno di un anno fa, vi avevamo proposto dei temi per i prossimi numeri della rivista, quello sul giubileo era risultato buon ultimo. Colpa nostra che non avevamo evidenziato il tema portante dell’evento: Pellegrini della speranza.

Se c’è qualcosa di cui si sente la mancanza oggi è proprio la speranza; di conseguenza abbiamo ritenuto opportuna che il numero di luglio sia dedicato a questo tema rinviando a novembre quello sulla dottrina sociale della Chiesa.

 

Campi estivi

Come Collegamento tra Gruppi Famiglia anche quest’anno riusciremo a realizzare un solo campo estivo.

Non si terrà più a Valle di Cadore ma a Barcis (PN) da domenica 10 a domenica 17 agosto. Temi e relatori sono in via di definizione.

Per ogni informazione contattate: Fiorenza e Antonio Bottero,

340 519 5718,

antoniobottero63@gmail.com

 

23-PER CONCLUDERE

Signore, chi abiterà nella tua tenda?

Chi dimorerà sul tuo santo monte?

Colui che cammina senza colpa,

pratica la giustizia

e dice la verità che ha nel cuore,

non sparge calunnie con la sua lingua.

Non fa danno al suo prossimo

e non lancia insulti al suo vicino.

Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,

ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura

e non accetta doni contro l'innocente.

Colui che agisce in questo modo

resterà saldo per sempre.

Dal Salmo 15